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Autore: Quella Della Pasta    17/12/2021    1 recensioni
Era a quella festa non sapeva perché, e senza un accompagnatore – ovvio… – con cui sparlare di quanto s’annoiava. Vestita di bianco, Sheila poteva benissimamente confondersi con la mobilia moderna di quel salotto.
Una scrittrice emergente, una festa noiosa e un incontro inaspettato.
Genere: Generale, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Diabolik, Eva Kant, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Era a quella festa non sapeva perché, e senza un accompagnatore – ovvio… – con cui sparlare di quanto s’annoiava. Vestita di bianco, Sheila poteva benissimamente confondersi con la mobilia moderna di quel salotto.

Prese un sorso di champagne, continuando a guardarsi attorno. La coppia festeggiata – un’ereditiera bionda e stupenda che s’accompagnava a un ragazzotto che, al solito, sua madre avrebbe descritto come “carino, se solo non si fosse deturpato con tutti quei tatuaggi”. Sua madre aveva pochissima fantasia – era tutta intenta a far partire un vero e proprio mulino ad acqua, alimentato da due grandi vasche ai termini del lunghissimo tavolo del buffet, sotto gli applausi e le risate degli altri invitati. Sheila non ne capiva il senso, ma d’altra parte, erano molte le cose che non capiva di quel mondo.

Era arrivata nel jet set che guardava soltanto da lontano, dai servizi mondani che incrociava, sonnolenta, nel cambiare canale, da molto poco e grazie alla sua agente letteraria. Il suo primo romanzo aveva sbancato al tavolo dell’opinione pubblica, e Sheila s’era ritrovata con molti più inviti in casella di quanto sperasse riceverne negli anni bruttini delle medie. Miss Nessuno che scriveva ancora sui quaderni di scuola, nel banco più lontano e nell’angolo della classe.

Ad ogni modo, la cerimonia del mulino sembrava più che conclusa. I festeggiati erano spariti, andati a fare i saluti della serata, e Sheila, inevitabilmente, si stava annoiando. Aveva passato più o meno in rassegna tutte le facce in quel salotto, e solo due o tre erano finite nel suo archivio mentale come possibili prestavolto per i suoi personaggi futuri.

La curiosità per quell’inutile mulino prevalse, però. Sheila si diresse al lungo tavolo, insolitamente poco affollato per essere quello di un buffet.

Immerse la mano in uno dei due grandi catini, anche se l’odore pungente che aleggiava in quel punto della stanza avrebbe dovuto darle un segnale a chiare lettere.

Vino bianco? Roba da pazzi…

Ma neanche asciugarsi con uno dei tovagliolini a forma di cigno riuscì a toglierle di dosso quella puzza.

Sheila si guardò intorno: un omaccione grasso e sonnolento era stravaccato su una sedia, accanto al tavolo, del tutto dimentico del suo piattino di rustici per squadrare la stanza da sotto i suoi occhialetti a pince-nez.

Il mio salvatore! Sheila si schiarì la voce. «Mi scusi…»

L’omaccione si voltò subito. «Mi dica.» Forse Sheila era la sua prima distrazione da che era arrivato a quella festa. Chissà in che rapporti era coi festeggiati. Un parente, o l’ennesimo conduttore televisivo che li aveva intervistati?

«Mi sa dire dov’è il bagno?», gli chiese Sheila, tagliando corto le sue ipotesi. Il suo cervello da scrittrice partiva inevitabilmente per la tangente, anche nei momenti meno opportuni. Soprattutto in quei momenti.

Deluso, l’omaccione cogli occhialetti le indicò una porticina.

«Grazie infinitamente!», e Sheila si defilò rapida, sperando di farlo altrettanto da quella festa noiosa.

 

Quel bagno sembrava messo su in quattro e quattr’otto, ma almeno gli asciugamani erano morbidi e il flacone di sapone era ben rifornito.

Sheila non aveva granché voglia di tornare in salotto. Nonostante la sua agente credeva fosse una grande idea partecipare a quella festa, per farsi conoscere e racimolare contatti, Sheila era e restava la ragazzina che alle feste, perlopiù, mangiava a sbafo. Aveva i piedi doloranti in scarpe troppo costose per essere comode da indossare, non conosceva nessuno lì dentro e non aveva nemmeno voglia di conoscere gente, e tutto quel che voleva era tornare a casa sua, levarsi di dosso quell’abito che la inguainava come una salsiccia, farsi un tè con tutti i crismi e mettersi a scrivere. Un ritratto piuttosto triste della sua vita sociale, ma era la sua, e le andava bene così.

