Anime & Manga > Haikyu!!
Ricorda la storia  |      
Autore: laurelleghuleh    24/05/2022    1 recensioni
[KuroAka]
"Quel semestre Akaashi Keiji si dimostrò, tra le altre cose, un insolito compagno di studio."
Genere: Hurt/Comfort, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kei Tsukishima, Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto, Tetsurou Kuroo
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

NdA: In origine questo pezzo aveva tutt’altro senso, tono e tempo. Per darvene un’idea si chiamava “A Tetsuro di Keiji piace il cazzo” e questo anche per dirvi che se avete letto i miei one shot sulle mani di Akaashi potete pensare a questo come ad un sequel (e anche la BoKuro). Se non lo aveste fatto, fa nulla, sappiate solo che, a seguito del diploma di Bokuto e Kuroo, Tsukki e l’altro si sono avvicinati parecchio fino addirittura a mettersi insieme per circa un annetto (passaggio ulteriore di cui prima o poi mi convincerò a scrivere la fantomatica III parte). 

Poi è passato del tempo e mi sono tenuta questa cosa tra le note del telefono come fosse un qualche feticcio sinistro (data la mia venerazione per la KuroTsukki) e vivendolo come un vero guilty pleasure. Infine, niente, l’ho sistemato e mi sono decisa a pubblicarlo. Lo dedico a tutti gli altri peccatori che come me un pensiero su questa ship ce l’hanno fatto (e più d'una volta).


Un altro pezzo a tema Mitski, letsgooooooo
 


 

I thought maybe we would kiss tonight

Baby will you kiss me already and

Toss your dirty shoes in my washing machine heart?

Baby, bang it up inside

Baby, though I've closed my eyes

I know who you pretend I am


Quel semestre Akaashi Keiji si dimostrò, tra le altre cose, un insolito compagno di studio. Se Kuroo si fosse impossessato per un po’ e per finta dei metodi d’analisi chirurgici e asettici di Tsukishima ne avrebbe potuto stilare una lista puntata di validi motivi. 

Il primo era di natura logistica, perchè quella in cui se ne stette seduto tutti quei mesi - avvolto dal caos dei suoi libri ma in un’imperturbabile postura perfettamente eretta - non era propriamente la sua di biblioteca, quella che gli competeva. 

Un errore di collocamento, quasi che lì ci stonasse: intorno a sé, sulla scrivania, tomi che su nessun scaffale avrebbe potuto ricollocare; tra gli altri banchi a disposizione nessun compagno di corso in vista o comunque suoi simili, che anche ci fossero stati Keiji non avrebbe comunque interpellato o disturbato; abbigliamento sempre fin troppo elegante, formale, anche quello, lì, per quanto impeccabile, pareva fuori luogo; sprovvisto di qualunque apparecchio tecnologico dissimilmente dai suoi coetanei, il cellulare rigorosamente in tasca o perso, dimenticato, in qualche scompartimento del suo zaino, solo libri, fogli, foglietti, post-it, cellulosa a perdita d’occhio che faceva pensare venisse non soltanto da un altro dipartimento, ma direttamente da un’epoca differente, o addirittura era geologica. 

Tutto questo Tetsuro lo notò subito, iniziando quasi inconsciamente a prendere e a complirne in gran segreto fascicoli interi. 

La prima volta che apparve nel corridoio centrale, in mezzo agli scaffali - e lui altrettanto alto, ordinato, perfetto - l’ex capitano del Nekoma percepì immediatamente l’errore nella vista, che qualcosa all’improvviso non quadrava più. Provò un ricalcolo nel bilancio tra gli appunti che aveva sotto al naso e la vista al di là dello schermo, ma fu inutile. 

Dato che alle allucinazione Kuroo non ci aveva mai creduto - e nemmeno al rancore -, un giorno, ritrovandoselo di fronte alle macchinette, si apprestò a chiederglielo, insomma se fosse lì per davvero o per scherzo. 

Gli si era lanciato quasi addosso, con un sorriso smagliante - ad una migliore occhiata un po’ plastico - e un caloroso saluto, con la stessa smania di un bimbo alle giostre che, dimentico del pericolo, aveva corso a perdifiato verso la fila per le montagne russe. Una volta in sella, allacciata la cintura, però, si era d’improvviso congelato sul posto a sentirsi il sudore freddo bagnargli le tempie, la risposta di Akaashi conferirgli un’incontestabile tridimensionalità. 

Era lì sul serio.

Quell’Akaashi - l’Akaashi Keiji che per tutto l’anno e mezzo addietro si era portato a letto Tsukishima, il suo di Tsukishima Kei, e al quale anche lui aveva sottratto, in realtà fino a soli pochi mesi prima e solo, quasi per scherzo, di certo non per ripicca, Bokuto, il suo di Bokuto Kotaro - era lì, sul serio, e fu addirittura così gentile da offrirgli i motivi e limiti entro i quali se lo sarebbe ritrovato appresso.

“Il mio dipartimento per questo semestre è in ristrutturazione. Il tuo mi è congeniale, non dista molto dal mio dormitorio.”

La voce, il tono, il ragionamento sensato, le mani intrecciate in un nodo perfetto dietro la schiena esattamente sopra quello del suo trench chiaro, i capelli composti, le spalle dritte e l’aria distesa. Forse doveva essere stato tutto quell’ordine, quella pace apparente ad aver affascinato tanto Kei, a convincerlo a volergli più bene di tutti e mettercisi pure insieme. 

