Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Ricorda la storia  |       
Autore: _Pulse_    05/09/2009    4 recensioni
Videro una ragazza uscire dalla porta d’ingresso, uno zainetto in spalla, che si affrettava a infilarsi degli occhiali da sole e a coprirsi i capelli biondi scuri con il cappuccio.
«E tu chi sei?!», gridò subito Tom, scattato in avanti. Bill rimase piuttosto… incuriosito dal suo strano comportamento. Perché si era mascherata come se si dovesse nascondere?
«Nessuno!», portò le mani avanti, spaventata. «Adesso me ne vado.»
Ma non se ne sarebbe andata molto presto, sarebbe entrata nella loro vita e non ne sarebbe più uscita, che lo volessero oppure no.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ciao a tutti, eccomi di nuovo con un’altra delle mie ^^
[La posto comunque, anche se ne ho già due da mandare avanti, se no Samy sclera ahahah XD]
Questa ff che state per leggere deriva dall’unione di due idee diverse. Non vi anticipo nulla, dico solo grazie a Samy, che mi ha aiutata e che soprattutto mi ha ispirata. Grazie, un bacio.
Ringrazio già da subito le persone che leggeranno e che mi lasceranno qualche recensione; ricordo che io risponderò sempre e volentieri per ogni dubbio e chiarimento.
I Tokio Hotel non sono di mia proprietà (per mia enorme sfortuna, se no non sarei qui, fidatevi XD) e tutto quello che leggerete è frutto (o colpa) della mia fervida immaginazione (insieme a quella di Samy questa volta); ogni riferimento alla vita reale è casuale.

 

Capitolo 1

 

Davvero stressante, ma divertente. Erano questi i due aggettivi utilizzati dai gemelli Kaulitz per descrivere una tournee alla sua fine.

«Non vedo l’ora di tornare a casa», sbadigliò Tom, stiracchiandosi le braccia.

«Tom», lo rimproverò il gemello, guardandolo severamente.

«Che c’è?»

«Ti sei forse dimenticato di qualcosa?»

«Uhm… no, perché?»

«Scemo», gli tirò un coppino sulla nuca, facendolo lamentare. «Dobbiamo andare da mamma, te lo sei dimenticato! Gliel’avevamo promesso che appena avremmo finito tutto saremmo passati da lei!»

«Hai ragione, ma non mi meritavo una manata!», si massaggiò dietro il collo.

«Non ti lamentare come una femminuccia, non era nemmeno forte.»

«Questo lo dici tu», bofonchiò.

Dopo un paio di minuti la macchina scura li scaricò di fronte alla casa della loro infanzia, quella in cui erano nati e cresciuti, nella campagna e il silenzio più assoluto.
Videro una ragazza uscire dalla porta d’ingresso, uno zainetto in spalla, che si affrettava a infilarsi degli occhiali da sole e a coprirsi i capelli biondi scuri con il cappuccio.

«E tu chi sei?!», gridò subito Tom, scattato in avanti. Bill rimase piuttosto… incuriosito dal suo strano comportamento. Perché si era mascherata come se si dovesse nascondere?

«Nessuno!», portò le mani avanti, spaventata. «Adesso me ne vado.»

Passò in mezzo a loro, rimasti impalati dal suo comportamento, e si diresse velocemente verso un motorino nero e bianco, sul quale salì e scomparve alla loro vista.
Tom corse in casa, seguito da Bill, preoccupati per loro madre, e appena varcata la soglia notarono che c’era qualcosa di strano, tra cui un insolito silenzio.

«Mamma?», chiamò Bill, avanzando a passi incerti.

Sentirono dei passi al piano di sopra e poco dopo Simone scese le scale, il viso se non triste preoccupato e gli occhi arrossati, come se avesse pianto.

«Chi era quella ragazza? Ti ha fatta male? Era una stalker? Cosa voleva?»

Tom sembrava impazzito, era partito con la raffica di domande e nessuno più l’avrebbe fermato: a volte era peggio di Bill.

«Calmati, non è niente di quello che hai detto», lo fermò la madre, con un gesto della mano, per poi dirigersi in cucina.

«E… e… e allora chi era?»

«Si chiama Georgia.»

«Che cosa voleva?»

«È venuta a trovarmi», alzò le spalle.

«La conoscevi, quindi?»

«L’ho conosciuta oggi.»

