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Autore: laurelleghuleh    07/03/2022    4 recensioni
[Akaashi Keiji-centric, post-time skip]
"Uscire dai margini è una bruttura. Questo me lo hanno insegnato e crescendo poi l’ho condiviso."
Storia partecipante alla challenge "Ispirazione artificiale" indetta da Legar sul forum "Ferisce più la penna".
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto, Tenma Udai
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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“The setting, the barren, unfashionable no-man’s-land between SoHo and Greenwich Village.
I have two keyboards, a Macintosh computer, a cat, an impressive collection of compact discs, cassettes, and records of other people’s music.
Bookshelves sagging under the weight of plays and novels I didn’t write.”
(da Tick, Tick... Boom!)


“Non capisco perché gli altri, quando prendono a parlare di me ed appormi, appendermi addosso qualche aggettivo, decidano sempre per cose tipo brillante o attento. A me calzano strani. Non è questione di taglia o meno, non sono miei e basta: non credo d’esserlo né di dare quest’impressione, non capisco perché lo pensino.

Già mentre lo dicono non gli do conto e questo basta per fare di me qualcuno di poco attento. E per il brillante, beh se lo fossi davvero almeno saprei riconoscermelo, no?

Ecco, se fossi questo tipo brillante e attento, forse saprei districarmi un po’ meglio tra quello che dicono e quello che intanto penso; saprei spiare un po’ meglio tra questa matassa di parole - che si intreccia tra quelle dentro e quelle fuori, quelle degli altri - e riuscire a rispondere con più trasporto ed entusiasmo; saprei contrarli un po’ meglio questi muscoli che mi ritrovo in faccia e magari uscirmene con un’espressione meno avvilente o addormentata di quella che alla fine a stento produco.

Le buone intenzioni ci sono, ma poi non ci riesco. Non è così facile, ho un limite massimo di caratteri.

Per quanto riguarda i miei, quelli che ho dentro, li conosco benissimo. So quanti e quali sono. Poi però, se gli altri ci aggiungono anche i loro e io magari in testa sono già lì che sintetizzo per stare nei margini, diventa tutto un po’ complicato. 

Non è così facile, per questo dico che brillanti o attenti se mai saranno loro. Sorridono tutti, ci riescono tutti.

Se sono solo i miei invece, di caratteri, di parole, di pensieri, ecco quello invece non ha nulla di complicato. Come dicevo, li conosco benissimo, so quanti e quali sono, e soprattutto so quando e come sistemarli, se necessario cancellarli, mettergli un punto e azzerare il conto. La pagina torna bianca e vuota, posso ricominciare da capo. 

Questo è facile, ma penso anche strano. Ho descritto un bel casino, no? Ma da fuori sono certo di apparire composto, lineare. Lo spiego subito il perchè: semplicemente ho già messo tutto in ordine. 

E forse sembro altrettanto composto e lineare anche quando arrivano gli altri a far baccano e disordine, imbrogliare ancora di più questa matassa contorta con le loro di cose e parole, perchè tanto resto fermo ed impassibile uguale.

Non so dove stia scritto o chi abbia detto che il composto e il lineare siano per forza sinonimi di ingegno e attenzione. Non fanno nemmeno rima e se posso dire la mia, secondo me è un assunto un po’ riduttivo. Una sintetizzazione banale, quasi estrema. 

E se sono composto e lineare non lo faccio per questi motivi, ma più perchè… Insomma, non sta bene. Che faccio? Sforo? Sbordo? Non si fa. Uscire dai margini è una bruttura. Questo me lo hanno insegnato e crescendo poi l’ho condiviso.

Anche strappare le pagine lo è. Così, solo perché nel momento veniamo colti all’improvviso, quasi a nostra insaputa, dalla rabbia, dalla foga, dalla frustrazione, non va bene prendersela con un pezzo di carta. Né con la testa contro le cui pareti ci affrettiamo a nascondere i nostri segreti e pensieri ossessivi. Non sta bene. Non si fa. E’ uno spreco di forze e spazio.

Quindi che faccio? Faccio ordine. Con calma sistemo quello che c’è da sistemare, è come giocare a tetris. Questo va qui, quello sicuramente non doveva finire lì. 