Avrebbe affascinato chiunque ad essere onesti, quindi quello era un dettaglio da poco, ma Tetsuro decise di appuntarselo lo stesso. Prima o poi quel mistero lo avrebbe risolto e intanto, quello stesso giorno, Kuroo si comprò per una buona volta nella sua vita del gel per capelli, scoprendo suo malgrado che le insinuazioni perfide - e del tutto avulse dalla questione capigliatura - di Tsukishima erano vere: per natura, nessuna delle sue parti avrebbe mai deciso di obbedirgli, né a lui nè a nessun altro, né alla natura o qualsiasi sua legge di gravità. Lui era un essere che faceva le cose a modo suo e nel modo più impensabile - ed era proprio questo a renderlo unico.

Terminato il giro, sceso dalla giostra, con altrettanta imprudenza e un po’ preso dal momento, Kuroo commise però quella volta (e prima del gel), lo sbaglio enorme di credersi migliore di quanto in realtà non fosse e di fare quello che da conoscenti - forse una volta addirittura buoni amici - ci si sarebbe aspettato che lui facesse: rimettersi in fila per una nuova corsa alla giostra e chiedergli se avesse avuto piacere ad unirsi a lui per quella sessione di studio. 

Ovviamente Keiji, placido e illeggibile, acconsentì.

Il secondo motivo era di natura, diciamo, ontologica o semplicemente etimologica - sempre una questione di lemmi, etichette, errori di collocamento - perché Akaashi era uno che studiava sul serio e questo lo rendeva un compagno di studio assolutamente insolito. Era ovvio (forse nella sua era geologica i telefoni ancora non li avevano inventati e lui, di certo, non era stato informato del fatto, noto a chiunque) che in biblioteca si andasse a fare di tutto tranne che quello.

Arrivava (sempre alla stessa ora), si sedeva (adesso vicino a Tetsuro perchè lui stupidamente così aveva stabilito) e a capo chino procedeva. Si distraeva in rare occasioni - un rumore forte e inaspettato, una domanda altrettanto imprevista di Kuroo, una volta sola per una zanzara - e alzava lo sguardo con regolarità per controllare l’orologio da polso (l’ora già la immaginava) o per scrocchiarsi il collo a fine capitolo. 

Le uniche volte che Tetsuro lo vedeva venire meno a questa performance collaudata era quando Keiji non aveva molto su cui lavorare. Si tratteneva, come tra l’altro anche lui, fino alle ore più disparate - era capitato le tre o le quattro di notte - e tra una cosa o l’altra leggeva, e leggeva testi palesemente che non c’entravano niente con i suoi studi: manga, fumetti americani, raccolte di poesie o romanzi che - Kuroo aveva imparato - non erano nel suo programma di studi quell’anno.

Una volta quasi tentò di chiederglielo, il perchè, ma lì avrebbe sul serio commesso uno sbaglio ancora più enorme dei precedenti, uno strafalcione imperdonabile: insinuare che venisse tanto per, perchè in tutta onestà non aveva niente di meglio da fare, qualche posto o persona da vedere, che venisse perchè non riusciva a prender sonno e che piuttosto si istigava a studiare o far finta di essere impegnato, allora, avrebbe significato svelare perchè anche Tetsuro stesso, finite le lezioni e gli allenamenti di pallavolo, si ritrovasse sempre con lui fino a quell’ora tarda della notte, o presto del mattino. 

Alchè, sempre quella volta, dato che aveva già aperto bocca, deviò la questione su quel libro che l’altro stava leggendo. Lo aveva appena finito e dalla voracità con cui lo aveva letto sembrava interessante, così Kuroo glielo chiese in prestito, quella come tutte le altre volte in cui si era ritrovato sul punto di dire qualcosa che poi a pensarci meglio era una stronzata. 

Con altrettanta sfrontatezza glieli aveva restituiti puntualmente con lievi note a margine, a matita, alcune a rispondere a quanto Akaashi si era già segnato con un punto interrogativo alla fine. All’altro la cosa non sembrava affatto dare fastidio, tutt’altro, la cosa lo divertiva e con distaccata malinconia gli ricordava un po’ Kotaro. Forse per l’impudenza di ingombrare a quel modo le righe e i suoi pensieri poi a rileggerle, forse la simpatia del gesto o del modo ammiccante con cui glielo aveva fatto notare il giorno della restituzione. E forse fu proprio lì che iniziò a chiedersi se anche lui qualcosa di suo, oltre ai i libri, se lo fosse già preso (il nome di Bokuto però si era, per molto, guardato bene dal metterselo in bocca, temendo, per il bene di entrambi, che anche quello di Tsukishima riaffiorasse).

Quando poi Tetsuro gliene prestò finalmente uno suo, lui fece altrettanto, stabilendo così tra loro una sorta di segreta conversazione di cui solo quei volumi avrebbe dovuto saperne. Non che fosse un fatto indicibile, ma c’era comunque qualcosa di inconfessabile, clandestino in quegli scambi. 

Kuroo dopo un po’ iniziò a sentirne il peso, perchè quello che l’altro gli lasciava scritto era così bello e arguto che non si capacitava (la cosa lo mandava proprio in bestia) come l’autore stesso non avesse avuto quell’idea e non l’avesse scritta prima. Il peso di preciso iniziò a sentirlo quando l’iniziale invidia per quell’intuizione brillante si tramutò presto in assoluta ammirazione. 

Il terzo motivo - in qualche modo strettamente collegato ai precedenti - era invece di natura estetica, perchè Akaashi era comunque Akaashi, con qualche anno in più ma sempre quell’Akaashi del liceo, quello che non lo trovavi quasi mai al centro della stanza ma lo sguardo, va da sé, lì, ci cadeva, punto focale di ogni vista periferica. E Tetsuro, che aveva tutti i motivi del mondo per esaminarlo al dettaglio - preso com’era dalla sua indagine segreta -, non riusciva proprio a togliergli gli occhi di dosso. 

