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Autore: MaxB    14/02/2022    0 recensioni
Buongiorno! Dopo aver visto Arcane, in cui il rapporto tra Silco e Jinx mi ha letteralmente ossessionata, ho sentito il bisogno di scrivere un approfondimento sul loro legame, da quando si incontrano/scontrano in mezzo alle fiamme a quando Jinx diventa ciò che è.
Pertanto, saranno 14 capitoli in ordine temporale, missing moments che a mio parere potrebbero aver portato alla "creazione" di Jinx e all'affezione illimitata di Silco. Mi sono documentata bene quindi i capitoli saranno pieni di dettagli che, spero, possano spiegare diverse cose della serie e dare un contesto a come altre si sono venute a creare.
Esperimento: ho associato ad ogni capitolo una traccia musicale della colonna sonora della serie (sono 11 in totale + 3 extra da me scelte), che andrebbe ascoltata leggendo quello specifico capitolo (se ne avete voglia). In ogni caso, il capitolo e il suo titolo contengono riferimenti della canzone in questione.
Aggiornamento ogni 10 giorni circa. Spero che, se amate Jinx e Silco come me, possa piacervi questa raccolta.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ekko, Jinx
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Ciao a tutti, e grazie per essere arrivati al capitolo due! Prende luogo pochi giorni dopo la fine dell'episodio/atto III.
Jinx e Silco imparano pian piano a conoscersi e interagire, mentre intanto l'instabilità di Jinx fa capolino, iniziando a renderla ciò che è davvero (e che io amo nonostante sia un personaggio malato e fuori di testa e, tecnicamente, anche cattivo). Preciso che i nomi che ho usato per gli scagnozzi di Silco me li sono inventati di sana pianta perché non li ho trovati da nessuna parte, sinceramente. La questione della stanza di Jinx invece verrà trattata meglio più avanti, man mano che lei e la sua personalità cresceranno.
Spero tanto che possa piacervi il capitolo^^ E grazie ancora se leggerete.
PS: la canzone di Sting e Ray Chen, quella che conclude la prima stagione, è fenomenale.

2. Painful memories (I am the monster you created)


What could have been - Sting ft Ray Chen, track 11
 
I am the monster you created
You ripped out all my parts
And worst of all, for me to live, I gotta kill the part of me that saw
That I needed you more
 
I hope you know we had everything
When you broke me and left these pieces
I want you to hurt like you hurt me today and
I want you to lose like I lose when I play What Could Have Been
Oh, What Could Have Been

 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~ 
 
Odiava quella camera. La sua camera. Quella che aveva condiviso con sua sorella e con i fratelli adottivi.
Una volta avrebbe fatto carte false per avere più spazio. Non troppo, non le serviva la stanza intera. L’avrebbe condivisa con Vi, ma solo con lei. In due andava bene, in quattro si stava stretti.
Invece ce l’aveva tutta per sé da diversi giorni, e la cosa la tormentava. Le memorie la tormentavano. L’assenza, la mancanza, il vuoto in quegli angoli in cui avrebbe dovuto esserci Mylo che provava a scassinare qualcosa, o Claggor che mangiava cercando di non farsi vedere, o Vi che si allenava da sola o contro il muro.
Il silenzio l’assordava, soprattutto di notte. Quante volte si era lamentata del russare di Claggor o dei grugniti di Mylo? Però erano rumori che avrebbe rivoluto indietro. Rumori di vita. Anche di giorno non c’era mai silenzio, c’era sempre qualche scaramuccia, Vi che lanciava ordini, o Piccoletto, Ekko, che blaterava in continuazione di qualche novità o qualche informazione rubata da Benzo; o Vander, che scendeva a scambiare due chiacchiere, o portava loro qualcosa da mangiare o da bere quando non li vedeva per diverso tempo, per accertarsi che stessero bene e non si stessero nascondendo da lui per qualche malanno che non volevano confessargli.
