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Autore: absenthium    28/03/2022    0 recensioni
La terza cosa che vuole fare è andarsene. Mollare tutto, mollare Roma. Ma Roma non lo lascia andare. Roma gli si avvinghia alle gambe e al collo durante la notte e lo risveglia senza fiato. Roma è un’amante violenta, Roma è una madre ed è Giuda, Roma è cemento armato e Spadino resta lì, Spadino lì c’è nato per morire.
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Spadino, dopo la fine.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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i.
La prima cosa che fa è rubare un rasoio elettrico in un autogrill. Nel bagno pubblico, guarda ciocche sconnesse di capelli cadere sul pavimento sporco di piscio. Si sfila la felpa, la rimette al contrario. La fodera scura, e il cappuccio nero su qualunque cosa sia ora la sua testa. si rende una macchia ignota nello sfondo, irriconoscibile.
Dopo, ruba una bottiglia di whisky ed una stecca di sigarette e guida fino al primo hotel di merda che vede sul ciglio della strada, e si ubriaca così tanto da non poter pensare più a niente. Il whisky brucia nelle sue viscere, il fumo nella sua gola. Beve e piange e ride, e grida in silenzio, con i denti premuti contro la mano fino a lasciare segni. Passa il resto della notte a vomitare, e tutto il giorno successivo a fissare il soffitto, sperando che cada, sperando che lo seppellisca, che seppellisca tutti.
La terza cosa che vuole fare è andarsene. Mollare tutto, mollare Roma. Ma Roma non lo lascia andare. Roma gli si avvinghia alle gambe e al collo durante la notte e lo risveglia senza fiato. Roma è un’amante violenta, Roma è una madre ed è Giuda, Roma è cemento armato e Spadino resta lì, Spadino lì c’è nato per morire. La terza cosa che vuole fare è andarsene, ma non lo fa, così si accontenta di scoprire come altro può ancora farsi male. Dopotutto, pensa, ci sono un sacco di modi di ammazzare un uomo.
 
ii.
Tornare a casa è fuori discussione. Tornare indietro è fuori discussione. Ha abbastanza soldi in tasca per qualche altra notte nel buco dove s’è andato a infognare, e dovrebbe pensare al dopo, ma non gliene frega niente. Resta chiuso per così tanto che il vecchio della reception affaccia la sua piccola testa rugosa alla porta, e Spadino finge di dormire ma lo vede benissimo, vede la preoccupazione sciolta in disgusto, e il dubbio di dover chiamare un’ambulanza, o la polizia. Esce che non si regge in piedi per la sbornia e la fame, cammina qualche chilometro al supermercato più vicino. Compra del pane e una bottiglia di vodka. Il suo stomaco è vuoto, e se prova a riempirlo si contorce su sé stesso, grida sputa, sputa, sputa. Dorme, beve, piange, urla, si morde il braccio. La testa turbina di ricordi e immagini e colori e voci ed occhi, sempre occhi, occhi aperti e sgranati occhi chiusi occhi colore dell'alba e del mare. Si morde il braccio, si ficca una mano nei pantaloni e si fa una sega per non pensare a niente, e il suo corpo si spezza, vacilla. Ha abbastanza soldi in tasca per qualche altra notte e un pacco di sigarette. Copia, ripeti. Copia, ripeti. Copia, ripeti.
 
iii.
Guida. Grida. La strada è un gigante d’asfalto, è un mostro di tentacoli. Ha una pistola nascosta sotto il sedile. La cerca tastando la base sporca della macchina, la trova. Entra nel primo locale che vede.
 