Il terzo motivo era quindi che uno così in una biblioteca non avrebbe proprio dovuto starci, forse piuttosto in un museo, dietro una bella teca di vetro, perché sembrava una di quelle cose fatte apposta per essere ammirate e ammirate di nuovo, e a lungo. Per cui come compagno di studio era piuttosto inconsueto, una distrazione continua. E Kuroo, studiandolo con più attenzione dei libri di testo quel semestre, credeva inizialmente di averne ricavato almeno qualche informazione utile alla sua inchiesta. Si era ravveduto, non molto dopo, constatando quanto ognuno di quei dettagli lo stesse mandando ancora di più al manicomio. Si sentiva più perso di prima.

Ad esempio che Akaashi, sì, teneva tutto in ordine intorno a sé - fogli, libri, persino le penne o matite sembravano trovarsi in un luogo preciso, studiato al millimetro - poi però, passata qualche ora, la composizione si alterava, si disfaceva tramutandosi in un disordine modulare e per quanto caotico in realtà sensato, che a fine serata aveva raggiunto, invaso e conquistato anche la postazione Kuroo. Ogni volta che questo accadeva, Tetsuro sentiva di aver perso qualcosa, sperava fosse solo una questione di terreno.

Non di rado capitava che, data l’ora e la fiacca, in mezzo a quella spirale perfetta di appunti e arnesi da lavoro, Keiji ci abbassasse la testa per addormentarcisi sopra - giusto dieci minuti ed effettivamente dieci erano. 

Si levava gli occhiali, si massaggiava tre volte per verso i bulbi gonfi al di sotto delle palpebre e infine appoggiava una tempia su quel cuscino d’ossa che si era fatto alla buona con gli avambracci. Il capo rivolto verso Tetsuro, prima di addormentarsi farfugliava “A 50, se non mi alzo, svegliami”.

Kuroo annuiva e, come un carceriere con il proprio carcerato, lo osservava sull’attenti e con il gomito puntato sul tavolo. Contava i minuti, cosciente del fatto che non ci sarebbe stato alcun bisogno di scuoterlo e che tanto si sarebbe destato da solo. 

Andava sempre così - capitava anche che lo sfruttava come metodo di studio, “ogni dieci pagine, dieci minuti di guardarlo-mentre-dorme” -, tranne quella volta che una ciocca di Akaashi si scompose, staccò dal resto e gli ricadde sul viso. L’altro d’istinto mosse il braccio in avanti per sistemarglielo e da quel gesto d’apperente automatismo - come quando cade una penna dal banco e semplicemente la si raccoglie perché lì non deve stare - si ritrovò ad accarezzargli la fronte. “Sono già passati 10 minuti?” disse così piano Keiji che quasi lo mimò appena, ad occhi chiusi e bocca aperta di pochissimo. “Sì, tempo finito”. Non era vero.

Il problema principale stava alla radice, al fatto che Kuroo fosse per natura un essere estremamente curioso, di una curiosità incontinente che non faceva altro che metterlo nei guai di continuo, prima, dopo ma soprattutto durante quel semestre. A quella poi faceva spalla la sua incredibile faccia da schiaffi e puntuale capacità di cascare comunque sempre in piedi, sette vite come i gatti. Così si giustificò domandosi perché mai lo avesse fatto, perché gli avesse scostato quella ciocca e sfiorato in quel modo le tempie - voleva solo sapere cosa si provasse a toccarlo -, e pure perchè quell’altra volta gli avesse chiesto della camomilla.

E con questo arriviamo ad un’altra di questione inusuale, un’altra che rendeva appunto Akaashi un compagno di studio insolito: la camomilla.  

In biblioteca, dove l’aria viziata e stantia, che sa di niente, dopo un po’ diventa una calda norma in cui intorpidirsi, è facile distinguere gli odori, gli altri, quelli veri. Quindi se qualcuno apre una finestra e lascia entrare un po’ di vento, beve del caffè o sbuccia un’arancia, lo si nota subito. Quando Keiji allora entrava in sala temperava subito l’ambiente con quella nota distinta che una tazza di camomilla emanava. La porta si apriva e faceva di colpo freddo, poi il profumo caldo della bevanda si imponeva e allertava subito Tetsuro del suo arrivo.

“Ma non ti viene sonno con quella?”

“No, Kuroo-san. Non esiste alcun articolo scientifico che dimostri che il suo effetto rilassante faccia dormire. Piuttosto l’effetto rilassante è sulla muscolatura liscia, lo stomaco, i muscoli involontari e quelli, sì, una volta distesi poi magari ti fanno dormire. Ma la camomilla, di per sé, non conduce al sonno.”

A quella nota, Tetsuro lasciò le labbra aperte, appese in un “Ah” senza suono, mentre oscillava piano con il capo avanti e indietro in una sommessa forma di assenso. Effettivamente gli pareva di aver capito. Aveva capito che per l’ennesima volta Akaashi Keiji ne sapeva una più di lui, e lui una in meno, tipo essersi lasciato sfuggire Tsukishima Kei, mentre l’altro - anche se per poco - se lo era tenuto stretto. 

“Ti è caduto un mito con questa storia della camomilla? Cos’è quella faccia?”

“No, emh…” 

“Mh?”

“No, pensavo che dovrei farmela anche io una tazza. Ho mal di stomaco. Scusa, esco un minuto.”

Congedandosi così, di fretta, dall’altro, uscì dalla stanza imboccando la prima porta disponibile per i corridoi, verso le macchinette o comunque il più lontano possibile da lì.