Le pareva di impazzire. Non sopportava il silenzio, ma non sopportava nemmeno quando arrivava la sera e il locale si riempiva di rumori. Allora urlava, strepitava, certa che con la musica alta nessuno l’avrebbe sentita. Piangeva, si era anche strappata alcuni capelli nella foga, aveva scagliato lontano le sue bombe inutili e non funzionanti. Poi le aveva riassemblate. Distrutte di nuovo.
Sembrava che non sapesse fare altro che rovinare, cercare di rattoppare per poi rompere nuovamente. Era brava solo a disfare e causare danni.
E quello aveva fatto. Aveva scagliato contro il muro qualsiasi oggetto appartenuto a Vi, Mylo e Claggor. Tanto non sarebbe venuto nessuno a reclamarli. In fondo in fondo, era proprio quello il suo desiderio: che tornassero a sgridarla, a insultarla, a dirle che portava sfortuna. Non importava, se ciò avesse significato averli di nuovo lì.
Sentiva un ronzio nella testa, un fastidio che si accentuava quando era da sola. Socchiudeva gli occhi, ma quel fischio non se ne andava. Sembravano voci, lamenti, come quando il vento soffiava troppo forte contro le imposte creando una specie di urlo umanoide.
Alla fine, per terra rimasero solo pezzi smembrati di oggetti irriconoscibili. Nessun effetto personale degli ex coinquilini. Si erano salvati solo il grammofono e le sue cose, quelle che non aveva toccato e quelle che era andata a recuperare dal luogo dell’esplosione.
Pensavano che fosse crollato tutto, ma qualche mattone si ergeva ancora. C’era spazio nel punto in cui Silco aveva pugnalato Vander, non abitabile, ma aveva trovato degli oggetti interessanti, oltre ad aver ripescato il pupazzo di Vi, la sua valigetta e il resto.
Nessuno le aveva chiesto dove fosse stata. Nessuno era andato a vedere da dove provenisse tutto quel trambusto in quella stanza. Silco le lasciava molta libertà.
Silco. L’uomo che aveva ucciso la sua famiglia. Indirettamente. Direttamente, li aveva uccisi tutti lei.
Poco importava cosa avesse fatto lui: a lei non aveva arrecato alcun danno. Si assicurava che mangiasse, le aveva lasciato la stanza, le aveva detto che poteva continuare a considerare il Last Drop casa sua. Non le avrebbe chiesto nulla in cambio. Era stato… generoso. Clemente, anche.
L’aveva chiamata Jinx. Ma non come gli altri. Non come Mylo. Non come Vi. Da come l’aveva detto lui, era sembrato un complimento. Era come se… fosse un potere. Un’arma. Le era piaciuto quel nome pronunciato da lui. Una promessa, non un nome. Stava cercando di adattarsi ad esso, a non considerarsi più Powder, ma Jinx.
Non era facile. Soprattutto con quel silenzio. Con quel rumore.
Si scagliò contro i frammenti di metallo e altre parti non identificate di vecchi oggetti, come se potesse servire a qualcosa.
Poi capì. Quando si fermò, con il respiro affannoso che le rimbombava nelle orecchie, comprese.
Quel ronzio, quel fischio, come lo si voleva chiamare, quel sussurro di tempesta… erano voci. Che cercavano un corpo. Una bocca.
Prese in mano un pezzo di metallo liscio e squadrato. Andò al suo angolo di lavoro.
Prese la saldatrice.
 
Il giorno dopo fissò con occhi arrossati dal sonno la riproduzione quasi perfetta di Mylo, il pupazzo cicciottino di Claggor e il peluche di Vi. Per strada aveva recuperato anche gli occhiali di Claggor, che si adattavano perfettamente al viso del nuovo proprietario.
E finalmente le sentì, le voci.
I pupazzi le parlavano. I sussurri divennero parole. Poi frasi. Discorsi.
Condanne.
Jinx si inginocchiò. Mylo la fissava con odio. Claggor con rassegnazione. Il peluche era… depresso.
Ce l’avevano con lei. La incolpavano.
