Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Joy    02/05/2022    1 recensioni
Se avesse avuto garbo e un'educazione appena superiore a quella di un delinquente dei bassifondi, non avrebbe considerato fuga, il riaccostare l'anta e tornare sui suoi passi, dopo aver scorto l'insolita sciatteria di fogli appallottolati attorno al cestino; al contrario ne avrebbe preservato il decoro e atteso che Erwin si ricomponesse dall'evidente disagio, prima di rivelare la sua presenza.
[Eruri, ambientata nella terza stagione, dopo l'amputazione di Erwin]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Joy Inblue

Personaggi: Erwin/Levi

Angst, Emotional Hurt/Comfort.

Ambientata nella terza stagione dopo l'amputazione di Erwin

 

Prompt e betaggio di Luinloth.

 

 

With your left hand

 

 

 

Una delle prime cose che Levi aveva imparato del mondo in superficie, dopo la meraviglia iniziale di poter vedere il cielo ogni qualvolta lo desiderasse, era stata la crudele vastità dei suoi spazi, dei pericoli che si nascondevano nel riverbero abbagliante della luce del sole e del marciume vestito a festa e ingioiellato di belle parole, che più dei giganti fuori dalle mura, lo rendevano pericoloso quanto il sottosuolo.

 

Qua sotto, vedi la merda per quello che è, ragazzino” gli aveva ripetuto più volte Kenny, “là fuori, brilla e luccica quanto un gioiello appena incastonato, ma resta sempre merda.”

 

E in quel frastuono chiassoso di intrighi, tradimenti e false apparenze, il divanetto nella stanza di Erwin era stato l'unico luogo in cui il crepitio delle braci nel camino, il frusciare soffuso del pennino sulla carta e il lieve borbottio dell'acqua nel bollitore avevano cancellato, seppur momentaneamente, ogni altro suono, concedendogli di riposare.

 

A distanza di anni era ancora l'unico posto in cui riuscisse a dormire.

 

Avrebbe quindi dovuto capirlo, dalla totale assenza di rumori, mentre trasportava il plico di documenti che Pixis gli aveva affidato, che dall'altro lato della parete la nota stonata era proprio il silenzio, ma Levi non aveva mai bussato alla porta del Comandante, né a quella del Caposquadra durante le primissime settimane dal suo ingresso nel Corpo di Ricerca, e non aveva intenzione di cominciare a farlo, solo perché il nulla assordante nel corridoio su cui affacciava la sua stanza, instillava in lui dei ragionevoli e proprio per questo ancor più fastidiosi dubbi sulla salute di Erwin.

 

Posò la mano sulla maniglia in ottone e spinse piano.

 

Se avesse avuto garbo e un'educazione appena superiore a quella di un delinquente dei bassifondi, non avrebbe considerato fuga, il riaccostare l'anta e tornare sui suoi passi, dopo aver scorto l'insolita sciatteria di fogli appallottolati attorno al cestino; al contrario ne avrebbe preservato il decoro e atteso che Erwin si ricomponesse dall'evidente disagio, prima di rivelare la sua presenza.

E invece quella premura gli parve vicina alla codardia, quando l'angolo d'apertura della porta gli rivelò la schiena di Erwin, perfettamente immobile e decisamente più rigida del solito, nella cornice luminosa della finestra.

Esitò per qualche istante, gettando uno sguardo fugace al piano della scrivania, dove un pennino abbandonato allargava una chiazza d'inchiostro su di un foglio abbandonato, e tornò indietro a chiudere la porta alle sue spalle.

 

I documenti tra le sue mani gli sembrarono pesi come macigni.

 

“Posali sulla scrivania, Levi, me ne occuperò in serata.”

 

La stanchezza soffusa e mesta di cui erano intrise quelle parole, gli arrivò nonostante fossero state pronunciate con un tono più basso del solito.

Levi posò di nuovo lo sguardo sullo scrittoio in disordine: le lettere tremule e spigolose che avevano sostituito gli svolazzi eleganti della firma del Comandante, erano contornate da macchioline, laddove la punta del pennino aveva esitato.

E gran parte di quelle prove recavano la sbavatura del passaggio della mano.

