Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of live
Personaggi Principali: Ryou Shirogane; Retasu Midorikawa
Altri Personaggi: un po’ tutti, ma solo
citati
Rating: verde
In proposito: “Sei strana oggi, lo sai?” le dice, inclinando appena la testa sulla
spalla come fa sempre quando qualcosa gli sfugge.
“Dici?”
“A-ah. Dico” annuisce, ma poi alza le spalle. “Ognuno ha i suoi
segreti. Giusto, Retasu?”
“Vale anche per te?”
“Ma se sono un libro aperto”.
“Sì” sbuffa, mentre un nuovo refolo di vento si insinua nella cucina.
“Peccato che sia scritto in una lingua incomprensibile”.
“Fa parte del mio fascino, no?”
Una fetta di torta e una colazione di
fine ottobre, a otto anni di distanza da quando tutto é
finito. Forse l’occasione per pensare a ricominciare.
Disclaimer: Tokyo mew mew é di Reiko
Yoshida e Mia Ikumi. L’idea
della storia, invece, è tutta mia.
Note: one shot; missino momento;
raccolta.
Cose: ok. A me decisamente l’influenza non fa bene. Fa emergere una voglia
folle di scrivere cui è difficile resistere. E lo so di avere in ballo già
millanta storie (di cavalieri e altri. E adesso inizi a cantare Don Chisciotte di Guccini), ma quando
qualcosa scatta scatta. E io non ci posso fare nulla.
L’ultima storia che ho scritto (e
completato) risale ormai al 2018. Ed era di Saint
Seiya. Un parto trigemino podalico, quasi. E
anche lí avviata durante un’influenza che mi aveva
steso peggio di un rullo compressore.
Tokyo mew mew non è esattamente nelle mie corde: mai stata un’amante
di serie Majokko di ultima generazione, mentre faccio
eccezione per qualcosa degli anni ‘80 e ‘90, più per valore affettivo che
altro.
Ho detestato cordialmente Sailor Moon, con i suoi siparietti comici al
limite del demenziale. Capirete: dopo l’epicità dei Cavalieri, certe cadute mi
sembravano assurde.
Ecco perchè non
so spiegare bene il motivo per cui Tokyo mew mew mi è piaciuto. Piaciuto come può piacere a chi lo
guarda alle soglie dei diciotto anni, ma sono stati ogni volta venti minuti
trascorsi tranquilli.
E così, complice questa influenza
inaspettata, e l’essere incappata nello streaming della serie, mi sono fatta un
rewacht completo e, come spesso mi succede, ho
iniziato a macinare. E il fatto che sia allettata a forza mi ha permesso di
trascrivere in fretta le idee, che altrimenti sarebbero restate a macerarmi in
testa per un tempo indefinito.
Questa è la prima di cinque brevi fanfiction (almeno per i miei standard), con una manciata
di side story.
Vediamo se il progetto sarà portato a
conclusione.
Cinque passi
Passo uno - Diniego
“E tu cosa ci fai qui?”
Ryou si togli gli auricolari, mentre rallenta
il passo, il respiro che si condensa in una nuvoletta nell’aria frizzante di
fine ottobre.
Non è insolito incrociarlo alla mattina
presto, di ritorno da una corsa nel parco. É una di quelle abitudini che ha
sviluppato nel tempo, una routine
consolidata che scandisce la sua giornata da quando aveva dieci anni. La
pianificazione e il rispetto degli orari sono state una delle cose fondamentali
per lui, per cercare di mantenere il controllo su un mondo che gli è franato
sotto ai piedi all’improvviso, lasciandolo senza precisi punti di riferimento.
Alcune abitudini con il tempo sono
cambiate, sostituite da nuovi impegni e scadenze diverse, e si è maggiormente
abituato a far fronte a imprevisti dell’ultimo minuto, tuttavia ci sono rituali
difficili da scalzare e la corse è uno di quelli.
