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Autore: Neamh Moonstar    27/01/2022    1 recensioni
Erano soli davanti alla fermata, la strada vuota e il lume del lampione puntato su di loro come fossero i protagonisti di un'opera teatrale pronti a dire le battute più importanti. Non c'era pubblico però, né un copione: solo la notte fonda e quella breve previsione che parlava di volti come fossero maschere o parti da recitare.
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Piccola one-shot/missing moment ispirata alle parole di: "Walk me home" di Pink
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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"Walk me home in the dead of night, 'cause I can't be alone with all that's on my mind. So say you'll stay with me tonight, 'cause there is so much wrong going on outside."

- Pink, "Walk me home"


•°•°•


«Insomma, non voleva proprio ascoltarmi» disse Aziraphale osservando distrattamente l'ultimo passeggero dell'autobus, oltre a loro, mentre scendeva. «Immagina che razza di situazione. Io che gli ho praticamente urlato che si stava sbagliando, e lui fissato con il volermi esorcizzare, o cose del genere.»

Quel povero vecchio aveva decisamente qualcosa che non andava. Ora che ci ripensava, era sicuramente colpa dell'età e delle sue fissazioni se lo aveva spinto dentro al cerchio - con conseguenze a dir poco spiacevoli. Vagare qua e là per la Terra come una specie di fantasma era stato estenuante, ed era finito nella su mentale lista di: "esperienze da dimenticare il prima possibile" - quello e tutto il resto della settimana, in realtà.

    Crowley alzò gli occhi al cielo, evidentemente divertito. «Tu che cerchi di alzare la voce contro qualcuno? Non ti ci vedo proprio. Non mi stupisce che non abbia funzionato» disse, stringendo un po' la presa sulla sua mano.

Era stato un gesto così naturale il prendersi per mano, intrecciando le dita e cadendo in un breve silenzio. Per un lunghissimo attimo erano stati loro, la notte e le poche persone attorno che erano andate man mano sparendo, fermata dopo fermata. Ad Aziraphale erano piaciuti quei momenti di tutto e di niente allo stesso tempo, in cui il carico di affetto e tranquillità racchiusi in quella salda stretta si erano alternati al suo silenzioso ragionare sommesso, fissato sulle parole impresse nel foglietto che ancora aveva in tasca e che sapeva essere finito tra le sue dita per un motivo ben preciso. Era un continuo oscillare tra emozioni forti ma piacevoli e pensieri concentrati ma dubbiosi, incerti sul da farsi.

C'era qualcosa negli occhi dell'altro, perennemente oscurati ma a lui visibili come il sole in una giornata limpida. C'era qualcosa nel modo in cui gli aveva offerto un posto per la notte, una casa, e nel modo in cui aveva accettato la sua mano o la sua spalla contro la propria. Aveva ascoltato i suoi resoconti con attenzione quasi religiosa, reagendo a tutto ciò che gli era accaduto nelle ultime ore con genuinità. La situazione per intero sapeva di libertà e sapeva di buono - nel senso che quella era pura e vera bontà. Per tutta la sua esistenza l'angelo era stato convinto di aver lavorato in favore di quel bene che tanto aveva cercato nelle parole vuote dei suoi colleghi e nelle azioni che gli chiedevano di compiere. Aveva cercato quella luce dovunque e per un po' l'aveva effettivamente vista in ogni oggetto, persona, situazione - erano stati tempi felici, speranzosi. Adesso la vedeva solo nel demone accanto a lui: lui l'unica cosa buona, unico punto fisso nel marasma che era stata quella settimana impossibile. 

    «Stai bene?» Chiese Crowley, spostando un po' il braccio come a richiamarlo. Doveva aver percepito l'improvviso silenzio come un segno che qualcosa non andava.

C'era una punta di preoccupazione nella sua voce, cosa che fece rimescolare l'aura di Aziraphale in un modo non proprio piacevole. Si sforzò di sorridere, intanto che l'autobus iniziava a rallentare - segno inequivocabile del fatto che erano ormai arrivati a destinazione. Si sentì stranamente sollevato, come se non avesse più voglia di parlare e quella fosse la scusa perfetta per tenere la bocca chiusa per un po'.