Ecco, se fossi un tipo brillante e attento non ci impiegherei tutta questa fatica a fare delle semplici pulizie di primavera. Gli altri mi sembra si stanchino nettamente meno, sorridono tutti, ci riescono tutti.

Non è solo una questione visiva, quella del caos, io la sento anche quando non vedo il disordine. E’ tipo la polvere: anche se è tutto al posto giusto la casa non è pulita comunque.

Come la sento? Prima non me ne rendevo conto ma adesso so perfettamente di che suono si tratta. Ci lavoro tutti i giorni quindi ormai posso dire - e sì, questa dovrebbe essere una battuta ma immagino non faccia tanto ridere se detta a voce alta, o, beh, immagino faccia ridere solo me - che “sono del mestiere”.

E’ quello dei tasti, i tasti di una vecchia macchina da scrivere o di un computer nuovo di zecca, anche di quelli che millantano di essere insonorizzati - il colpo sul carattere c’è comunque, io lo sento. 

Nella mia testa c’è quel tipo di brusio lì: lieve e ritmato quando si sa cosa e come la si vuole scrivere; brusco e irregolare quando si torna indietro, si cancella, si riscrive e si digita con foga e frustrazione, poi si ritrova il senno e il suono si addolcisce, ma all’improvviso ci si riperde e il filo del discorso è solo una matassa e torna il casino, si pigia senza meta sperando ci venga in mente qualcosa di buono con cui riempire la pagina, poi si arriva alla fine e… E alla fine, semplicemente, i caratteri finiscono. C’è un limite massimo.

Un gran casino, quindi, da vedere e da sentire. L’avevo detto che non è così facile.

Ora, che io la trovi una bruttura non vuol dire che non me ne sia mai macchiato di questa infamia dello sforare. Al liceo mi capitava spesso e se ci ripenso già mi si accappona la pelle, che vergogna. Ho sforato e sono scoppiato a piangere con la testa tra le gambe, sono uscito dai margini e ho esultato come un pazzo scalmanato e la testa ce l’avevo tra le nuvole o comunque più in alto di quanto il mio collo riuscisse ad andare perchè ne tendevo ogni fibra nel gridare a squarciagola dalla felicità.

Però insomma, ripeto, al liceo. Ero un ragazzino, erano un po’ le prove generali della vita, facciamo che non conta. Tiriamo una riga, era solo la brutta copia.

Non conta e non era proprio colpa mia. Ma di Bokuto Kotaro, il mio migliore amico di allora, così adesso ne parlo e lei è contento dato che l’altra volta mi sono ammutolito a questo punto del discorso. Non serviva darmi i compiti per casa e dirmi di scrivere quello che mi passava per la testa, dovevo solo fare ordine.

E a tal proposito, preciso che io mi ammutolisco anche per altri motivi, uno in particolare ci tengo a dirglielo. Quando parlo lei non prende mai appunti. Nei film ho visto che le fanno. So di non essere un paziente particolarmente interessante, la motivazione che le ho dato quando mi ha chiesto perchè mi fossi deciso a contattarla era piuttosto noiosa, me lo riconosco - “Tutti dovrebbero vedere uno psicologo ad un certo punto della loro vita, fare i conti con loro stessi e capirsi di più… Meglio farlo subito allora”, potevo inventarmi qualcosa di meglio. Però insomma, le confesso che non vederla scriversi nulla sul suo taccuino blu mi dà da pensare. Sarò sincero, mi mette ansia. Non ha proprio nulla da segnarsi, sono un caso così disperato?

E ci tenevo anche a dirle che in tutta onestà avrei preferito che fosse stato un po’ più chiaro nella consegna, dottore. Sto scrivendo a ruota libera da quando siamo partiti da Tokyo e non so se ho centrato la questione, né se la sto confondendo, o annoiando - anche se questo immagino già di farlo ogni venerdì quando mi paleso in studio, quindi a quest’ora ci avrà fatto il callo. 

Mi attengo alla domanda dell’altra volta così le spiego più o meno quello che mi passava per la testa. Tanto questo voleva sapere, no?

Anzi, mi attengo alle domande.

