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Autore: coopercroft    17/11/2021    0 recensioni
Laura Lorenzi è un giovane dottoressa italiana, arrivata a Londra per specializzarsi in patologa forense. Convive con un doloroso passato che l'ha chiusa in una solitudine forzata.
Quel lavoro, che tanto ha voluto, le fa conoscere un uomo complicato e singolare con cui inizia un rapporto altalenante pieno di luci e ombre: Mycroft Holmes, fratello maggiore del più noto Sherlock.
Quella frequentazione problematica trascina Laura in gioco di potere, di attentati, di omicidi che logorerà entrambi.
Tra discussioni e riavvicinamenti, si ritroverà a combattere con caparbietà per quel sentimento tormentato che li avvolge sempre più strettamente: una "solitudine elettiva" che li porterà ad aprirsi reciprocamente.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Rimanemmo soli dopo settimane di lontananza. Mycroft, non era cambiato molto nel modo di fare, era sempre attento nel vestire. Era elegante anche nella situazione delicata che stava vivendo. Indossava un completo tre pezzi chiaro, la camicia rigorosamente bianca. Da quando lo avevo conosciuto era sempre stata la sua prima scelta. La cravatta marrone, spinata, annodata alla perfezione fermata dalla spilla argentata. Solo i calzoni sul ginocchio erano sformati, probabilmente per una fasciatura.

Lo avvicinai con le mani alte, in segno di resa.

"Perché non ti metti un po' comodo, ci siamo soltanto noi due."

Lui mi fissò allibito. "Dovrei apparire trasandato? Lo sai che non mi piace."

"Perché non allenti la cravatta, indossa un maglione comodo e più caldo." Gli indicai il mio cashmere azzurro.

Sembrò inorridire. "Per favore, Laura, va bene così!" Sospirai, con lui la battaglia sull'abbigliamento era già persa in partenza.

"Posso sedermi?" Annuì rassegnato dalla mia presenza.

"Certo, non sono così maleducato." Mi accomodai alla sua destra e presi il libro caduto a terra.

Glielo porsi, un gesto per invitarlo a reagire, infatti sbuffò avvilito. "Ci sarei riuscito anch'io."

"lo so è stata solo una gentilezza." Grugnì, gli comparve una smorfia di dolore mentre cercava di sistemare la gamba. Strinsi le labbra dispiaciuta per quella improvvisa sofferenza. Cercai di essere accomodante. Mi sistemai le maniche della maglia, che si erano accorciate nel prendere il libro.

"Come va il ginocchio? Non bene visto il dolore che ti provoca."

"Ma guarda! Cos'è, una deduzione? Certo che fa male, grazie." Mi fissò stringendo il libro con troppo vigore, cercò di aprirlo, ma con le mani in quelle condizioni finì per arrendersi.

Era irritante, ma sapevo bene perché la mia vicinanza lo mettesse a disagio.

Mi sistemai nella poltrona, cercando una posizione migliore. La sofferenza che aveva provato era quanto la mia nel vederlo chiudersi di nuovo nella sua solitudine. Non voleva la mia pietà anche se mi faceva male ammetterlo. Lo ignorai volutamente, mi alzai presi il contenitore dei giocattoli di Rosie che avevo giudicato dell'altezza giusta, lo sistemai di fronte alla poltrona.

"Ora ci metterai la gamba e la terrai distesa." Gli indicai il cubo dei giochi con aria perentoria. "Non dire niente, altrimenti la prendo e ce la sbatto sopra. Ok?"

Ricevetti uno sguardo truce, ma capitolò, cercò di alzarla, il dolore lo fece desistere.

Mi avvicinai, gli piantai gli occhi addosso e visto che non diceva nulla, presi delicatamente la gamba e gliela sistemai sul supporto improvvisato.

Strinse i denti, cercando di non darmi la soddisfazione di mostrarmi la sua difficoltà. Si appoggiò con la nuca sulla spalliera e chiuse gli occhi. Certo soffriva e non riusciva a mascherarlo. Mi concesse tacitamente di accudirlo. Gli tolsi la scarpa elegante e costosa dove sacrificava il suo piede gonfio e parzialmente fasciato. Non riuscivo a capire come potesse sopportare quel tormento.

"Portare una calzatura più comoda non sarebbe il caso?" Lo redarguii mantenendo la voce gentile per non innervosirlo.

"Non per me, sai che mi piace vestirmi in modo consono."

"E il risultato è la caviglia gonfia. Devi stare con la gamba in alto. Stubborn english man!"

Il risultato fu la riapertura di un occhio solo con cui mi fissò ironico. "Hai migliorato il tuo inglese? Ma la pronuncia è ancora lontana dall'essere perfetta."

"E infatti voglio si senta che ho origini italiane." Mi stampai in volto un sorrisetto ironico.