E se si conosce abbastanza bene Ryou é facile infilarsi in quella
sua routine fatta di corse, lavoro, ricerche e qualche ora ritagliata per se
stesso.
“Buongiorno anche a te, Shirogane-san” lo saluta Retasu,
ignorando come al solito i suoi modi a volte troppo spicci, al limite dello
sgarbato.
“Ti ha mandato Kei
per caso?” Ryou sospira, il fiato ancora un po’
corto, mentre si toglie il berretto di lana e si ravviva i capelli.
God, per quanti anni possano passare, Kei non riesce proprio a smettere il suo ruolo di chioccia
e a preoccuparsi per lui, anche se si trova dall’altra parte del pianeta in
quel momento.
“In realtà no” sorride Retasu, alzando un cestino. “Ho la giornata libera e non mi
andava di fare colazione da sola. Mi fai compagnia?”
Ryou sbuffa un sorriso, mentre recupera le
chiavi del Caffè e le apre la porta.
Nella semioscurità, si intravedono gli
attrezzi di muratori e carpentieri, le latte e le scale. Il cellophane a
protezione del pavimento produce un suono strano di plastica strisciata e
polvere di calcinacci mentre ci camminano sopra e nell’aria c’é odore di vernice fresca e polvere di gesso.
“Stai davvero ristrutturando il Caffè”
commenta Retasu entrando in cucina, una punta di
conforto nel constatare che almeno quell’ambiente non è cambiato, per il
momento.
“Sai com’è” borbotta Ryou,
mentre accende il bollitore e si appresta a caricare la macchina per il caffè.
“Era tempo di cambiare”.
Un odore strano, un misto di umido,
acciaio caldo e polvere di caffè riempie l’aria e Retasu,
seduta al bancone della cucina, lo inspira calma, assaporandolo. Quell’odore,
assieme al ricordo di cacao e crema pasticciera, la riporta indietro di otto
anni, a quando si ritrovavano in quella cucina tutti assieme, prima di iniziare
il turno: Kei sfornava gli ultimi dolci della
giornata e loro chiacchieravano leggere, aspettando che Ichigo
entrasse tutta trafelata e si catapultasse nello spogliatoio, rubando al volo
una manciata di biscotti. Non sempre c’erano tutte e cinque, ma quella piccola
consuetudine era qualcosa di particolare, un modo per rafforzare il loro
legame.
E Shirogane-san pensa Retasu,
gli occhi socchiusi a ricostruire battute, risate e gesti ripetuti uguali mille
volte. Shirogane-san si sedeva lí,
sorride ancora girandosi appena verso lo sgabello all’angolo del bancone,
accanto alla porta di servizio della cucina.
Ryou arrivava dopo di loro e prima di Ichigo, bofonchiando un saluto a mezza bocca e riempiendosi
la tazza di caffè caldo e lungo. A quell’ora, di solito, aveva già fatto una
bella corsa nel parco e da alcune ore lavorava davanti ai monitor del
seminterrato. La confusione che sentiva al piano di sopra era per lui il
segnale che era tempo di una pausa, appollaiandosi su quello sgabello un po’
defilato ad ascoltare le loro chiacchiere sciocche da ragazzine.
Retasu apre gli occhi: i banconi laterali sono
imballati e dello sgabello vicino alla porta non c’è più traccia. Al suo posto,
un trolley e una bagaglio a mano assieme al cappotto.
“Quando hai l’aereo?” gli chiede mentre
accoglie con un cenno la tazza di tè caldo fra le mani ancora fredde.
“All’una” scrolla le spalle Ryou, nascondendosi dietro la tazza.
“Oggi?”
“Oggi.”
“Ichigo non la
prenderà bene” commenta Retasu, mentre si alza e
recupera dalla credenza due piattini da dolce e due forchettine da dessert. La
torta al limone che ha estratto dal cestino emana ancora un tenue profumo di
frolla calda.
