Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: DDaniele    19/04/2022    0 recensioni
La storia è una Modern AU ambientata in una scuola del Giappone contemporaneo. Eren e Armin, i due protagonisti, sono invaghiti l'uno dell'altro, ma vivono il proprio amore osservando l'innamorato a distanza perché non si conoscono e frequentano classi e ambienti diversi; la fanfiction segue i tentativi, teneri e impacciati, che faranno per incontrarsi, inoltre contiene alcuni degli elementi tipici dei manga come i club scolastici, i bentō e i matsuri estivi.
La storia è stata scritta come parte dell'evento Secret Santa 2021 che si è tenuto sul gruppo Facebook italiano, dedicato all'Attacco dei Giganti, dal nome Chinpo wo sasageyo!! ÷ Gli stalloni del gruppo di ricerca.
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Armin Arlart, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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   Eren’s pov
 
   Il suono vibrante prodotto dalla corda dell’arco ruppe il silenzio. Armin incoccò un’altra freccia. Fissò lo sguardo per alcuni istanti sul bersaglio dall’altro lato del campo d’addestramento, tese la corda e lasciò la presa. La freccia andò a conficcarsi a metà strada fra il centro e l’estremità del bersaglio. Con un sospiro, Armin abbassò l’arco e si scrollò le spalle per scaricare la tensione che le aveva rese rigide.
   Era la terza volta quella settimana che venivo a guardare gli allenamenti del club di tiro con l’arco. Armin e i suoi compagni facevano pratica perfino adesso, in pieno Agosto, per prepararsi alle gare interscolastiche che si sarebbero tenute a Settembre. Sotto la cappa d’afa, i membri del club indossavano i kimono regolamentari, che per quanto leggeri rispetto a quelli indossati in autunno e inverno coprivano comunque il loro corpo con diversi strati di tessuto. L’unica eccezione era la spalla destra, che gli arcieri potevano lasciare scoperta per agevolare i movimenti. Armin però indossava sotto il kimono una sottoveste bianca, quindi la sua spalla rimaneva comunque coperta. Solo gli allievi più civettuoli, consapevoli degli ammiratori e ammiratrici che si riunivano sui lati del campo d’addestramento, lasciavano la spalla scoperta o addirittura arrotolavano il kimono sotto la cintura, rimanendo a petto nudo. Armin però rimaneva sempre concentrato sul bersaglio. Non mi conosceva e sicuramente non si sarebbe spogliato per stuzzicare chi lo osservava.
   L’allenatore riunì gli studenti e mostrò loro il quaderno in cui un assistente aveva segnato i risultati che ciascun membro del club aveva riportato durante quella sessione. I punteggi di Armin avrei potuto dirglieli anche io. Un centro quasi perfetto all’inizio, seguito da altri due tiri che si andavano via via allontanando dal centro del bersaglio. Probabilmente Armin rendeva al meglio quando era più concentrato, mentre quando notava delle imperfezioni si scoraggiava e il suo rendimento ne risentiva. Forse non sarebbe stato scelto come titolare per le prossime gare. Magari l’istruttore gli avrebbe preferito i compagni più adulti e esperti dai quali la squadra poteva aspettarsi un rendimento più costante. Non sarebbe stato un problema, Armin era, come me, al primo anno delle superiori, aveva tutto il tempo del mondo per migliorarsi e partecipare in futuro alle gare. Caso mai, se non fosse stato selezionato sarebbe stato un peccato per me, che ero già pronto ad andare nelle varie scuole della regione per fare il tifo per lui. Avevo già pensato alle frasi motivazionali da scrivere sui cartelloni.
   Armin mi dava le spalle mentre ascoltava l’allenatore. Provai una punta di gelosia, ma la repressi subito. Non avevo alcun diritto di covare invidia. Appartenevamo a classi diverse e frequentavamo lezioni altrettanto diverse. Non avevamo mai parlato. Solo io lo osservavo e ogni tanto seguivo i suoi allenamenti oppure lo cercavo con lo sguardo in mensa. Non lo facevo sempre. Solamente qualche volta. Non avevo il coraggio di rivolgergli la parola perché temevo che mi avrebbe giudicato morboso e soffocante. Nel peggiore dei casi mi avrebbe denunciato agli insegnanti come uno stalker. Già il suo amico con la faccia da cavallo – quello sì che lo seguiva dappertutto – doveva essersi accorto di me. Mi aveva già lanciato delle occhiatacce. Per esempio quella mattina di inizio Giugno quando, camminando sulla stradina ombreggiata dagli alberi che portava a scuola, mi trovai inaspettatamente dietro ad Armin. Il suo amico, che come al solito camminava al suo fianco, si era girato verso di me e mi aveva squadrato da capo a piedi con un cenno della testa dalla lentezza teatrale, calcolata perché lo vedessi, una smorfia di disgusto sul viso. Avrei voluto saltargli al collo. Invece ho abbassato lo sguardo lanciando insulti al suolo.
   Anche stavolta ecco Faccia da cavallo che si affannava a raggiungere Armin. Non faceva parte del club di tiro con l’arco, quindi non era potuto entrare nella sala con i tatami in cui si trovavano gli atleti. Era rimasto fuori, come me, dall’altro lato della porta chiusa. Ma appena Armin era uscito Faccia da cavallo gli corse incontro porgendogli il piccolo contenitore termico che teneva fra le mani. Lo aprì e ne prese una bottiglietta di bibita energetica e delle fettine di limone macerate nel miele. Si comportava come un fidanzatino, anche se non lo era. Avrei voluto tiragli un cazzotto. Però dovevo ammettere che, nonostante le sue attenzioni fossero stucchevoli, lo invidiavo. Lui poteva stare accanto ad Armin finché voleva. Mi alzai in piedi stizzito. Tirai un calcio all’erba e me ne andai.
 