Anche Keiji con il tempo aveva avuto modo di osservarlo e giudicare che qualcosa in Tetsuro fosse cambiato. O forse che, non avendolo mai sul serio guardato così da vicino, ci fosse in lui qualcosa di strano, altrettanto insolito. Da subito gli era parso qualcosa sì, ma di interessante, poi con il tempo semplicemente allarmante.

Del “Anche se non sembra, perchè spesso è un coglione, pure Kuroo è un cervellone come te” che una volta Bokuto gli aveva fatto considerare, Akaashi ne constatò la veridicità, l’assoluta fondatezza. Tetsuro era brillante, qualsiasi cosa dicesse, anche una stronzata (quelle capitavano con frequenza), aveva comunque una nota luminosa di intelletto acutissimo. Ed era un gran lavoratore, studiava sodo e fino a tardi, con poco metodo e tanta pantomima, ma i risultati non tardavano ad arrivare. Se ne vantava spesso.

Al pensiero che fosse sempre stato un grande capitano - cosa che lui da solo era riuscito a dedurre e che poi Kotaro più volte aveva sottolineato - aggiunse la profondità, quanto davvero attento e premuroso fosse verso gli altri e il resto, il contesto. Quando andava alle macchinette riportava sempre all’altro una bottiglietta d’acqua fresca - perché al di là della camomilla, spesso Keiji si dimenticava di bere, alle volte anche di andare in bagno - e quando era di fretta e si sbrigava a finire quella presentazione che stava imbastendo gli diceva sempre “Dimmelo se pigio troppo forte sulla tastiera e ti dà fastidio” (il rumore in realtà ad Akaashi piaceva parecchio). Oppure che ogni santa sera insistesse per riaccompagnarlo a casa. “Non sono una ragazza, Kuroo, non ce n’è bisogno”, “Tanto sono di strada” gli rispondeva puntualmente e il che era vero, ma meno vera era la tassatività con cui lo aspettasse e spesso e volentieri si trattenesse più a lungo pur di farlo.

Accadde poi un fatto poco piacevole e cioè che ad Akaashi non solo fosse capitato di dimenticarsi le chiavi di casa - in vita sua non gli era mai successo, forse di recente era diventato più distratto - ma anche il suo coinquilino non vi fosse per aprirgli.

“Non hai idea di dove possa essere andato? Che ne so, un locale che frequenta spesso o-”

“No, Kuroo. Non sono tipo da farsi i cazzi degli altri.”

Era ovvio che fosse tardi e che quella situazione, in quanto imprevista, nuova e sconveniente, rendesse il tutto altamente snervante: Akaashi in quell’occasione aveva usato la dose iniquissima, praticamente nulla, di parolacce che si riservava all’anno di concedersi e che Kuroo prima di allora non aveva mai sentito. La cosa gli fece tossire fuori una risata improvvisa.

“Aspetterò qui fuori, tanto ormai è quasi mattina”, “Ma non essere ridicolo, su, vieni da me” aveva insistito Tetsuro (attento, premuroso), prima così tanto per dire poi letteralmente trascinandoselo dietro. Da quei pochi resoconti sul coinquilino che l’altro gli aveva fatto, Kuroo era riuscito a dedurre che molto probabilmente non sarebbe affatto tornato, o se sì, sicuramente non presto.

Nell’appartamento di Tetsuro si mise in scena poi un quadretto divertente, un altro tira e molla di, a quel punto, inutili convenevoli - “Dormi nel mio letto, io prendo il divano”, “No, già mi stai ospitando non mi va-”, “Insisto”, “No, io insisto” - che si concluse con il gran finale, la battuta che a Keiji fece definitivamente crollare le spalle: “Non è che se siamo finiti a casa mia dobbiamo per forza scopare. Vai nel mio letto, prometto che non mi ci ficco” (spesso è un coglione).

Akaashi demorse, scoraggiato dalla faccia da schiaffi dell’altro, il sorriso sbilenco, e acconsentì a cedere, ma qualche ora dopo dimostrò al suo benefattore che sul serio, in salotto o sul pianerottolo di casa sua, sarebbe stato benissimo comunque, perchè anche quella sera non sembrava riuscire a prendere sonno. Dapprima si fece un giro per la stanza - l’assenza congeniale di cimeli del liceo proiettò vividi i colori delle loro vecchie squadre sulle pareti e lì in mezzo anche il contorno indistinto di un paio di facce a entrambi nem note - poi, non contento, uscì e si diresse in cucina.

Nella penombra dell’ambiente riconobbe subito la sagoma scura di Kuroo, la schiena ampia e la postura da debosciato, poi il rumore ovattato dei fornelli e la luce soffusa del fuoco sul piano cottura. Qualsiasi cosa stesse preparando sembrava pronta e sembrava averne un po’ anche per lui. Con un paio di tazze in mano si accomodarono sul divano.

“Da quando in qua bevi camomilla?” gli chiese Akaashi, lo sguardo inquisitorio ma divertito che puntava l’acqua colorata di giallo.

“Ho problemi ad andare in bagno, ok? E tu da quando in qua sei tipo da farsi i cazzi degli altri?”

Touchè” gli fece Keiji, sorridendo.

Nessuno dei due seppe mai bene come fosse successo, a quale punto, a quale discorso, le tazze fossero state prese e abbandonate lì sotto, per terra, ma soprattutto quando e come loro si fossero ritrovati praticamente l’uno addosso all’altro - di preciso Keiji con il volto incastrato tra la spalla e l’orecchio di Tetsuro, il braccio mollo attorno al suo addome -, però così accadde. E con la stessa complicità con cui sembravano essersi nel sonno sistemati accanto, decisero di non farne menzione alcuna il giorno seguente, pur tenendone entrambi ben nota.