Accennò una risata, era qualcosa. "Va bene se è una tua scelta. Stubborn italian woman."

Naturalmente il suo timbro così British mi scaldò il cuore. Mi guardò indulgente, e ne approfittai subito.

"Ti alleggerisco la gamba, non andare in allarme." Mi sedetti di fronte prima che potesse protestare. Presi il piede con lentezza, tolsi le calze, lo massaggiai piano evitando le ferite sulle dita. Gli mancavano le unghie. Tremai pensando al dolore che aveva patito quando gliele avevano strappate.

Forte del fatto che non protestasse e mi considerasse un alieno che invadeva il suo pianeta deserto cercai di vedere se riuscivo a farlo parlare.

"Ti hanno fatto lo stesso trattamento delle mani, vedo. Ma il ginocchio, perché? Sei ferito?"

Corrugò la fronte, gli occhi divennero due linee sottili. Era in allarme, dal tremore della mano appoggiata al bracciolo capii che aveva paura che gli chiedessi di più del consentito, che invadessi la sua zona confort dove non permetteva a nessuno di entrare.

Ma si arrese, consapevole che due mesi prima, eravamo stati molto vicini e mai lo avevo deluso.

"Una bastonata. Me lo hanno rotto." Gli scivolò la frase in un soffio. Non sollevai la testa e continuai a occuparmi della sua caviglia gonfia. Sembrava cedere un po' del suo orgoglio. Continuai cercando di stimolarlo.

"Un dolore devastante, come hai potuto sopportare?" Scivolò verso il basso, la schiena incurvata.

"Non ho sopportato. Ho gridato...molto...e vergognosamente... e sono svenuto. La mia mente mi ha tradito non controllava più il corpo."

Chiuse gli occhi. Delle rughe profonde comparvero sulla fronte. "Mi avevano legato ad una sedia di metallo, muovevo troppo la gamba cercando di sottrarmi alle percosse."

Il suo petto si sollevò in un paio di respiri profondi. Cercai di modulare la voce, anche se dentro vacillavo.

"Nessuna mente può controllare una tortura del genere, Myc, forse sei umano anche tu." Non si spostò di un centimetro. Si chiuse a riccio, tossì un paio di volte. "Laura, ceniamo, non voglio parlarne...Non ora ti prego."

"Scusami, stai sereno. Ti preparo la cena." Gli infilai il calzino costoso e chiusi il discorso.

"Cosa ti hanno detto del ginocchio?" Avevo nuovamente la sua attenzione, riaprì gli occhi.

"Di stare a riposo per un paio di giorni, ho forzato troppo. Mi hanno aumentato gli antidolorifici."

Gli accarezzai la caviglia. "Ti porto le pantofole, rimani qui tranquillo. Leggi il tuo libro."

Alzò la testa, gli occhi addolciti e mi sembrò il Mycroft gentile di tempo addietro. "Non ho molta fame..."

"C'è qualcosa che vorresti?" Cercai di essere accomodante.

"Una delle tue zuppe famose, Laura."

Risi divertita. "Te ne ricordi ancora? Va bene, si può fare, vedo se John ha quello che mi serve."

Dondolò la testa di lato e mi fissò. "Bene, è l'unico cibo che mi sento di mangiare stasera. Scusami."

"Cercherò di accontentarti, ma tu sforzati un po'."

Si era calmato, era sereno, avevamo avuto il primo colloquio normale e una parziale ammissione delle torture subite. Pensai che mi avesse concesso molto.

Mi avviai verso la cucina con il cuore in subbuglio. La giornata era stata piena e con lui in quelle condizioni mi sentivo persa. Mi distruggevo dentro, tra la rabbia di soccorrerlo e quella di picchiarlo per la sua freddezza. Lavorai con calma, ogni tanto lo guardavo. Cercava di leggere, ma spesso finiva per appoggiarsi e chiudere gli occhi spossato.

Cucinai tesa, ma alla fine ottenni una zuppa cremosa e delicata.

"Mycroft, è in tavola. Ce la fai?" Fu una domanda stupida, perché di certo non si sarebbe fatto aiutare.

Dopo un paio di tentativi si alzò e riuscì a trascinarsi con le due stampelle fino alla tavola. Si accomodò, mal celando una smorfia. Fu stranamente gentile. Gli occhi per pochi secondi mi sembrarono velarsi. "Mi dispiace di non averti potuto aiutare. Mi piace cucinare con te, Laura."

Un'ammissione che non mi aspettavo.

"Beh, magari quando starai meglio faremo una cena completamente italiana."

Sorrise, una piccola impercettibile concessione.

Gli porsi il piatto e cominciò lentamente a mangiare. Reggeva le posate con difficoltà, ma mi guardai bene dall'invadere i suoi spazi. Alla fine sembrò soddisfatto.