Prima di tutto mi ha chiesto - penso sia una roba da copione, un po’ da circostanza ma non gliene faccio una colpa, è stato gentile a chiedermelo - : “Come va il lavoro? Ti piace? Ti trovi bene?”

Io per un bel po’ non le ho risposto, poi me ne sono uscito con “Bene”, “Sì” e “Direi di sì” e a pensarci bene c’è una buona probabilità che io le sia sembrato un automa, ma ci stavo solo riflettendo su. Poi oggettivamente ci stavo mettendo un po’ troppo, non volevo sembrarle un pazzo e così ho sintetizzato... La questione però era più complessa. 

Mi dispiaceva averle dato quell’impressione e mi sono zittito di colpo, così lei mi ha fatto la seconda domanda - o meglio, gruppo di domande, comunque il concetto per me era uno - a cui penso di averle risposto profusamente già prima. Intendo tutte le righe sopra. Quelle prima di queste. 

“Come mai ti sei ammutolito all’improvviso? Vuoi raccontarmi a cosa stai pensando?”

Io volevo ma come le ho spiegato non è così facile. Ma su questo mi sono già dilungato abbastanza, preferisco tornare alla prima questione. Perdoni il caos, sto cercando di seguire il flusso dei miei pensieri come lei mi ha prescritto di fare. 

Il lavoro come va? Va bene, procede. Le cose che non mi piacciono credo siano legate al mio status di “nuovo arrivato” - le mansioni da facchino che non mi spettano ma mi impongono o gli straordinari non remunerati, intendo. Perché poi le altre cose, quelle di cui si lamentano i miei colleghi durante la pausa pranzo, a me invece piacciono, o meglio, le so fare e non mi disturbano affatto. Quindi tutto sommato, sì, il lavoro procede, mi piace e direi che mi ci trovo bene. 

L’altra volta a sintetizzare poi ci ho azzeccato, in fin dei conti le avevo risposto correttamente… Ma poi ho iniziato a pensarci su e mi sono ricordato di un’altra domanda, di quella che mi fanno spesso i miei colleghi quando si lamentano durante quella pausa pranzo di cui le parlavo.

“Ma non lo trovi frustrante? Dico, passare tutto il giorno a leggere e revisionare cose che non hai scritto tu e di cui qualcun altro si prenderà la gloria? Senza le nostre correzioni o appunti o suggerimenti nessuno di quei pazzi andrebbe da nessuna parte. Nemmeno la decenza di imparare a mettere due virgole come si deve. O rispettare le scadenze. O essere più chiari quando ci spiegano le loro idee… Ma poi stargli dietro… Ma chi ce la fa? Ho capito che sono artisti e blablabla, ma ogni tanto se ne passano.”

Sono tante domande, me ne rendo conto. E a dir la verità vanno avanti così per ore e io potrei riportargliene anche altre di questioni, le faccio giusto una sintesi o tiro fuori quelle che mi servono.

A me non dà fastidio nessuna di queste cose. Azzarderei a dire che ci sono tagliato, che mi diverte. E’ una cosa molto mia, ci sono abituato dai tempi del liceo. 

Anche questo è colpa di quel mio amico, quel Bokuto.

La mattina quando arrivo in ufficio e ho la casella di posta già piena sono contento: mi piace sapere che ci sarà molto su cui lavorare, è stimolante. 

Leggere le email sconclusionate degli artisti, starli a sentire al telefono per ore o incontrarli ad un bar e farmi travolgere dalle loro idee che sanno di tè caldo o caffè è il motivo per cui mi alzo ogni giorno. Sono sincero. Tutte le loro cose si insinuano, filano nei varchi liberi di quella matassa che mi ritrovo in testa e non creano nodi, ci si incastrano senza problemi e penso di essermi dato una risposta a riguardo. So il perchè, ci ho pensato su.

Come dicevo prima, sono abituato a questo genere di cose, il mio cervello sa filtrarle rispetto al resto, ai discorsi degli altri, perché sono diverse, perchè sono belle. Il talento altrui mi affascina, non mi frustra, mi arricchisce, non mi annichilisce. Mi piace esserne lo spettatore, credo che questo ruolo mi calzi a pennello, che io ci sia tagliato. 