 

“Oppure potrei portarli nella stanza del tuo vice; sono sicuro che ad Hange non dispiacerebbe occuparsene.”

“No. Lo farò io.”

 

Le spalle di Erwin si mossero appena, mentre distoglieva lo sguardo dalla finestra per incontrare il suo e non persero niente di quella rigidità autoimposta. Furono le occhiaie a tradirlo, i capelli in disordine, come se vi avesse ripetutamente nascosto le dita e la curvatura stanca delle sopracciglia.

 

Avrebbe voluto cancellarla, quella ruga, distendergli la fronte con una di quelle carezze che si concedeva al mattino, quando risvegliandosi nel suo letto, sentiva Erwin uggiolare al suo fianco, ancora immerso in uno dei tanti incubi che lo tormentavano.

E invece non ci riuscì, si guardò attorno rabbrividendo e notò solo allora le ceneri esauste dietro gli alari del caminetto.

“Non hai acceso il fuoco” constatò.

 

Erwin abbozzò un sorriso amaro.

“La pietra focaia è stata meno collaborativa della mia mano, oggi.”

 

“Avresti potuto chiamare qualcuno: non sei il Comandante solo quando devi assumerti la responsabilità delle vite perdute.”

 

Nel vederlo chinare lo sguardo e lasciarsi cadere sulla poltrona più vicina sospirando, Levi comprese il motivo per cui non era stato capace di avvicinarsi a lui e sfiorargli il volto.

L'orgoglio, per poco che fosse quello sopravvissuto alle sue irremovibili ammissioni di colpa, era l'appiglio a cui l'unica mano rimasta ad Erwin era riuscita ad aggrapparsi.

 

Posò i documenti in un angolo della scrivania e dopo aver rimosso gli alari e i residui di cenere, si affaccendò per riaccendere il fuoco.

Si stupì, quando alzando gli occhi dai ciocchi ordinatamente impilati, trovò lo sguardo di Erwin su di sé, a spartirsi con le fiamme appena avviate, il merito del calore che gli riscaldò il petto.

 

“Non ti avrei chiesto di farlo, ma ti ringrazio per essertene occupato, Levi” sussurrò.

 

E lui si chiese se il suo affetto maldestro meritasse davvero la gratitudine onesta che vedeva negli occhi di Erwin, o se non fosse piuttosto appannaggio di quella tenerezza malconcia che la mano macchiata d'inchiostro e la camicia per metà slacciata, evocava sulla sua figura.

 

Portò un panchetto di fronte alla poltrona e vi posò sopra il catino del lavabo, miscelando l'acqua della brocca con quella appena riscaldata del bollitore e dopo aver recuperato sapone e asciugamano si sedette di fronte a lui.

 

“Se compilerai i documenti con quella mano, Pixis dovrà scovare la tua firma in mezzo alle impronte d'inchiostro” spiegò allo sguardo incuriosito che Erwin gli rivolse.

Avrebbe anche voluto dirgli che sarebbe stato perfettamente in grado di padroneggiare la sinistra, dopo un po' di allenamento, ma ricordava quanto cocente potesse essere l'umiliazione di non riuscire ad apporre il proprio nome su di un pezzo di carta, e dal momento che Erwin sembrava propenso a porgergli un sorriso benevolo, assieme alla mano, Levi non se la sentì di rischiare il baratto in cambio di un tiepido incoraggiamento.

 

Prese la mano tra le sue, invece.

 

Se Erwin non avesse avuto le spalle così stancamente curve, ne avrebbe commentato l'umidità gelida, così insolita per la sua pelle sempre calda, invece si limitò a tentare di dissiparla, disperdendola su entrambi i suoi palmi, mentre gli rivolgeva uno sguardo neutro.

 

Per quanto immobili, capì dai suoi occhi che Erwin aveva compreso ugualmente i suoi pensieri.

“Temo di essermi lasciato sopraffare dallo sconforto, Levi.”

 

Lo ammise, come ammetteva il risultato fallimentare di una nuova strategia quando non contribuiva alla salvaguardia di vite nella missione in cui veniva testata, assumendosene ogni responsabilità senza concedersi attenuanti, anche quando erano sotto gli occhi di tutti.

