Anime & Manga > Yuukoku no Moriarty/Moriarty the Patriot
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Autore: Ode To Joy    09/05/2022    1 recensioni
[Sherlock x William]
“Avrei voluto baciarti.”
Il sorriso di Liam s’infranse lì, contro lo smarrimento provocato da tanta sincerità. “Quando?”
Sherlock sbuffò una nuvola di fumo. “Tutto il tempo…?” Lo stava chiedendo anche a se stesso. “So per certo che quando mi hai chiamato per nome, ho pensato di fare la follia di saltare giù dal treno e baciarti.” Una pausa. “Forse avrei dovuto farlo…”

Blank Canvas II
Spoilers dal Vol. 14 in poi.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Sherlock Holmes, William James Moriarty
Note: AU, Soulmate!AU, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Blank Canvas '
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A Europa91, per il suo compleanno.

 

An Open Book 
 

 



New York, 1880

Liam sussultò. Il sonno gli scivolò addosso velocemente, lasciandolo a fissare il buio della camera da letto. Se era stato un incubo a svegliarlo, non lo ricordava. Si sollevò sulle braccia con cautela, come se avesse il timore che qualcosa potesse spuntare fuori dalle tenebre e aggredirlo. Istintivamente, guardò verso il comodino, alla ricerca della sua spada. Non la trovò. Era finita nel Tamigi mesi prima. Chiuse l’unico occhio libero dalle bende e si diede dell’idiota.

Non era disceso all’inferno. Un folle con i capelli neri glielo aveva impedito.

Era nella sua stanza, a New York. Era al sicuro.

“Sherlock…” Chiamò in un mormorio, allungando il braccio alla sua destra. Non trovò nessuno accanto a lui, solo la coperta intoccata e la federa del cuscino fredda.

La bocca di Liam disegnò una linea sottile, mentre ricordava perché Sherlock non era lì, accanto a lui. I Pinkerton lo avevano mandato in missione fuori città e a Liam non era dato sapere dove. Quelle erano le regole. La maggior parte delle volte, Sherlock si occupava di questioni Top Secret. In quanto semplice civile, Liam non poteva essere a conoscenza di alcun dettaglio. Sapeva quando il compagno se ne andava, lo accompagnava in strada e lo guardava salire sulla carrozza nera del governo, ma non aveva la minima idea di quando sarebbe tornato. 

E Liam non poteva fare altro che salutarlo con un sorriso, per poi gettare la maschera e restare solo con la sua malinconia.

“Se lavorassi con noi, il Signor Ponytail non dovrebbe omettere tutto ciò che riguarda i Pinkerton, durante le vostre conversazioni,” aveva detto una volta Billy, forse intuendo che al giovane Moriarty non faceva piacere essere lasciato indietro. “Sarebbe più semplice per entrambi, non credi?”

Liam non aveva avuto il tempo di rispondere che Sherlock era intervenuto aspramente nella conversazione. “Billy, non fare pressione a Liam!” Aveva esclamato, senza disturbarsi a nascondere l’irritazione. “Quando avrà qualcosa da dirci, lo farà!”

Il giovane Americano aveva alzato le mani in segno di resa, aggiungendo al tutto un sorriso nervoso, come per confermare che non aveva mai avuto cattive intenzioni. 

L’argomento era caduto lì.

Lui e Sherlock non avevano più ripreso il discorso e Liam ne era sollevato. Non voleva mettere al corrente il compagno delle proprie difficoltà perché sapeva che si sarebbe biasimato per ognuna di loro.

Sherlock gli stava dando l’opportunità di ricominciare, di scrivere un futuro basato sulle proprie scelte. Per farlo aveva bisogno di tempo, di guarire. Il sostegno e l’affetto che Sherlock gli stava dando non si potevano quantificare. Il minimo che Liam poteva fare era sopportare quella solitudine in silenzio, insieme a tutti i demoni che si portava dietro.

Si lasciò cadere tra i cuscini con un sospiro e fissò il soffitto del baldacchino, senza realmente vederlo. Non sarebbe riuscito a chiudere occhio per il resto della notte e la preoccupazione lo avrebbe accompagnato fino al mattino.

L’unico conforto, Liam lo trovava nei libri ma non sempre erano sufficienti. Ogni volta che sentiva qualcuno salire le scale del palazzo, si bloccava e tratteneva il fiato, fino a che non udiva i passi interrompersi troppo presto o procedere oltre il loro pianerottolo.

Quella notte, il destino fu magnanimo con lui. 

La porta d’ingresso si aprì. Dopo un istante di smarrimento, Liam corse a indossare la vestaglia. “Sherlock,” chiamò a bassa voce, spostandosi nella zona giorno dell’appartamento. 

Non fu il Detective che trovò. 

Attraverso le finestre sprovviste di tende, la luce della strada illuminava la stanza ma Liam poté vedere chiaramente quanto provato era il viso di Billy.

“Signor William…” La voce del giovane Americano era inferma. “Mi dispiace…”

La confusione di Liam durò solo un istante, ma il suo cuore si rifiutò di accettare ciò che la sua mente aveva già compreso. “Dov’è Sherlock?”

Billy scosse la testa ed ebbe difficoltà a parlare di nuovo. “Mi dispiace tanto, Signor William, ripeté e, incapace di aggiungere altro, allungò all’Inglese una giacca nera.

Liam la riconobbe immediatamente come quella di Sherlock. Sotto le dita avvertì immediatamente la forma regolare dei fori di proiettile sulla stoffa. Ne contò sette. Era improbabile che chi indossava quell’indumento fosse uscito dalla sparatoria sulle proprie gambe. 

Impossibilitato a negare ulteriormente la realtà, Liam sentì un dolore sconosciuto propagarsi dal petto. Di colpo, respirare divenne faticoso, doloroso. Nel buio, cercò gli occhi di Billy, nella speranza che aggiungesse qualcosa a quella che, altrimenti, era la dichiarazione di un decesso.

“Sherlock è ferito gravemente?” Domandò Liam. La sua voce era ferma, controllata. Era tornato quello di Londra, il Lord del Crimine, che non avrebbe accettato un no come risposta all’ordine che seguì: “portami da lui, Billy. Non m’interessa quali sono le regole dei Pinkerton. Portami da Sherlock, immediatamente!”

Per un attimo, il timore rese grandi gli occhi del giovane Americano, ma venne presto sostituito da un dolore chiaro, innegabile. “Non posso più portarla da lui, Signor William,” disse. “Sherlock Holmes non c’è più… Non è più da nessuna parte.”




 

L’incubo si frantumò nel momento in cui divenne insopportabile.

Con l’unico occhio color rubino perso nell’oscurità che riempiva la camera da letto, Liam si aggrappò all’aria come un naufrago in mezzo alla tempesta. L’aria non gli era mancata così dolorosamente nemmeno quando lui e Sherlock erano caduti nell’acqua del Tamigi.

Non aspettò di riprendersi. Si alzò in fretta sulle gambe inferme e trovò un appiglio in una delle colonne del baldacchino. Quel letto era ridicolo in una camera di dimensioni ridotte come quella, ma Sherlock lo aveva voluto a tutti i costi. 

Glielo aveva raccontato Billy: “il Signor Ponytail sostiene che un baldacchino sia indispensabile per farla sentire a casa, Signor William.”

Sherlock non aveva mai visto né la sua camera a Durham, né quella di Londra, ma era facilmente intuibile che un giovane uomo del suo lignaggio - rubato a un ragazzino crudele morto più di un decennio prima - fosse abituato a mobilio esagerato di quel genere.

Il pensiero del Detective spinse Liam a posare lo sguardo sul lato intoccato del letto. 

Possibile che a quasi venticinque anni di età non fosse più in grado di dormire da solo?

Gli incubi e le notti insonni lo accompagnavano da tutta la vita, ma lì, a New York, era peggio. I suoi peccati erano un fardello enorme ma familiare. Vivere nel terrore di perdere Sherlock era qualcosa a cui nulla lo aveva preparato. 

Il peso che sentiva comprimergli il petto sparì poco a poco. Quando tornò ad avere un respiro regolare, Liam si avvicinò alla sedia accanto alla porta del bagno e s’infilò la vestaglia che aveva lasciata appesa allo schienale. Rimanere in quella camera da solo avrebbe infinito per farlo impazzire.

La zona giorno non era meno fredda e vuota, ma le braci lasciate a morire nel caminetto gli offrirono un po’ di conforto.

Liam recuperò un pezzo di legno e l’attizzatoio. Non appena una debole fiamma illuminò la stanza, s’inginocchiò sul tappeto, guardandola danzare nel buio. Per un po’ si lasciò ipnotizzare ma fu una distrazione di breve durata.

“Sherlock sta bene,” disse all'appartamento vuoto. Non bastò a mettere a tacere le sue paranoie, così lo ripeté: “Sherlock sta bene.”

E se non fosse stato così? 

Se fosse stato ferito in azione, Billy lo avrebbe informato o lo avrebbe lasciato ignaro, ad attendere?

Per gli Stati Uniti, Henry Antrim era già morto. Nel caso in cui Billy fosse caduto durante una missione, il mondo non lo avrebbe mai saputo, nessuno lo avrebbe pianto. 

Sherlock Holmes era morto per l’Impero di Gran Bretagna, ma Liam era lì e lo aspettava.

Era destino di ogni agente segreto del governo morire nell’ombra? Liam non si era mai posto il problema: grazie ad Albert, aveva sempre avuto i Servizi Segreti Inglesi a portata di mano.

Ma New York non era Londra.

Il Nuovo Mondo non era casa.

Liam poteva avere una mente brillante ma in quel paese non vantava né potere né appoggi.