 
   Alla sera, stavo facendo dei tiri a canestro quando sentii squillare il telefono. Entrai trafelato a casa e risposi. Papà mi disse che non sarebbe tornato per cena perché un paziente aveva avuto una complicazione e avrebbe dovuto operarlo d’urgenza. Siccome anche la mamma era assente per un viaggio di piacere con le amiche, papà mi diede il permesso di entrare nel suo studio e prendere il denaro per comprarmi la cena. Gli dissi che potevo anche prepararmi qualcosa da spiluccare di fronte alla tv. Lui insisté perché mi comprassi una cena vera e propria. Finita la chiamata, presi i soldi e uscii per andare al ristorante di udon poco giù la discesa. Avevo voglia di mangiare un piatto di quegli spaghetti freddi accompagnati da un’abbondante scodella di frutti di mare scottati.
   Una volta disceso il pendio, cambiai idea e andai invece al ristorantino che vendeva i bentō. Varcato l’ingresso mi guardai intorno. Faccia da cavallo non c’era. Mi sembrava improbabile che avrebbe seguito Armin anche sul posto del suo lavoro part-time, ma non mi sarei sorpreso se lo avessi trovato lì a squadrarmi con le sue occhiatacce torve, la testa reclinata su un lato come un gufo studia la preda. O un ronzino che cerca la macchia d’erba più verde per farsi una scorpacciata. Davanti a me c’erano due signore, probabilmente delle casalinghe che quella sera non erano riuscite a preparare la cena per tempo e ora compravano qualcosa di già pronto da servire a tavola. L’anziano proprietario del locale rimaneva al banco, dove riempiva le scatolette con i cibi che le clienti di volta in volta gli indicavano. Mentre sistemava il riso all’uovo nel piccolo scompartimento del contenitore, le signore si congratulavano con lui per l’ottima gestione del locale, che offriva degli squisiti manicaretti dal gusto casalingo e rimaneva un punto di riferimento per la comunità da tanti anni.
   Quando arrivò il mio turno, il signore anziano mi rivolse un sorriso e fece una battuta scherzosa su di me. Disse che gli faceva strano vedere un ragazzo così giovane nel suo negozio, solitamente frequentato da donne di mezza età e anziane. La sua risata risuonò cristallina. Vi avvertii giusto un tono di voce impercettibilmente stanco sotto la bonarietà del lavoratore abituato a servire il pubblico. Forse la mia era solo un’impressione, dovuta al fatto che conoscevo la sua vicenda familiare e sapevo che, all’inizio dell’anno scorso, aveva perso in un incidente la moglie, il figlio e la nuora. Armin e lui erano gli unici membri della famiglia rimasti in vita perché quel giorno non erano andati in macchina con gli altri. Doveva essere dura. Mi chiese cosa desideravo. Con un sorriso scaltro, indicai la vaschetta del soba saltato che era rimasta vuota.
   Il nonno di Armin mi disse di pazientare perché avrebbe dovuto prepararlo il cuoco, quindi mi diede le spalle e scostò la tendina della stanza che si trovava dietro di lui. Dritto davanti a me, vidi Armin che cucinava. Indossava dei calzoncini in jeans che terminavano poco sopra le ginocchia, una t-shirt bianchissima come la sottoveste che portava in tarda mattinata e una fascia legata stretta intorno alla fronte. Era la stessa fascia indossata dai ragazzi che portano l’altare mobile delle divinità durante la processione che si svolge in occasione dei festivals estivi. Quell’abbigliamento gli dava un aspetto fresco e pulito. Alcune ragazze a scuola lo prendevano in giro a sua insaputa dicendo che non si sarebbero mai fidanzate con uno come lui perché sembrava effeminato e troppo delicato. Invece a me la sua postura sempre diritta e il comando che esibiva nei movimenti, sia mentre scoccava una freccia sia ora che spadellava, suggerivano un’impressione di forza e virilità. Sapere che inoltre aveva ottimi voti a scuola e aiutava il nonno con il ristorante aumentava ancora di più l’ammirazione che provavo nei suoi confronti.
   Armin terminò di cucinare il piatto che avevo richiesto. Lo versò con gesti veloci ma sicuri, tipici di chi è abituato a compiere certe operazioni, in una vaschetta che il nonno a sua volta prese per metterne una porzione nella scatola del bentō. L’anziano signore tornò al bancone dove mi porse il recipiente. Mi augurò buon appetito e mi salutò. Anche Armin disse: “Arrivederci e grazie” mentre cucinava. Fui felice che mi avesse rivolto la parola, sebbene mi rendessi conto che il suo era stato solo un gesto di cortesia professionale, probabilmente non aveva fatto caso a chi fossi. Ciò nonostante, tornai a casa gongolando e mi sedei al tavolo della cucina. Pensai che stavo per mangiare il cibo che Armin aveva preparato per me, come se fosse il mio sposo. Arrossii e iniziai a mangiare lentamente, assaporando ogni boccone.