Rimettersi in piedi fu più difficile del previsto. Si ritrovò a doversi poggiare all'altro come un peso morto, un'azione involontaria che lo portò ad essere afferrato per il braccio da una stretta carica di urgenza. Mise un passo dietro l'altro in modo quasi distaccato, come se il suo corpo fosse su un piano della realtà diverso rispetto alla sua mente. Scese dalla vettura quasi inciampando, accogliendo l'aria di quella nottata estiva come fosse acqua in mezzo al deserto. La sua mano era rimasta saldamente ancorata a quella di Crowley, come se staccarsi avesse comportato un crollo. 

    «Ehi,» lo richiamò quest'ultimo, fermandosi a guardarlo con un celato sguardo indagatore, alla ricerca di ciò che lo stava opprimendo. Poté scorgere l'oro dei suoi occhi farsi più evidente, tagliato in due da quelle profonde pupille ormai ridotte a due linee sottili. «Che c'è?»

Ma Aziraphale non lo sapeva. Si sentiva solo sopraffatto dagli eventi, come se la calma dopo la tempesta lo avesse portato a mollare il carico che aveva portato sulle spalle fino ad allora. Ma non poteva lasciarsi andare, non ancora e non adesso. Avevano una situazione da sistemare, nodi da sbrogliare; e poi non era l'unico stanco: anche Crowley lo era, anche se non lo dava a vedere - poteva quasi sentire nel suo compagno lo stesso senso di intangibile ma percepibile pesantezza.

    Così scosse la testa: «Niente, solo... questa profezia è un gran bel grattacapo». Suonava come una scusa e lo era. Evitó di guardare la reazione del demone tirando fuori il foglietto dalla tasca e rileggendone le parole già impresse nella sua mente da ore, ma il sospiro dell'altro arrivò come una stilettata all'addome.

Erano soli davanti alla fermata, la strada vuota e il lume del lampione puntato su di loro come fossero i protagonisti di un'opera teatrale pronti a dire le battute più importanti. Non c'era pubblico però, né un copione: solo la notte fonda e quella breve previsione che parlava di volti come fossero maschere o parti da recitare.

    «Non mi dirai che ti prende finché non arriveremo a capire cosa quella strega voglia da noi, eh?» Chiese Crowley iniziando a camminare. Lo aveva tirato a sé come per tenerselo il più stretto possibile; si guardava attorno con aria furtiva, come se si aspettasse che qualcuno balzasse fuori dall'ombra per strapparglielo di dosso. 

    Aziraphale premette la spalla contro la sua in un silenzioso "sono qui, non me ne vado". «Non mi prende niente,» rispose poi, sperando che fosse vero. Quella conversazione si stava rivelando ostica, e lo stava portando a pensare che non avrebbe dovuto fare il difficile. Ma se c'era una cosa che sapeva fare benissimo, era saper decidere quali fossero le cose importanti in quel momento. La sua spossatezza emotiva poteva aspettare.

Crowley non aveva risposto, ma dalla tensione che si era formata sul suo viso era chiaro che la risposta non era stata di suo gradimento.

    «Cerchiamo solo di arrivare a casa tua,» riprese l'angelo, ora un po' inquietato dal silenzio e dal buio opprimente che li circondava. «È tardi e dobbiamo trovare una soluzione prima del mattino.»


Mayfair non era distante, per fortuna. Camminarono in silenzio per a malapena cinque minuti e, man mano che le strade si ripopolavano, Aziraphale iniziò a sentirsi anche un po' più calmo. Quando la porta d'ingresso si chiuse dietro di loro, sentì come se i muri di quell'appartamento fossero uno scudo pronto a proteggerli da ciò che li stava aspettando pazientemente al di fuori, in silenzio, pronto ad attaccare alle luci di un'alba che non sarebbe dovuta esistere.

    «Beh, fa' come fossi a casa tua» disse Crowley indicando il salotto con un braccio. «So che non è esattamente il tuo ambiente, ma...»

    Aziraphale osservò il minimalismo e il bianco vuoto che li circondava con un sorriso: «È decisamente il tuo, però. Non mi dispiace». Non c'era un filo di polvere, né un alone, né una macchia lì dentro. Si vedeva che il demone aveva sentito il bisogno di ritagliarsi uno spazio che si allontanasse dall'opprimente e fin troppo affollato ambiente dell'Inferno. 

    Con uno sbuffo imbarazzato, il rosso si staccò da lui con delicatezza, quasi come a volergli dire che sarebbe tornato di lì a poco. «Ti faccio qualcosa, vuoi qualcosa?» Chiese.