Jinx si prese la testa tra le mani, pianse, urlò.
Aveva creduto che sarebbe stato meglio risentire le loro voci. Ridare loro una forma. Riaverli indietro.
Invece non li voleva. Voleva che morissero del tutto. Erano già morti, sì, ma allora perché le loro anime le davano la caccia? Cosa volevano da lei? Non li aveva mica uccisi apposta!
- Volevo solo aiutare! – gridò loro. – Siete stati voi stupidi a lasciarmi indietro. Avete visto cos’ho fatto! IO VI HO AIUTATI!!
Tirò un calcio al divano, si fece male, quasi non lo sentì.
Non aveva dormito per tutta la notte, aveva lavorato ininterrottamente. Si sentiva le palpebre pesanti, gli occhi talmente gonfi di sonno e secchi che le sembrava di avere carta vetrata sotto pelle.
Si sentiva sola.
Aveva ricreato i suoi amici, i suoi fratelli, la sua famiglia, perché le tenessero compagnia. Ma loro si rifiutavano.
La condannavano.
- Sono Jinx, non Powder! Jinx! Smettetela!
Si sbatté la porta alle spalle. Era pomeriggio. Quando aveva mangiato l’ultima volta? Aveva fame?
Il bar avrebbe aperto a breve. Dietro il bancone c’era già il barman a lucidare i bicchieri. Il barman… un fedele amico di Vander, che si alternava a servire i clienti. Non se n’era andato, era rimasto a lavorare lì. Aveva barattato lealtà e onore con i soldi. Con la paga. Aveva una famiglia da mantenere, l’aveva sentito dire ad altri amici di Vander, fuori in strada. Il rimpianto e l’attaccamento ad un morto non retribuivano. Non poteva lasciarsi sfuggire quel lavoro.
Piccolo verme voltafaccia e arrivista. Era sempre stato gentile con lei, ma non gli avrebbe lasciato infangare la memoria di Vander. Gliel’avrebbe fatta pagare.
Non gliel’aveva forse promesso, Silco? L’avrebbero fatta pagare a tutti.
Esitò davanti al suo ufficio.
Aveva visto come poteva mutare il suo umore. Da soddisfatto, in una manciata di secondi poteva ordinare di pestare a sangue qualcuno oppure congratularsi per un lavoro ben eseguito. Sevika e il dottor Singed erano sopravvissuti. Menomati, segnati, ma erano vivi. Silco aveva già trovato un nuovo laboratorio per il dottore, gli aveva dato dei soldi come “incentivo” affinché si rimettesse subito al lavoro sullo shimmer. Il dottore era libero di portare avanti qualunque ricerca volesse, fintanto che lavorava per lui e ricreava quella droga dopante. Silco voleva metterla in commercio. Ci avrebbe ricavato parecchio, diceva. Le dipendenze fruttano sempre.
Con lei, comunque, non era ancora stato cattivo.
Bussò.
La sua voce profonda, da uomo grande come Vander, le disse di entrare.
- Ah, sei tu – l’accolse senza inflessione.
Sevika era accanto a lui. La squadrò con indifferenza, chiedendosi forse perché Silco non si fosse ancora sbarazzato di lei, una piccola nullità. Il braccio sinistro le era stato amputato. Dalla spalla spuntava un moncherino in via di guarigione che lei copriva con un mantello.
- Vai pure – la congedò Silco, continuando a controllare delle carte senza degnare Sevika di uno sguardo.
La donna la sfiorò uscendo, la guardò dall’alto. Non le piaceva. Non si piacevano.
Quando si fu richiusa la porta alle spalle, Silco parlò. – Non hai mangiato né ieri sera né oggi. Ci sono modi migliori per morire che lasciarsi andare alla fame. Ma nel tuo caso, mi sembra uno spreco.
Il suo stomaco traditore brontolò.
Dieci minuti dopo era seduta di fronte a Silco a trangugiare un bicchiere del suo succo preferito e un piatto fumante di carne.
Silco la osservava in silenzio. La studiava.