E ora non mi diagnostichi subito qualche strana sindrome dell’impostore o dell’eterno secondo, perché non ce l’ho, ho già pensato anche a quello, e perchè glielo ripeto che a me questa cosa piace sul serio.

Mi dà una sensazione di pienezza, sazietà, appagamento, ordine. Non c’è casino né il brusio di sottofondo di qualcuno che batte con foga sui caratteri, non c’è matassa da sbrogliare, non c’è nemmeno la polvere. O se ci sono hanno un loro senso, sono di quella bellezza difficile da comprendere e afferrare come un’opera d’avanguardia che a tanti fa solo storcere il naso. “Io non ci vedo niente” dicono tutti, o meglio dicono quelli che non hanno né la pazienza né la voglia di osservare, di prestare qualche secondo in più d’attenzione e capire che quel “niente” è lungi dall’essere “nulla”*.

Sto perdendo un po’ il filo del discorso… Mi perdoni di nuovo, ma quando rifletto su queste cose quel filo poi si arrotola, si stringe e s’annoda e io lì, in quel punto, mi arrovello un po’ a vuoto. Ora faccio ordine e continuo.

Dicevo che ci sono abituato e che a fare lo spettatore del bello, delle cose che ammiro mi ci vedo e mi ci sento. Bokuto me lo ha fatto capire la prima volta che l’ho visto saltare a rete ed io ero ancora tra gli spalti della palestra, un volto fra tanti, una vita fra tante. Poi - e in questo sono stato estremamente fortunato -  me lo ha fatto anche sperimentare su pelle per quei due anni di liceo in cui ho potuto giocare con lui, al suo fianco, ed essere persino il suo vice.

Bo faceva un gran chiasso già solo con la sua presenza - una matassa complessa di suo - quindi con lui dovevo essere veloce a fare ordine nella mia testa. Non so perché ma Bokuto contava molto su di me e io non potevo deluderlo. La cosa mi spronava ad essere brillante e attento.

Mi risultava facile, o come diceva lui, divertente. 

Vederlo giocare, entusiasmarsi per la minima cosa con la stessa velocità con cui da inezie della medesima portata riusciva anche a farsi deprimere, vederlo saltare per le mie - dico le mie, che ero e sono uno qualunque - di alzate, vederlo diplomarsi e raggiungere altri traguardi, quelli di cui davvero gli importava, erano per me la ragion d’essere. Ero tagliato per quello, per esserne lo spettatore. Lui era la stella, io il mondo che lo ammirava.

Credo che fare l’editor e ascoltare, vedere, supportare e accompagnare il talento altrui sino al traguardo sia il mio posto, il mio ruolo, solo una promozione dal quel titolo di “vice” che avevo al liceo. Quella era una prova generale, la brutta copia.

Lo so a cosa sta pensando, ora le ho messo la pulce nell’orecchio e vuole che le parli meglio di questo fantomatico Bokuto. Quella sulla stella era una cosa forte, me ne rendo conto… Ma è la verità. E’ esattamente così per me e piuttosto che dire una bugia di solito taccio, quindi se addirittura l’ho messa per iscritto può giurarci che non mento.

Senta, facciamo la prossima volta però, per oggi ho raggiunto il mio limite massimo di caratteri. Adesso quando glielo dico immagino le sia chiaro cosa intendo e non devo dispiacermi se non le rispondo subito. 

Non se la prende, vero, se ora me ne sto zitto di nuovo, no? Vado a fare un po’ d’ordine, alla prossima.

Keiji Akaashi, il suo paziente del venerdì.

P.S. Ah, a proposito di venerdì. Volevo dirle che il prossimo non riuscirò a passare in studio per la seduta, ci vediamo direttamente a fine mese. Sto accompagnando a Sendai un artista che seguo da vicino di recente. Siamo in treno proprio ora, lui dorme e io le scrivo. Andiamo ad intervistare insieme quel Bokuto per lo speciale del magazine sulle nazionali. Gliel’ho detto che non mentivo, lui è davvero una stella.” 