Tra queste di note, Akaashi si appuntò - tipo lettere cubitali - il profumo preciso di Kuroo, un profumo pratico e distinto che già in aula studio pensava di aver recepito, il profumo di chi si lava spesso, dei panni puliti e la pelle morbida. E proprio per questo, perché lo conosceva bene e a quel punto a menadito, ne coglieva ogni nota, sfumatura: sapeva sempre quando era di fretta e non era riuscito a farsi una doccia dopo l'allenamento e quando, pur avendo alzato un po’ troppo il gomito, si era palesato comunque in biblioteca per studiare (gran lavoratore, studiava sodo e fino a tardi). Quest’ultima di cosa iniziò a capitare un po’ troppo spesso per i suoi gusti.

La situazione pian piano andò peggiorando, anzi degenerò totalemente.

“Stai… Veramente uno schifo. Hai una cera orrenda. Che diavolo hai fatto?”

Tetsuro distese la bocca nella forma apparente di una risata, gli occhi ben chiusi che poi lentamente riaprì e con teatrale, finta innocenza si indicò da solo, come a dire “Chi io?”.

Qualcosa nell’aria punse subito i sensi già in allerta di Keiji, il naso arricciato e la fronte che gli andò dietro. Allora si avvicinò all’altro e lo annusò meglio, giusto per avere conferme: era ubriaco fradicio.

“Hai un odore tremendo… Kuroo, hai bevuto anche stavolta per caso?”

Tetsuro di colpo oscillò sulla sedia per poi tentare di distrarlo con una smorfia buffa che gli uscì però tutta storta, una vera bruttura. Non avendo avuto successo, con il pollice e l’indice misurò nell’aria uno spazio piccolissimo, gli fece l’occhiolino e con la mascella incassata, le rughe sul mento, masticò una risposta incerta, come a dire “Un pochino, tanto così, giuro”.

Akaashi si alzò di scatto dalla sua postazione, si portò alle sue spalle e gli diede un colpetto d’incitamento, “Su, andiamo”. Alchè Kuroo lì per lì rispose gesticolando a casaccio e sbiascicando fuori qualcosa che l’altro fece di nuovo fatica a comprendere ma che più o meno intuì, tipo “No, no, ho una presentazione da finire” e qualche altra lamentala incoerente.

“Tanto cosa vorrai mai combinare in queste condizioni…” rispose con disappunto Keiji tirandolo su di peso e trascinandolo fuori di lì con inaspettata forza e rapidità.

Quella volta fu Akaashi a scortarlo a casa, sapeva già dove teneva le chiavi e che dentro avrebbe potuto rabbonirlo anche facendo casino, tanto gli altri coinquilini non c’erano. Dopo un breve battibecco, che aveva il sapore dell’alitaccio di Kuroo misto alle ramanzine che un po’ troppo spesso l’altro aveva preso a fargli, Keiji riuscì a ficcarlo a letto.

Il giorno dopo l’ex capitano del Nekoma si svegliò con un gran mal di testa, la presentazione bella che pronta dentro al pc e un biglietto sul comodino che recitava “Appena ti svegli, prenditi un bel bicchiere d’acqua e chiamami”.

La seconda volta che ciò accadde, che l’odore di Tetsuro fu così forte, inconfondibile, stagnante in mezzo all’aria consumata della biblioteca, Keiji fu sul punto di andare su tutte le furie e dare di matto direttamente lì in aula. Ebbe l’istinto, ma poi, calcolatosi in testa tutte le possibilità del caso, si limitò semplicemente ad accompagnarlo di nuovo a casa. 

Durante il tragitto iniziarono a pesargli sulle spalle il peso grave del braccio dell’altro, della prassi che tutto quel teatrino era diventato e dei discorsi che - anche questa volta non si sapeva bene come - avevano preso a fare. 

“Bokuto non fa altro che parlare di te. (Faceva) Si mette in bocca il tuo nome non so quante volte. (Metteva) Soprattutto quando non dovrebbe, tipo a letto. (Come?) Mi stupisco che non ti fischino le orecchie in continuazione.”

Tipo a letto. 

“E quindi? Forza, giriamo a destra.”

“E quindi… Non lo sento da un po’ ma sono certo che lo fa ancora.”

“Non capisco cosa c’entri adesso-”

“Ma come cosa c’entra?! Non sei innamorato di Bo-”

“Non siamo più al liceo, Kuroo. (Perchè non mi chiedi se non sono innamorato di Tsukishima) Stai un po’ dritto, per favore. Sei pesante.”

“Ma se lo sapevano tutti che eri innamorato di Bokuto!”

Ero.”

“Perchè vuoi dirmi che non lo sei più?” 

“Voglio dirti che il liceo è finito.”

Poi Kuroo biascicò qualcosa di incomprensibile, intercalato da qualche rutto e lamento generico: era qualcosa sui sentimenti, che il liceo era finito ma quelli no.

“E’ che ci teneva troppo, capisci? Ha preferito non rischiarsela pur di non perderti.”

“Ci siamo persi lo stesso.”

Ci siamo persi tutti lo stesso.” ripetè di nuovo Tetsuro col tono grave delle verità scomode e Keiji non riuscì a trattenersi dal guardarlo dritto in viso. Gli lesse una tristezza sconfinata che gli aveva reso gli occhi vitrei, persi altrove, nel passato forse, e lì si sentì una forte fitta all’intestino come l’altro aveva accusato per tutto il tragitto. Forse era sul punto di vomitare anche lui, ma non aveva bevuto, non ce n’era apparente motivo.