«Io non ci sto capendo niente!», Tom si prese la testa fra le mani, rinunciando all’impresa, e si tuffò sul divano, il telecomando della tv in mano.

«Allora, mi spieghi sta storia?», chiese dolcemente Bill, sedendosi sul tavolo.

«È una storia molto lunga, caro.»

«Credo di avere tempo a sufficienza», sorrise.

«Senti…», mormorò appena, girandosi «… non ho molta voglia di parlarne adesso, ok?»

«Ok, ma non… piangere, mamma.»

«Scusa», si passò le mani sotto gli occhi e spazzò via le lacrime, che ancora una volta l’avevano sconfitta. «Vi dispiace se stasera vi arrangiate da soli? Non sto molto bene.»

«Va bene, se hai bisogno di qualcosa però non esitare a chiedere, eh», la rassicurò, Simone sorrise appena, abbracciandolo.

«Siete appena tornati, sono mesi che non vi vedo e mi faccio cogliere in questo stato, mi dispiace.»

«So che non è colpa tua.»

«Non vi preoccupate per me, sono solo un po’ stanca.»

Si staccò e salì in camera da letto, poi Tom si alzò dal divano e raggiunse il gemello, ancora lì in cucina, lo sguardo perso sul pavimento.

«Scoperto qualcosa di più?»

«L’unica cosa che ho scoperto è che dobbiamo ordinare una pizza.»

 

***

 

Si svegliò di buon ora, si mise a preparare una torta per i suoi figli che quella sera erano a rimasti a dormire lì, nella loro vecchia cameretta, e lasciò un bigliettino con scritto che usciva per fare delle commissioni e che sarebbe tornata per pranzo, dopodiché uscì e si diresse in un piccolo bar del centro.
Si mise seduta ad un tavolino ad aspettarlo, era sempre in ritardo quell’uomo! Lo era sempre stato, a dire il vero, ma ci aveva fatto presto l’abitudine. Erano anni che non si vedevano però, e doverlo aspettare ancora, quando era stato lui a chiederle di vederlo, la innervosiva parecchio.
Finalmente lo vide scendere in fretta dalla macchina e raggiungerla, contemporaneamente un cameriere chiese cosa volevano ordinare. Lei rispose un bicchier d’acqua, aveva già fatto colazione a casa e sinceramente non aveva voglia di mangiare, e lui prese un cappuccino, come ai vecchi tempi.

«È molto che non ci si vede, Simone», disse. Dal tono di voce sembrava ancora più nervoso di lei.

«E non mi sarebbe dispiaciuto rivederti in un contesto diverso.»

«Lo so, la mia non è stata la scelta migliore, ma…»

«Me l’hai mandata a casa senza nemmeno avvertirmi!»

«Cosa avrei potuto dirti? “Guarda, arriva mia figlia, che ho conosciuto una settimana fa, me la puoi tenere un attimo?”»

«Sicuramente sarebbe stato meglio di quello che è successo. Sembrava così spaesata, povero tesoro! Non sapeva nemmeno chi ero!»

«Non so se sia un bene per lei sapere chi sei, Simone.»

«Jörg, per favore!»

«Senti, Simone… Io ho bisogno di aiuto. Sai che lavoro faccio, esco la mattina all’alba e torno la sera, non posso badare a lei.»

«E io, un’estranea per lei, invece posso?»

«Non so a chi altro rivolgermi, Simone! Ha perso la madre due settimane fa, è stata spedita qui come un pacco postale, mi ha chiamato dalla stazione e io sono andato a prenderla, anche se non la conoscevo nemmeno. Non sapevo nemmeno che esistesse!»

«È tua la colpa, lo sai. È anche per questo che ci siamo separati, per le tue storielle.»

«Storielle o no, Simone, adesso le cose sono diventate più grandi di me. È un’adolescente e non so niente di lei. Non posso lasciarla tutto quel tempo da sola a casa. Ti prego, aiutami», sussurrò con sguardo supplichevole. «Se non vuoi farlo per me, e dubito che sia il contrario, fallo per lei. Non si merita tutto questo.»

Simone sospirò, si sistemò i capelli dietro le spalle e annuì, unendo le mani in grembo.

«Ti aiuterò, Jörg, ma lo faccio solo per lei. È una ragazza perbene, e sicuramente non si merita tutto questo.»