"Beh, dottoressa Lorenzi, sei stata all'altezza, un piatto semplice che mi ha fatto venire appetito." Appoggiò il cucchiaio, si pulì con il tovagliolo. "E' un periodo difficile, non ho mai molta fame."

Mi versai un po' di vino e riempii anche il suo bicchiere. "Sono contenta che tu abbia mangiato qualcosa, sei dimagrito e dovresti recuperare."

Strinse le labbra e appoggiò la mano sulla tovaglia. "Lo so, ho perso peso, ma spero di rimettermi presto." Sospirò. "L'unico cibo che mi passavano in quel buco di prigione era una ciotola di acqua e patate bollite." Faticava a guardarmi negli occhi. Abbassava spesso la testa, per nascondere l'imbarazzo, lui che era stato sempre altezzoso e fiero.

"Mycroft, puoi guardarmi. Sono sempre io, Laura. Ti faccio così paura ora?"

E fu un errore madornale, si arroccò in difesa, alzò le barriere a protezione della sua debolezza. "Non ho paura di te, cosa te lo fa pensare? Ti credi così importante?" Lo sibilò con cattiveria e mi puntò gli occhi grigi addosso.

Mi arresi, senza condizioni. "Scusami, non volevo farti arrabbiare. Volevo aiutarti. È stata una battuta infelice." Avevo perso la piccola apertura che mi stava concedendo.

"Chissà perché volete tutti aiutarmi! Forse qualcuno si è mai occupato di me prima?" Piantò la mano fasciata sul tavolo, con troppa violenza.

"Non permettevi a nessuno di avvicinarti. Per Dio, Mycroft, ti vogliamo bene, è semplicemente questo il motivo." Sbottai, spingendo indietro la sedia.

Brontolò, cercò di alzarsi, ma barcollò. Temendo che cadesse, lo aiutai. Lo presi per la vita e lo tenni dritto. "Guarda che lo faccio solo perché ho promesso a Sherlock di farti arrivare vivo a sera. Non prenderlo come un gesto di affetto."

Fui acida e cattiva per proteggerlo dalle sue insofferenze. Lo strinsi accorta, mentre si sistemava le stampelle e acquistava forza.

Non replicò, quando lo vidi stabile lo lasciai. "Sei un uomo impossibile, Mycroft Holmes." Mi allontanai mentre lui sbuffava, gli occhi rivolti in alto.

"Sparecchio in fretta e ti sistemo le fasciature alle mani, poi sei libero di andare a letto." Non mi voltai nemmeno a guardarlo. Lo sentii trascinarsi fino al camino. lo osservai di sottecchi mentre sistemava la gamba sul rialzo.

Il suo modo di fare era devastante, non mi permetteva nessun accesso. Sembrava un perfetto sconosciuto. Mi mancava la sua ironia, quella sua aria bonaria, quel volto che mi guardava preoccupato e protettivo. Sarei stata al suo fianco sempre, se solo me lo avesse permesso. Ma Mycroft era cambiato, stentavo a riconoscerlo. Eppure, sapevo cosa lo tormentava. Finii per distrarmi, mi cadde un bicchiere che andò in pezzi

Lui alzò la testa, e mi guardò mentre raccoglievo i cocci.

"Non ti taglierai, vero?" Grugnì. "Laura, sono io quello che deve essere medicato, non tu." Sorrisi e quella battuta, mi alleggerì il cuore.

"Starò attenta. Non vorrei morire dissanguata nella cucina di tuo fratello. Potrebbero pensare che sia tu l'assassino."

Rise sommesso. "Potrebbero, sì." Tornò al suo libro e io pulii il mio danno.

Più tardi lo raggiunsi con il necessario per medicarlo, avvicinai il tavolino che c'era tra le due poltrone. Mi passai la mano sulla nuca indolenzita, cominciavo ad avvertire tutta la stanchezza della giornata. Aggrottò le sopracciglia e mi studiò.

"Sei stanca, Laura? Mi dispiace che Sherlock ti abbia costretta a fare tardi con me."

"Non preoccuparti, recupererò la stanchezza con una bella dormita." Intravidi in lui una parte di quel Mycroft tanto amato: gentile e premuroso.

"Bene, appoggia il tuo libro e sistemiamo le tue mani. La ferita alla fronte la lasciamo per domani."

Fece una piccola smorfia, infilò il libro sul fianco della poltrona e distese le mani.

Tolsi le bende con delicatezza, era teso quanto me. Mascherai bene la mia inquietudine, ma quando le scoprii, mi smarrii. Come sospettavo gli mancavano le unghie: un paio a destra e tre a sinistra. La mano di sinistra aveva un profondo taglio sul dorso che la trapassava.