Prese poi uno strano oggetto cilindrico, anzi, due, e li assemblò. Si girò sulla sedia, dandole le spalle, occultandosi alla sua vista.
Lo sentì gemere, ributtare l’oggetto di nuovo separato sulla scrivania, stringere i pugni.
Lei continuò a mangiare.
L’ambiente era cambiato radicalmente nel giro di pochi giorni. Silco aveva trasformato la camera di Vander nel suo ufficio, comprensivo di divani in pelle per i ricevimenti, una solida scrivania, una sedia simile ad un trono e armadi pieni di scartoffie. Tappeti, anche. Sembrava molto più… professionale, rispetto a prima. Quella che prima era stata l’armeria, la stanza adiacente, era diventata la camera di Silco. Sobria, spartana, un letto matrimoniale, uno specchio, un armadio. Lì doveva dormirci, nulla più. Il luogo che più gli apparteneva era indubbiamente il suo ufficio.
Silco guardò fuori dalla grande vetrata mentre lei finiva di mangiare. Sembrava piacergli quella vista che dava sul centro, sui vicoli principali. Sul cuore della Città Sotterranea. Di Zaun, come la chiamava sempre lui.
- Ho molte cose importanti di cui occuparmi. Non posso badare ai tuoi pasti.
Silco si girò di nuovo verso di lei, lo sguardo affilato come un rasoio, la voce dura e inflessibile di chi è abituato a comandare.
- Vedi di mangiare come si deve da ora in poi. Cosa sei venuta a fare qui?
Lei non si lasciò intimidire dal suo tono. Accantonò il piatto. Sapeva che, se avesse voluto, l’avrebbe già sbattuta fuori. Per quanto contorta, quella domanda era una specie di incoraggiamento. Lui era interessato.
In sua presenza le risultava più facile pensare a se stessa come Jinx. Era come una pelle nuova che indossava solo con lui, ma che presto forse avrebbe potuto interiorizzare.
Jinx finì di bere, continuò a guardarlo. Silco non era l’unico a studiarla, in quella stanza.
- Non voglio più stare in quella camera.
Silco sollevò le sopracciglia, come se fosse sbalordito, in senso negativo, che lei fosse andata a disturbarlo per una simile inezia. L’espressione era annoiata. Jinx si chiese se simulasse appositamente le facce che faceva, per mostrare di avere il pieno di controllo di tutto e di essere al di sopra di chiunque, o se fosse davvero il suo carattere così.
- Conosci questo posto meglio di chiunque. Sceglitene un’altra.
- Non…
Jinx lo capì nel momento in cui aprì a bocca per dirglielo. Aveva sempre condiviso la stanza con qualcuno. Sempre. Mai aveva desiderato di averne una solo per sé. Per lei e la sorella, sempre. Uno dei suoi primi ricordi da bimba era la condivisione del letto, della camera, con Vi.
Lei la proteggeva dai mostri. Le diceva che con lei accanto non avrebbe avuto nulla da temere. Era vero, non le era mai successo nulla con Vi accanto. L’aveva sempre protetta.
Finché non se n’era andata.
Jinx era il mostro che lei aveva creato. Ciò che era rimasto dopo che aveva strappato tutte le sue parti, rompendola e lasciandone lì i pezzi.
- Non voglio stare sola. Mi… fa paura.
Silco sospirò, come se trovasse un peso doversi occupare di una ragazzina piagnucolante che aveva paura della solitudine. Dei suoi fantasmi.
- In questo piano non saresti sola. È un bar, per la miseria, è pieno di gente. Vuoi una camera accanto alla mia? Prenditela, ce ne sono due vuote.
Jinx lo scrutò con la testa chinata, come un cucciolo che teme di avvicinarsi ma vorrebbe tanto farlo. Appoggiò la testa sulla scrivania, lontana dal piatto.
Vander le preparava sempre il suo succo preferito quando la vedeva così.
