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Autore: JohnHWatsonxx    06/12/2021    1 recensioni
Raccolta di one-shots Johnlock in cui ogni capitolo è ispirato da una canzone dell'album 'Plus' di Ed Sheeran
1. The A Team -Post!Reichenbach
2. Drunk -Uni!lock
3. U.N.I. -Uni!lock
4. Grade 8 -post quarta stagione, What If?
5. Wake Me Up -Soulmate!AU
6. Small Bump -What If 3x3 pre-slash (Tw: aborto)
7. This -post quarta stagione
8. The City -Post!Reichenbach
9. Lego House -kid!lock AU
10. You Need Me, I don't Need You -Retirement!lock
11. Kiss Me -post quarta stagione
12. Give Me Love -Post!Reichenbach
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: allora, la storia non c’entra niente con la canzone, perché il testo è troppo specifico e personale che non ci si riesce a scrivere niente che non sia la biografia di Ed Sheeran in pratica. Quindi ne approfitto per scrivere la mia primissima Retirement!lock e ficcherò da qualche parte il titolo della canzone, giusto per far finta di non uscire fuori tema.
-A

 
You Need Me, I don't Need You
 

 La mattina faceva  sempre un certo effetto su John Watson, medico militare da poco andato in pensione, specialmente da quando poteva vedere il sole sorgere da dietro le montagne invece che tra una nube di smog e un grattacielo moderno. Si poteva tranquillamente affermare che dopo 60 anni di vita a cercare adrenalina, finalmente John era riuscito a raggiungere la serenità.

Ispirò profondamente, godendosi l’aria frizzantina di fine novembre, appollaiato sulla sua sedia in vimini e con una fumante tazza di tè a scaldargli le mani, quando un boato lo fece sobbalzare, facendogli rovesciare la bevanda su tutta la coperta e bruciandosi le dita, che fortunatamente erano diventate insensibili a causa del freddo. John era riuscito a raggiungere la serenità ma, come ogni cosa successa in vita sua, che non glie ne è mai capitata una normale, e anche la sua serenità era spesso costellata di eventi traumatici, molto spesso causati da un unico soggetto, tal Sherlock Holmes, ex sociopatico iperattivo che amava definirsi ancora consulente investigativo.

Erano un paio di settimane che Sherlock stava lavorando a un esperimento: stava cercando di solidificare il miele da lui prodotto quell’estate, ma ogni tentativo era parso vano, visto che, anche dopo un’intera settimana in congelatore, il prodotto non si era congelato, ma aveva invece assunto la consistenza dello slime che compravano a Rosie quando era piccola. Quella mattina, in particolar modo, lo scienziato improvvisato aveva deciso di usare il mercurio, per qualcosa di cui John non voleva sapere nulla. Ma quel boato che gli ha bruciato le dita -e la tranquillità- non potevano di certo significare nulla di positivo, specie se dentro le mura di quella casa nel Sussex si trovava Sherlock Holmes con in mano miele e mercurio.

John ha provato anche a mantenere la calma, e a pensare che Sherlock avrebbe risolto la situazione da solo, da bravo uomo di cinquantasette anni, ma una seconda esplosione portò via tutti i pensieri zen del dottore, che automaticamente si alzò ed entrò in casa come una furia.

“Sherlock!” tuonò, spalancando violentemente la porta della cucina, che di conseguenza sbatté sul muro e rimbalzò indietro verso il dottore. John era arrabbiato, comprese Sherlock, nel vedere che sul tavolo si stava spandendo una strana melma grigia che aveva proprio le sembianze di un cervello alieno.

“Ti posso assicurare che il tavolo ne uscirà illeso, John” rispose tranquillo lo scienziato, alzandosi per prendere un rotolo di scottex per rimediare al danno. Strappò un paio di pezzi di carta e li passò sulla superficie del legno, constatando il suo avere ragione, e tranquillizzando immediatamente il dottore, che si poggiò sullo stipite della porta.

“Cosa erano quelle esplosioni, allora?” chiese, riprendendo il respiro nel vedere che niente e nessuno era saltato in aria.

“Il coperchio del pentolino a pressione -la prima volta- e quando è caduto dal soffitto -la seconda” rispose Sherlock che, da quando si erano trasferiti lontano da Londra, aveva imparato come pulire casa per non annoiarsi, prendendo esempio da John, e aveva già quasi finito di lucidare il tavolo. John, nel frattempo, alzò lo sguardo verso il soffitto, per trovare una concavità accanto al lampadario che prima non c’era.