“Torna dopo tre mesi e vorrebbe passare
del tempo con te. Lo sai.”
“Lo so” sospira Ryou,
poggiando la tazza sul bancone e tagliando un pezzettino della torta che lei
gli ha offerto. “Buona” commenta poi, il gusto acre del limone che si smorza
fra quello della pasta tiepida e della crema. “Sei davvero migliorata in questi
anni” aggiunge con leggerezza, il ricordo fugace di altre torte, consumate nel
silenzio del Caffè.
Ryou la guarda: ha tagliato i lunghi codini,
e il caschetto ha una piega più asimmetrica e sbarazzina; anche gli occhiali
sono spariti, sostituiti da lenti a contatto che evidenziano in modo dolce il
taglio allungato degli occhi. È cresciuta, in quegli anni, ed è diventata una
bella ragazza, meno timida e più sicura di sè. Eppure
il sorriso che gli rivolge è sempre lo stesso, quel misto di affetto e
ammirazione che le ha sempre incurvato le labbra.
“Lo so” ride Retasu.
“Ma comunque fa piacere sentirselo dire. Tu, però, non cambiare discorso.”
“Non sto cambiando discorso” si difende Ryou, inforcando un nuovo pezzetto di torta e recuperando
svelto la tazza di caffè. “Dico solo che la torta è davvero buona”.
“E così eviti l’argomento Ichigo”
“Cosa vuoi che ti dica?” sospira posando
la forchetta. La torta ha all’improvviso un sapore amaro. “Lei arriva, io
parto. Non ci vedo nulla di strano. Capita. Anzi: così vi risparmiate un
viaggio all’aeroporto.”
“Ci sei sempre stato, per lei” tenta
ancora Retasu, allungando appena la mano anche se non
lo sfiora nemmeno. Conosce Ryou, e sa quanto il
contatto fisico lo metta a disagio, più ancora di quando erano ragazzi.
“Ci sono ancora. Ci sarò sempre” mormora,
gli occhi fissi sulle loro mani, sui tre centimetri che le separano. “Per Ichigo. Per te. Per tutte voi” continua ancora, scrollando
le spalle a scacciare un pensiero fastidioso che si è affacciato nella testa.
“Ve l’ho promesso quando ci siamo conosciuti. Ricordi?” la provoca ancora.
“Certo che lo ricordo” sbuffa Retasu. “E hai sempre mantenuto la promessa: ci sei sempre
stato per noi”.
Ed entrambi sanno che è la verità, così
semplice da essere quasi banale.
Perché Ryou c’era
mentre combattevano gli alieni. E anche dopo. Ryou
c’è stato quanto Heicha si è ammalata e Purin era disperata e non sapeva più cosa fare; c’è stato
quando Minto ha fatto il suo debutto da prima ballerina, un mazzo di calle e un
sorriso orgoglioso. C’è stato quando Zakuro ha deciso
di provare a riallacciare i rapporti con la sua famiglia, anche se non è andata
bene, e c’è stato quando lei ha perso suo padre in un incidente.
Ryou è sempre stato lì per loro: per
ascoltarle, per spronarle, per confortarle quando piangevano e il mondo
sembrava crollare e per sorridere con loro di ogni conquista e soddisfazione.
C’è stato anche per Ichigo,
quando lo ha pregato di aiutarla a superare gli esami per poter andare a
studiare in Inghilterra con Aoyama. E anche dopo,
negli anni, quando lo chiamava perché avevano litigato o per un nuovo passo
avanti nella loro relazione. C’è stato anche quando lei gli ha chiesto di
fargli da testimone, due anni prima.
“Perché non vuoi che noi ci siamo per
te?” gli chiede Retasu, perchè
ormai ha imparato che con Ryouin certe cose bisogna
essere diretti. Anche se sa che la domanda resterà sospesa. Perché Shirogane-san c’è sempre stato per loro, ma non ha mai
permesso a nessuno di avvicinarsi tanto a lui da conoscerlo davvero. Tranne
forse Zakuro.