Nemmeno nelle vesti di un orfano dell’East End si era sentito tanto impotente. Era stato un bambino in un mondo senza pietà e Louis gli era sempre stato accanto. Liam sapeva bene cos’era la disperazione, ma quella era la prima volta in vita sua che soffriva la solitudine.

Sherlock gli aveva impedito di assaggiarla davvero anche alla fine del suo piano autodistruttivo. E, ora, era proprio l’assenza del Detective a farlo sentire tanto miserabile.

Liam inspirò profondamente dal naso e dischiuse le labbra per fare uscire l’aria. La stanza si stava scaldando ma lui aveva ancora freddo. Affermare che Sherlock aveva scelto di lavorare per i Pinkerton era una gran menzogna. Vista la loro situazione, non gli era stata concessa grande possibilità di manovra. Billy gli aveva teso una mano mentre Liam lottava tra la vita e la morte e le loro famiglie li credevano morti, tutto qui.

Tornare indietro non era mai stata un’opzione.

Addossandosi tutto il peso della loro posizione precaria, Sherlock lo aveva salvato due volte.

E Liam se ne stava lì, in un appartamento che senza il suo compagno non era casa. bloccato in un problema esistenziale che non poteva risolvere con una formula matematica: come posso rimediare ai miei peccati?

E Sherlock non pretendeva nulla in cambio. Gli dava tempo, gli concedeva spazio. Ma dove il Detective era calmo e paziente, Liam non ne poteva più della sua inutilità. Non aveva mai parlato a Sherlock di quel suo turbamento per non doverlo caricare di altro. In sua presenza sorrideva, partecipava con entusiasmo alle loro conversazioni e ogni istante che era per loro - solo loro - provava ad accorciare sempre di più la distanza che li separava.

E Sherlock s’impegnava in questo tanto quanto lui.

Accettare di essere l’uno l’Anime Gemella dell’altro e vedere tutti i colori del mondo era niente in confronto a quanto serviva mettersi in gioco per costruire un futuro in due. Per quello serviva tempo, costanza. Quest’ultima non mancava mai, il primo non era mai abbastanza. 

Liam non chiuse occhio per il resto della notte.



 

Sherlock tornò a casa due giorni dopo




 

Quando la carrozza si arrestò, Sherlock si svegliò di colpo e ci mancò poco che cadesse di faccia sul sedile che aveva di fronte. Imprecò tra i denti, roteando il collo indolenzito. Gli faceva male tutto, dalla testa in giù. Una vita regolare non gli era mai appartenuta, ma c’era una bella differenza tra il decidere di avere orari orribili autonomamente e dover sottostare alla volontà di un’organizzazione governativa. Se Sherlock avesse dovuto dire la sua ad alta voce - e, per una volta, non aveva alcuna intenzione di farlo - avrebbe affermato che non gli piaceva lavorare per i Pinkerton. Non era abituato a essere alle dipendenze di qualcuno. Aveva sempre scelto i propri lavori per capriccio, seguendo i suoi gusti - difficili - e l’umore del momento. A New York non poteva permetterselo: non solo aveva fatto un accordo con Billy, al quale doveva sia la propria vita che quella di Liam, doveva anche mantenere se stesso e il compagno in qualche modo.

Per la prima volta nella sua vita, Sherlock stava sperimentando sulla sua pelle il concetto responsabilità. Fino ad allora, era stato tanto ingenuo da pensare che la vita gli avesse già impartito quella lezione a Londra. Oggi, Sherlock realizzava che era ben diverso giocare a fare l’eccentrico sotto il cielo plumbeo in cui era nato e doversi guadagnare da vivere in un paese straniero, dove non conosceva nessuno e tutti lo consideravano il protagonista di una saga di libri di successo. Ed era bene che continuasse a essere così.

L’anonimato era necessario per concedere a Liam il tempo di cui aveva bisogno per capire come fare quello che doveva. Inoltre, era indispensabile a Sherlock per svolgere il suo lavoro secondo le regole dei Pinkerton. 

Billy era molto bravo a riempire il silenzio con le chiacchiere e, come già detto, Sherlock gli doveva molto, ma non era John, non era la signorina Hudson e nemmeno quel noioso di suo fratello Mycroft. Con Liam non ne parlava: lamentarsi con lui della propria nostalgia sarebbe stato vergognoso.

“Tutto questo è temporaneo,” si disse, raccogliendo le forze per alzarsi e uscire dalla carrozza. “Sì, è temporaneo ed è per Liam.”

E lo credeva davvero.

Sherlock sapeva che c’era un ritorno a Londra nel loro futuro. Doveva crederci perché non poteva concepire un’intera vita così, con lui che se ne andava in missione non appena i Pinkerton lo convocavano e Liam a casa, da solo, che lo aspettava.

Non appena mise piede sul marciapiede, Sherlock maledì il sole al punto da costringerlo a chiudere gli occhi. Gli mancava la pioggia, l’odore della terra dopo un temporale. Gli mancava il suono ritmico delle gocce contro il vetro della finestra e il rombare del tuono che si faceva sempre più vicino. Voleva di nuovo tornare a casa di corsa, bagnato da capo a piedi perché non portava mai l’ombrello con sé. 

Sherlock aveva letto da qualche parte che il maltempo influenzava negativamente l’umore delle persone, ma per lui era tutto il contrario. Forse perché era Inglese. 

Entrò nell’atrio del palazzo in cui abitava, slacciandosi i primi due bottoni della camicia con un sospiro un po’ stanco e un po’ di sollievo. Era sudato, non aveva un buon odore, era tutto dolorante e anche di pessimo umore. 

Billy gli aveva promesso che i Pinkerton non lo avrebbero cercato per un po’ e se Sherlock lo avesse beccato ad attraversare la loro strada mentre fumava sul piccolo terrazzo del suo appartamento, era pronto a tirargli qualcosa in testa. Liam era il solo che voleva vedere, l’unico con cui aveva voglia di parlare. Sherlock era pronto a chiudere tutte le tapparelle di casa, tagliare fuori quel sole maledetto e l’intera New York e fingere che non esisteva niente e nessun altro all’infuori di loro. Non che fosse molto difficile. Non aveva ancora comprato le tende ma Liam, con la sua sola presenza, era capace di fargli dimenticare ogni cosa che si trovava fuori da quelle finestre. 

Quando erano insieme, il tempo scorreva in modo diverso.

Sherlock avrebbe voluto rallentarlo. Era come se dovessero recuperare ventiquattro anni passati l’uno fuori dalla vita dell’altro in giorni di soli ventiquattro ore. Non erano sufficienti.

Sherlock salì gli scalini del palazzo due a due. La voce gentile di Liam lo raggiunse a metà della seconda rampa: “hai sbagliato questo passaggio, guarda,” lo sentì dire. “Prima devi fare l’operazione dentro la parentesi, poi procedi. Hai capito?”

Arrivato in fondo alla quarta, Sherlock riuscì ad avere un’immagine chiara di quello che stava succedendo: il loro pianerottolo si era trasformato in una classe improvvisata di bambini che non potevano superare i dieci anni di età. Tutti erano armati di penna e quaderno, seduti sui gradini. Liam era in mezzo a loro, occupato a controllare l’esercizio di una bambina con le trecce lunghe fino a metà schiena. Sherlock rimase immobile dov’era, aspettò che Liam finisse la sua spiegazione, poi guardò la bambina ripetere le operazioni per correggere l’errore. Quando sottopose la sua prova al giudizio dell’insegnante per la seconda volta, Liam sorrise soddisfatto. “Sì, esatto, il risultato è giusto.”

Sherlock sentì gli angoli della bocca sollevarsi. Simulò un paio di colpi di tosse per annunciare la sua presenza. L’occhio color rubino di Liam fu immediatamente su di lui, insieme a quelli di tutti i suoi piccoli studenti. Si alzarono tutti. “Buongiorno, signor Holmes,” dissero in coro. Ecco dove finiva il suo anonimato.

“Bentornato a casa, Sherlock,” si aggiunse Liam, sollevandosi in piedi a sua volta. “Per oggi basta così. Riprendiamo sabato prossimo, va bene?”

I bambini annuirono, poi raccolsero le loro cose. Salutarono educatamente, prima di spartirsi in due gruppi: uno salì le scale e l’altro le scese. Sherlock si fece da parte, lasciando passare un trio composto da due maschi e una femmina. Quando calò il silenzio nella tromba delle scale, il Detective seppe che era arrivato il suo momento. 

“Che ti è successo?” Domandò Liam, mentre l’altro lo raggiungeva. “Hai un aspetto… Provato.”

La pausa di mezzo fece intuire a Sherlock che non doveva affatto essere uno spettacolo piacevole da guardare, ma il giovane Moriarty si era sforzato di trovare una parola che non suonasse come un insulto.

“Tranquillo, non mi hai ancora visto al peggio di me.” Replicò Sherlock. Liam aveva scoperto da solo della sua tossicodipendenza già al loro primo incontro, ma non aveva mai avuto occasione di conoscere quel lato di lui. Ne era grato. “Vedo che ti diverti in mia assenza.”

Liam reclinò la testa da un lato. “Sei geloso?” Domandò, divertito.

No, Sherlock Holmes non era tanto possessivo. Era solo il tipo da mettere il muso e vestire a lutto in occasione del matrimonio del proprio migliore amico. Povero John, non lo avrebbe mai visto convolare a giuste nozze con Mary. Anche se aveva la mente occupata da mille preoccupazioni più impellenti, gli dispiaceva.

“Di un branco di mocciosi?” Sherlock fece per circondargli le spalle con il braccio, poi ricordò che doveva farsi un bagno ed evitò il contatto fisico. “Se ti aiuta a passare il tempo in mia assenza, ne sono felice.”

