Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PerseoeAndromeda    02/04/2022    0 recensioni
Invece era nato e cresciuto prigioniero di mura tenute su dal terrore.
All’interno di quelle mura aveva perso tutto, aveva lottato per sopravvivere, per imparare a difendersi, era stato costretto ad uccidere, prima per proteggere e proteggersi, poi per attaccare a propria volta.
Da vittima si era mutato in carnefice, aveva diffuso quella paura che lui aveva subito, in un circolo vizioso di crudeltà e morte.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Armin Arlart
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Fanfic scritta per l’iniziativa deli Esercizi giornalieri del Gruppo Facebook Fondi di caffè – Il tuo scrittoio multifandom
 
Fandom: Attack on Titan
Autrice: Perseo e Andromeda, Heather-chan
Titolo e prompt: Suoni
Genere: angst, introspettivo, drammatico, accenni sentimentaleggianti
Rating: giallo per tematiche trattate e cenni lievi a PTSD
Personaggi: Armin Arlert
Ship: riferimenti a Eren/Armin ma è post time skip. Nella fic è presente solo Armin
Note e warning: nessun particolare avviso riguardo a tematiche se non gli accenni di cui sopra. Ma SPOILER!!! Per chi non ha letto il manga
 
 
 
- SUONI -
 
Nella stanza, ampia e illuminata da grandi finestre, si udiva solo il graffiare del pennino sul foglio e un brusio che, a tratti, si insinuava tra una parola e l’altra.
Quando le voci umane si facevano insistenti, la scrittura si interrompeva per un po’ e la testa di Armin si sollevava, ad ascoltare quei frammenti di normalità.
Non ne poteva fare a meno.
Il giovane comandante, ora ambasciatore di pace tra paesi che tentavano, a fatica, di rinascere, non aveva mai smesso di sentirsi estraneo, nonostante tutto.
Quel mondo lo aveva sognato, da quando era bambino non aveva desiderato altro se non conoscerlo, esplorarlo, rendersi conto che era davvero reale.
Eppure…
Non riusciva a sentirsene parte.
Forse perché quel mondo era stato teatro di distruzione, forse perché i suoi abitanti erano stati calpestati dall’inferno sceso sulla terra e lui non poteva fare a meno di pensare che proprio quel suo innocente sogno di bambino era alla base di tutto quell’orrore.
Forse perché quel sogno aveva avuto senso finché aveva potuto condividerlo con colui che era stato l’artefice della distruzione, colui che non poteva fare a meno di amare, nonostante si fosse trasformato in un mostro a causa di una distorta interpretazione del concetto di libertà.
“D’altronde… anche io sono un mostro. Se lui è stato il demone che ha cancellato la vita, io ne sono stato uno degli strumenti”.
Sospirò ed abbassò il capo.
Il grido lontano di un ragazzino lo fece sussultare.
Si trattava di un urletto di gioia, seguito da una risata, non di un urlo d’angoscia.
Quasi non lo ricordava il suono delle risate dei ragazzi: durante gli ultimi anni della sua vita, le sue orecchie avevano raccolto solo pianti, gemiti, grida di rabbia, di dolore… e di guerra.
Alcune voci risuonarono più vicine, associate ad una serie di passi: questa volta si trattava di adulti, con ogni probabilità insegnanti che si scambiavano pareri su qualche loro discepolo.
Armin si trovò a immaginare se stesso come uno di quegli insegnanti, si scoprì ad invidiarli.
Imparare…
E poi insegnare…
Trasmettere conoscenza…
Se solo avesse potuto scegliere…
Invece era nato e cresciuto prigioniero di mura tenute su dal terrore.
All’interno di quelle mura aveva perso tutto, aveva lottato per sopravvivere, per imparare a difendersi, era stato costretto ad uccidere, prima per proteggere e proteggersi, poi per attaccare a propria volta.
Da vittima si era mutato in carnefice, aveva diffuso quella paura che lui aveva subito, in un circolo vizioso di crudeltà e morte.
Si morse il labbro e dominò il magone che gli strinse la gola.
“Tutto perché sono nato lì” pensò. “E perché sono sopravvissuto, quando sarei dovuto morire”.
Le dita trasmisero un tremito violento alla penna, che scivolò e ricadde con un tonfo sul foglio e sul tavolo.
Si morse il labbro con maggior forza: solo quando sentì il sapore del sangue si fermò.
“Sono troppo nervoso… cosa ci faccio, io, qui? Non lo merito…”.
Il suo posto avrebbe dovuto essere sottoterra…
O con Eren…
Ovunque lui si trovasse, da qualche parte nei sentieri, smarrito per l’eternità.
 
Era un paradosso.
Si trovava in quella scuola per dare una testimonianza, per raccontare di un passato che quei ragazzini, forse, non erano in grado di capire davvero, anche se erano passati solo pochi anni: la maggior parte di loro erano neonati o non erano ancora venuti al mondo.
Ma la memoria del genocida e delle due fazioni che si erano unite nel tentativo di fermarlo era mantenuta viva da chi ne era stato testimone e da loro stessi, gli ambasciatori di pace, protagonisti di quelle vicende.
Una smorfia si dipinse sul bel volto del comandante bambino, nomignolo che mai era decaduto, per quanto fosse ormai uomo, per quanto neanche si ricordasse il significato dell’essere un bambino.
Lo era mai stato davvero?
 