Quella sua voglia di dargli tutto, andare dappertutto, di volerlo lì era semplicemente adorabile. Meglio non dirlo ad alta voce, però; anche perché pensarlo fece venire all'angelo un'altra breve ondata di spossatezza misto ansia che non poteva permettersi. Così optò per un tè e ringraziò con un sorriso.

Aspettò che l'altro sparisse in cucina per mettersi a girovagare distrattamente. Crowley aveva un'interessante passione per l'arte, cosa che aveva riflesso nei pochi quadri alle pareti e nelle eleganti sculture sparse per casa. Non si azzardò ad entrare in camera da letto e fece un giro in mezzo a un bel gruppo di rigogliose piantine che - non avrebbe saputo dire come - parvero tranquillizarsi al suo arrivo. In salotto c'erano alcuni scaffali con qualche libro distrattamente poggiato qua e là: li conosceva tutti perché erano tutti regali suoi. Erano lì della serie: "So che non ami leggere, ma penso che la trama di questo potrebbe interessarti", e ci aveva preso sempre, non senza una punta d'orgoglio. Non era facile capire quali fossero le trame abbastanza convincenti da tenere Crowley attaccato alle pagine: doveva esserci sempre un mix di azione, misto ad una bella coltre di mistero e qualche punta (solo un briciolo, sia mai) di romanticismo. Era la ricetta del libro perfetto per lui.


Spostandosi, Aziraphale si imbatté nella pozza nerastra davanti all'ufficio - sempre che tale potesse considerarsi - e si bloccò di fronte a l'unico evidentissimo difetto di quel luogo pulito e figurativamente immacolato. Il demone glielo aveva accennato durante il viaggio e la cosa lo aveva scombussolato non poco: un'altra di quelle cose che doveva sforzarsi di buttare nel dimenticatoio, nonostante sapesse che difficilmente la sua mente glielo avrebbe permesso. E dire che glielo aveva dato lui quel thermos dopo anni ed anni ed anni di ripensamenti, rimuginamenti e dubbi. L'idea che alla fine avesse effettivamente svitato quel tappo per difendersi gli aveva fatto venire la nausea, portandolo inevitabilmente a pensare a cosa sarebbe successo se avesse continuato a rifiutare di consegnargli quell'arma mortale - la pillola del suicidio, come la chiamava lui.

Si poggiò ad un muro senza neanche rendersene conto, cercando di non guardare l'uscio di quella stanza che altro non era che una specie di scena del crimine. E dire che se qualcosa fosse andato storto-

Registrò il suono di qualcosa che veniva poggiato sul tavolino davanti al divano, il suo sguardo perso verso un punto non ben precisato del pavimento. Di nuovo si sentì distaccato, distrutto, assente, come se qualcuno gli avesse metaforicamente staccato la spina. D'un tratto voleva tornare a casa sua, quella che era crollata mangiata dalle fiamme. Voleva staccarsi da quel vuoto che somigliava troppo al bianco e alla desolazione del Paradiso per tornare al familiare disordine pieno di libri e odore di pagine stampate. Per la prima volta nella sua esistenza si rese conto di non avere più una pista da seguire e sentì l'urgenza delle parole ancora irrisolte che riposavano piegate sul foglietto nella sua tasca. Avevano mandato all'aria ciò che le due fazioni sulle quali si poggiava la Terra aspettavano da sempre. Erano in mezzo a qualcosa di troppo grande per loro due soli e non sapevano come uscirne. E se non ne fossero mai usciti? E se non avessero mai capito quello che dovevano fare?

E avrebbe rischiato di non sentire più la voce che, si rese conto adesso, lo stava chiamando. E avrebbe rischiato di non sentire più quelle mani fredde ma amorevoli che adesso si erano attanagliate alle sue, stringendole così forte da far male. Quella era la sua vera preoccupazione, il suo vero incubo, l'unica cosa che reputava peggio della fine del mondo.

Si sedette sul divano, non sapendo come avesse fatto ad arrivarci in primis. Era terribilmente scomodo e gli parve di poggiarsi su una fredda lastra di marmo.

    «Tu non stai bene» gli stava dicendo Crowley tra il nervosismo e la preoccupazione. «Sei stanco e ansioso, lo so. Credimi: so cosa si prova» disse con fermezza, la presa salda sulle sue dita. 