 

Levi sciolse la mano dalle sue, ripiegò un paio di volte il polsino aperto sul suo avambraccio e la immerse nel catino.

“Le macchie verranno via, lascia fare a me” commentò bagnando una cocca dell'asciugamano e strofinandola sul sapone.

 

Sentì l'abbandono di quella mano sul proprio palmo, mentre la schiuma e la ruvidezza del tessuto cancellavano lentamente l'inchiostro dalle dita, e quando sollevò la testa, soddisfatto solo in parte, scoprì che anche lo sguardo di Erwin era abbandonato su di lui.

Non si aspettava che aggiungesse parole a quello sguardo -e infatti non lo fece-, ma quando Levi gli spinse di nuovo la mano nel catino per sciacquarla, lui l'avvolse intorno alla sua, trattenendolo.

 

Grande com'era, la coprì tutta.

 

Nemmeno strinse, rimase a pelo dell'acqua, confondendone il tepore con quello dei loro palmi giunti e con il pollice gli accarezzò più volte il dorso.

 

“Grazie, Levi” mormorò.

 

“Di cosa? Di averti lavato la mano con acqua calda e sapone?”

 

Erwin non gli rispose, si limitò a sorridergli con finta condiscendenza; o almeno ci provò, fin quando un guizzo di dolore gli attraversò la guancia irrigidendogli l'espressione.

 

Tra le sue dita, quelle di Erwin, serrarono la presa.

 

“Stai ancora usando gli antidolorifici?”

 

Non c'era momento, luogo o situazione che potesse in qualche maniera rendere ai suoi occhi sopportabile, la sofferenza di Erwin.

 

“Per quanto abbia più volte ripetuto ad Hange che due settimane erano un tempo ragionevole per svezzare la mia spalla dal torpore dei farmaci, devo ammettere, a onore della sua testardaggine, di aver ottenuto solo una blanda riduzione. È passata stamani presto, per la solita iniezione.”

 

L'istinto che spinse lo sguardo di Levi verso il braccio amputato, gli mostrò quanto rivelatrice potesse essere una mano sporca d'inchiostro: sulla camicia bianca, all'altezza della spalla spiccavano almeno due serie di impronte.

 

“Per una volta sento di dover dare ragione alla Quattrocchi.”

 

“Glielo farò sapere” rise Erwin.

 

Finì di asciugargli la mano in modo che potesse essere libero di massaggiarsi a dovere la spalla dolente e si allontanò per vuotare il catino.

 

Le fiamme vivaci del camino, avevano innalzato notevolmente la temperatura della stanza e nonostante questo nella postura di Erwin, continuava a spiccare la rigidità tipica delle membra intirizzite: un disagio che Levi aveva imparato ad associare a quelle missioni, trasformate in massacro dal sopraggiungere di un temporale improvviso.

 

Farlan e Isabel se ne erano andati in una di quelle e il freddo sembrava non volersene più andare.

 

S'inginocchiò di fronte al camino e dopo aver scostato dai ciocchi in combustione parte delle braci, vi posò il treppiedi e il bollitore.

Afferrò anche una camicia pulita, prima di tornare da lui.

 

“Ti aiuto a cambiarti e poi berremo insieme una tazza di tè caldo.”

L'idea di sedersi al suo fianco, dimenticando per qualche istante l'orda di giganti pronti a divorarli fuori dalle mura e quella dei nobili, appostati sotto le loro finestre speranzosi di fare altrettanto, allettava anche lui.

 

Erwin rimase immobile sotto le sue mani, mentre liberava dalle asole i pochi bottoni che quella mattina si erano lasciati domare dalle sue dita intorpidite, ma quando afferrò il colletto per sfilargliela di dosso, mosse impercettibilmente la testa fino a posare la pelle tesa del collo contro le sue nocche.

 

“Levi...” mormorò.

 

Aprì il palmo e lo lasciò scorrere sulla linea contratta delle spalle: un fascio di nervi in tensione che difficilmente avrebbero ceduto sotto il suo semplice tocco; Levi abbandonò la camicia sulla seduta e portò entrambe le mani sulla sua schiena, esercitando una leggera di pressione.