Armin’s pov
 
   Finito il turno, uscii dalla porticina che dava sulla strada. Presi una boccata d’aria fresca grazie al venticello gradevole che si era sollevato mentre ero rimasto in cucina. Dopo qualche minuto rientrai e aiutai a pulire il locale per il giorno dopo. Il nonno si ricordò di aver lasciato il detergente per pavimenti a casa e mi chiese di andarlo a prendere.
   Uscii dal ristorante e salii a passi svelti la salita diretto a casa. La stradina residenziale sembrava vuota, solo i lampioni e le stanze dei soggiorni al primo piano delle abitazioni erano illuminati. Procedei dritto. A circa metà della via sentii dei colpi contro una superficie di vetro. Mi voltai e sulla villetta a destra, la più bella e grande del quartiere, vidi un ragazzo fare dei tiri a canestro. Per tutto il tempo in cui si allenò mi rivolse la schiena, concentrato sulla palla. Sapevo che era Eren, il figlio di Grischa Jäger, il famoso medico chirurgo, e che frequentava la mia stessa scuola. Avrei voluto conoscerlo. Jean mi diceva che aveva fama di irascibile attaccabrighe e che mi ronzava spesso attorno. Non badavo però a quello che diceva, Eren non poteva essere interessato a me. Forse seguiva gli allenamenti di tiro con l’arco perché era incuriosito da quello sport o, se proprio aveva una cotta per qualcuno, forse era lì per i miei compagni che gareggiavano a petto nudo o per le ragazze delle altre classi. Che poi frequentasse la mensa della scuola era ovvio, di certo non veniva per me. Avrei voluto stringere amicizia con lui, ma perché mai un ragazzo così vivace, attivo e popolare avrebbe dovuto sprecare il suo tempo con un secchione come me?
   Rimasi per qualche minuto ad ammirarlo mentre giocava. I faretti del suo giardino illuminavano bene il posto. Indossava solo i calzoncini di tessuto leggero, dei calzini neri e le scarpe da ginnastica, mentre aveva gettato la maglia sull’erba del prato ed era rimasto a petto nudo. La sua schiena era slanciata e snella, la pelle ambrata. Non scorsi il suo viso ma sapevo com’era fatto, cinto dai capelli castani che gettavano ombre sulla sua bocca e i suoi occhi verdi. Avrei voluto accarezzare la sua schiena. Sentii sul palmo della mano la sensazione tattile della sua pelle liscia e il calore del sangue che veniva pompato nel suo corpo per sostenerlo nei movimenti veloci con cui si avvicinava al palo del canestro. Deglutii e andai via prima che si accorgesse di me.