Keiji preme invio, abbassa lo schermo e una volta chiuso il computer si ritrova davanti, ancora rannicchiato sul tavolino del treno, Tenma Udai.  Si è appena svegliato, si stropiccia gli occhi con il dorso della mano e lo cerca tra le ciocche di capelli sparse che gli affollano il viso.

“Siamo arrivati?” gli chiede con la bocca ancora impastata dal sonno.

“No, ma ci siamo quasi. Questione di minuti ormai.” risponde Akaashi.

“E tu, con il tuo pezzo? Sei arrivato?”

A Keiji spunta inaspettato un sorriso sulle labbra. Tra sè e sè pensa che quella è la conferma, la prova provata che con il suo pezzo è “arrivato”: è un modo proprio interessante di chiedergli se ha finito quanto stava scrivendo, se è arrivato al punto e alla destinazione finale, all'obiettivo prefissato, il messaggio da trasmettere, se la pagina è finita. 

Che cosa interessante. Gli artisti, le persone di talento, lo sono.

“Sì, sono arrivato.” sintetizza il giovane editor. “Ti ho disturbato mentre digitavo?”

“No, affatto. Era rilassante. Sembrava sapessi esattamente cosa volessi scrivere. Era naturale. C’era un bel ritmo.” gli risponde secco e sincero Tenma. E’ sveglio da troppo poco per formulare una balla quindi Keiji gli crede. 

Quello che aggiunge un secondo dopo però, gli suona un filo più bugiardo, perché Udai ha due occhiaie tanto scure e profonde quanto quella capanna color pece che si ritrova in testa. Nemmeno un sonnellino lungo tutto il giro del mondo in ottanta giorni gli ridarebbe mai indietro le ore di sonno arretrate.

“Guarda che è colpa tua se mi sono addormentato di botto, Akaashi.”

Anche se questa volta non gli crede, l’affermazione fa comunque ridere di nuovo Keiji. “Se sono riuscito a farti dormire allora me ne prendo tutta la colpa”, gli fa di risposta con un’espressione distesa.

Quella cosa bella dell’arrivare che Tenma gli ha detto si è infilata alla perfezione tra i suoi pensieri e il viso, non teso ma ora libero di contrarsi a suo piacimento, lo ha seguito. La compagnia di persone come lui tende ancora a fargli questo effetto. 

Continua a guardarlo soddisfatto e a pensarci su: è un mangaka di grande talento quell’Udai lì, Akaashi sa che farà strada, ne è convinto e non aspetta altro se non di osservarne attentamente l’ascesa. 

Dentro a quel treno e più o meno fino alle soglie della Kenmai Arena Sendai, i due ogni tanto si scoprono complici, si scambiano queste come altre battute, se la intendono e riescono anche a strapparsi un mezzo sorriso a vicenda. Ma ad onor del vero restano comunque l’uno l’impegno lavorativo dell’altro, un autore e il suo editor, un artista e il suo spettatore. 

Varcato però l’ingresso di quella palestra, sentito il chiasso, la folla che acclama i giocatori in campo, le suole che fischiano sul pavimento, l’aria viziata carica di sudore e sale dei popcorn, i ruoli di Keiji e Tenma si annullano immediatamente ed entrambi si ricordano di essere stati anche altro: solo un paio ragazzini con la passione per la pallavolo. 

A Udai di colpo cade lo zaino di spalla, il tonfo sordo a terra muore inghiottito da un lungo fischio che rimbomba per tutta l’arena: l’incontro tra i Black Jackals e gli Adlers sta per cominciare e il giovane artista si è appena reso conto di quanto davvero lo stesse attendendo quel momento. 

Sono settimane che non fa altro che pensarci in realtà, adesso gli è più chiaro che mai. Quasi si era dimenticato di quante volte la sola idea di raggiungere Sendai per assistere a quel match lo avesse reso più irrequieto del solito: ha una storia in mente da scrivere, la testa ora gli scoppia e trabocca più che mai di idee, le mani gli fremono, il pollice cerca l’indice e poi il medio in quella posa familiare che assume quando disegna o anche solo prende appunti. Ora è immobile, ma nella sua testa è come se lo stesse facendo e le dita, arricciate lungo i fianchi, imitano i movimenti vorticosi di quei pensieri, ci scrive pagine intere, s’immagina tutto.