“Sto bene, Retasu.
Davvero” le sorride leggero. Mentre dentro qualcosa si incrina ancora, come quando
aveva quindici anni e nascondeva dietro i modi bruschi la difficoltà di
rapportarsi con qualcuno, di fidarsi di qualcuno. La paura di deludere e di
essere lasciato solo.
“Fingerò di crederci, se ti fa piacere”
sospira Retasu, raccogliendo la tazza di tè e
prendendone un sorso misurato. “Però lasciatelo dire: stai scappando. Di
nuovo”.
“Quando parli così, sembri Kei” borbotta Ryou, la mano a
massaggiare i capelli, in quel gesto che gli è abituale quando si trova in un
vicolo cieco o è in imbarazzo.
“Lo prenderò per un complimento.”
“Non lo era.”
“Lo immaginavo.”
E si trovano a fissarsi, in quella
complicità e leggerezza nata negli anni, dalla frequentazione e dalla
conoscenza reciproca, un'ombra di sorriso che diventa uno sbuffo di risata a
riempire quella cucina altrimenti ormai silenziosa.
“Non sto scappando” riprende alla fine Ryou, giocherellando con la forchetta, il braccio che
sorregge pigramente la testa. “Ho davvero degli affari da sbrigare, in
America”.
“Però non puoi negare che la tempistica
ti fa comodo.”
Ryou ridacchia appena. Da quanto Retasu è diventata così diretta? Lo chiama ancora per
cognome e usa il suffisso onorifico, ma negli anni ha imparato una confidenza
nuova, diversa. Non balbetta più e non arrossisce ogni volta che lui le rivolge
la parola; al contrario gli siede di fronte rilassata e tranquilla. E sta
iniziando ad assumere quell’atteggiamento materno che Kei
aveva quando era ancora il suo tutore, prima che ottenesse l’emancipazione.
“Non è che l’abbia programmato” cerca di
chiarire, e si chiede perché all’improvviso debba sentire il bisogno di
giustificarsi, quando in passato non si è mai preoccupato di rispondere a
nessuno delle sue scelte. Nemmeno a Kei.
“Ho tirato più in lungo che potevo. Ma
domani inizieranno i lavori al piano di sopra. E sai che odio gli alberghi”.
“Potevi venire da noi. Sai bene che sei
sempre accetto.”
“E tu sai che ho le mie abitudini”
nicchia ancora. “E poi, onestamente, non ho proprio voglia di fare il terzo
incomodo.”
“Akasaka-san
tornerà solo il mese prossimo dal suo stage
in Francia.”
“Lo chiami ancora per cognome?” ridacchia
Ryou, godendosi le guance di Retasu
che sbuffano esasperate. “Peggio ancora, allora. Se volevi una mano con i
preparativi, non sono la persona adatta.”
“Per quelli mi aiuta Minto-chan. E senza le tue storie.”
“Perfetto allora” approva ancora Ryou, bevendo l’ultimo sorso di caffè. “Visto? Io non ti
servo proprio. O volevi chiedermi di farvi da chauffeur? Perchè ti avverto: costo
parecchio.”
“Quando fai così, sei davvero
insopportabile” sbuffa ancora Retasu, raccogliendo i
piattini e dirigendosi al lavello, la risata di Ryou
in sottofondo. “Adesso capisco perché tu e Ichigo-chan
litigavate così spesso.”
Ryou non commenta, se ne resta seduto sullo
sgabello, le mani fra le gambe e lo sguardo oltre la finestra, perso in qualche
ricordo che gli immalinconisce lo sguardo. E Retasu
lo lascia tranquillo, perché sa cosa provoca il nome di Ichigo
in Shirogane-san e sa anche che è stato un colpo
basso farlo in quel modo, ma aveva bisogno di spingerlo a fermarsi e
riflettere. Shirogane-san è intelligente, e attento,
ma quando si tratta dei suoi sentimenti si comporta spesso come un bambino di
sei anni. Stuzzica, prende in giro e poi se ne va, lasciandosi dietro molti non
detti e mezze parole che significano tutto e niente.