    Scosse la testa: aveva solo bisogno di un attimo per riprendersi, tutto qui. «Non fa niente» disse in un sussurro. 

    Le mani dell'altro fecero uno scatto innaturalmente veloce verso le sue braccia. Sembrava volesse strappargli la giacca tanta era la foga di quel gesto. «Smettila di mentirmi!» Esclamò sull'orlo della rabbia. «Sei pessimo a mentire, te l'ho già detto. E poi sai che io non ci casco, perciò perché ti ostini a farlo?» 

Aveva alzato la voce e Aziraphale sentì ogni singola fibra del suo essere fuggire spaventata. Ora più che mai avrebbe voluto cercarsi un angolino dove andare a versare il pianto che ormai sentiva salire ogni secondo di più, sempre più inarrestabile. Strinse gli occhi d'istinto, combattendo contro le lacrime e ricacciandole indietro perché sapeva che altrimenti lo avrebbero consumato. 

Era buono solo a far preoccupare Crowley, a deluderlo, a renderlo triste, a farlo arrabbiare... L'unico modo che conosceva di spronarlo era ignorare il suo dolore o dirgli che non gli avrebbe parlato mai più. Bell'amico era.

    «Scusa...» fu l'unica cosa che riuscì a dire. Era una richiesta di perdono troppo piccola per tutti gli anni di insicurezza che aveva causato, e lo sapeva fin troppo bene. Non meritava perdono, pensò. A dirla tutta non meritava neanche tutte quelle attenzioni, eppure...

    Il demone si mise a sedere accanto a lui, tornando ad intrecciare le dita con le sue in una presa stretta ma decisamente più calma, come se quell'unica parola avesse contributo a placarlo. «Ascolta. Ti giuro su- beh, chi ti pare, che risolveremo la questione e non sarai più costretto a nascondere niente. Va bene?»

C'erano tante parole nascoste in quell'affermazione e l'angelo le sentì tutte. Sentì tutti i: "lo so".

"Lo so che quando mi allontani lo fai solo perché hai paura". 

"Lo so che non vuoi dire le cose cattive che dici sempre".

"Lo so quando intendi davvero qualcosa e quando no" . 



"Mai promettere cose di cui non si è sicuri" avrebbe voluto dire, ma era troppo stanco per ribattere. Quelle parole, poi, gli erano calate addosso come un plaid in pieno inverno, sciogliendo i nodi che gli si erano formati nello stomaco.

Annuì semplicemente.

    «Mi guardi?»

Si voltò venendo investito dallo sguardo aureo, ora scoperto, che non aveva mai smesso di fissarlo come fosse chissà quale curiosità degna di nota o - in quel caso - come se la semplice osservazione potesse avere il potere di richiudere le ferite. 

    «So a cosa stai pensando e devi smetterla. Andiamo, sei tu quello ragionevole qui: sai meglio di me che non arriveremo mai a capire cosa dobbiamo fare se abbiamo la testa in altro.»

Ed aveva ragione. Aveva ragione da vendere.

    «Anzi,» continuò Crowley, «inizio io dicendoti che non volevo urlare. Ho l'ansia che mi sta mangiando e una voglia tremenda di fermare tutto e darmi alla disperazione» confessò in un soffio.

    Aziraphale annuì di nuovo, stavolta pensando ad una risposta. «Lo so, immagino». In quanto a sé non aveva molto da dire. Crowley ci aveva preso con l'ansia e la stanchezza, perciò non avrebbe avuto senso rimarcare la cosa. Se ne uscì con un debole: «Anche io.»

Si concentrò sulle loro mani unite per un attimo, cercando di raccogliere le forze necessarie per affrontare quello che era ora il fulcro dei loro problemi. Osservò i loro palmi dolcemente poggiati l'uno sull'altro, le loro dita legate tra loro come in un abbraccio, un'unione, una serie di nodi stretti ed estremità che si confondevano e si mescolavano tra loro.

Pensò alla facilità con la quale si erano sempre parlati, uniti, aiutati. Pensò a quanto ormai fosse diventato facile per loro leggersi, capirsi, e a quanto sarebbe stato bello farlo senza limiti o restrizioni. 

Pensò a quanto fossero sempre stati strani, fuori dagli schemi. Pensò a quanto fossero diventati dipendenti l'uno dalla vita dell'altro, di come il tempo li avesse avvicinati e allontanati e riavvicinati e- ormai, si disse, sarebbero potuti agilmente scivolare l'uno nelle abitudini dell'altro con la stessa facilità con la quale si entra e si esce da una stanza.