I due non hanno ancora preso posto ma il giovane artista sta già cercando tra le teste in campo quella bianca striata di nero di un certo Bokuto Kotaro. Nell’ultimo periodo il suo editor non gli ha parlato d’altro e lui da lì aveva preso a figurarselo, a disegnarlo, a vederlo saltare a rete, vivere la vita qualunque di qualcuno poco qualunque. Tutto era partito da una cosa che ora gli sfugge, forse una parola di preciso che Akaashi aveva usato per descriverglielo, la parola giusta al momento giusto, quella folgorante, che gli aveva suggerito il resto: la sua miccia, un punto luminoso in cielo da seguire.

Accanto a Tenma, ancora affacciato alla balconata d’ingresso, Keiji tenta invece di non lasciarsi scappare di spalla il suo di zaino, di non farlo cadere e avere una reazione spropositata a quella vista. Si aggrappa con forza alle bretelle e le stringe tanto da farsi scolorire le nocche. 

Non vuole che l’emozione si metta di mezzo e lo faccia cedere, sforare, sbordare, né tanto meno sbavare. Non vuole che nulla lo intralci e gli faccia venir voglia di strappare la pagina. 

Anche lui attende questo incontro da settimane, non se n’era affatto dimenticato: è stato il suo chiodo fisso, il pensiero ossessivo da confidare in gran segreto alle pareti della sua testa. Questa è la sua grande occasione di essere sul serio lo spettatore di quella stella e poi di poterlo addirittura raccontare al resto del mondo. 

Le prove generali della vita sono solo un vecchio ricordo, questa è la prima. 

Questa è la sua bella copia. 

 


*citazione da “Non si vede niente” di Daniel Arasse 


Nd’A

Keiji Akaashi è un personaggio su cui mi piace parecchio riflettere e ragionare, forse, lo confesso, in una maniera non del tutto salutare. Questo “pippozzo” è nato esattamente così, da un pensiero estemporaneo che facevo su di lui - ma anche un po’ su me stessa -, poi mi sono fatta prendere la mano e alla fine ci ho quasi scritto quattromila parole intorno. 

La mia di miccia, di punto luminoso da seguire è stata la citazione che riporto in alto, tratta da Tick Tick...Boom! Riflettevo sugli artisti che prima di tutto sono spettatori, ammiratori, amanti di altre persone geniali, al peso magari anche gravoso, schiacciante che questo confronto per alcuni può essere. Mi è venuta subito in mente la letterale venerazione che Akaashi ha per Bokuto e ponderavo di conseguenza la sua professione nel time-skip: non lo so, ma nella mia testa tutto aveva senso, passare da vice a editor per lui deve essere stata un’evoluzione assolutamente naturale. So che questo pezzo è uno svarione complicato da digerire e che molti potrebbero dissentire sulla caratterizzazione che di Keiji faccio: per questo ci tenevo a spiegarne la genesi.

La seconda parte, quella dove appare Tenma Udai, invece, mi è stata ispirata dal prompt che Legar mi ha assegnato per la sua Ispirazione Artificiale: "Dropping her bag on the floor, Alice felt her heart race as she walked into the room. She had been looking forward to this meeting for weeks, and she was not about to let anything ruin it". Ti ringrazio ancora tanto, hai indetto una challenge divertentissima, tornerò di nuovo a sfruttarla, una miccia pericolosa ahahah

Prima di salutarvi, menzione speciale per un po’ di personcine speciali. In primis il caro Furudate che oggi compie gli anni e che ci ha fatto dono di questi meravigliosi personaggi su cui amo/amiamo arrovellarci. Se vogliamo, Tenma Udai è in qualche modo la sua self insert. Poi @chengongzi123 (su twitter) per questa fanart meravigliosa di Keiji che è stata un'altra grande ispirazione. E in fine, ma non per importanza, speechlessback e vianne: siete dei punti luminosi che adoro seguire e osservare, grazie per i nostri preziosi scambi, mi affascinano e arricchiscono come poche altre cose.

Laurelle

   
 
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