“Allora? Quanto starai via?” lo richiama,
mentre finisce di asciugarsi le braccia con un canovaccio. Nella cucina,
adesso, c’è l’odore del detersivo alla mela che Kei
usava sempre e il plichettio lento delle stoviglie
messe ad asciugare. A Ryou sembra che siano passati
anni, dall’ultima volta che si è trovato in quella cucina in quel modo. E il
crampo che avverte allo stomaco è al tempo stesso qualcosa di doloroso e
confortante, mentre guarda con distrazione verso la porta basculante della
sala, come si aspettasse di sentire il chiacchiericcio delle ragazza prima che
entrino in cucina.
“Non lo so di preciso” si riprende,
scrollando le spalle e scendendo dallo sgabello. “Due. Forse tre mesi. Dipende
come andranno le cose.”
Qui o in America vorrebbe chiedergli Retasu, ma non se la
sente di stuzzicarlo ancora. Ryou ha la faccia di
quando non ha più voglia di parlare di certe cose - sempre ammesso che mai ne
abbia voglia - e ti prega solo di lascialo stare.
“È molto tempo” commenta invece Retasu, sistemandosi le maniche che ha arrotolato per
lavare i piatti.
“Tranquilla” un buffetto sulla fronte
come quando erano ragazzini. “Tornerò in tempo per il matrimonio, vedrai” la
rassicura, con un occhiolino che sottintende una promessa. “Altrimenti poi chi
lo sente Kei?” ride leggero, incrociando le braccia
dietro la nuca.
“Akasaka-san ci
tiene davvero che sia tu a fargli da testimone” precisa Retasu,
sistemandosi la frangetta. “E anche io.”
“E io no?” le chiede di rimando. “Kei c’è sempre stato, per me” aggiunge serio, una nota di
malinconia e rimpianto nella voce che nasconde un misto indefinito di
sentimenti che si aggrovigliano sempre in fondo allo stomaco.
“Non mi perderei il suo matrimonio per
nulla la mondo”.
“Ci conto, allora”.
“Vi ho mai deluso?” la provoca, sapendo
benissimo che quella domanda sottende un discorso che nessuno dei due ha
intenzione di intavolare. Non in quel momento, almeno. “Anche se primo o dopo
qualcuno mi dovrà spiegare perché avete scelto di sposarvi a gennaio.”
“È una stagione bellissima”.
“Ma se è pieno inverno”.
“Non eri tu quello che amava il freddo?”
“Mai detto il contrario” nicchia,
infilandosi le mani nelle tasche della tuta. Nonostante il lieve sentore di
dolce e caffè, la cucina è fredda. Ha già spento termostati e caldaia e
comunque non tiene mai una temperatura troppo alta. Ichigo se ne lamentava sempre, di quanto facesse freddo, gli sfugge nella
mente, mentre guarda Retasu sistemarsi la sciarpa di
lana color cinabro con attenzione.
Gli mancherà ritrovarsele al Caffè negli
orari più inaspettati, sentirle discutere per l’ultimo film che vorrebbero
vedere per poi obbligarlo a trasformare il laboratorio in una sala cinema. Gli
mancherà la confusione di Purin e la sua mania di far
loro provare i suoi nuovi piatti prima di inserirli nel menu del ristorante, o
le frecciatine di Minto. God.
Gli mancherà anche discutere con Pai per i rapporti e
i calcoli dei dati o rispondere a tono a Kisshu solo
per il gusto di fargli saltare i nervi.