 

“La prossima volta che sei in difficoltà, chiamami. Questo stoicismo del cazzo ti ucciderà prima dei giganti.”

 

“Lo terrò a mente” sorrise vago Erwin.

Sembrò anche rilassarsi: spostò indietro la testa, chiuse gli occhi e respirò tanto profondamente e con tale regolarità che Levi si chiese se non si stesse addormentando tra le sue mani.

 

Sollevò le palpebre solo quando il bollitore prese a fischiare sul treppiedi del camino e rabbrividì vistosamente; forse lo fece per la perdita delle sue mani calde che gli frizionavano la pelle, ma a Levi quel brivido ricordò l'urgenza di coprirlo con una camicia pulita e magari anche con una giacca di lana.

 

Tolse il bollitore dal fuoco, prima di recuperarla dall'appendiabiti e tornare da lui

 

Di nuovo, Erwin lo lasciò fare mentre gli chiudeva i bottoni uno alla volta sul petto: rimase con il braccio abbandonato lungo il fianco e un affetto profondo nello sguardo, che Levi aveva visto raramente su volti che non fossero il suo. Non si scompose neanche quando gli ravviò i capelli, passandovi le dita in mezzo, si limitò a sollevare lo sguardo, guardandolo dal basso della sua seduta con trasporto immutato.

 

Anche prima che iniziassero a condividere il letto, per quanto Erwin avesse l'intelletto e la forza di sobbarcarsi il destino del mondo -con un bagaglio inscindibile di morte e sangue al seguito-, non si era mai sottratto ad un gesto gentile, anzi per quanto possibile, li aveva incoraggiati.

“Vorrei che tu non dovessi accudirmi così” confessò, tuttavia.

 

“Risparmiami queste stronzate Erwin, sei ancora convalescente, ecco tutto.”

 

Ripiegò la manica destra della camicia e della giacca in modo che non fosse d'intralcio e si avvicinò al focolare per mettere in infusione il tè; nei due minuti che attese prima di filtrarlo nelle tazze Erwin non si mosse, fissò le fiamme con sguardo serio e si riscosse solo quando lo chiamò per nome, porgendogli la tazza.

 

“Mi dispiace, Levi. È oltremodo meschino da parte mia, rammaricarmi per le difficoltà di un braccio mancante, quando molti dei miei uomini hanno perso la vita nell'ultima missione e in quelle precedenti.”

 

Quella confessione, per quanto Levi l'avesse messa in conto, alterò il gusto del tè appena sorseggiato, costringendolo a deglutirne l'amaro assieme agli aromi delicati.

 

Avrebbe voluto dirgli che non era così, che ogni vita nel Corpo di Ricerca era stata liberamente donata in nome della libertà dal giogo dei giganti, che perdere un braccio poteva renderlo vulnerabile, vista la sua posizione, ed era giusto che se ne rammaricasse, e invece, mentre lo osservava bere a lunghi sorsi quella che aveva sperato essere una bevanda confortante, l'unica risposta che gli sovvenne fu tanto brusca che persino Erwin sollevò gli occhi dalla tazza stupito.

 

“Forza, mettiti alla scrivania, fammi vedere come te la cavi con la sinistra. Il Comandante del Corpo di Ricerca non può scrivere come un povero analfabeta del sottosuolo.”

 

“Se ti stai riferendo a te stesso, appellandoti come il più infimo miserabile della città sotterranea, sappi che non s-”

 

“Non voglio parlare di me, Erwin. Voglio vederti scrivere con la sinistra.”

 

Nel momento in cui i loro sguardi s'incontrarono, Levi comprese che per qualche nobile e a lui sconosciuta ragione, quella che lui stesso avrebbe preso come una provocazione e scatenato del risentimento -se non proprio rabbia gelida-, su Erwin aveva prodotto l'effetto contrario.

 

“Va bene, Levi. Suppongo che tu abbia ragione, dopotutto” ammise.