Gli sembrava tutto così ipocrita.
Eppure, portava avanti la propria missione, perché aveva promesso, perché era tutto ciò che poteva fare…
E che si sentiva in grado di fare.
Lo doveva ad Eren e a quel mondo che un tempo avevano sognato insieme e che Eren aveva distrutto.
Eren… che veniva recepito come un mostro da quei ragazzi e dai loro insegnanti…
E che un mostro lo era stato davvero.
E un altro mostro si apprestava a parlare davanti a loro di quanto fosse bella la pace, di quanto fossero importanti il dialogo e la capacità di andare oltre le differenze.
Lui ed Eren erano due facce della stessa medaglia, due mostri che si erano amati, che ancora si amavano, di un amore che aveva sconfitto la morte…
E che avrebbero continuato ad amarsi fino a quando sarebbe stato loro concesso…
Probabilmente per l’eternità.
 
Da un tempo che gli sembrava infinito si trovava in quella stanza da solo, davanti al discorso che aveva preparato e che avrebbe propinato ad un gruppo di studenti ignari e impreparati.
Vuote parole…
Come si sentiva vuoto lui.
Come poteva pretendere di risultare credibile, se neanche lui credeva a ciò che aveva scritto su quel foglio?
Man mano che cancellava, modificava e stravolgeva frasi, anziché ritenersi più soddisfatto gli sembrava tutto sempre più insensato, banale…
E troppo, troppo falso.
Nel silenzio di un’aula vuota, a tratti interrotto da quel vociare soffuso e lontano, si sentiva immerso in un sogno straniante, ospite di un mondo che percepiva distante, nel quale forse non si sarebbe mai sentito a casa.
 
Lo colse un pensiero che lo fece rabbrividire.
Poteva essere che ciò che lo circondava adesso fosse reale, e ciò che era accaduto nel passato solo un terribile incubo, dal quale faticava a risvegliarsi, un incubo che gli aveva cancellato l’infanzia, l’adolescenza, la prima giovinezza?
“Forse sono stato in coma” pensò. “Per tanti, tanti anni… e questa è la vita… quella vera”.
Poteva mai essere?
Si sentiva confuso, da anni…
Era sempre stato confuso, dopotutto.
Chi era lui realmente?
Cosa aveva fatto?
Cosa si aspettava da se stesso?
Se lo era mai chiesto?
C’era qualcos’altro oltre alla guerra, oltre al sangue, alla paura?
 
Sobbalzò al nuovo tonfo della penna, al suo disarmonico rotolare sul tavolo e poi al leggero ticchettio che fece cadendo sul pavimento: in quel silenzio parve rimbombare come un tuono.
Tale sembrò al comandante Arlert, consapevole del proprio stato emotivo in precario equilibrio.
“Calmati, Armin” protestò contro se stesso. “Calmati! Sembri quel ragazzino tremante davanti ai bulli di Shiganshina”.
Era davvero esistito quel bambino?
Sembrava tutto così lontano, un’altra vita, un’altra realtà, una dimensione parallela, avvolta da un velo che ne offuscava i dettagli.
I gomiti sul tavolo, chinò il capo e si artigliò le tempie, le mani affondate tra le ciocche un po’ più lunghe che ricadevano ai lati della fronte.
“Ma io cosa ci faccio qui?”.
Il calpestio di una serie di passi ebbe l’effetto, alle sue orecchie, di un conto alla rovescia e le parole dietro di lui furono la definitiva condanna, alla quale non avrebbe potuto sottrarsi:
“Signor Arlert, se vuole venire i nostri studenti la stanno aspettando!”.
Deglutì.
Le dita tra i capelli si irrigidirono per un istante, si morse di nuovo il labbro, fece un profondo respiro e, infine, si sentì pronto per rispondere:
“Grazie. Arrivo subito”.
Si alzò.
Lo stridio della sedia accese un flash nella sua mente: un essere mostruoso che urlava, in una foresta di alberi giganteschi, tra i denti i brandelli di un giovane corpo di essere umano.
Lo ignorò e si impose di ricacciare quell’immagine nel buio più profondo dell’inconscio.
Diede un’ultima occhiata al foglio, vi posò sopra la mano aperta, poi la chiuse, accartocciando tra le dita quel discorso che aveva preparato per giorni, a scapito di ore di sonno…
Come sempre.
Il fastidioso fruscio della carta che si sgualciva si accordò al pulsare doloroso e troppo veloce del suo cuore nel petto.
Nascose la pallina che era stato il suo discorso nella tasca dei pantaloni eleganti. L’avrebbe tirata fuori solo uscito di lì, per stracciare la pagina e gettarla via.
Decise che sarebbe stato quel cuore, ora così dolorante, a parlare, anche se ancora non sapeva quali parole gli avrebbe suggerito.
 
   
 
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