Silco, invece, si strofinò la faccia. Di solito i cuccioli abbandonati si raccoglievano e si portavano a casa quando si era piccoli. Ed erano animali. Com’è che aveva deciso di adottare una bimbetta proprio lui, proprio a quell’età?
Poi vide i suoi occhi rossi.
- Da quanto non dormi?
Jinx nascose il viso. – Non lo so. Da un po’ – biascicò.
Era esausta.
Silco scosse la testa. – Non ho più appuntamenti per oggi, ma ho ancora del lavoro da fare. Se non mi stai tra i piedi e non mi disturbi, puoi metterti su quel divano. D’accordo?
Jinx si raddrizzò subito, come un giocattolo a cui fosse scattata la molla.
- Vado a prendere le mie cose.
Schizzò fuori dall’ufficio prima che Silco potesse ribattere. Strinse il pugno. Se lo vedevano con quella ragazzina che giocava lì potevano additarlo come un debole. Non aveva ancora diffuso lo shimmer, gli zauniti ancora non dipendevano da lui, non riconoscevano il suo potere, il suo governo, erano ancora arrabbiati e scossi per la morte del loro protettore. Di Vander. Gli stavano già facendo una statua non distante da lì, un monumento creato con gli scarti di quella città maleodorante.
Finché nessuno avesse visto come cedeva per Jinx, però, sarebbe andato tutto bene.
E lui non poteva ignorare lo sguardo di fiducia, di speranza e di paura nei suoi occhi limpidi di bambina. Si attaccavano a lui con gli arpioni, come se fosse un’àncora.
Era una bella sensazione.
Jinx tornò con un ammasso di ferraglia, un peluche e un pupazzo. E la cornice con la foto di Vander e degli altri che aveva portato via da lì quando Silco aveva iniziato a riarredare.
Silco sospirò di nuovo. – Vedi di portare via tutto entro domani mattina. Non è possibile che trovino qui quelle bambole.
Jinx strinse le labbra e annuì. Si sistemò sul divano, in silenzio.
Silco riprese le sue scartoffie. Tracciò segni sulla mappa di Zaun che stava completando, stesa sulla scrivania. Zaun, non la Città Sotterranea. Non l’ombra di Piltover, non il suo bidone dell’immondizia. Una nazione vera. L’avrebbe ripetuto finché la gente non si fosse dimenticata come la chiamava prima di lui. Cosa c’era, prima di lui.
Fatture, registro dei conti. Da quando aveva introdotto un po’ di permissivismo in quel bar, i profitti erano aumentati. Andava meglio del previsto. Il dottore era tornato al lavoro. Debole, rallentato, ma era cosciente, e aveva voluto subito cominciare a studiare una variante medicinale dello shimmer che sarebbe stata utile anche a lui. Tanto meglio, se aveva una motivazione lavorava con più impegno. Anche Sevika era operativa. L’aveva sorpreso. Non aveva voltato le spalle a Vander da molto, quando lo aveva salvato dall’esplosione al conservificio. Non se lo sarebbe aspettato da lei. Da nessuno, a dire il vero. In situazioni di morte imminente, la lealtà crollava, rimaneva solo un primordiale e incontrollato istinto di sopravvivenza.
Era ben consapevole del gesto di Sevika. Le doveva la vita. L’avrebbe ripagata adeguatamente, era indubbio.
I cani andavano tenuti al guinzaglio, ma quando si tirava troppo si rischiava che si rivoltassero. Ogni tanto bisognava dar loro un contentino, soprattutto a quelli più fedeli e promettenti.
Silco alzò lo sguardo su Jinx. L’aveva sentita bofonchiare a bassa voce fino a pochi minuti prima, muoversi discretamente, giocando. Ma da un po’ era in silenzio.
Dormiva sul divano, abbracciata ai suoi giocattoli.
Silco si appoggiò alla sedia, o poltrona, o trono, comunque la si volesse chiamare. In qualche modo contorto, la vista di Jinx al sicuro gli iniettava un’ondata di pace liquida nelle vene. Lo rilassava vederla tranquilla. Protetta.