“Ho sempre insegnato,” disse Liam, entrando nell’appartamento per primo. “Anche da piccolo, per le strade dell’East End di Londra o negli orfanotrofi che ci accoglievano. Nessuno di quei bambini sapeva leggere, scrivere o fare i calcoli. L’ho sempre trovato indispensabile per sopravvivere, così ho cominciato a dare lezioni ai più grandi. La mia speranza era che passassero quella conoscenza ad altri. Superare l’analfabetismo non è una cosa da poco per un bambino dei bassifondi.”

Fu Sherlock a chiudere la porta, esiliando il resto del mondo fuori e tanto bastò a liberarlo di metà della stanchezza che aveva sulle spalle. “Sei portato per fare l’insegnante,” concluse. “Ti avevo già visto a Durham, ma adesso è stato diverso…”

Liam lo guardò togliersi la giacca e sedersi al suo solito posto, al lato destro del piccolo tavolo da pranzo. “Che vuoi dire?”

Sherlock scrollò le spalle. “Non lo so,” ammise. “Per me i bambini sono mine vaganti. A Londra, erano i miei informatori di fiducia. Sono svegli, attenti e molto più efficienti degli adulti, ma riuscire ad avere tutta la loro attenzione come hai fatto tu poco fa…” Alzò entrambe le mani. “Per me è stregoneria."

“Vuoi qualcosa da mangiare?” Liam cambiò discorso, preoccupato dalle condizioni esauste in cui versava il moro. “Quando ho detto che non hai una bella cera, non l’ho fatto per prenderti in giro.”

Sherlock non si trattenne dal sorridere, beato. “Quella che avverto è premura?” Sapeva da sé che lo era e gli faceva piacere.

“Deformazione da fratello maggiore, credo,” disse Liam, attraversando la stanza per raggiungere l’angolo della cucina. 

Sherlock si alzò e lo affiancò. “Mi faccio solo una tazza di caffè, poi vado ad annegarmi nella vasca da bagno,” disse, prendendo tutto quello che gli serviva dalla credenza. “Puzzo come uno stalliere.”

Liam lo guardò in modo vagamente accigliato. “Non muoio di fatica a preparati una tazza di caffè.”

William, tu non capisci,” disse Sherlock, con aria esageratamente drammatica, mentre accendeva il fornello con un fiammifero. 

“Oh, nome intero. Deve essere una cosa seria.”

“Lo è veramente!” Esclamò Sherlock. “A Baker Street mi scordavo di mangiare, di dormire… Se non stavo facendo nulla e volevo un bicchiere d’acqua, mandavo John a prenderlo per me. È estremamente importante per la mia maturazione farmi questa tazza di caffè da solo, lo capisci?”

Se la Hudson lo avesse visto impegnarsi per tenere quel loro appartamento pulito e sempre in ordine, c’era la seria possibilità che finisse assassinato e sepolto in cantina. Avesse avuto un penny per ogni volta che John era stato ringraziato per prendersi cura di lui…

Mycroft non riusciva ancora a credere che fosse sopravvissuto anni senza nessuno a supervisionarlo. Esclusa quella volta che lo aveva salvato da un principio di overdose, ma non era una storia che gli piaceva raccontare. Sherlock non aveva ragione di nascondere il peggio di sé a Liam. I lati di lui che altri avevano vissuto poteva raccontarli.

Raccontarsi.

Ma Liam non aveva bisogno di quello Sherlock Holmes, quello troppo eccentrico e capriccioso che sparava contro il muro e suonava il violino nel cuore della notte.

“E te lo portava?” Domandò il giovane Moriarty.

“Cosa?”

“Il bicchiere d’acqua. Te lo portava?”

“Sì, perché, in quanto medico, non poteva lasciare che mi spingessi verso un principio di disidratazione.”

“Lo immagino come un uomo molto paziente.”

“E fai bene.”

“Sei tu quello che non afferro,” aggiunse Liam, più seriamente.

“Non è necessario,” disse Sherlock con nonchalance. “Io ho afferrato te.”

“Sherlock…”

Il Detective ridacchiò. “Mi fermo ancor prima d’iniziare,” promise. “Prenditi il caffè con me, Liam. Parliamo un po’.”

“Lo stiamo già facendo,” ribatté il biondo. “Lo facciamo sempre.”

“Lo abbiamo sempre fatto,” aggiunse Sherlock. “Siediti, ti servo io.” 

Liam lo accontentò e passarono alcuni minuti di silenzio, fino a che Sherlock non si avvicinò al tavolo con due tazze fumanti. “Per la cronaca, io sono un fratello minore e penso che il massimo della premura che Mycroft abbia avuto per me sia stata non soffocarmi nella culla.”

Liam rise. Sherlock gli passò il suo caffè con un sorriso soddisfatto: missione compiuta.

“Cosa intendi quando dici che non mi afferri?” Il Detective riprese la conversazione, portandosi la propria tazza alle labbra. 

L’unico occhio scoperto di Liam si prese un istante per studiarlo. “Sei diverso,” disse. “Come dire? Ti ho conosciuto a Londra e non ho alcuna difficoltà ad accostare quello Sherlock Holmes alle storie che racconti.”

“Ma…?”

“Ma l’uomo che ho incontrato ai piedi di quella scalinata non è lo stesso che ho davanti in questo momento.” Concluse Liam. “Perché?”

Sherlock storse la bocca in una smorfia. “Ho una teoria,” ammise. “Penso che il colore dei tuoi occhi mi abbia dato alla testa.”

Liam sospirò. “Il momento di serietà è durato due minuti, un record.”
Il moro allungò il braccio per afferrare la sua mano. “Sono serio,” disse e l’espressione che aveva sul viso lo confermava. “Perché devo sempre sottolinearlo?”

Liam gli rivolse un sorriso pieno di affetto. “Perché hai la faccia da canaglia.”

Sconvolto, Sherlock gli puntò l’indice contro. “Non dirlo mai più,” disse, secco.

“Perché no?”

“Perché è una cosa che Mycroft ripete dall’alba dei tempi. Sostiene che canaglia è il mio secondo nome. Non potete pensare le stesse cose: ne va della mia salute mentale!”

Liam intrecciò le dita a quelle dell’altro. Era diventata una cosa naturale in poco tempo, il loro modo di cercarsi a vicenda. 

“Penso sia l’unico dettaglio che ti differenzia da tuo fratello,” aggiunse il biondo, consapevole di peggiorare la situazione. “La faccia da canaglia e la lunghezza dei capelli.”

“Oh, volano insulti pesanti oggi, professor Moriarty!” Esclamò Sherlock, senza lasciare andare la mano del compagno. 

Compagno.

Dopo aver discusso e accettato la loro condizione di Anime Gemelle, era questo il modo in cui avevano scelto di definirsi, anche se non era una realtà che poteva superare la sfera del privato. Sherlock se lo era lasciato sfuggire con Billy, ma lui era una persona fidata. Al di fuori del ragazzo, la verità avrebbe compromesso entrambi agli occhi della società. In questo, New York non era diversa da Londra. Erano volati giù da un ponte in costruzione per cambiare il loro mondo, ma Sherlock temeva che quello non fosse il secolo giusto per spingere la gente ad accettare quello che erano. Non lo sopportava. Fosse stato per lui, avrebbe confessato alla Regina stessa ogni cosa, senza nemmeno inginocchiarsi, a testa alta.

Tra di loro, non avevano nemmeno affrontato l’argomento: sapevano che era una causa persa.

“Anche io, certe volte, mi sento disorientato,” ammise Sherlock. “William James Moriarty, Il Signore del Crimine, bravo con i bambini.”

Liam si lasciò sfuggire una mezza risata, poi la sua espressione divenne malinconica. “Sono i più indifesi. I bambini, intendo,” disse. “Eppure, sono certo che il futuro abbia inizio da loro.”

Sherlock strinse le labbra, portando lo sguardo lontano dal viso di Liam. “C’è una domanda che non ti ho mai fatto.”

Liam intuì dove voleva arrivare. “Si tratta dell’unico bambino che ho mai ucciso, vero?”

Sherlock era ragionevolmente troppo stanco per affrontare quel discorso, ma aveva iniziato lui. “Non so niente di quel caso.” Evitò di proposito la parola omicidio. “Solo quello che sanno tutti e so che non racconta la verità.”

Liam abbassò lo sguardo. “La gente tende a sottovalutare la crudeltà dei bambini.”

“Parli del vero William?”

“Sì, ma non solo…” Liam voltò lo sguardo in direzione della finestra, verso quel sole troppo allegro per la conversazione che stavano affrontando. “Non non ho più provato rabbia e odio come quando ero bambino,” ammise. “Crescendo diventa tutto più controllato.”

Sherlock non sapeva di cosa stava parlando. Mycroft sosteneva che la parola controllo non faceva parte del suo vocabolario - insieme a contegno. La confusione che provocava da bambino se l’era portata dietro, fino a Baker Street. Negli anni, aveva solo cambiato forma. Quei mesi a New York, tra le missioni dei Pinkerton e Liam in ospedale, erano stati i più contenuti della sua vita.

Senza lasciargli la mano, Liam slacciò il polsino della camicia e tirò su la manica. Sherlock posò lo sguardo sul suo avambraccio in automatico, ma appena il suo sguardo si fece attento, il suo viso cambiò completamente espressione.

Liam sentì la pressione di quegli occhi blu, ma non sollevò il viso. “È durata un anno. Mese più, mese meno,” raccontò, passando le dita della mano libera sulle cicatrici oblique, causate dal frustino della Contessa Moriarty. “Albert sa la metà dei fatti. Quando ci riuscivo, cercavo di nascondermi anche da Louis. Non era mai William a sporcarsi le mani. Lui era crudele a parole, ma vigliacco in tutto il resto. Gli piaceva guardare, vedere gli altri soffrire.”