I miei occhi si fecero lucidi. Le sue belle mani, delicate e pallide, erano ora gonfie e scure.

Balbettò, scusandosi. "Non ti crucciare, Laura, guariranno, è per questo che non volevo che ti occupassi delle mie ferite." Annuii cercando di darmi un contegno. "Ti faccio stare male e non volevo succedesse."

Le ritrasse, tremando, abbassò lo sguardo.

Mi diedi della stupida, non era così che lo aiutavo, eravamo quasi in sintonia, fui sincera. "Scusami, so che non vuoi dell'inutile pietà. Non si ripeterà lo prometto."

Prese fiducia e le appoggiò sul tavolino. Si lasciò andare alle mie cure. Un paio di volte si contrasse per il dolore, mi fermai e lo lasciai riprendere fiato. Disinfettai e pulii bene, senza mai guardarlo. La ferita nel centro mi preoccupò un po'.

"È arrossata e profonda, cerco di fasciartela stretta." Non so perché decise di raccontarmi di quella ferita brutale.

La voce era piatta, come se cercasse di mascherare il disappunto di quel ricordo angoscioso.

"Volevano le informazioni e la password del portatile. Prima furono quasi maldestri, mi strapparono le unghie una alla volta, cominciando dai piedi. Ma ressi bene, almeno per un po'. Persi il controllo quando arrivarono alla mano sinistra, non riuscivano a tenerla ferma."

Lo sentii ansimare, gli diedi tempo. Aspettavo con la testa china mentre gli stringevo la fasciatura.

"Mi piantarono il coltello sul dorso e la inchiodarono al tavolo di legno." Fece una smorfia ironica.

"Rimasi fermo per forza, il dolore della ferita superò la rimozione delle unghie." Il suo bel viso era percorso dalla rabbia.

"Mi torturarono senza pietà per il gusto di farlo." Sistemai la benda e tremai, sapendo bene chi avesse ordinato quelle crudeltà laceranti.

Non riusciva a compensare, il fiato gli si era fatto corto, allora mi fermai cercando di non andare oltre.

"Starai bene, Myc le unghie ricresceranno più forti di prima e la tua bella mano tornerà come nuova." Annuì sollevato che avessi finito la mia cura.

Ordinai il tavolo, lo vidi prendere il libro, cercare di alzarsi afferrando le stampelle per andare in camera.

"Aspetta le medicine, poi sei libero." Presi la vaschetta che mi aveva lasciato John. Conteneva sei capsule diverse, alcune per il dolore, antiinfiammatori, antibiotici, vitamine e per ultima un antidepressivo.

Mi urtò vedere che glielo avevano prescritto. Una medicina che influiva sul suo umore non era certo un bene per quella mente acuta che aveva. Forse era questo che lo rendeva così irritabile e scontroso. Fui combattuta, ma decisi di chiederglielo.

"Mycroft, perché ti hanno prescritto degli antidepressivi? Che ti succede?" Mi fissò sulla difensiva, seccato era dire poco.

"Mi aiutano a superare l'ansia e gli attacchi di panico. Non riesco a dormire molto." Presi il bicchiere d'acqua e glielo porsi. Lui buttò giù tutto in un fiato.

"Scusa era solo per capire quanto fossi coinvolto, so che non ti piace limitare la tua mente." Mi restituì il bicchiere, la mano tradiva un leggero tremolio.

"Mi limitano molto, ma devo obbedire anche se a volte mi sento...irascibile e confuso." Ora capivo meglio il suo stato. Ma sapevo che erano necessarie.

"Chi ti segue, sa quello di cui hai bisogno."

Sorrise tristemente, prese le due stampelle. "Mi spiace, ma ho certi obblighi e farmi curare dal team dei medici del governo è uno di questi." Con difficoltà, prese il suo libro prezioso che mesi prima era stato il nostro punto di unione.

"Bene, ora hai sodisfatto la tua curiosità. Posso andare?" Fu brusco. Tornò il Mycroft irritante e sgarbato, lo sconosciuto perfetto. Abbassai la testa, consapevole di avere davanti una personalità altalenante che soffriva per i farmaci e per le violenze subite che non riusciva a compensare.

"Sono troppo invadente, hai ragione. Dormi bene." Mantenni la giusta distanza.

"Buonanotte, Laura. Riposa anche tu, ti ho stressato abbastanza stasera. Faccio da solo, non preoccuparti. E grazie."

Fu gentile: Mycroft era il risultato di una accozzaglia di comportamenti contrastanti che cambiavano in fretta.

Avrei voluto dargli un bacio su quelle labbra screpolate, un abbraccio, una carezza, stringerlo così forte da soffocarlo, per farlo sentire al sicuro. Ma rimasi ferma, di pietra, muta, stupidamente incartata in una disperazione lacerante.

 

   
 
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