Non conosceva l’origine di quelle sensazioni. Che fosse dovuto al fatto che lei, come sua sorella, era stata la figlia di Vander, a cui era ancora malauguratamente legato? No, non era possibile. Aveva voluto uccidere Vi e quegli altri due. Non c’entrava niente il sentimentalismo.
Era come se… sentisse che Jinx era speciale. Come se il suo arrivo, il loro incontro, avesse colmato un buco che Silco non sapeva di avere, dritto nel petto. Sapeva di dover essere accorto, di essere un funambolo che reggeva un’asta precaria su un filo fin troppo sottile e affilato. Se si fosse rammollito avrebbe perso tutto. Ma se si fosse dimostrato troppo duro con Jinx, sentiva che qualcosa di peggiore sarebbe accaduto a lui.
Si alzò, le andò vicino.
La foto di Vander e dei suoi amici. Un pupazzo cicciottino con degli occhiali. Il peluche di un coniglio. Una bambola gigante con dei capelli ingestibili, interamente fatta di metallo. I dettagli erano impressionanti.
Dove aveva trovato dei simili giocattoli?
Un sopralluogo nella sua vecchia camera gli fornì la risposta: li aveva creati lei. Di recente. Il pavimento era disseminato da resti di vecchi oggetti scomposti e riassemblati, alcuni abbandonati, altri incompleti. Silco si chinò per toccare una macchia di sangue su un pezzo di metallo. Si sporcò le dita. Era fresca. Li aveva costruiti prima di andare da lui. Non aveva dormito per quello.
Una mente geniale. In qualche modo lo aveva sempre saputo. Jinx era speciale.
Tornò da lei. Non si era mossa.
Gettò la testa indietro, chiuse l’occhio buono, riflettendo. Più del momento della morte di Vander, sentiva di essere arrivato ad una svolta epocale. Lì, in quell’istante, con quella ragazzina addormentata sul divano.
Riaprì l’occhio e osservò ciò che il sinistro aveva già captato. Un soffitto alto, con delle travi metalliche robuste. Un ampio spazio dritto sopra la sua testa.
Non le piaceva stare da sola, no?
Silco tornò alla scrivania, calcolò le spese e il tempo di esecuzione.
Era quasi mattino quando accusò la stanchezza. Jinx non si era mossa dal suo divano, placida in un sonno ristoratore e probabilmente senza sogni.
In qualche modo, gli sembrò sbagliata l’idea di alzarsi e andare a letto per qualche ora. Non con Jinx lì da sola. Era iniquo.
Andò a prenderle una coperta, gliela mise addosso. La vide rilassarsi nel sonno.
Silco si ritrovò a sorridere lievemente.
Stupido. Doveva essere la stanchezza.
Si rimise alla scrivania, avrebbe lavorato un altro po’.
Invece si addormentò lì, su quella sedia, in una posizione scomodissima. Eppure dormì bene.
Quella notte, per la prima volta, anche Silco non era solo.
 
Jinx non si fece vedere per tutto il giorno successivo.
La mattina Silco l’aveva svegliata dicendole che aveva delle riunioni a cui prendere parte, che i Baroni Chimici che gli avevano dato appoggio volevano essere ragguagliati, volevano essere sicuri che i soldi che avevano investito fruttassero.
Le aveva detto di tornare la sera, e intanto di raccattare la roba che voleva portare con sé.
- Perché? Dove mi mandi?
- Non ti mando da nessuna parte. Non volevi cambiare camera? La tua mi tornerà utile come privé, frutterà diversi soldi d’affitto.
- Trasloco? E dove?
- Te lo mostrerò a tempo debito. Ora vai. E fai colazione.
Aveva chiamato due o tre uomini nerboruti a cui si era sempre rivolto per qualche lavoretto di forza. Erano come dei tuttofare, all’occorrenza guardie e buttafuori, ma sapevano il fatto loro in quanto a costruzioni.