Anche se nessuno di loro lavora più al
Caffè, Ryou si accorge che negli anni in un modo o
nell’altro non lo hanno mai davvero abbandonato. Il Caffè o me? si domanda, ma è un pensiero su cui non ha voglia di
impegnarsi.
“Ti passiamo a prendere? Sai. Per
l’aeroporto” gli chiede Retasu, mentre si infila i
guanti.
“No. Prenderò un taxi, non preoccuparti”
la rassicura, sistemandole il basco. “Ci vediamo direttamente lí.”
“A Purin-chan
dispiacerà non vederti per un po’.”
“Perché? Pensi che Minto ne sia felice?”
ridacchia Ryou. “Odia quando qualcuno le scombina i
piani. E immagino che avete in mente una bella festa per il ritorno di Ichigo.”
“È una consuetudine, lo sai” annuisce
ancora Retasu, la borsa a tracolla e il cestino in
mano. “La facciamo ogni volta che qualcosa di noi torna. Due mesi fa è stato
per Zakuro-chan.”
Ryou annuisce, senza parole importanti da
aggiungere.
“Anche Ichigo-chan
sarà triste quando saprà che non ci sarai” tenta ancora Retasu,
senza nemmeno sapere bene lei cosa vuole ottenere: farlo restare o qualcosa’altro?
“Non è che proprio non ci sarò” sospira
ancora. “Prima di partire ho il tempo per salutarla. Per questo vengo con voi
all’aeroporto con un’ora di anticipo sul gate”.
“Si arrabbierà comunque”.
Ryou alza le spalle come se non gli
importasse granché, ma dentro sente una punta di rimorso e colpa rodergli lo
stomaco. Perché sa bene il motivo per cui Ichigo sta
tornando a casa, e sa che vorrebbe poterne parlare anche con lui. Forse
soprattutto con lui. E sa che non ce la potrebbe fare. Perché un conto è
ascoltarla quando lo chiama in lacrime alle 03.00 del mattino, e consolarla a
distanza cercando di non far trasparire dalla voce rabbia, frustrazione o
qualcos’altro. Qualcosa che si trascina da otto anni e che non vuole chiamare
in nessun modo definito. E un conto è ritrovarsela in casa, e vedere di persona
quanto è cambiata, come la sua freschezza si stia spegnendo e quel sentimento
nato a tredici anni stia diventando sempre più un veleno che la intossica.
Non è colpa di nessuno, questo ormai lo
ha accettato. Ha smesso di incolpare Aoyama di molte
cose. Semplicemente la vita di Ichigo ha preso una
piega in cui lui gioca il ruolo di migliore amico, di confidente, di spalla cui
appoggiarsi. E per quegli otto anni gli è andata bene così.
Ma adesso che tutto sta cambiando, che
potrebbe forse sperare in una qualche possibilità, anche solo in uno spiraglio,
Ryou sa che ha troppa paura di restare di nuovo
deluso e di vedersi riconfermato quel ruolo di amico che gli sta troppo
stretto. E al contempo ha paura di perderlo.
Quindi sí: sta
scappando. Per quanto lo possa negare agli altri, sa benissimo che è la verità.
Ci sarà per Ichigo. Ci sarà sempre per lei, ma
dall’altra parte di un telefono o di un computer, con migliaia di chilometri di
distanza a metterlo al sicuro da qualcosa che potrebbe rovinare tutto.
Perché prima di tutto non vuole perderla;
almeno come amica, non vuole che scompaia dalla sua vita. E sa che la farà
arrabbiare, ma sa anche che lei aspetterà il suo messaggio dopo l’atterraggio
per chiamarlo e inondarlo di parole, mille chiacchiere futili che lui ascolterà
in silenzio, la testa a pulsare per il jet lag e un
sorriso idiota in faccia, solo perché lei gli sta parlando. Prima di arrivare
alle questioni importanti, dove lui dovrà indossare la sua migliore maschera e
fare di tutto per aiutarla a capire se il suo matrimonio è davvero al capolinea
o se si tratta solo di una crisi passeggera. Quando l’unica cose che vorrebbe
sarebbe dirle la verità sui suoi sentimenti, su quel grumo di emozioni che lo
soffoca da otto anni, e vedere cosa accadrà.