Sherlock non disse nulla e Liam proseguì: “il Conte, il padre di Albert, non s’interessava a noi. Sua madre, al contrario, sfogava su di me tutta la rabbia e la frustrazione che il suo ruolo di moglie e madre le provocava. William mi accusava di qualcosa e lei era ben felice di punirmi come meglio credeva.”
“Non ti sei mai ribellato?” Sherlock si rese conto che era una domanda stupida subito dopo averla rivolta ad alta voce. Scosse la testa. “Sono un idiota. Fai finta che non abbia detto niente.” 

Liam passò sopra il suo errore, come se non avesse mai parlato. “A me bastava che non toccassero Louis…” Ammise. “Nel frattempo, dovevo capire che cosa voleva davvero Albert.”

“E cosa voleva?”

“Lo sai benissimo da te.”

“Voleva che commettessi un omicidio di cui lui non voleva sporcarsi le mani.”

Fu a quel punto che Liam sollevò la testa. “Non è così.” Abbassò la manica della camicia in modo da coprire le cicatrici. “Quello che sto cercando di raccontarti è la rabbia che covavo dentro, mentre mi punivano.”

“Liam, penso che chiunque-”

“Sherlock, non voglio che tu mi difenda,” lo pregò il giovane Moriarty. “So di cosa sono colpevole. Sto solo cercando di essere onesto con te. Sì, mi facevano cose terribili e così io le ho fatte a loro. Non cercare di distinguere la vittima dal carnefice. In questa storia, non esiste una simile suddivisione di ruoli.”

Sherlock decise che era sufficiente, ma c’era ancora un dubbio che aveva bisogno di togliersi. “Io conosco il tuo vero nome.” Era stato Liam stesso a rivelarglielo, attraverso un certificato di nascita. “Preferici che-?”

“No.” Liam non gli diede il tempo di chiederlo. “Hai detto di aver scelto di proposito un nome con cui non mi ha mai chiamato nessuno,” gli ricordò. “È il tuo nome per me. Va bene così.”

Sherlock inspirò profondamente dal naso. “Io non ho vissuto il dramma della povertà,” disse. “La crudeltà delle classi sociali l’ho conosciuta prima attraverso Mycroft, che ha fatto di tutto per integrarsi nella nobiltà, pur non avendo i natali giusti; poi l’ho provata sulla mia pelle, al college, ma ne sono uscito. Sono diventato un adulto, anche se non secondo le regole della società in cui siamo cresciuti. Londra non era il luogo adatto per essere eccentrico, ma non m’importava. Non ho mai voluto l’approvazione di nessuno. Anzi, mi divertiva creare scompiglio, essere la pecora nera, capisci?” Fece una pausa. “Io ce l’ho fatta e ce l’hai fatta anche tu.”

Liam scosse la testa. “Non è la stessa cosa.”

“Lo so che non lo è.” Sherlock aveva bisogno di farsi capire, ora più che mai. “Non fingerò mai che tu non abbia fatto quello che hai fatto. Sarebbe il peggiore degli insulti. Voglio solo che tu sappia che siamo qui, insieme, ognuno col proprio passato.” Esitò nel dire quello che poi disse: “anche se sono certo che, alla fine, è stato Albert a uccidere la sua famiglia.”

Liam scosse la testa. “Non ha senso sottolineare questo fatto e cercare di affermare una differenza tra me e lui che non c’è,” ribatté. “Quella notte è cominciato tutto per noi tre. Forse Albert era un’arma già carica ma sono stato io a premere il grilletto. La mia oscurità non era la sua, non poteva esserlo. Io ho cercato solo di definirla, di renderla un ideale per il quale valesse la pena sporcarsi le mani.”

“Posso essere schietto?” Domandò Sherlock, ma non aspettò che l’altro gli desse il permesse di continuare. “Non ho mai capito dove finisce l’utilità e comincia l’affetto, tra di voi.”

“Quando è capitato che la trama del mio piano si è confusa coi nostri sentimenti, Sherlock?”

Il Detective non rispose.

“Ecco…” Confermò Liam, paziente. “Posso risponderti che Albert è mio fratello. Chiaro e semplice.”
“Hai detto che la sua oscurità era diversa dalla tua. Lui… Albert, lo ha capito il tuo odio verso il mondo?”

Liam non rispose immediatamente. “Questo è ciò che non riesci ad afferrare di me,” concluse. “E non lo sopporti.”

“Posso fare delle ipotesi,” disse Sherlock, ”ma anche a me riesce difficile pensare al giovane in mezzo ai bambini di poco fa e accostarlo al Signore del Crimine. Comprendo e accetto che ancora non sappiamo tutto l’uno dell’altro e, allo stesso tempo, so che la contraddizione fa parte della natura umana. Tuttavia, un po’ mi rode.”
“Che cosa?”

“Il fatto che tu riesci a leggermi come un libro aperto, mentre io non riesco a fare lo stesso con te,” rispose il Detective e fu come confessare la resa di fronte a una cruda realtà. "Quell'oscurità di cui parli, io la vedo. È una parte di te e non posso ignorarla, ma non riesco a guardarci attraverso.”

Liam comprese appieno il motivo del suo cruccio. Purtroppo, non aveva una soluzione efficiente da offrire. “Temo di non sapere ancora come illuminarla, mi dispiace,” disse. “Nemmeno io sono in grado… No, forse non sono pronto a guardarci dentro. Per questo non so come raccontartela.”

A quel punto non c’era molto altro d’aggiungere. Nessuno dei due aveva finito il caffè, che era diventato troppo freddo per essere gustato. Sherlock si era perso a guardare il vuoto, mentre Liam fissava il suo profilo.

Le loro dita erano ancora intrecciate.

“A che cosa pensi?” Domandò il giovane Moriarty.

“Che devo farmi un bagno,” disse Sherlock, schietto. “Non mi va di starti vicino mentre puzzo in questo modo.”
Liam sentì il cuore farsi più leggero ma, mentre Sherlock lasciava andare la sua mano, comprese che, tra le righe, vi era la necessità di porre un freno alla loro conversazione.

Lo accettò con un sorriso malinconico.

“Faccio in fretta, Liam.”
“Ti aspetto, Sherly.”



 

Liam scelse un libro e si sedette sul divano. Aveva bisogno di rilassare un po’ la mente, distraendola coi pensieri di un autore di suo gradimento. Il bagno era adiacente alla loro camera da letto, ma Sherlock fu molto rumoroso in ogni suo movimento. Liam sentì l’anta dell’armadio aprirsi e richiudersi, l’acqua che scorreva nella vasca da bagno, mentre il Detective fischiettava un motivetto che non riuscì a riconoscere.

Pur con il libro tra le mani e l’unico occhio fisso sulle parole stampate, Liam non lesse una riga. Rimase in ascolto, udì Sherlock immergersi nell’acqua con un’esclamazione sollevata, poi il fischiettio riprese. Andò avanti così per una ventina di minuti, seguì un silenzio improvviso. 

Liam inarcò il sopracciglio, appoggiò il libro da una parte e tese le orecchie. Nulla.

La cosa non lo preoccupò per altri cinque minuti, che si conclusero col rumore distintivo di acqua che si agitava e le imprecazioni di Sherlock. Liam saltò su dal divano e corse nella stanza da bagno senza chiedere il permesso.

“Sherlock!”

Trovò il Detective seduto nell’acqua, mentre tossiva violentemente con la mano davanti alla bocca. Liam si avvicinò e s’inginocchiò sul pavimento bagnato. “Sherlock?” Passò la mano tra le scapole del compagno. “Stavi annegando nella vasca per davvero?” Non riuscì a nascondere la sfumatura divertita nella voce.

“Mi sono addormentato e sono scivolato sott’acqua!” Esclamò Sherlock, tra un colpo di tosse e l’altro.

“Sopravvissuto al Tamigi, stroncato da una vasca da bagno,” lo prese in giro Liam.

Con i capelli davanti agli occhi, Sherlock non riuscì a lanciargli uno sguardo storto come voleva. “Volevi lo Sherlock di Londra? Eccoti servito lo Sherlock di Londra!”

Fu la mano di Liam a liberargli il viso. “Prendi fiato.” Sorrideva.

In quel momento, Sherlock lo trovò talmente bello che non poté fare a meno di sorridergli di rimando. “Mi dai un attimo? Ti raggiungo.”




 

Il Detective tornò nella zona giorno dell’appartamento dopo aver infilato al volo un paio di pantaloni, coi piedi scalzi e un asciugamano sulla testa di capelli bagnati. “Mi sento rinato,” dichiarò, lasciandosi cadere sul divano, accanto al biondo. “Dormirei una settimana,” aggiunse, mentre l’asciugamano gli scendeva sugli occhi.

Fu di nuovo la mano di Liam a liberarli. “Puoi farlo?” Domandò. “Ripartirai presto?”

“Sembra di no e ne sono tanto felice!”

“Odi così tanto questo lavoro?”

Sherlock decise di tenere per sé le lamentele. “Mi sono prefissato un obiettivo e i Pinkerton sono lo strumento per raggiungerlo.”

Liam non gli chiese qual era perché lo sapeva benissimo. Questo non significava che fosse d’accordo. “Non devi portare tutto il peso di questa situazione da solo.”

Sherlock lo guardò. “E tu non devi fare una scelta affrettata per alleggerire me. Primo, ho le spalle larghe. Secondo, per me puoi passare il resto del nostro tempo a New York a dare lezioni ai bambini sulle scale del palazzo, se ti fa piacere. Non mi devi niente. Penso io a te.”