Aveva spiegato loro il progetto, nulla di complicato, solo qualche trave di legno sul soffitto, una specie di alcova. Poi lui era andato al meeting con i Baroni Chimici, incaricando Mome di pagarli all’uscita.
 
Quando tornò, Jinx era già nel suo ufficio, seduta sulla sua sedia. Avrebbe considerato quel gesto un affronto da parte di chiunque altro, ma non da lei. Stava armeggiando con qualcosa, ignara di aver occupato un posto che più che una poltrona era un simbolo.
Il bar aveva già aperto, l’odore di fumo e corpi nel salone era penetrante quanto quello delle strade, gli era rimasto addosso nonostante non si fosse trattenuto all’entrata. Aveva voglia di un sigaro, ma prima doveva parlarle.
Si tolse il soprabito.
 - Chi ti ha fatta entrare?
Jinx lo guardò con espressione inebetita. – Entrare dove? Qui? Nessuno. Sono scesa dal soffitto. C’è un’entrata nel sottotetto, ci andavo sempre con…
La sua voce si spense sulla fine, ricordando cose dolorose, tenere memorie che ormai sapevano solo di cenere.
Si riprese subito. – Cos’è quella cosa lassù? Non c’è mai stata, e nemmeno ieri c’era, ne sono sicura.
Silco piegò un angolo della bocca in un ghigno. – Camera tua può tornarmi utile per certi… affari. Sbaracca entro domani.
Jinx spalancò gli occhi. Sembrava sull’orlo del pianto.
- M-ma… camera mia… Allora dove andrò? Vuoi mandarmi via anche tu?!
In preda all’isteria, saltò oltre la scrivania con un’agilità insospettabile e gli si fiondò contro. Questa volta Silco non si fece cogliere di sorpresa: il suo slancio non lo buttò a terra. Rimase lì in piedi ad incassare quei piccoli pugni indolori da bambina.
Il suo era stato un tentativo di umorismo, una specie di sorpresa. Non si era reso conto che in Jinx la paura dell’abbandono offuscava persino la ragione. Ce l’aveva sotto gli occhi, la risposta, ma non l’aveva vista.
Le bloccò i polsi, l’allontanò per guardarla in volto.
- Hai detto che non vuoi stare sola – scandì, laconico. Poi indicò il soffitto. – Quella è la tua nuova camera. Comunicante con il mio ufficio, con me.
Jinx si bloccò all’istante, fissò il soffitto. Le lacrime continuavano a colare come se si fosse aperto un rubinetto. No, non aperto: rotto.
- Camera mia? Per me?
Silco stava per perdere la pazienza. – Di sicuro non per Darren.
Jinx sorrise, la tristezza scacciata via da una battuta che non voleva essere tale. Silco rimase impassibile, ma sentiva che il sorriso della ragazzina era pericoloso, contagioso.
Ed era pericoloso che lei passasse dal parossismo di un’emozione ad un’altra senza intervalli intermedi. Era come una batteria troppo carica, ogni tanto andava in cortocircuito.
Jinx lo abbracciò, liberandosi dalla sua stretta per avvinghiarsi a lui.
- Perché hai fatto questo per me?
Così poco abituato a quei contatti, Silco reagì al rallentatore come la prima volta che l’aveva vista. Sollevò le braccia lentamente, ricambiò l’abbraccio con impaccio, come se non sapesse bene come doveva mettere le mani.
- Ho idea che io e te possiamo esserci utili a vicenda.
Jinx annuì contro di lui. – Posso esserti utile. Sì!
Si staccò, osservò quello che fino a ieri erano le travi del soffitto e che invece erano diventate il pavimento della sua camera. Una camera tutta per lei. Ma non le faceva paura, con Silco così vicino. Tornò ad abbracciarlo. Non le importava se Silco era un nemico di Vander, se aveva contribuito all’uccisione della sua famiglia, se era un criminale.
Era buono con lei. Vedeva il buono in lei. La forza, non le stranezze.
- Glielo avevo detto, che potevo aiutare. Sapevo che potevo tornare utile. Invece non mi ha ascoltata.