“Comunque, ti prego, non avercela con Bo per non averti detto niente. Io ho fatto lo stesso e forse tu puoi capirmi. Con Tsukki è stato seeeeempre così complesso. Acchiapparella, anzi un cazzo di campo minato. Per ogni passo in avanti che facevo, tornavo indietro di tre. Alla fine-”

“Alla fine ci hai rinunciato.”

“Alla fine te lo sei preso tu. Mi hai battuto sul tempo.”

Kuroo quando beveva perdeva ogni forma di pazienza e affabilità, onore, tatto e pudore. Trasformava la sua arguzia in lame taglienti e impreviste

Ad un certo punto fece una battuta di cattivo gusto su Bokuto e le sue dimensioni (Tipo a letto), che è difficile spiegare come gli fosse uscita tra un aneddoto malinconico e l’altro, confermando quello che già prima aveva velatamente annunciato e cioè che “Sì, se proprio lo vuoi sapere lo abbiamo fatto. Più di una volta e per un bel po’ di tempo. Per questo ovviamente lo so. E non dirmi niente di Tsukishima, sappi che sono ancora determinato a scoprirlo per conto mio”.

Una coltellata ingiusta e mal assestata che stava per ritorcerglisi presto contro.

L’argomento nelle ultime settimane aveva già minacciato di affiorare - qualche appunto leggero, un po’ di malinconia diffusa, il fatto che erano mesi che non riusciva a mettersi in contatto con nessuno dei due - e Akaashi aveva da subito compreso che non ci fosse solo lo studio opprimente e gli esami in arrivo dietro tutto quel masochismo dell’altro.

Poi, sempre Akaashi, lo aveva istigato ad apprestare il passo, a non lagnarsi così tanto che anche lui faceva una fatica immensa, la stanchezza gli aveva fatto dire qualcosa sempre a proposito di Bokuto, che a nominarlo e fare tutta quella tragedia glielo ricordava proprio e Kuroo d’improvviso si era fermato sul posto, frenando forte con i piedi. 

“Come ti sentiresti se ti dicessi che mi ricordi Kei, eh? Lo hai detto per ripicca perchè sono andato a letto con-”

“Kuroo, datti una calmata.”

“A dire il vero, sai, ogni tanto sul serio me lo ricordi. Vi assomigliate. Sì, allora forse è per questo che… (Che cosa? Che siamo stati insieme o che-) Comunque tu sei meno tremendo, tanto illeggibile, ma più-”

“Per favore, basta con questi discorsi, non ne parliamo più. Non ne voglio sapere nulla. Basta.”

Tetsuro lì alzò gli occhi da terra e finalmente lo guardò bene in volto: si rese subito conto, nonostante la sbronza, che doveva esser stato proprio uno stronzo e che uno come Keiji, uno che lo stava riaccompagnando a casa per la centesima volta, non se la meritava affatto una cosa del genere, tutte quelle coltellate ingiuste e mal assestate. In fondo a Kei non assomigliava affatto (meno tremendo, le note sul libro, la camomilla, la presentazione nel pc, la pelle liscia, la tempia sul braccio quando dorme).

Qualcosa allo stomaco d’improvviso lo punse, una fita distinta, lacerante, più opprimente di tutte le precedenti, e per un secondo, con lo sguardo ancora puntato sull’altro, pensò proprio non si trattasse più dell’alcol, ma degli occhi di Akaashi, così lunghi, azzurri, così belli, ora immensamente tristi, inconsolabili per quelle cattiverie che gli aveva ficcato dritte nel petto, pur non meritandosene nemmeno una. 

Ci provò, a consolarlo, a rimediare a quel danno, “Quanto sei-”, ma prima che potesse terminare la frase si ritrovò a vomitare la cena (forse anche il pranzo) per terra, nel bel mezzo della strada, la luce del lampione che gli si posava sopra la schiena ricurva quasi a volerlo mettere in ridicolo. Un eroe tragico sconfitto.

A guardarlo qualche minuto più tardi e finalmente in camera sua, disteso alla buona sul letto, con la faccia gonfia, livida di alcol e stanchezza, ma molle, Kuroo sembrava stranamente felice. Provato ma felice. Le guance piene, gli occhi piccoli e un sorriso da ebete. E sempre a guardarlo, Keiji avrebbe tanto voluto chiedergli cosa cavolo ci trovasse di divertente in tutta quella faccenda perchè a lui proprio sfuggiva, la faccenda intera, di quella sbronza e di Tetsuro che non sembrava aver intenzione di mollarlo - le mani di Akaashi puntate ai lati del cuscino pur di non cadergli addosso, l’altro che lo teneva stretto in vita. 

In quel silenzio e vicinanza imbarazzante, Kuroo si decise a prendere parola e ficcarci in mezzo qualcosa di ancora più imbarazzante. Prima per strada non era riuscito a finire la frase che per intero faceva:

“Quanto sei bello, Keiji. Bokuto te l’ha mai detto?”

E di nuovo Akaashi fu sul punto di aprire bocca e parlare, volergli sputare che no, una cosa del genere non gliela aveva mai detta perchè lui e Kotaro erano solo cari amici e nonostante fossero (seppur solo) cari amici, Bo non si era mai permesso di chiamarlo per nome, nemmeno una volta. Avrebbe voluto, dirgli tutto questo, ma Keiji davvero era stanco morto, provato del peso che si era portato addosso quella sera e ad essere sinceri da diversi mesi appresso. Avrebbe, ma era tardi ed era scuro, lì in camera da letto, e in più Tetsuro così maledettamente vicino.