Colpi secchi alla porta. «Un momento», mormorò Sheila, contentissima di dover lasciare quel luogo sicuro a qualcun altro.

Silenzio. Un silenzio tombale. Da quando aveva smesso di essere assordata dal chiacchiericcio della festa? Quel bagno non poteva essere insonorizzato, ma visto il conto in banca dei loro ospiti, Sheila non se ne sarebbe sorpresa.

Schiuse la porta.

In tempo per vedere l’omaccione occhialuto cadere a terra. Di faccia a terra. E un lungo rivolo di sangue serpeggiare sulle piastrelle lucide del pavimento.

Sheila non osò aprire quella porta di mezzo millimetro in più. Il cuore in gola, il suo cervello iniziò a girare freneticamente per trovare la spiegazione più possibile e innocua, ma finiva a sbattere sempre e solo contro un pensiero fisso.

Ci vogliono uccidere tutti.

Era precipitata in uno dei suoi romanzi preferiti, in pratica. Sapeva benissimo cosa fare, no? Rinchiudersi in quel bagno, la chiave era persino nella toppa, e starsi muta fino a che non avrebbe udito un segno che qualunque cosa stesse succedendo all’esterno fosse finita. Cercò automaticamente il telefono in tasca, per poi maledirsi perché quel dannato vestito non aveva tasche, e il suo cellulare era ben tranquillo nella borsetta che Sheila aveva lasciato al guardaroba.

Cretina!! Stupida, cretina, imbecille…!

Così imbecille da non accorgersi che un’ombra vestita di nero le stava davanti. E la fissava con l’occhio verde che Sheila vedeva benissimo dallo spiraglio di quella porta.

La spinse rapida con entrambe le mani, ma dall’altra parte s’erano ormai accorti che c’era qualcun altro sulla loro lista di repulisti; qualcun altro decisamente più forte di lei, ché le tremavano le braccia per la furia e la paura di tener chiusa quella maledetta porta, finché non fu divelta con un calcio e Sheila spinta a cadere all’indietro.

«No…!» Indietreggiò, strisciando sul pavimento, ma era finita. Era fatta, andata, kaputt! Ché persino una reclusa sociale come lei sapeva bene che l’uomo che le stava davanti, inguainato in una tuta scura, non lasciava superstiti sul luogo dei suoi colpi. Erano le vittime e i preziosi involati, a raccontare la storia delle sue azioni.

Diabolik!!

Il ladro la afferrò per un braccio. Sheila si sentì volare, e sbatté contro il lavandino. «No, aspetta, aspetta…!»

Si diede della stupida. Diabolik non aspettava niente e nessuno. Non s’era guadagnato quel soprannome per niente. Per quel che lei ne sapeva.

Le afferrò il collo con una mano. Sheila si sentì morire. «Non uccidermi», singhiozzò, una mano a cercare di staccare quella presa ferrea da sé, l’altra a cercare di spingere via il braccio con cui il ladro stava cercando di conficcarle uno spillone in testa. «Non uccidermi, ti prego, ti prego…!»

«Perché?»

Quasi non svenne sul posto. Quel ladro aveva una voce scabra come pietra – le venne in mente, irrazionalmente, un dispositivo che poteva tenere attaccato al collo per modificare la sua vera voce – ma la cosa più sensazionale era che si fosse fermato.

«Sei solo una scrittrice. Cos’hai da offrirmi perché ti risparmi?»

Le mie storie, pensò Sheila. Meno che niente, in pratica. Non aveva neppure il portafoglio con sé. E nel portafoglio, non aveva certo una carta platino o la chiave per il museo che custodiva i tesori più grandi del mondo.

Chinò il capo, non smettendo di singhiozzare. Era finita, per davvero. Poggiò la fronte contro il petto di quel ladro. La sua tuta pareva fatta di una sostanza ruvida, non di stoffa, come fosse un’imbottitura sintetica. Solo dettagli che non avrebbe potuto scrivere da nessuna parte, quando sarebbe morta.

«Non uccidermi…», balbettò ancora. «Per favore…»

«Allora non so proprio che farmene, di te.»

Lo sentì muoversi. E l’illuminazione la colpì come un lampo, come quando ebbe l’idea per il suo primo romanzo.

«Ti renderò immortale!», gridò Sheila, alzando il capo. Sfidandolo con lo sguardo, nonostante il terrore.