- Lascia andare tua sorella. Lei non si è fatta tanti problemi a lasciar andare te.
Jinx annuì di nuovo, si asciugò il viso con la manica. Poi la spalmò sul panciotto di Silco, che trattenne a stento uno sbuffo.
- Vai a vedere com’è e portaci le tue cose. Devo davvero usare camera tua domani.
Come se le avesse fatto il regalo più bello della sua vita, Jinx si mise a saltellare. Silco si aspettava che uscisse per fare il giro fuori. Come aveva detto prima lei, nel sottotetto c’era davvero un’apertura, e quella sarebbe stata la sua entrata. Metterci una scala era fuori discussione, quello era il suo ufficio, non una sala giochi per bambini.
Invece Jinx si guardò intorno e, prima che lui potesse anche solo rendersene conto, si arrampicò fino alla soglia di camera sua.
Spalancò la bocca mentre lei si infilava nella camera, un piccolo ambiente con il soffitto basso.
Jinx la trovò perfetta.
Silco invece si rese conto che aveva più doti nascoste di quanto si aspettasse. Aveva scoperto da poco la sua età precisa, sette anni. Sette anni passati a star dietro alla sorella, una sorella che saltava di tetto in tetto e tirava più pugni di chiunque altro mentre lavorava per Vander.
Sua sorella se n’era andata lasciandogli in dotazione una ragazzina dotata di acume, a giudicare dalle bambole che aveva costruito, manualità, ingegno e atletismo.
Silco ghignò accendendosi un sigaro.
Sì, sarebbero davvero stati utili uno all’altra.
- Allora? Un po’ di gratitudine non guasta – disse, rivolto al soffitto.
Non ottenne risposta.
- Jinx?
Ancora silenzio.
- Jinx?! – urlò, preoccupato.
La porta si spalancò di colpo, facendolo trasalire. Si ricompose subito, maledicendosi per la debolezza mostrata con quello spavento.
Ma ad entrare fu solo Jinx, le braccia cariche di oggetti. Silco era basito.
- Sono io! – esclamò la ragazzina ridendo. – Jinx! – aggiunse, come per prendere confidenza con quel nome. Guardò il soffitto e poi gli oggetti. Le spalle si incurvarono. – Questi devo portarli su da fuori, non da qui.
Poco dopo Silco, con il sigaro acceso in mano da cui non aveva ancora fatto un tiro, la sentì muoversi sul soffitto.
Sì, decisamente quegli anni con la sorella le avevano fatto bene.
- Non c’è bisogno che ti dica che quando ricevo non devo essere disturbato, vero?
- No! – rispose lei, da qualche parte lì sopra.
Faceva più rumore di Darren ubriaco.
- Nessuno sa e deve sapere che sei lassù, chiaro?
- Certo! Non c’è la porta, ma so essere silenziosa come una scimmia ninja! Ehi, ma se io restassi qui e tu mi lanciassi gli oggetti da giù? Ho anche un grammofono bello grosso però, quello non credo che si possa lanciare.
Silco spense il sigaro ancora intatto, le mani sui fianchi.
Non ottenendo risposta, Jinx si sporse. – Non ti dà fastidio che io senta tutto quello dici da qui?
Silco alzò la testa, la solita espressione talmente seria da essere quasi disgustata dipinta in volto.
- Io confido nella lealtà dei miei uomini.
Solo la testa di Jinx spuntava dalle travi, ma a Silco sembrò di vederla gonfiare il petto d’orgoglio.
- Grazie per la camera.
Silco grugnì un assenso.
Qualcuno bussò, e la testa di Jinx sparì. Entrò Mome, silenziosa come al solito. Lanciò uno strano sguardo alle bambole di Jinx sul divano, poi tornò a fissare Silco.
Che però non parlò a lei, anche se la fissò con apatia.
Non importava cosa sarebbe potuto essere. Contava solo ciò che Jinx sarebbe potuta diventare con lui.
- Sono certo che saprai ripagarmi, un giorno.
  
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