iv. 
Il bar è piccolo e troppo illuminato. C’è troppa gente. Spadino si strofina i palmi sui jeans già sporchi del suo sudore. La testa gli fa male. Si siede su uno di quegli sgabelli assurdamente alti, posa le braccia sul bancone. Guarda davanti a sé, la vetrina carica di bottiglie e bicchieri e riflessi sul vetro, i bicchieri sporchi impilati che hanno lasciato altri prima di lui. Una donna gli domanda qualcosa, ma Spadino non risponde, e lei se ne va. Guarda davanti a sé, guarda attorno. Occhiate fugaci. Cerca volti conosciuti, cerca l’argento di una rivoltella e lo scoppio di una pallottola. Non le trova. Non vede nulla. Ingoia la paura, il secco che si sente in bocca, un sorso di birra da una bottiglia abbandonata.
Un ragazzo che gli si avvicina, una figura androgina d’età indefinita. È più basso di lui di un palmo almeno, ma si muove sicuro, forte, di sicuro più di quanto lo sia lui, adesso. Gli si posiziona accanto, la schiena contro il bancone, appoggia i gomiti sul piano.
“Mica t’ho mai visto da ste parti”, dice. La sua voce è ruvida, forzosamente profonda. Spadino non solleva lo sguardo dalla bottiglia.
“Me so trasferito mo”. Forse una volta avrebbe dato una risposta diversa. Ora, pensa, non vuole dare nell’occhio. Pensa alla sua testa rasata, alla felpa ribaltata sotto la giacca scura, i jeans che sembrano troppo stretti e che gli fanno male ma che si costringe ad indossare, perché ha solo quelli, perché è quello lui, adesso. Guarda l’altro ragazzo con la coda dell’occhio, e gli sembra più vicino ogni secondo che passa, ogni battito di palpebra, vicino da strozzarlo.
“Come te chiami?”
“Teo”. Lo dice prima di pensare. Lo dice come se fosse una domanda o un’invenzione, lo dice come il tributo che non è, perché Teo l’ha ammazzato lui, e non merita di usare il suo nome.
“Certo” ride l’altro, poi aggiunge, “io so Abel”. Tira a sé uno sgabello e si siede.
"Ao, giusto perché tu sappia: io coi fasci non ce vojo parlà". La voce di Abel ha il colore di uno scherzo, ma lo dice con uno sguardo fisso, severo, e Spadino sa che è serio, anche se non capisce a cosa si riferisca. Non capisce un cazzo, lo guarda con occhi vuoti, occhi di fumo, confuso. E Abel deve capirlo, perché con un gesto indica la sua testa rasata. Spadino si porta una mano al capo, come d'istinto. Non capisce, finge di capire.
"Ma no, te pare. Li tengo così giusto perché so comodi".
Non lo sono. La sensazione ruvida sotto le dita gli dà il voltastomaco. la sua immagine allo specchio è quella di un cadavere sconosciuto col corpo scavato dalla malattia. La sua nuova versione è una creatura stanca e dimessa con un piede nella fossa ed uno nella tagliola.
Abel scoppia a ridere. "Non s’è mai troppo sicuri", dice, e Spadino vorrebbe piangere, perché la pettinatura dell’altro è così simile a quella che lui ha gettato nel cesso dell'autogrill una settimana fa, o per le sue mani che non sono mai state forti e non saranno mai più veloci, e per gli occhi di Abel, per come si scopre a cercare una qualche fottuta forma di azzurro e per quel nero che lo trascina a terra.
Ignora. Ignora tutto, ignora ignora ignora, e si concentra sul freddo della bottiglia tra le sue mani, sul sapore aspro della birra che gli si blocca in gola ed è pungente, cattivo, o sulle braccia di Abel che vanno a cingere la sua vita, lo tirano a sé, lo tirano in un bacio. La sua bocca sa di alcol e saliva e di quelle luci troppo forti che gli fanno girare la testa. Gli afferra la cintura, e Spadino si trova a collidere con i suoi fianchi. L’aria è calda. Pensa, sto morendo, ma forse è solo la fame.
Abel lo bacia alla base del collo, gli sussurra all’orecchio, “Te posso portà a casa, Teo?”, e Spadino si sente annuire. È stanco, troppo stanco. La sua vista è un insieme sfocato di macchie colorate. Casa di Abel è a due passi, e ci arriva senza ricordare come.
 
v.
Le dita di Abel sono fredde. Sono dita che non hanno mai premuto un grilletto o spezzato il collo di un uomo. Non sono per questo gentili. Si conficcano sul suo petto, nei suoi fianchi, lo tengono fermo. Spadino lo lascia fare. Chiude gli occhi, li riapre. Il mondo cade e risorge nell’istante delle sue palpebre. I denti di Abel sono freddi. Lo tengono per la gola.
Abel chiede, “voi scopà?”. Ha in mezzo le gambe un cazzo finto, di silicone scuro, tenuto da cinte che gli si chiudono sul bacino.
“Te prego”, risponde Spadino.
 