“Ti stai contraddicendo,” ribatté Liam, togliendogli l’asciugamano da sopra la testa. “Se tu pensi a me, ti devo qualcosa per forza. Le tue attenzioni, il tuo tempo…”

Sherlock si riprese l’asciugamano, appoggiò la nuca al divano e si coprì il viso: c’era troppo sole in quella stanza. “Non è così.” Per lui la discussione era chiusa.

“E chi lo ha deciso?”

“Io.”
“Questa è la tirannia di un bambino.”

“Sono infantile e capriccioso, rassegnati,” Sherlock si scoprì un occhio. “Mi hai dato del Diavolo, ricordi? Se ti rendessi le cose facili, il ruolo non mi si addirebbe,” si giustificò e lasciò cadere l’asciugamano al suo posto. 

Per un po’, nessuno dei due disse niente.

Per la terza volta, fu la mano di Liam a spezzare l’immobilità del momento cercando quella dell’altro. “Stai bagnando tutto lo schienale del divano,” gli rese noto.

Sherlock si staccò di colpo, come un pupazzo a molla e si voltò per valutare il danno. L’asciugamano gli cadde sulle gambe e Liam lo afferrò. 

“Ti gocciolano ancora i capelli,” disse quest’ultimo. “Così finirai per ammalarti. Siediti in modo da darmi le spalle.”

Il moro fece come gli era stato detto, borbottando qualcosa sotto voce che l’altro fece finta di non sentire. Liam prese a frizionargli i capelli. Lo fece con forza, tanto che Sherlock strinse gli occhi e se ne lamentò. “Così mi stacchi la testa, Liam!”

Il diretto interessato ritrasse le mani e gettò l’asciugamano a terra. “Non mi piace.”

“Che?”

“Questa cosa a senso unico,” spiegò Liam. “Tu che fai tutto da solo e io che me ne sto a casa, come se fossi qualcosa di fragile da custodire in una teca.” Non urlava. Era calmo, in un certo senso. 

Sherlock però percepiva la rabbia e la frustrazione. Non andava bene per niente. Recuperò l’asciugamano, povera vittima innocente di quel momento di tensione, e lanciò un’occhiata al compagno da sopra la spalla. “Il sole rende di cattivo umore anche te?”

Liam inarcò l’unico sopracciglio visibile. “Cosa?”

“Il sole,” ripeté Sherlock, indicando la finestra sotto cui avevano sistemato il tavolo da pranzo. “A me fa impazzire. Pagherei per un temporale.”

Da quando erano arrivati a New York, non c’era stata una singola giornata uggiosa. 

“Sei meteoropatico?" Domandò Liam, curioso. “Di solito, funziona al contrario: le giornate di sole portano buon umore. Almeno, è così che scrivono sui libri.”

Sherlock si passò una mano tra i capelli umidi. “Non sarebbe la prima volta che vado contro la normalità. Forse è l’essere Inglese che mi frega.”

Liam non rispose. Si era calmato. Sherlock lo sapeva con certezza, anche se non avrebbe saputo spiegare a parole il perché. Forse dipendeva dalla loro condizione di Anime Gemelle, oppure era semplice empatia. Semplice. Parola sbagliata, che non poteva descriverli sotto nessun aspetto.

“Ti senti soffocato da me?” Domandò Sherlock. Il benessere di Liam era fondamentale per lui e se stava agendo nel modo sbagliato, doveva saperlo.

Il biondo scosse la testa. “No, tu non stai facendo nulla di male,” rispose, usando le dita per pettinare i capelli ribelli del compagno.

Sherlock saltò nel sentirlo tirare per districare un nodo. “Un momento fa, hai detto il contrario.”

Liam non rispose subito. Il Detective poteva percepire il caos provocato dai suoi pensieri e lo sforzo che stava facendo per metterli in ordine. Il giovane Moriarty aveva vissuto la vita seguendo un piano dettagliato, come una formula matematica, che non prevedeva altro risultato che la sua precoce dipartita. I sentimenti erano una variabili difficile da gestire e, purtroppo, era una difficoltà con cui dovevano fare i conti entrambi. Sapere cosa rappresentavano l’uno per l’altro e il desiderio di costruire un futuro insieme non erano sufficienti nella vita di tutti i giorni. Non nella loro. Serviva qualcosa che non fosse a grandi linee, che rappresentasse una sicurezza per entrambi. 

Mentre Sherlock pensava a una soluzione, le mani di Liam tra i suoi capelli lo distraevano. I nodi erano tutti sciolti, ma le carezze continuavano.

Il Detective reclinò appena il collo all’indietro per assecondarlo. Da una parte, le attenzioni di quelle dita gli conciliavano il sonno, dall’altra gli provocavano dei brividi lungo la schiena a cui non era abituato. Non erano spiacevoli.

Sherlock non era mai stato un amante del contatto fisico. Anche quando John aveva cercato di abbracciarlo si era ritratto. Con Liam, quella riluttanza non esisteva. 

Quando il lavoro non costringeva Sherlock lontano da casa, toccarsi faceva parte del loro quotidiano. La prima settimana che avevano diviso il letto, il moro se ne era rimasto sul bordo del materasso a fissare il buio della camera. Liam se n’era accorto ma non glielo aveva sbattuto in faccia. Una sera, si erano coricati e il biondo aveva intavolato una conversazione - Sherlock non ricordava nemmeno su cosa - e avevano continuato a parlare così, sotto le coperte, finché il sonno non li aveva sorpresi entrambi. La mattina seguente, il Detective si era ritrovato al centro del letto, con la fronte premuta contro la schiena di Liam. Aveva trovato un modo per metterlo a suo agio in quella situazione del tutto inedita per lui. 

E così la distanza tra loro si era accorciata ulteriormente, ma non abbastanza.

Sherlock sentiva che non lo era, ma non riusciva a pensare adeguatamente mentre Liam lo toccava.

“Aspetta…” Mormorò, roteando il collo. “Se fai così, non riesco a riflettere.”
Dietro di lui, Liam non rispose. Le sue mani scivolarono sulle spalle del compagno e presero a massaggiarle. 

Sherlock sussultò. “Ehi, aspetta!”

Liam non gli diede ascolto. “Sei tutto contratto.”

“Sono solo stanco, non ti preoccupare.” Sherlock si alzò dal divano e prese le distanze. Se non lo avesse fatto, il suo cervello avrebbe smesso di ragionare ed era qualcosa a cui non era preparato. “Prima ti sei arrabbiato,” aggiunse. “Non fare finta di niente, Liam. Parlami. Dimmi che cosa c’è.”

Liam inspirò dal naso, appoggiando la tempia allo schienale del divano. “Se quello frustrato sono io, non è giusto arrabbiarmi con te.”

“Però hai ragione quando dici che è una cosa a senso unico,” ribatté Sherlock. “Non voglio che ti carichi di pesi ulteriori. Ne hai abbastanza.”

“Sono stanco di questa immobilità,” ammise Liam. “Sono stanco di non sapere cosa fare. Tutta questa incertezza nell’agire non mi appartiene.”

“Non essere così duro con te-”
“Sherlock, basta,” lo interruppe Liam, secco. “Sono il Signore del Crimine, non un pover’uomo che ha perduto di vista la retta via per un istante di rabbia.”

Sherlock non faceva finta di non sapere chi era o che cosa aveva fatto. Era Liam che non poteva fare a meno di pensare che il suo affetto fosse mal riposto. Ecco, era proprio lì che il giovane Moriarty si perdeva nei pensieri e non sapeva che cosa fare. 

Era davvero questo a cui era destinato? Avere Sherlock e la felicità a portata di mano, anche se in esilio? 

Quando si era risvegliato e aveva parlato con Sherlock per la prima volta dal Tower Bridge, Liam aveva sentito la stessa speranza che aveva animato il Detective. Col passare delle settimane, quella luce non lo aveva guidato, ma abbagliato. 

“Vuoi che parli con Billy?” Propose Sherlock. “Ti piace insegnare e sei bravo a farlo, potresti-”
“No,” lo interruppe Liam, l’unico occhio rosso fisso in un punto nel vuoto. “Se devo essere sincero, mi sento più utile a dare lezione ai bambini del quartiere. Qui vivono persone semplici, che non possono permettersi le migliori scuole. Non è un quartiere povero come quello di Londra, ma sono più utile qui che in qualsiasi college blasonato della città.”

Sherlock sorrise. “Tipico di te.”

Non bastò a convincere il compagno a guardarlo di nuovo negli occhi. “Non sentirti in difetto solo perché io non riesco a venire a patti con me stesso, Sherly,” concluse Liam. “Vai a riposare, ne hai bisogno. Quando ti sveglierai, sarò ancora qui, dove mi hai lasciato.”

Sherlock si mise le mani sui fianchi e scosse la testa. “No.”

Liam sbatté l’unica palpebre visibile un paio di volte. “Che cosa ti è saltato in testa, ora?”

“Se me ne vado, ti metti a leggere, giusto?” Il Detective non gli diede il tempo di rispondere. “Bene. Potresti leggere seduto sul letto, vicino a me?”

Liam vide tutta la sicurezza del compagno lasciare il posto a una timidezza da ragazzino goffo, con tanto di gote colorate. Abbassò l’occhio color rubino e si morse l’interno della guancia per non scoppiare a ridere.

Sherlock se ne accorse. “E non prendermi in giro!” Esclamò, arrossendo ancor di più. 

Liam prese il libro appoggiato sul bracciolo del divano e si alzò in piedi. “Forza, andiamo, sei sul punto di crollare sul pavimento.”

Sherlock borbottò per il breve tragitto dal divano al letto e continuò a farlo per un po’, fino a che la stanchezza non prese il sopravvento.