“Hai fatto saltare in aria il coperchio della pentola a pressione talmente tanto che ha quasi bucato il soffitto. Bene. Fantastico. Mi chiedo ancora perché vivo con te” borbottò il medico, poggiando pollice e indice sul ponte del naso, indice del suo stress.

Sherlock captò quel movimento. Conosceva talmente bene quell’uomo che aveva imparato a categorizzare i suoi movimenti del nervosismo: al primo stadio, c’era il gesto appena compiuto, John si toccava sempre il naso quando Sherlock faceva qualcosa che non avrebbe dovuto ma che era facilmente risolvibile; al secondo stadio c’erano le urla, John urlava sempre quando era incazzato o quando Sherlock rischiava la vita o quando rompeva cose che poi toccava a lui comprare; e poi c’era l’ultimo stadio, che erano anni che Sherlock non vedeva (ed era contento così), quando John assumeva uno sguardo diverso dagli altri (Sherlock aveva classificato anche quelli) che presagiva cose peggiori di un solo sguardo. I suoi occhi perdevano il tipico colore azzurro e si scurivano, fino a diventare quasi neri, fino a quasi scomparire tra le palpebre. Sherlock ebbe un brivido e preferì non ricordare altri particolari degli eventi che avevano portato John ad avere quello sguardo, e tornò alla realtà, in cui il John del presente stava aiutandolo a finire di pulire la cucina.

“Vivi con me perché hai bisogno di me” rispose Sherlock.

“Era una domanda retorica, Sherlock, non dovevi rispondere davvero” John fece una pausa, mentre buttava la carta nel cestino. “E poi -cosa vuol dire che ho bisogno di te? Io non ho assolutamente bisogno di te, al massimo sei tu che hai bisogno di me” schernì l’altro.

John pensò a quanto potesse essere buffa quella scena: due vecchi, con le rughe come canyon a segnargli i volti, che si prendono in giro a vicenda come adolescenti, mentre pulivano mercurio e miele dalla cucina di un piccolo cottage nel Sussex. Solo loro due potevano finire così, solo loro due potevano essere così unici e peculiari, perché in sessant’anni di vita non aveva mai conosciuto un’amicizia come la loro. Un’amicizia che era qualcosa di più, in tutti i sensi come lo è l’amore: fratelli, oltre che amici, innamorati, da qualche tempo a questa parte, e soprattutto una famiglia, come lo è stato e come sempre lo sarà. Erano, a tutti gli effetti, la cosa più strana che il mondo potesse offrire, questo ibrido perfetto tenuto insieme saldamente, che coniugava l’affetto amichevole all’amore passionale che solo due vecchi possono provare. Erano, essenzialmente, Sherlock-e-John, inseparabili di nome e di fatto.

“Non ho problemi ad affermarlo, io. Ho sempre bisogno di te” lo prese in contropiede Sherlock, che smise di passare lo straccio sul tavolo per prendere la mano di John.

Ancora troppo presto per esserne totalmente abituato, John ci mise un paio di secondi prima di ricambiare la stretta. In fondo era da poco più di un mese che Sherlock l’aveva baciato, in salotto. Era poco più di un mese che avevano fatto l’amore, e che avevano riso come matti mentre cercavano di coordinarsi mentre i loro copri non ne volevano sapere nulla di collaborare. Era passato poco più di un mese che John aveva messo definitivamente da parte la sua stupida idea che se nasci quadrato muori quadrato: se incontri Sherlock Holmes nel tuo cammino non sarai mai più la stessa figura. Era passato quindi poco tempo, e John tremava ancora nel toccare l’altro, quasi come non ci credesse, quasi come non fosse del tutto vero.

“Non so come si fa” sussurrò piano il detective, accarezzando con il pollice il dorso della mano dell’altro, tenendo il viso basso, ad osservare in trance quel suo gesto.
“Non ho neanche un anello” continuò Sherlock, al che John comprese dove stesse arrivando e, sentendosi mancare l’aria, si appoggiò alla prima cosa che aveva accanto, una delle sedie del tavolo.

“Sherl…” non riuscì a finire il suo nome “Non serve che tu lo faccia”

“Ma io voglio, John. Io voglio sposarti. Voglio un matrimonio da vecchi sessantenni, voglio fare vestire Rosie di viola e voglio vederti indossare uno smoking col papillon mentre cammino verso di te. Sono diventato sentimentale, John, ma non ho paura di questa cosa. Io ti amo -da quando ci siamo conosciuti- anche quando non lo sapevo io ti stavo amando. E per me non è solo un mese. Per me è tutta la vita” Sherlock alzò lo sguardo, gli occhi chiari e trasparenti che penetrarono in quelli blu oceano di John, che tratteneva il fiato anche se cercava di respirare.