Ma Ryou è un
uomo razionale, calcolatore, a tratti cinico, e ha perso troppo nella vita per
accettare di perdere anche quel rapporto ambiguo, fatto di una confidenza che
rasenta la complicità e che sfuma in qualcosa che nessuno ha il coraggio di
chiamare con un nome diverso da amicizia.
“Le passerà quando vedrà il mio regalo di
bentornata”.
“Te ne sei davvero ricordato.”
“L’ho mai dimenticato?” le chiede
retorico, sapendo benissimo la risposta.
Retasu sorride, i capelli che ondeggiano appena
attorno al viso più maturo. Non ha ottenuto quello che voleva, non è riuscita a
parlargli come si aspettava, ma è comunque soddisfatta. Shirogane-san
non è felice, ma non sembra nemmeno troppo triste. Sta scappando, certo, e nega
di farlo, ma ormai lo conosce abbastanza da sapere che quando si sentirá pronto tornerà. Forse solo per riprendere quel suo
posto defilato in quella loro strana famiglia, forse per affrontare finalmente Ichigo. Ma tornerà, questa è la sua sicurezza.
“Ehi. Shirogane-san”
lo chiama, la porta sul retro uno spiraglio che fa entrare un soffio di brezza
fredda e foglie secche.
“Mmh?”
“Vedrai Zakuro-san
a New York?”
“Maybe. Why?”
“Niente” scuote la testa, un sorriso
leggero sul viso. “Fai buon viaggio, Shirogane-san”.
“Non dovresti dirmelo all’aeroporto?”
“Va bene anche qui”.
“Sei strana oggi, lo sai?” le dice,
inclinando appena la testa sulla spalla come fa sempre quando qualcosa gli
sfugge.
“Dici?”
“A-ah. Dico” annuisce, ma poi alza le
spalle. “Ognuno ha i suoi segreti. Giusto, Retasu?”
“Vale anche per te?”
“Ma se sono un libro aperto”.
“Sì” sbuffa, mentre un nuovo refolo di
vento si insinua nella cucina. “Peccato che sia scritto in una lingua
incomprensibile”.
“Fa parte del mio fascino, no?”
Retasu ride, felice di sapere che in qualche
modo, per un’ora, Shirogane-san ha recuperato un
briciolo di quelle relazioni e di quella leggerezza che dopo la chiusura del
progetto m sembrava essersi affievolita sempre di più.
“Fatti sentire qualche volta. Asakana-san si preoccupa”.
“I
promise”.
“Ci vediamo al matrimonio, allora.”
“Contaci”.
Ryou la guarda uscire, la brezza di fine
ottobre a ravvivarle i ciuffi sfuggiti al basco e un profumo di foglie e terra
umida a dissiparsi in quella cucina all’improvviso troppo silenziosa.
Guarda l’orologio al polso: ha giusto il
tempo di una doccia veloce, prima di passare in banca per gli ultimi documenti.
Gli operai arriveranno quando lui sarà già in macchina verso l’aeroporto.
Guarda le valigie pronte, il cappotto ripiegato e poi la cucina e la sala del
Caffè , tagliata dalla luce che filtra dai nylon appesi alle finestre.
Quando tornerà, sarà tutto diverso. Lo ha
voluto lui, e non se ne pente. Sente che ne ha bisogno, è ora di chiudere
quella fase della sua vita e provare ad aprirne un’altra. Forse non cambierà
nulla, ma almeno ci vuole provare.
Sorride, mentre si avvia per l’ultima
volta al piano superiore, alla sua stanza da ragazzo, canticchiando un
motivetto impreciso, per una volta senza speranze nè
disillusioni.