 

Il libro di Liam non durò abbastanza da coprire le ore di sonno del compagno.

Arrivato all’ultima pagina, chiuse il volume e lo appoggiò sul comodino. In un primo momento, pensò di alzarsi e preparare la cena, prima che l’altro si svegliasse. Liam si mise seduto sul bordo del materasso e lanciò un’occhiata da sopra la spalla al giovane uomo addormentato. Quello che vide lo dissuase dall’andare da qualunque parte.

Non era abitudine di Sherlock indossare vestiti da notte. Nel breve tempo che avevano convissuto, Liam si era convinto che lo avrebbe visto dormire in mutande anche con un metro di neve ai lati della strada. 

Sherlock soffriva il caldo, soffriva il sole, soffriva tutta New York. Anche se non lo diceva ad alta voce, Liam se n’era accorto. 

In quel momento, mentre dormiva, Sherlock gli dava le spalle. Aveva le braccia incrociate sotto il cuscino e la trapunta lo copriva fino a metà schiena. Liam non poteva vedere il suo viso, solo i capelli neri sparsi sul cuscino. Senza pensarci troppo, piegò un ginocchio sul letto e si sporse quanto bastava per accarezzarli. Erano ancora un po’ umidi sulle punte ma non abbastanza da bagnare la federa. Non erano perfettamente lisci come i propri, ma ondulati. Liam li scostò da una parte, liberando il collo di Sherlock. Era la prima volta che si soffermava davvero a guardarlo senza i vestiti addosso. Avrebbe potuto disegnare il suo viso anche senza l’occhio che gli era rimasto: era impresso a fuoco nella mente dal loro primo incontro.

Sherlock aveva saputo come lasciare il segno fin da subito, Liam doveva ammetterlo.

Aveva visto quegli occhi blu illuminarsi e divenire più scuri, a seconda dell’umore del momento. Aveva osservato quelle labbra sorridere con entusiasmo esagerato, per poi disegnare una linea retta nei momenti più drammatici. Tutte le emozioni che Sherlock diceva di non essere in grado di gestire, Liam le aveva viste sul suo viso almeno una volta. 

Ora, quel volto non era visibile ai suoi occhi, ma il giovane Moriarty si riscoprì particolarmente interessato alle linee che disegnavano i muscoli della schiena e delle spalle larghe. Prese a mordicchiarsi il labbro inferiore, animato da un nervosismo silenzioso che aveva scoperto solo di recente, quando Sherlock lo toccava di proposito.

Liam soffriva dell’assenza di quel contatto fisico ogni volta che una missione portava il Detective lontano da New York. Al contempo, quando Sherlock tornava, non gli dava mai abbastanza da renderlo soddisfatto. Liam desiderava qualcosa che non riusciva a chiedere ad alta voce, mentre Sherlock si muoveva in punta di piedi attorno a lui. L’essere Anime Gemelle non imponeva alcun obbligo su di loro. Entrambi, per primi, non si erano disturbati a dare un’etichetta a quel loro voler stare insieme

Liam sapeva solo di volere di più. Una conversazione alla pari, con le dita di Sherlock intrecciate alle sue, non lo appagava più come come all’inizio. Le tenere attenzioni dell’altro erano sincere, ma lo lasciavano insoddisfatto, smanioso di avere di più. Non era utile il pensiero di sottofondo che lo accompagnava costantemente: non me lo merito.

Liam si stese accanto a Sherlock, abbastanza vicino da poter avvertire il profumo della sua pelle. Era familiare, ormai: una ninna nanna quando si coricavano insieme, una rassicurazione quando sedevano l’uno accanto all’altro, dopo giorni di lontananza. 

Con la punta delle dita, Liam tracciò la fossetta della colonna vertebrale, scese fino a scostare la coperta e toccare il confine di stoffa tracciato dall’intimo. Ripeté il tragitto al contrario e andò avanti così per quattro, cinque volte.

“Mi fai venire la pelle d’oca.” La voce di Sherlock interruppe il silenzio calma, poco più di un mormorio. Liam allontanò la mano da lui come se gli avesse urlato contro.

Il Detective voltò il viso e i loro sguardi s’incrociarono. Con nessuna tenda a coprire l’unica finestra della stanza, la luce dorata del sole rendeva ogni colore particolarmente brillante. Almeno era così che Liam, che aveva vissuto in un mondo in bianco e nero fino a poco tempo prima, li percepiva. Il blu delle iridi di Sherlock era disarmante. “Non era un modo per chiederti di smettere,” disse quest’ultimo.

Se il viso di Liam non tradiva il nervosismo che lo rendeva rigido, incerto, quello dell’altro lo faceva. Un libro aperto, così si era definito. Nello specifico, si poteva dire che Sherlock indossava ogni emozione sul viso in modo spontaneo. Liam lo faceva solo se preso di sorpresa. Era bravo a celarsi dietro una maschera, anche se Sherlock gli aveva strappato quella più pesante di tutte. Gli doveva almeno lo sforzo di provare a fargli capire quello che sentiva. 

Liam si fece più vicino e Sherlock si girò su un fianco per agevolare il processo. Alla fine, si ritrovarono a condividere lo stesso cuscino, a poco più di un palmo di distanza l’uno dall’altro. 

“Da quanto tempo sei sveglio?” Domandò il giovane Moriarty.

Sulla labbra del Detective comparve un sorrisetto dei suoi. “Da un po’,” ammise. “Mi sorprende che non te ne sia reso conto. C’erano mille segnali che avrebbero potuto fartelo intui-”

“Non hai detto nulla perché ti piaceva come ti toccavo,” lo interruppe Liam, vincendo quel primo scambio di battute sul nascere. “Questo è quello che ho intuito. Sapevi che se mi fossi accorto che eri sveglio, avrei preso le distanze. Se era piacevole, perché lo hai fatto?”

Sherlock sbuffò verso l’alto, liberando gli occhi blu dalla frangia di capelli ribelli. “Liam…” Quella era l’espressione che faceva quando non riusciva a trasformare i pensieri in parole.

Un libro aperto. Un giorno, Liam avrebbe trovato il modo di ringraziarlo per quella sua spontaneità. “Sai quello che devi dire,” lo incoraggiò. “Lo hai saputo in molti momenti in cui io me ne sono stato zitto.”

“Nah!” Obiettò Sherlock. “C’è una bella differenza tra avere una buona dialettica e provare piacere a fare casino. Sai che mio fratello ha fondato un club in cui è vietato parlare? Ci sono entrato urlando!”

“Sherly, non divagare.” Lo sguardo di Liam cadde sulla spalla in vista dell’altro. Era la sinistra, quella che aveva colpito con la sua spada. La ferita si era rimarginata a dovere, ma la cicatrice era ancora rossa, in rilievo. Avrebbe avuto quell’aspetto ancora per un po’. Allungò la mano e tracciò quella linea con la punta dell’indice. “Ti ho lasciato un segno indelebile addosso.”

Sherlock si guardò la spalla. “No, il segno indelebile lo hai lasciato più a fondo.” Si fece serio. “Ho parlato perché era troppo piacevole.”

Liam poteva non aver sperimentato l’intimità con nessuno, ma la malizia aveva sempre fatto parte della sua natura. Onestamente, sapere di avere il potere di eccitare Sherlock Holmes lo riempiva di un piacere segreto, che non aveva mai creduto di essere in grado di provare. 

Era così strano vivere la vita con la voglia di farlo.

“Toglimi una curiosità, Sherly. Quando dico qualcosa lunga linea di catch me if you, Mr.-”

“No!” Esclamò Sherlock, nascondendosi sotto il cuscino e spingendo il biondo a farsi più indietro. 

Liam rise ma non di lui. “La faccia che hai fatto quella volta non la dimenticherò mai,” confessò. “A ripensarci ora, credo che stessimo facendo un gioco di seduzione senza rendercene conto.” 

“Smettila…”

“Non hai idea di quanto Louis avesse voglia di pugnalarti.”

Sherlock gettò il cuscino a terra e lo fissò, imbronciato come un bambino.

“Non fare così,” disse Liam. “Avrei solo voluto saperlo prima.”

Sherlock aggrottò la fronte. “Diavolo, Liam!” Sbottò. “Uno adesso lo deve dichiarare per iscritto quando prova un’attrazione? Era elementare, su!”

“Non per me. Non credevo possibile che mi volessi in quel modo,” ribatté Liam, schietto. “Se una persona si convince di una cosa, sarà molto difficile che la sua mente veda il contrario… L’intelligenza non c’entra.”

“Non ho mai detto di volerti… Cioè…” Sherlock si morse la lingua e si coprì il viso con entrambe le mani. Voleva scomparire.

“Proviamo una cosa,” mormorò Liam, al suo fianco. 

Sherlock sentì il materasso muoversi sotto di lui, mentre l’altro si spostava. Quando avvertì il peso sul proprio ventre, dischiuse le dita e sbirciò la scena con gli occhi sgranati. “Che cosa stai facendo?”

Liam si era messo a cavalcioni su di lui, le mani premute contro il petto per tenersi sollevato. “Un esperimento,” rispose Liam, con uno di quei sorrisi candidi, capaci di allontanare da sé ogni sospetto. “Ti piacciono gli esperimenti, no?”

Sherlock allargò le braccia, esasperato. “Tu vuoi vedermi morto.”

“Secondo la teoria, dovresti sentirti più vivo che mai,” ribatté Liam. “Sì, è piacevole,” aggiunse a voce più bassa, come se stesse rivelando un segreto. “Compromettente ma molto piacevole.”