“Quindi, vuoi sposarmi?” chiese Sherlock alla fine, stringendo ancora di più la mano di John, che in quel momento non sapeva cosa fare*.

Sherlock è stato il suo coinquilino, prima. Hanno litigato per l’affitto ogni mese, per la spesa, per le bollette, per le esplosioni involontarie e per le litigate stupide. Sono diventati colleghi, in simbiosi sulle scene del crimine come da nessun’altra parte. Poi sono stati amici e, per un lungo periodo di due anni, completi estranei. Poi il loro rapporto si è complicato: non erano più coinquilini, non erano più colleghi, avevano conservato una briciola di amicizia. E infine, dopo tutto, sono diventati una famiglia, grazie all’aiuto di Rosie. Hanno vissuto come la più normale delle famiglie anche quando di normale non c’era niente. E alla fine, nel Sussex, dopo aver passato tutte le tappe, sono diventati amanti, ed è stata una cosa talmente graduale, ma talmente normale che non cambiò quasi nulla tra di loro.

Era iniziato tutto alcuni mesi prima. Sherlock e John stavano leggendo sulle loro poltrone, che non erano più disposte una di fronte all’altra, ma una accanto all’altra, per permettere a entrambi di godere del calore del camino. Stavano leggendo, una cosa normale, come ogni giorno. Ma quella determinata sera, non seppero come, né perché, o come mai proprio in quel momento, la mano di John sfiorò quella di Sherlock, e nessuno dei due si mosse, nessuno disse una parola: i loro mignoli si toccavano e restavano immobili, come se avessero trovato il loro posto. Il giorno dopo, alla stessa ora, sulle stesse poltrone, John posò la sua mano su quella di Sherlock; la volta dopo ancora, Sherlock gli strinse la mano. Dopo una settimana, il detective chiuse il suo libro con nervosismo, si girò verso di John e gli strappò il libro dalla mano. Poi, come fosse del tutto normale, un saluto a fine giornata, Sherlock gli stampò un velocissimo bacio sulle labbra, delicato e urgente allo stesso tempo, impacciato e determinato come solo lui poteva essere.

La sera dopo John lo baciò come si deve. Da quel momento era passato poco più di un mese, e ora Sherlock gli stava chiedendo di sposarlo. Poteva sembrare affrettato, se loro due non fossero stati Sherlock e John, ma avevano passato trent’anni delle loro vite insieme, passando per tutte le tappe che le coppie passano, solo con un ordine diverso. Sembrava naturale, vedere le loro mani strette, e il viso di Sherlock di fronte al suo, circondato da una chioma grigia e nera, il suo volto segnato da rughe e cicatrici di una vita mai noiosa, e gli occhi di sempre, di quel colore indefinito che John aveva provato a decifrare senza mai riuscirci davvero. Gli stessi occhi che imploravano per un sì.

John posò l’altra mano su quella di Sherlock, stringendola un po’ di più. Si ricordò la prima volta che la toccò, trent’anni prima, in quel laboratorio dove li introdusse Mike Stamford: fu uno sfiorarsi involontario mentre si passavano il cellulare. Il giorno dopo, quando andarono a vedere l’appartamento insieme e si strinsero le mani attraverso i guanti. E quella volta, mentre scappavano dalla polizia, ancora ammanettati insieme. O nella prigione di Euros, per darsi forza a vicenda. E altre mille volte, sempre diverse, sempre uniche e indimenticabili.

Quindi, quando pronunciò finalmente quel “sì” senza fiato, risultò la cosa più naturale del mondo, come una stretta di mano, un bacio a fior di labbra, la vecchiaia in un cottage del Sussex e tutta la loro vita insieme.




 *Se avete recentemente visto "Strappare lungo i bordi", immaginate che John dica nella sua testa "La domanda mi devasta", a me ha fatto molto ridere.

NdA. Definizione di “fuori dalla comfort zone”? questa storia. Cancellata e riscritta da capo almeno tre volte. Sempre diversa, sempre strana, mai soddisfacente. Neanche adesso mi convince, ma gli altri lavori erano peggio. Magari lasciatemi qualche recensione, così posso capire se ha un senso oppure no.
-A
   
 
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