 

Posò la tazza di tè sul panchetto e si alzò per raggiungere la scrivania. Raccolse i fogli uno alla volta e li spostò lateralmente; si sedette solo dopo averli sistemati, notò Levi, forse per avere maggiore accesso al lato destro del piano.

Quella rivelazione lo punse con cattiveria, non per la menomazione in sé, ma per la superficialità scontata che aveva attribuito alle sue abilità.

 

“Come vedi, i miei precedenti tentativi sono stati... mediocri, al meglio.”

 

Levi si portò d'istinto alla sua destra, in modo da poter compensare il braccio mancante e si sforzò di trovare nei fogli precedentemente usati un qualsiasi indizio che gli permettesse di aiutarlo.

 

Non c'era frase che fosse parallela al taglio della carta.

 

“Forse aiuterebbe se tracciassi delle righe sul quel foglio...” azzardò.

 

L'espressione di Erwin, che si trasformò da curiosa a nostalgica, gli fece dubitare del buon senso della sua uscita; del resto che ne sapeva lui di scrittura? Se non fosse stato per Erwin, avrebbe continuato con la pretesa di far passare per firma, quello che a tutti gli effetti era un insulso scarabocchio.

 

Meditò persino di rimangiarsi quanto appena detto, quando Erwin gli porse le squadre in legno che usava per tracciare le traiettorie di una nuova missione, rivolgendogli uno sguardo fiducioso.

 

“Mio padre faceva lo stesso per me, quando ero bambino.”

 

“Dovrai accontentarti di un lavoro molto meno preciso, Erwin. Non ho mai usato questa roba.”

 

Avesse previsto l'accenno di sorriso che gli rivolse e il calore della mano, calata sulla sua a guidare la squadra nella posizione corretta e il sussurro sommesso con cui gli mormorò: “Ecco qua. Adesso fai scorrere l'altra”, avrebbe lasciato il tè a macerare, ignorato le macchie sulla camicia e l'avrebbe spinto a sedersi accanto a lui, a quella scrivania, spalla contro spalla, per il piacere di restituirgli l'arto mancante, e di sentirsi davvero il suo braccio destro, assieme a tutto il resto.

 

Tracciò le righe senza nemmeno rendersi conto di cosa stava facendo e quando si scostò dal piano di lavoro e fece scivolare il foglio davanti ad Erwin, faticò a liberare il tono da ogni tremula inflessione.

 

“Dai, prova adesso.”

 

Nonostante le buone intenzioni, il documento che provò a stilare, indirizzandolo al Comandante Pixis uscì, da sotto la mano di Erwin, incerto e pieno di sbavature, anche se indiscutibilmente più allineato.

 

Erwin sembrò rattristarsi dell'alone d'inchiostro che la sua mano andava trascinando sulle parole già scritte e s'incupì ancor di più rovesciando il pugno per mettere in mostra la pelle già scura di tintura e il polsino che minacciava già d'ingrigirsi.

In mancanza di un incoraggiamento migliore, Levi si risolse a posare la mano aperta sulla sua e a riportarla gentilmente sul foglio.

 

“Se possibile, prova a tenere la mano più in basso rispetto al pennino.”

 

Era un suggerimento talmente scontato che provò imbarazzo nel pronunciarlo a voce alta, ma Erwin annuì con serietà e ruotando leggermente il foglio verso l'alto per facilitarsi il compito, si forzò di scrivere tenendo la mano sotto la riga.

Gli riuscì molto meglio di prima anche se l'attrito del pennino sulla carta provocò diverse macchie.

 

“Forse sei solo troppo rigido, Erwin. Lascia stare quella roba ufficiale per una volta e prova a scrivere qualcos'altro.”

 

“Non sono bravo a scrivere altro, Levi.”

 

Non fece in tempo a commentare l'assurdità delle stronzate che era in grado di sparare certe volte, che Erwin sembrò ripensarci: senza esitare spostò il foglio verso l'alto in modo da avere a disposizione altro spazio e vergò una parola.

 

“Forse avevi ragione” commentò sorridendo, “avrei dovuto scegliere dei contenuti più piacevoli.”