Sherlock incrociò le braccia dietro la testa, sfoderando un ghignetto dei suoi. “L’esperienza mi ha insegnato che per essere piacevole deve essere compromettente.” Un’idea improvvisa illuminò gli occhi blu. “E se fosse così?” Afferrò il giovane Moriarty per i fianchi e, con un veloce colpo di reni, invertì le loro posizioni. Se ne pentì immediatamente, non appena vide la più sincera sorpresa illuminare l’occhio color rubino. 

Come erano in quel momento - con Sherlock sopra Liam, le cosce di quest’ultimo che premevano contro i fianchi del primo - erano vicini come non lo erano mai stati.

Sherlock avvampò. 

Liam dischiuse le labbra per dire qualcosa ma non ci riuscì. Le sue guance si colorarono e il Detective gli si tolse di dosso. 

Abbandonato il letto, si rifugiarono ai lati opposti della stanza, senza guardarsi. 

Liam aveva il fiato corto e sentì la necessità di slacciarsi i primi due bottoni della camicia. Alle sue spalle, udì il cigolio familiare dell’anta dell’armadio e seppe che Sherlock si stava rivestendo.

“Andiamo a preparare la cena?” Propose il Detective.

Liam finse di essersi ricomposto. “Sì, andiamo…”




 

Sherlock insistette per occuparsi dei piatti.

Nonostante l’aria fosse piuttosto fresca, Liam decise di aspettarlo fuori, sul piccolo terrazzo. Sentiva le pareti dell’appartamento troppo strette o forse era la vicinanza di Sherlock. Lo aveva aspettato tanto e, ora, per colpa di un passo fatto troppo velocemente, non riusciva a passare con lui il tempo di qualità di cui aveva bisogno. 

Sherlock non ci mise molto a raggiungerlo. Come lui, appoggiò la schiena contro il muro. Liam si accorse che aveva già una sigaretta tra le labbra e l’accendino in mano. Lo guardò mentre l’accendeva, aspirava una prima boccata di fumo e la lasciava andare. 

“Noi parliamo,” disse Sherlock. “Parliamo un sacco, ma ho la netta sensazione che ancora non sappiamo del tutto come muoverci l’uno intorno all’altro.”

Liam accennò un sorriso. “Per quello è ragionevole affermare che serve tempo. Anime Gemelle o meno.”

Sherlock concordò con un cenno del capo. “Ciò nonostante, vorrei evitare che tu arrivassi al punto di scrivermi un’altra lettera per spiegarmi quello che provi.”

“Non sono solo le emozioni a essere complicate,” cercò di spiegarsi Liam. “Lo sono anche i desideri, specie quelli che pensavo non mi sarebbero mai appartenuti.”

“Già…” Sherlock lasciò che la cenere della sigaretta cadesse a terra, vicino alla sua scarpa. “Io ti voglio,” aggiunse, di colpo. Solo tre parole ma il nervosismo lo fece inciampare su ognuna. “Ti voglio… Sì, insomma, ti voglio tutto.” Inevitabilmente, arrossì. “Colpa tua per non averlo capito.”

Era l’accusa di un uomo adulto che non riusciva a venire a capo della propria timidezza. Liam l’accettò di buon grado. “Hai dormito sul bordo del letto per una settimana.”

“Dopo aver detto di voler stare con te.”

“Quando stai con me, ti muovi in punta di piedi.”

“Cerco di essere attento,” si giustificò Sherlock. Tirò dalla sigaretta. “Non voglio commettere errori.”

Liam appoggiò la nuca alla parete fredda. “Sherly, che errore hai paura di commettere?” Domandò. “Quello che mi chiedo è come facciamo a essere tanto intelligenti e, al contempo, tanto ciechi.”

“Lo hai detto tu: emozioni e desideri sono complicati,” disse Sherlock. “Non sono razionali. La nostra zona di comfort si aggira intorno alla logica e alla ragione. Ora siamo in terra straniera. In tutti i sensi.”

Liam si umettò le labbra. “Tu odi New York,” disse. “Odi il tuo lavoro. Odi tutto di questa situazione. Me ne sono accorto, ma non hai fatto niente per farmelo pesare.”

Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Ecco, un libro aperto. Come al solito!” Esclamò. “Quando me ne vado, tu non chiudi occhio,” aggiunse. “La mia lontananza ti turba al punto che ha delle ripercussioni sulla tua salute. Ancora noto i dettagli, Liam. Mi hai dato alla testa, ma ancora non sono del tutto rincitrullito.”

“Siamo vivi grazie a te,” replicò il giovane Moriarty. “I miei turbamenti non devono pesare su di te.”

Alla fine, Sherlock lo guardò. “Tu sai che se ne avessi il potere, eviterei di partire e farti del male, vero?”

“Farmi del male…” Ripeté Liam, intenerito. “Sei davvero in grado di farlo, Sherly? Non pensare alle mie difficoltà. Se proprio non possiamo fare a meno di affrontare dei problemi, almeno concentriamoci su quelli piacevoli.”

Sherlock storse la bocca in una smorfia. “Non credo che funzioni così.”

Liam ridacchiò. “Hai una teoria anche su questo?”

“Beh, mentirei se dicessi che non ci ho mai riflettuto su. Non mi sono mai dovuto giustificare con nessuno, ma anche io mi sono posto delle domande durante la mia adolescenza. Tu no?”

Liam scrollò le spalle. “Difficilmente le prostitute dell’East End hanno una fissa dimora in cui prestare i loro servigi e i clienti non hanno mai abbastanza soldi per permettersi una camera.” 

La mente di Sherlock s’inceppò per una frazione di secondo. “Vedevi le prostitute che…?”

“Non restavo certo lì a guardare ma non mi scandalizzavo come te in questo momento.”

“Non sono scandalizzato!” Si difese Sherlock. “Sono un uomo di mondo!”

“Un viaggio da Baker Street a Durham non ti rende un uomo di mondo.”

“Ed eccolo che ricomincia a prendermi in giro!” Sherlock prese un paio di tiri dalla sigaretta, stizzito. Dopo un po’, prese a gesticolare ma le parole arrivarono solo dopo diversi istanti. “Quello di cui parlo io non è quello che vedevi tu per le strade,” bofonchiò. “Non sarà quello che faremo noi.”

Suo malgrado, anche Liam aveva la sua dose di timidezza. Era solo più bravo a nasconderla dietro a un sorriso. “Da quanto tempo ci pensi?” 

Sherlock fissò la strada deserta sottostante e prese a riflettere se buttarsi di sotto lo avrebbe esonerato dal rispondere. Borbottò qualcosa d’incomprensibile.

Liam non ebbe pietà di lui. “Che cosa hai detto?”

Sherlock emise un verso frustrato. “Il treno, Liam!” Esclamò. “Il treno, va bene? Non mi era mai successo prima. Lo hai fatto succedere tu!”

In cuor suo, Liam ne era lusingato. “Mi dichiaro colpevole.”

Sherlock voleva solo che smettesse di sorridergli, così forse avrebbe smesso di comportarsi da idiota. “A Durham è stato diverso,” confessò, lo sguardo basso.

“In che cosa?” 

Sul viso del Detective comparvero almeno una decina di smorfie, prima che fosse in grado di mettere insieme una risposta. “Avrei voluto baciarti.”

Il sorriso di Liam s’infranse lì, contro lo smarrimento provocato da tanta sincerità. “Quando?” Nemmeno lui sapeva che differenza faceva avere quell’informazione, ma sarebbe stato peggio rimanere in silenzio.

Sherlock sbuffò una nuvola di fumo. “Tutto il tempo…?” Lo stava chiedendo anche a se stesso. “So per certo che quando mi hai chiamato per nome, ho pensato di fare la follia di saltare giù dal treno e baciarti.” Una pausa. “Forse avrei dovuto farlo…”

Liam scosse la testa. “Non era il momento giusto,” disse. “Credimi, non lo era. ll problema è proprio questo: saperlo riconoscere.”

“Non è un’espressione matematica da risolvere,” ribatté Sherlock. “Se succede, succede. Nessuna pressione. Nessuna pianificazione al dettaglio. Solo spontaneità.” Una pausa dubbiosa. “Almeno credo…”

“La spontaneità è materia tua, non mia.”

Il Detective lasciò cadere la sigaretta a terra e la spense con il tacco della scarpa. “Facciamo così: ora sappiamo cosa desideriamo. Io non mi muoverò più in punta di piedi e tu sei diventato consapevole dell’effetto che hai su di me.” Allungò il braccio per afferrare la mano del compagno. “Cose di questo genere accadono da sole, immagino.”

Liam ne sapeva quando lui, così non rispose.




 

Billy fu di parola e non li disturbò per un po’.

Passarono in fretta due settimane. Le cose non cambiarono tra Sherlock e Liam.

Quest’ultimo rifletté che mettere le cose in chiaro ad alta voce, come avevano fatto loro, non fosse stata proprio la più geniale delle idee. L’imbarazzo, invece di diminuire, era aumentato. Quel poco di naturalezza a cui Liam si era lasciato andare era scomparsa con la consapevolezza che Sherlock lo desiderava, ma non faceva niente per averlo.

Erano goffi, inibiti come ragazzini alle prime armi. Beh, lo erano.

Se Moran lo avesse visto in quel momento, mentre restava composto fuori e cercava di celare il caos che aveva dentro, era certo che gli avrebbe riso in faccia smodatamente. Ecco, il Colonnello era certamente un esperto in materia, ma William James Moriarty non sarebbe mai andato da lui a chiedere consiglio. Era più probabile che la sua scelta ricadesse su Albert. Ma sarebbe stato giusto coinvolgere il fratello maggiore in una questione che riguardava solo lui e Sherlock? La domanda era inutile e fine a se stessa. 

Non c’era nessuno lì, a parte loro due. 

Secondo il Detective, la soluzione sarebbe arrivata da sola. Col muro invisibile che si era creato tra loro, Liam stentava a crederlo. 