Non vide alcun cambiamento negli occhi scoperti dalla maschera. «Non me ne faccio niente», ribatté lui, con quella voce cupa e terribile.

«Scriverò le tue imprese», continuò Sheila, resa testarda dalla folle paura che provava. «Tutti vogliono sapere chi sei, come riesci in quello che fai. Ti darò i tre quarti degli incassi», aggiunse, improvvisamente conscia che spiattellare tutta la verità non fosse un’offerta piacevole da proporre sul piatto. «Sono famosa, tutti comprano i miei libri. Diventerai più ricco di quanto non lo sei ora, grazie alle mie parole!»

Se non altro, il ladro la stava fissando in silenzio. Sheila non poté non chiedersi in che razza di veleno fatale fosse imbevuto quello spillone. Non lo guardò, per paura di dargli di nuovo l’idea.

Poi vide quegli occhi chiari assottigliarsi. «Dimmi», e Sheila poté quasi percepire un sorriso dietro la sua maschera. «Il tuo primo romanzo. Com’è nato?»

Giusto, pensò Sheila, e per poco non svenne nuovamente dal sollievo. Diabolik è un ladro. Rubarmi la storia del mio primo successo è l’azione più logica da fare, per lui.

Aveva firmato un contratto blindato per non raccontarla a nessuno, risparmiando quella storia per l’intervista in cui l’avrebbero pagata di più.

Sheila si schiarì la voce. «Non ho mai avuto un’idea giusta, prima di questa. Non ho mai avuto un’idea mia. Me le rifiutavano tutti, per un motivo o per un altro. Ero così triste che l’unica cosa che riuscivo a fare era restare a casa, ad ascoltare la radio. Poi ho sentito questa canzone…due anime avviluppate, la decisione di rinchiudersi in una casa abbandonata per anni, isolate dal mondo…dovevo scriverla.»

«Ah», sospirò il ladro. «Charmant. Vai avanti», le disse, e Sheila quasi avrebbe gridato di gioia, vedendo che indietreggiava. Andò a mettersi seduto sul pavimento, come a volersi veramente godere quel racconto.

«Non mi era mai successo prima, ma le parole uscivano dalla mia penna senza che potessi fermarle.» Come in quel momento. «Completai il romanzo in un mese scarso. Nemmeno dormivo, pur di scrivere tutto quello che vedevo in mente. Lo presentai all’ultima agenzia che ancora non avevo contattato…lo presero…il resto, be’, è storia.» Riderebbe persino, se solo non fosse ancora terribilmente spaventata. Diabolik la ascoltava intento, ma il racconto era finito. Cos’altro avrebbe potuto dirgli?

Oppure puoi correre via, visto che si è allontanato. Puoi almeno provarci.

La porta si aprì. Sheila si rallegrò, era arrivata la polizia?

No.

Diabolik entrò dalla porta.

E quello seduto sul pavimento, si levò la maschera. Rivelando il volto di una donna bionda ancora più bella della festeggiata. «Poverina», mormorò, rivolgendosi al suo partner. «Sii gentile con lei. Mi ha raccontato una bella storia.»

Sheila ricominciò a balbettare. «Non uccidermi, ti prego, ti prego…!»

Ma questo Diabolik, a differenza del primo, non la ascoltò.









 
Un paio di doverose precisazioni.

Tutto questo, intanto, l'ho sognato. Pari pari, compreso di dialoghi, pensieri della protagonista e il mulino sul tavolo del buffet. Una volta tanto che il mio cervello collabora, sapevo di dover scrivere questa storia prima di dimenticarmene.
Poi, a cercare il pelo nell'uovo:
- la coppia dei festeggiati sono i Ferragnez, molto a caso. Li ho sognati, e mi sembrava giusto farli rimanere.
- la protagonista si chiama Sheila come una delle protagoniste di Occhi di gatto. Nel mio sogno non aveva un nome.
- la canzone grazie alla quale la protagonista ha iniziato a scrivere: anche quello, un suggerimento del mio cervello; peccato che prende le mosse da un fatto di vita vera. Date un'occhiata al mio account RPF, e capirete anche da quale canzone ho iniziato a scrivere io.

- non ricordo se Diabolik uccida per mezzo di uno spillone, ma ricordo di aver letto qualcosa del genere da qualche parte, e di averla associata a questo personaggio. In ogni caso, potete prendere questa storia come un universo alternativo. In un certo senso, tutte le fan-fiction lo sono.
   
 
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