   Eren’s pov
 
   A inizio Settembre ricominciai la scuola. Terminate le lezioni del primo giorno, il professore responsabile del club di basket mi chiamò in aula docenti. Quando entrai, mi accorsi che anche Armin era lì a parlare con l’insegnante che seguiva il club di tiro con l’arco. Il mio docente fece un cenno al professore dell’altro club e si diresse verso di lui. Lo seguii silenziosamente, intimidito dalla presenza di Armin.
   “Jäger, Arlert,” cominciò a dire il mio insegnante, “come saprete, alla fine del mese ospiteremo le squadre dei club sportivi appartenenti alla scuola Jūban del distretto vicino. Vorremmo che voi due vi occupaste di fare loro da guida. Mostrerete loro i campi sportivi, il palazzetto in cui alloggeranno per la durata del soggiorno, la mensa e sarete i loro referenti nel caso in cui avessero bisogno di assistenza. Siccome arriveranno tra appena due settimane, vorremmo stilare il programma definitivo della loro permanenza qui. Con il collega, il professor Nakamura,” e qui fece un cenno d’intesa al docente che fungeva da responsabile e istruttore per il club di tiro con l’arco, “pensavamo di andare al campo di addestramento per cominciare a scrivere il discorso di benvenuto e le indicazioni preliminari da dare ai nostri ospiti. Seguitemi.”
   Il professor Nakamura rimase seduto sulla sedia, mentre il mio insegnante, il professor Inagaki, si diresse verso la porta dell’aula docenti. Armin e io lo seguimmo giù per le rampe di scale che conducevano al pian terreno.
   “Attenzione, prego,” si sentì dalle casse dell’altoparlante installate nella hall, “il professor Inagaki è richiesto urgentemente in presidenza. Ripeto: il professor Inagaki…”
   L’istruttore si voltò verso di noi, l’espressione del volto accigliata.
   “Scusatemi, ragazzi, devo andare dal preside. Precedetemi voi al campo di tiro con l’arco, vi raggiungerò appena mi sarò liberato.”
   Così dicendo, mi diede penna e quaderno e tornò verso le scale.
   Rosso in viso, feci cenno ad Armin di seguirmi, impegnandomi per reprimere l’imbarazzo. Camminammo sino al campo senza scambiare una parola. Nella mia testa cercavo la cosa giusta da dire, ma non mi veniva nulla di importante o significativo che rompesse il ghiaccio.
   Stavo finalmente per parlare, quando Faccia da cavallo spuntò da dietro di me. Scoccandomi un’occhiata di disgusto si rivolse ad Armin: “Jäger ti sta dando fastidio?” Poi disse a me: “Che faccia tosta. Non basta che lo talloni per la strada, nei corridoi della scuola e durante gli allenamenti. Adesso lo disturbi direttamente! Brutto pezzo di…” mi urlò in faccia alzando un pugno. Subito mi abbassai pronto a tirargli un gancio prima che lui potesse colpirmi. Ero stufo della sua arroganza.
   Armin si frappose tra noi e spiegò a Faccia da cavallo: “Eren non ha fatto niente. Non mi ha mai infastidito come dici tu. Adesso è con me perché il professore ci ha assegnato il compito di fare da guida agli studenti che verranno per le gare. Lascialo in pace.”
   Arrossii violentemente quando lo sentii fare il mio nome. Allora mi conosceva! Tutto d’un tratto mi sentii così felice che mi scordai di dare a Faccia da cavallo la lezione che meritava. Abbassai il pugno e feci per ringraziare Armin. Ma Faccia da cavallo si intromise di nuovo.
   “Scommetto che è stato lui a chiedere al prof di dare proprio a voi questo incarico. Disperato com’è, non mi stupirebbe se ricorresse a simili mezzucci.”
   “Ora hai davvero esagerato!” sbottai.
   Armin si frappose di nuovo tra noi. “Jean, smettila. Eren non è così e tu non hai diritto di essere geloso.”
   Ma Faccia da cavallo venne verso di me alzando di nuovo il pugno.
   La professoressa di un’altra classe che stava camminando poco distante notò il suo gesto. “Ehi, cosa stai facendo? Smettila subito. Cosa credi di ottenere alzando le mani contro un altro studente?” disse rivolta a Faccia da cavallo che cominciò a bofonchiare che ero io a provocarlo.
   Presi Armin per mano e scappammo via. Andammo verso una costruzione secondaria lontana dall’edificio principale e, svoltato l’angolo, cademmo a terra stanchi per il caldo che ancora appesantiva l’aria.
   “Scusa se Jean si è comportato così. Dice che sei un bullo e che avresti una cattiva influenza su di me” così cercava di giustificare il suo amico mentre ansimava per  riprendere fiato. “Però so che non è vero e sono felice che finalmente ci abbiano presentati” mi disse, gli occhi azzurri ridenti di felicità.
   “Anch’io volevo conoscerti…” mi interruppi, rapito dal suo sorriso.
   Armin, lo sguardo incuriosito dal mio silenzio improvviso, mi si avvicinò e si mise al mio fianco, la schiena poggiata sull’edificio bianco. “Lieto di conoscerti, io mi chiamo Armin Arlert” mi disse porgendomi la mano.
   La presi fra le mie. Aveva una pelle morbida, non era callosa come quella di un arciere.
   “Il… piacere è mio. Io sono Eren Jäger.”
   Sentendo la tensione sciogliersi, scoppiammo a ridere.
   
 
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