Fu in quel clima frustrato, fatto di gesti incerti che prima erano spontanei, che arrivò la lettera dei Pinkerton.




 

Il giorno della sua partenza, Sherlock non svegliò Liam come aveva promesso.

Il giovane Moriarty si destò in un letto vuoto e quando si alzò per spostarsi nella zona giorno dell’appartamento, non trovò nessuno ad aspettarlo. Il Detective se ne era andato senza lasciargli nemmeno un biglietto. Nulla.

Liam se ne rimase al centro della stanza per quelle che parvero ore, inspirando aria dal naso come se si stesse trattenendo dal fare qualcosa di distruttivo. Non era deluso - sì, lo era e anche tanto - era la rabbia a fare da padrona in quel momento, a spingerlo a stringere i pugni fino a farsi male. 

Lo aspettavano giorni d’inferno e nel tempo che gli era stato concesso di passare con Sherlock, non era riuscito a ottenere altro che allontanarlo da sé. 

E cosa faceva il grande Detective dei due mondi? Contribuiva a peggiorare la situazione sgattaiolando via, senza lasciare alcuna traccia.

La porta d’ingresso che si apriva e Sherlock che faceva un passo - non uno di più - nel loro appartamento lo presero completamente di sorpresa.

Dovette essere uno di quei rari momenti in cui Liam aveva le emozioni stampate in faccia, perché il moro rimase bloccato sull’uscio.

“Se entro, mi tiri una sedia?” Domandò, intimorito.

Il giovane Moriarty contò fino a dieci, poi piegò labbra in un sorriso che aveva ben poco di rassicurante. “No,” rispose. “Un coltello sarebbe più da me, non trovi?”

Sherlock allargò le braccia e il biondo notò che stringeva un libro nella mano destra. “Credevi veramente che me ne fossi andato senza salutarti?”

Liam evitò la domanda. “Che cos’hai lì?”

Al Detective non dispiacque cambiare discorso. Entrò, chiuse la porta e mise il suo acquisto in bella vista al centro del tavolo da pranzo. 

Il giovane dall’occhio color rubino guardò il libro, poi il compagno e di nuovo il libro. “Credevo detestassi queste storie.”

Sherlock scrollò le spalle. “Mi hanno pagato l’affitto più di una volta, non posso davvero disprezzarle,” ammise. “Era il modo in cui John mi conciava per i giornali che mi dava noia.”

Liam prese il libro tra le mani. “The Final Problem,” lesse il titolo sulla copertina. “Di Conan Doyle.”

“Aprilo,” disse Sherlock. Cacciò una mano nella tasca della giacca per recuperare sigarette e accendino. “C’è una sorpresa per te,” aggiunse, mentre lo superava per raggiungere la finestra socchiusa.

Liam fece come gli era stato detto e una busta da lettera cadde dalle pagine, finendo sul tavolo. Abbandonò il romanzo per prenderla tra le mani e aprirla. Quello che trovò al suo interno lo lasciò sinceramente senza parole.

“Billy continuava a dirmi di sorridere,” raccontò Sherlock. “Non ci sono riuscito e quando l’ho vista, mi ha preso un colpo perché ho rivisto Mycroft!”

Liam prese la fotografia tra le dita. L’immagine in bianco e nero di Sherlock Holmes ricambiò il suo sguardo. 

“So che hai visto la mia faccia in prima pagina centinaia di volte.” Sherlock era nervoso, come spesso capitava in quei giorni e non riusciva a smettere di parlare. “Ma non credo tu abbia perso tempo a fare collezione di ritagli. John lo faceva e ci metteva un entusiasmo… Ancora oggi sogno di brucia-” Lo sguardo di Liam si spostò su di lui e tanto bastò per zittirlo, sebbene solo per qualche istante. “Non mi piace come vengo in foto,” ammise. “E so che è un espediente stupido per compersare la mia assenza, ma è l’unica soluzione a cui sono arriva-”

“Grazie,” disse Liam di colpo, senza pensare. Non c’era veramente motivo per essere tanto sorpresi. Quello era l’uomo che si era gettato nel Tamigi per lui. 

Eppure… Eppure, niente. Era solo qualcosa d’inevitabile a cui Liam non era ancora abituato: quando meno se lo aspettava, Sherlock arrivava e lo faceva sentire vivo come solo lui riusciva a fare.

Il Detective aprì di nuovo la bocca ma non ebbe il tempo di dire niente: qualcosa fuori dalla finestra attirò la sua attenzione. “La mia carrozza è arrivata.” Sia il tono della sua voce che la sua espressione tradirono un poco di malinconia.

Liam annuì, posando la foto sopra il romanzo. “D’accordo, vai.”

“Starai bene senza di me?”

Bene era una parola grossa.

“Me la caverò,” lo rassicurò Liam. “Tu preoccupati solo di tornare sano e salvo.”

“Ai suoi ordini,” scherzò Sherlock. Attraversò la stanza e afferrò la maniglia della porta d’ingresso. Si bloccò, trattenuto dalla spiacevole sensazione di aver lasciato qualcosa d’incompleto. Sapeva benissimo di cosa si trattava, era una voglia che scansava da prima del Tower Bridge, da quando aveva preso quel treno a Durham e Liam aveva chiamato il suo nome.

Non era saltato giù. Non lo aveva baciato. Non era stato abbastanza folle per inseguire Liam nella sua oscurità e raggiungerlo. Sì, lo aveva preso ma non era ancora suo.

Sherlock chiuse gli occhi e si morse il labbro inferiore. Per un suo pudore, forse per codardia, si era tirato indietro fino a quel momento e Liam ne aveva sofferto.

Aveva rimandato troppo a lungo.

Sherlock si voltò, deciso. “Liam…”

Il giovane Moriarty, che era tornato a studiare la foto, lo guardò, sorpreso che fosse ancora lì. 

Il Detective non gli diede il tempo di dire niente. Esaurì la distanza tra loro e catturò le labbra della sua Anima Gemella in un bacio fin troppo irruento. 

Non ebbe alcuna importanza.

Sherlock lo cercò e si accorse che Liam era sempre stato lì, ad aspettarlo.

Il Detective lo strinse a sé come aveva fatto quella notte, mentre cadevano nel vuoto. Questa volta, Liam non restò immobile, inibito, ma si aggrappò alle braccia di Sherlock, costringendolo le sue labbra a rimanere sulle proprie. Quello che in principio era stato goffo, divenne passionale. 

Sherlock spinse Liam a sedersi sul tavolo, mentre il bacio si faceva più umido. 

Contro ogni pensiero razionale, l’intero mondo si ridusse allo spazio di quell’abbraccio. 

Londra, New York… Nulla aveva più importanza. Persino il pensiero delle loro famiglie lontane sbiadì, fino a che nella mente di entrambi ci fu posto solo per un’altra persona.

Per Liam c’era Sherlock.

Per Sherlock c’era Liam.

L’unico motivo di sorpresa era che entrambi ci avevano messo così tanto ad arrivare a quella semplice soluzione.

Un bacio dopo l’altro si persero così tanto l’uno nell’altro da non udire affatto Billy che bussava alla porta. Tornarono in loro stessi solo quando il giovane Americano abbassò la maniglia. 

Sherlock si voltò di colpo, lasciando Liam sospeso, stordito, ancora stretto tra le sue braccia. 

Se Billy vide qualcosa, fu solo per una frazione di secondo e diede subito voce alla sua costernazione: “scusate!” Esclamò da dietro la porta che aveva prontamente richiuso. “Scusate tanto! È che il Signor Ponytail non si decideva ad arrivare e dobbiamo-”

Sherlock non gli diede il tempo di terminare. Si allontanò da Liam e spalancò l’uscio con espressione omicida. “Aspetta di sotto,” ordinò.

Billy aveva già la protesta in punta di lingua. “Ma-”

“Scendi queste maledette scale o giuro che ti appendo per il collo, Billy!” Tuonò Sherlock, minaccioso come mai Liam lo aveva udito. Di certo lo fu abbastanza da convincere il più giovane ad andarsene, perché il Detective sbatté la porta e tornò da lui, rosso in viso.

Liam, da parte sua, sentiva il cuore leggero. Per un istante, s’illuse che l’oscurità si fosse diradata del tutto. 

Sherlock fece alcuni tentativi di cominciare un discorso, ma tutto quello che riuscì a dire fu: “ah… Ehm…”

Liam venne in suo soccorso. “Ti aspetterò.”

E Sherlock decise che non gli importava più di arrossire di fronte a lui, come un ragazzino. “Non ti bacio di nuovo solo perché rischio di non andarmene più!” Uscì dall’appartamento procedendo all’indietro. Sorrise al giovane Moriarty fino all’ultimo istante.

Rimasto solo, Liam sentì la necessità di aggrapparsi a qualcosa e appoggiò la schiena al tavolo per permettersi di ritrovare l'equilibrio. Le gambe gli tremavano e la testa gli girava, ma stava bene. Sì, stava bene. 

Come sentì i passi di Sherlock sparire in fondo alle scale, Liam tornò in sé, uscì sul piccolo terrazzo e vide il compagno fare un primo passo all’interno della carrozza. Forse attirato dal suo sguardo, Sherlock si bloccò e sollevò gli occhi blu nella sua direzione. Alzò la mano in segno di saluto. Liam fece lo stesso.

Rientrò solo quando la carrozza sparì in fondo alla strada.

Ancora infermo sulle gambe, Liam fece aderire la schiena alla parete e prese un respiro profondo, tremante. Si portò le dita alle labbra, cercando l’eco del suo primo bacio.

Vi si sarebbe aggrappato fino al ritorno di Sherlock. 

   
 
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