Piuttosto quindi respirò fuori un flebile “No…”, breve e di poco conto, tanto quanto la distanza che li divideva a quel punto e che l’ebbrezza - dell’alcol per uno e del momento per l’altro - ad entrambi fece chiudere, cancellare per sempre. 

Tetsuro se lo sistemò contro con estrema naturalezza, un gesto voluto ma non pensato, e Keiji, di rimando, gli scivolò d’istinto tra le braccia e sulle labbra: si baciarono piano, a lungo e in silenzio, come fosse un segreto tra loro e la notte. 

Kuroo intanto se lo teneva stretto a sé, per la vita e per la nuca: il collo di Akaashi così sottile, snello, e le sue dita così lunghe che intorno sembravano starci precise. Lo cingevano toccandosi sul pomo, e ad averlo in quel modo, quasi in pugno, come fosse una cosa sua, Tetsuro si sentì pervaso da una strana sensazione di concretezza, di potere. Proprio quando tutto intorno a lui sembrava crollargli addosso, sfuggirgli da ogni forma di controllo - la sbronza, l’università che non andava in realtà così bene come lasciava apparire, gli amici, la pallavolo, il futuro troppo incerto, quei due che non sentiva da troppi mesi e il fardello di aver fatto con tutti loro solo un enorme casino -, si ritrovò letteralmente in mano l’altro, che invece tra quelle sue dita ci si perse in uno stato di totale abbandono, perdizione assoluta. 

Una cosa così sbagliata, insolita, imprevista, non avrebbe dovuto sembrare così giusta, eppure quella cosa mescolata al rhum nella bocca di Kuroo pareva avere un sapore così dolce, inebriante, da far sentire anche Akaashi vittima di un’ingiustificata ebbrezza. 

Lasciò che lo toccasse, dappertutto, che gli sfilasse gli occhiali, gli scompigliasse i capelli e la camicia, che prendesse a togliergliela, e che gli infilasse una mano sotto i pantaloni. E quella mano lì restò, immobile, le dita perfettamente sagomate, cinte attorno a quello che sotto le mutande dell’altro ci aveva trovato, perchè senza preavviso alcuno Tetsuro gli si addormentò addosso, la bocca aperta e la lingua ancora contro la sua, i denti scoperti a toccarsi.

Se avesse avuto la forza di parlare, avrebbe fatto sicuramente il gradasso, intimando ad Akaashi di avere abbastanza stamina in corpo da soffocare sbronza e depressione tutte insieme e in un colpo solo, sentendosi capace di prenderlo su quel lettaccio in compensato per tutte le ore che li dividevano ancora dall’alba. Ma Keiji doveva avergli detto una balla su quella storia della camomilla, perchè sapeva di margherite e di pace al punto da ammazzarlo di sonno: le labbra, la saliva, la sua pelle sotto le dita lo avevano completamente anestetizzato, portato allo stremo, un dolce coma etilico in cui Tetsuro in un punto impreciso di tutto quello starsi addosso, toccarsi si perse fino all’indomani mattina.

Akaashi diede un ultimo bacio a vuoto e si tirò indietro di un pelo: Kuroo teneva gli occhi chiusi, le labbra aperte e un’espressione beata in volto, così placida come non gliela vedeva da tempo. La cosa lo spinse lì per lì a dare fondo - internamente, poi appena sottovoce - a quanto gli restava alla sua riserva limitata di parolacce e ingiurie, e di passare addirittura alle munizioni dell’anno dopo. Oh cazzo. Caaazzo, cazzo, cazzo. 

Riuscendo a divincolarsi con successo, corse poi a chiudersi in bagno, in una condizione incerta che stentava (o temeva) a riconoscere: l’unica cosa da constatare, l’unica cosa sicura e inconfutabile, infatti, era l’enorme erezione che si ritrovava a quel punto nei pantaloni. 

Altre cartine da sparare, cazzo, cazzo, cazzo, no, no, cazzo.

Decise così di sbarazzarsene al più presto, come a ripulire la scena del delitto, le prove di un crimine efferato prima del processo. La freddezza della cosa gli ricordò d’un tratto Tsukishima, il distacco e terrore che per quelle reazioni impreviste del corpo e del cuore aveva (almeno all’inizio). Il suo volto gli si rimescolò in testa alle mani che si era sentito fino a poco prima addosso, a casa di chi era?, le mutande, la saliva, gli occhiali sul comodino erano i suoi o ce li aveva lasciati Tsukishima? 

Scaricato il cadavere giù nel cesso, si lavò le mani e scappò via.

Tetsuro non ricordava da quanto tempo non gli capitasse di dormire così a lungo. Dieci, forse addirittura dodici ore filate, eppure non gli pareva essersi riposato nemmeno per una. Il corpo indolenzito, lo stomaco sotto sopra, un vuoto al centro dello sterno come qualcuno gli avesse appena strappato di petto il cuore, a rimescolargli il resto degli organi lo strano senso di colpa di aver sicuramente fatto qualche cazzata e non riuscire ancora a rammentarsene con chiarezza. 

Poi un colpo alla porta, un altro: Keiji era venuto a trovarlo, aveva una bustina in mano. Aspirine, del cibo.

“Come ti senti?”

“Uno schifo.”

“Come è giusto che sia. Prendi questa.” e l’altro obbedì, remissivo e ubbidiente come piccolo paziente imbottito di anestetici.

“Kuroo, che non accada mai più, per favore.” 

“Cosa?” si messaggiò le tempie Tetsuro.

“Lo sai cosa.”