«Oh Simone, grazie», sorrise e si alzò. Voleva abbracciarla, ma non gli sembrava il caso, vista la situazione. Era passato davvero molto tempo.

«Ci sentiamo», lo salutò lei, andando verso la propria macchina. Non aveva nemmeno toccato il suo bicchier d’acqua.

 

***

 

Arrivò a casa e trovò solo silenzio, la torta intatta sul tavolo. Sorrise scuotendo la testa: Bill e Tom stavano ancora dormendo. Si era dimenticata dei loro orari da rock star. Prese il foglietto e lo gettò nella spazzatura, non ce n’era più bisogno.

Il giorno prima era rimasta scioccata vedendo quella ragazza bussare alla sua porta, gli occhiali scuri sul viso e i capelli raccolti dentro il cappuccio.

«Simone?», le aveva chiesto balbettando.

«Sì, sono io.»

«Ehm… mi manda Jörg.»

Era rimasta sbigottita, ma una telefonata mentre la ragazza, Georgia, era andata in bagno, aveva chiarito tutto. L’aveva accolta in casa comunque, non le sembrava carino buttarla fuori e lasciarla da sola.

«Sei qui da molto?», le chiese offrendole un bicchiere d’acqua.

«Sono arrivata una settimana fa.»

«Ora puoi anche toglierti gli occhiali e il cappuccio, eh», sorrise, ma appena lo fece ne rimase ancora più sconvolta: aveva i capelli biondo scuro e gli occhi nocciola, i tratti del viso dolci. Sembrava la copia femminile di Bill e Tom da piccoli, e una madre se ne accorgeva subito! Praticamente non aveva preso nulla dalla sua povera madre.

«Da… da dove?», chiese, girandosi per non vederla un secondo di più.

Era una vecchia ferita quella che aveva per Jörg, ma a volte le faceva ancora male nonostante fosse felicissima con il suo nuovo marito, Gordon. Si erano sposati da poco. Quello che la faceva più soffrire era che lei non aveva mai saputo nulla della sua famiglia, e che non aveva avuto un padre per tutti i suoi quindici anni.

«Inghilterra.»

«Oh, è bella l’Inghilterra.»

«Mmh, sì…», disse a sguardo basso.

Era rimasta lì un po’, principalmente in silenzio perché Simone non aveva ancora metabolizzato che in qualche modo fossero legate e non era molto in vena di parlare, e poi se n’era andata, scontrandosi con Bill e Tom.

Finì di preparare la colazione ai gemelli e poi li chiamò. Loro scesero di sotto frastornati, chiedendo perché li aveva svegliati, e lei rise rivedendo i suoi due bambini in quei ventenni già ricchi e famosi. Poi le venne in mente Georgia, e il sorriso le scomparve dal viso.

«Qualcosa non va?», chiese Bill.

«No, niente. Forza, la colazione è pronta.»

«Stai meglio da ieri?»

«Sì, grazie.»

«Sei uscita?», chiese Tom con la sua tazza di caffè fra le mani, guardandola.

Si era dimenticata di cambiarsi, accidenti.

«Sì.»

«Dove sei andata?»

«Sono andata a fare delle commissioni, tanto voi dormivate. Ma gli affari vostri comunque mai, eh? Sembra un interrogatorio!», sorrise.

«È che sei strana», disse Bill scannerizzandola per trovare un qualsiasi indizio che gli facesse capire di più.

«Io non sono affatto strana. Voi avete qualcosa da fare, oggi?»

«Non so, forse ci vediamo con Andreas, è tanto che non lo vediamo.»

«Bene.»

«Non ci vuoi fra le scatole?», sogghignò Tom.

«Ma certo che vi voglio fra le scatole, Tomi!», gli pizzicò le guance come faceva quando erano bambini e gli baciò la testa. Doveva ancora abituarsi alla sua nuova pettinatura, che aveva sostituito i suoi rasta biondi.

«E dai mamma, non siamo più bambini!», si divincolò, anche se con il sorriso sulle labbra per le attenzioni.

«C’è un età per avere le coccole?»

Si misero tutti a ridere e Simone sospirò, perché lei aveva sempre fatto il suo lavoro con i suoi figli ed era riuscita a renderli felice, anche attraverso tutte le difficoltà. Quanto aveva avuto Georgia, invece?

   
 
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: _Pulse_