Fu allora che tutti i pezzi andarono ognuno al proprio posto e una lacrima scivolò sulla sua guancia, andando ad infrangersi in un punto non ben precisato della nera pelle del divano.

Gli venne un'idea.

Potevano ancora uscirne vivi.


•°•°•


Avevano delineato ogni singolo dettaglio. Crowley li ripassò nella sua mente per la centesima volta, osservando distrattamente il cielo che cambiava fuori dalla finestra.

Il mattino sarebbe arrivato, salutando un giorno che - fino a qualche ora prima - il demone non avrebbe mai sperato di vedere. 

Erano state le giornate più lunghe ed estenuanti della sua esistenza, e valeva per entrambi. Il carico era stato tale da ridurli in briciole, cosa che non credeva possibile - davvero. Soprattutto per quanto riguardava Aziraphale: quell'angelo era testardo in ogni possibile senso; era assurdo pensare che potesse crollare di fronte a gli eventi. Non aveva ceduto durante i momenti più bui della storia, non aveva ceduto davanti alle loro incomprensioni - e ce n'erano state tante - non aveva ceduto alle pressioni del Paradiso... Era dovuta arrivare la fine del mondo perché, finalmente, barcollasse. 

Aveva pianto tanto durante la notte. Aveva pianto anche dopo aver deciso quello che avrebbero dovuto fare e aveva ininterrottamente chiesto scusa per cose delle quali non era nemmeno il colpevole diretto - e lo sapeva. E Crowley non aveva potuto fare altro che tenere quel fagottino di ansia e preoccupazione vicino, stretto, così tanto che nessuno avrebbe mai potuto portarglielo via. Perché era suo. Suo, suo e di nessun altro.

Nessuno gli avrebbe più fatto del male.

Nessuno gli avrebbe più fatto dire cose che non voleva.


In quanto a sé stesso, beh: il demone sapeva bene di aver bisogno di uno sfogo a suo volta; uno di quelli potenti che ti lasciavano senza fiato e senza lacrime. E lo avrebbe avuto.

Avrebbe mandato l'Inferno a quel paese e sarebbe corso dal suo angelo sapendo di trovare quelle morbide braccia aperte e quelle spalle pronte ad accoglierlo, così come le sue stavano ora accogliendo quei bei riccioli candidi e quel dormiente volto rilassato - steso nell'aria leggera che precedeva gli uragani, nell'acqua calma che si preparava a gli tsunami.

Avrebbero ribaltato lo schema che si ripeteva sempre uguale da eoni, dimostrando che c'è sempre un'alternativa, una via secondaria, un'uscita di sicurezza. C'era sempre qualcosa oltre a gli estremi in mezzo ai quali quel piccolo ma sorprendente mondo si ergeva.

L'alba sarebbe sorta e loro avrebbero cambiato le regole, si sarebbero curati le ferite e avrebbero scritto una storia diversa. Avrebbero fatto qualcosa di buono, ne era sicuro; o qualcosa di terribilmente sbagliato: dipendeva solo dai punti di vista.


Per il momento, Crowley decise di poggiarsi su colui che aveva sperato - pregato, quasi - di avere accanto per tutta la notte. Se c'era una cosa che avrebbe potuto fargli venire un esaurimento nervoso, era il restare solo con il casino che aveva in testa e ciò che lo aspettava al di fuori delle familiari mura del suo appartamento.

Ma Aziraphale non lo avrebbe mai fatto, non più. Sarebbe rimasto lì e - non appena tutto quel casino fosse passato - lo avrebbe affiancato sempre, in ogni situazione. Lo avrebbe tirato su, avrebbe ricambiato i favori, e i pranzi, e le cene. 

E lo avrebbe accompagnato a casa nel cuore di tutte le notti a seguire.


Anzi, no. Non ce ne sarebbe stato bisogno.

Perché "casa" non è un ammasso di muri bianchi e piastrelle pulite, no. "Casa" è fiducia, amore, affetto.

"Casa" era quel bel volto rotondo, dolcemente poggiato contro la sua clavicola.


E quelle piccole pozze di ciel sereno ora dolcemente chiuse, sarebbero sempre state l'ala sotto al quale ripararsi quando fuori pioveva.

•°•°•

Fine

   
 
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