 

Se lo meritava, pensò Levi, di arrossire come una recluta alla prima convocazione, per avergli servito una tale occasione su un piatto d'argento; come se non avesse ancora imparato, dopo anni al suo fianco, quanto Erwin potesse essere imbarazzante nelle sue manifestazioni d'affetto.

 

Dovette ammettere tuttavia che il Levi, tracciato nero su bianco in mezzo alla riga perfettamente pulita, era in effetti molto più fluido di ogni altra parola avesse scritto in precedenza.

 

Erwin aggiunse compiaciuto anche il suo cognome.

 

“Sembra che funzioni, non ti pare?”

 

Che finalmente sorridesse -sorridesse sul serio-, fu il motivo che spinse Levi ad ingoiare il disagio. Si alzò dalla scrivania, però, per dissimulare ciò che Erwin sapeva perfettamente, come il peggiore degli idioti, e trovò un buon compromesso nel riattizzare le fiamme che nel frattempo si erano acquattate sui carboni.

 

“Sì. Bene” commentò semplicemente, “continua ad esercitarti, nel frattempo ti preparo un'altra tazza di tè.”

 

Quando tornò da lui, accanto al suo nome Erwin aveva tracciato anche il proprio e le lettere non erano più così sbilenche.

 

“Va molto meglio, sembra” constatò, porgendogli la tazza che aveva preparato.

 

“Spero che questo stato di grazia si estenda anche ai documenti di Pixis, perché credo di averne per tutta la sera se non addirittura per buona parte della notte.”

 

“Pixis aspetterà.”

 

Posò la tazza vicino allo scrittoio e mentre Erwin si applicava per pulire il pennino prima di riporlo, fece l'errore di volerlo aiutare porgendogli anche il nettapenne. Nello spostare velocemente la mano per afferrarlo, Erwin trascinò con sé anche la boccetta d'inchiostro.

 

Si spostò indietro d'istinto, e passò un istante prima che la sua espressione passasse dallo stupore al dispiacere mentre osservava i rivoli d'inchiostro diramarsi sullo scrittoio.

 

“Prima che tu possa dare la colpa di questo incidente ad una tua presunta goffaggine” si affrettò a chiarire Levi, premendo la carta assorbente sul piano per rimediare al guaio, “sappi è stata colpa mia. Non avrei dovuto distrarti.”

 

Ma Erwin scosse la testa: “Non stavo per incolpare la scarsa scioltezza del mio braccio sinistro. In effetti questo tipo d'incidente mi è capitato sovente: ho sempre avuto la tendenza a perdermi nei miei pensieri di fronte ad uno scrittoio, con le conseguenze che immagini su pennino e calamaio, però mi rammarico di tutto il lavoro che ti sto dando.”

 

Levi si trattenne dal sollevare gli occhi al cielo: l'inchiostro rovesciato, per la verità, non era molto, con un unico passaggio lo aveva assorbito quasi tutto; si spostò per afferrare uno straccio e diede un ultima passata al piano.

 

“Non mi dispiace pulire, lo sai.”

 

Constatò con sollievo che l'umore di Erwin non si era guastato a causa di quel piccolo incidente, ma quando lo vide allungare la mano verso i documenti che Pixis gli aveva fatto recapitare, non riuscì a impedirsi d'intercettarla.

“Penso che per stasera tu abbia fatto abbastanza.”

 

Erwin innalzò gli estremi delle sopracciglia e lo guardò con affetto: “Quello che ho fatto è meno di niente.”

 

“Erwin...”

 

Se ogni figura di rilievo della capitale avesse avuto anche solo la metà della misura del dovere di Erwin, Paradis sarebbe stata il doppio florida, se non proprio libera.

 

“Non credo sia saggio impigrirsi, nella mia condizione” aggiunse, come se non fosse stato già sufficientemente chiaro.

 

“Nessuno ti sta spingendo ad impigrirti, Erwin” ribatté risoluto, afferrandogli la mano e trascinandolo gentilmente con sé.

 

Fortuna che lui poteva vantare una testardaggine quasi pari alla sua.

 

“Quello che ti sto proponendo, Comandante, è di allenare questa mano in qualcosa che non sia firmare scartoffie di merda.”

 

 

 

Fine.

 

  
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