vi.
Fa male. Fa male essere toccato, fa male stare fermo, fa male quando Abel gli entra dentro e inizia a muoversi troppo lento e poi troppo in fretta. Fa male e i suoi polmoni bruciano, l’aria brucia. L’altro lo bacia, delicato. Spadino lo morde, la mascella che si chiude di scatto come quella di un cane rabbioso. Vorrebbe avere ancora i capelli lunghi, perché così potrebbe chiedergli di tirarglieli. Prenderlo per i capelli, prenderlo per la gola e trascinarlo fuori, per strada, sbattergli la testa contro il marciapiede, spaccargliela in due. Ammazzarlo come una bestia, per tutto quello che è e per tutto quello che non è stato, per tutto quello che non sarà, prima che fotta il futuro come ha fottuto il passato. Guarda Abel ed Abel ha gli occhi scuri, occhi neri, occhi che non c’entrano un cazzo con tutto questo.
 “Più forte”, chiede, un soffio. Il ritmo delle spinte gli trascina fuori dalla bocca respiri affannosi. “Più forte, famme male”.
Abel gli fa male. Crede, almeno. Il suo corpo è già una morsa di dolore, la mascella contratta che non si apre neanche per respirare. Lo scopa come se non si aspettasse di vederlo morire sotto di lui, e forse è quella la cosa peggiore, e Spadino pensa al dolore, pensa a quel groviglio di attesa che si sente alla base dello stomaco, pensa al sangue. Pensa ad Aureliano, perché in fondo pensa sempre ad Aureliano. Non immagina niente. Non si fa fantasie del cazzo, Aureliano che lo tocca, Aureliano che lo bacia, Aureliano sopra di lui, perché quelle sono stronzate, solo stronzate, e non ha senso, se non ci crede. Pensa ad Aureliano che ammazza e si fa ammazzare, Aureliano morto, Aureliano in fondo al mare. Pensa all’alba, al cappello che è rimasto sotto il cuscino in una casa che non è più sua, pensa ad Aureliano che gli voleva bene e che non lo amerà mai, e viene con un urlo che trattiene tra i denti. Abel lo bacia sulle palpebre, gli asciuga le lacrime, e per un momento è tutto troppo silenzioso.
 
vii.
Si accende una sigaretta e lascia che si spenga sul bordo del letto. La cenere cade. La calpesta col piede scalzo. Inala il fumo e non lo lascia andare. Sente di dover tossire, ma non lo fa.
Abel riemerge dal bagno: Spadino non lo guarda. Si sente sporco, si sente stanco. Ha lo stomaco vuoto e la testa piena di nebbia. Pensa alla pistola sotto il sedile. Se lo volesse, potrebbe alzarsi e camminare fino alla macchina, recuperare l’arma. Tornare lì e sparare ad Abel, alle gambe, vederlo strisciare e staccargli la testa con la lama che ha nascosta nella tasca della giacca. Non sa perché lo pensa. Si prende la fronte tra le dita, stringe forte. Macchie verdi e gialle danzano nei suoi occhi chiusi, e pensa, solo per un attimo, che da un momento all’altro gli arriverà un segno, qualche grande rivelazione. È una cazzata pure questa.
“Pe sapè, ma stai sempre così fermo quanno scopi? Pari ‘n morto”, chiede Abel. Non lo dice per offenderlo, ma a Spadino non importerebbe comunque.
“Ma te co sto nome ancora parli? Se ‘r nome mio me ‘o fossi potuto sceglie me ne sarei pijato uno decente”. Abel scoppia a ridere, mentre si rinfila la maglietta. Spadino alza la testa al soffitto, e se conoscesse qualche preghiera le reciterebbe tutte, pur di farlo crollare.
 
 
 
Note:
tutta sta mattata si origina dal fatto che, da romana, per me il centro può pure bruciare, ma Spadino al Tufello vorrei vedercelo, quindi sì, fate finta che pure se non è nominato tutto ciò avvenga in zona terzo municipio. Abel, pora stella, è uno a caso. Il discorso “fascisti” è perché non so nelle altre città ma da me c’è abbastanza l’associazione capelli a zero-fascista, e infatti io e i miei altri amici ex rasati ci stiamo facendo crescere vari mullet apposta per evitarla.
Penso sia giusto specificare che sta roba la sto scrivendo dopo aver bevuto. Non sono ubriaco, ma di sicuro meno sobrio del previsto.
di solito mi piace fare playlist per i personaggi su cui scrivo, ma per Suburra c’ho sta serie di fondamentali problemi: nessuna canzone non romana esprime adeguatamente il livello di coattagine dei protagonisti, e le canzoni romane che conosco sono tutte canzoni da zecca. E, come direbbe e disse mio padre, “Spadino ed Aureliano so tanto carucci, ma tutto so meno che compagni”. Peraltro, se ignoriamo le sporadiche ma apprezzatissime apparizioni dei Prozac+ e degli Assalti Frontali, a me la colonna sonora fa abbastanza cagare, mi dispiace. Ma questo c’entra poco.
Ciò non mi ha impedito di tirare fuori
sta roba, quindi niente, ascoltatela.
Mo vado a dormire, daje a tuttx.
 

 
   
 
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