Le opzioni erano due. Anzi tre. Che non si sbronzasse più, che non lo baciasse più, che non si sbronzasse più e poi baciasse pure. Forse l’aspirina iniziava a fare un precoce effetto, perchè Kuroo ebbe l’impressione di ricordarsi abbastanza vividamente - almeno il giusto - di esser stato chiaramente ricambiato la sera prima, che Akaashi si fosse lasciato andare e baciare e toccare senza troppi problemi. Puntò tutto sulla prima.

“Credo di essere solo un po’ stressato.” in realtà era una risposta che andava bene per tutte le opzioni.

“Bere in quel modo ti farà diventare un alcolizzato e avrai problemi peggiori, altro che stress.” Ci aveva preso. “Tieni.”

Aspirine, del cibo, il depliant del consultorio psicologico.

“Che ci faccio con questo.”

“Ti fai vedere. Ti mancano due esami alla laurea. Non puoi mollare adesso.”

Il resto della giornata procedette in gran silenzio, le serrandine abbassate e Kuroo a letto. Akaashi in cucina studiava e di tanto in tanto andava in camera per controllarlo, “Hai fame?”, “Vuoi dell’acqua?”, “E’ ora di cena, ordino qualcosa?”, “Come va la testa?”.

Keiji, sono solo in post sbronza, non sto morendo. Sta’ tranquillo, sto bene.”

Keiji.

(L’impudenza di ingombrare a quel modo le righe e i suoi pensieri, “Quanto sei bello, Keiji”, impudente, ingombrante, attento, premuroso, spesso è un coglione, brillante, le note stupide sui stupidi libri, profumo pratico, panni puliti, la puzza di alcol però “Quanto sei bello, Keiji”, Keiji, Keiji, Keiji)

Erano bastate solo cinque lettere per teletrasportare Akaashi alla notte precedente e costringerlo a bloccarsi per un attimo sulla soglia, una mano ancorata allo stipite con la stupida paura di cadere. Imprudente, lo raggiunse a letto, si chinò su di lui e lo baciò piano. 

“Allora vado, ci vediamo domani in aula studio. Chiamami se hai bisogno.”

Kuroo annuì con il capo e semplicemente lo guardò andarsene via, la fine vaga e sfumata di un sogno in dormiveglia. Il click della porta che si incassa e di colpo cadde di nuovo in un sonno profondo.

La loro routine, da lì, non sembrò cambiare di molto, se non che Tetsuro puzzava meno spesso di alcol e che ogni tanto gli capitava di baciare Keiji in corridoio, nel bagno o davanti all’ingresso. Baci innocenti, casti, della stessa natura e spessore delle altre attenzioni che riservavano, come prendere una bottiglietta d’acqua in più o “Aspetta un attimo che ti riaccompagno a casa”. 

Akaashi ogni tanto si sporgeva un po’ troppo vicino per bisbigliargli qualcosa all’orecchio e a Kuroo finiva subito il sangue nei pantaloni, oppure era lui a fare il cretino e sfiorargli il collo o la caviglia con la gamba sotto il tavolino: comunque in nessuno di questi casi si erano mai spinti oltre. Si erano scritti tra quelle note a matita sui libri che sarebbe stato il loro segreto, il loro modo di dirsi Non sei da solo.

Tetsuro al consultorio ci era stato giusto un paio di volte, il tempo di farsi diagnosticare una sindrome da burn-out, molto frequente soprattutto tra gli studenti migliori. Stress cronico, apatia e insoddisfazione diffusa, una lacerante prostrazione costante che lo debilitava e stordiva come un manrovescio inatteso, mai arrivato, ma la stampa a sangue sulla pelle c’era, la sensazione livida pure.

L’esame della realtà che ne conseguì fu inizialmente altrettanto difficile da incassare e Kuroo - che ormai aveva smesso di credersi migliore di quanto non fosse -, un giorno, bevve tanto, di nuovo. Quella notte, a casa sua, Akaashi lo istigò a parlare, se lo portò con sé per terra, sul pavimento, la luce tenue di un lumino che gli si rifletteva addosso, quasi timidamente a non volerli disturbare. Ci passarono lì diverse ore, finchè il sole non fece capolino iniziando a filtrare piano dalle tapparelle scese.

“Avevi ragione quando mi hai detto che il liceo è finito. Sono passati anni ma io non penso di averlo ancora capito. La cosa non mi è mai andata giù.”

Keiji di rado lo aveva interrotto, tutta la notte lo era stato semplicemente ad ascoltare. L’altro continuò.

“Non ci vado spesso a pallavolo, sai? Mi alleno da solo la maggior parte delle volte, palleggio a muro a vuoto per ore. E non mi mancano solo due esami, me ne mancano dieci. E ad essere sincero non so nemmeno cosa sto facendo, cosa studio. Ho seguito corsi a caso, quelli con scritto advanced giusto per darmi un tono, ma non ho la minima idea di quello che voglio, con che pezzo di carta ne uscirò… Né sinceramente se questo pezzo di carta lo voglio davvero. Mi sembra di essere tagliato un po’ per tutto e un po’ per niente. E mi sembra comunque di non riuscire, o almeno di non farlo più con la stessa facilità con cui lo facevo prima. Al liceo, intendo… Sette vite come i gatti, forse me le sono finite.” concluse con amarezza.

Ci fu una pausa piuttosto lunga.

“Non sei obbligato a laurearti, a fare l’università, lo sai vero? Magari dovresti fare altro.”

“Tipo cosa? Mi sono sbattuto come un mulo per entrare. Non ha senso mollare.”

“Non è vero, Kuroo. Me lo ricordo benissimo che te ne stavi sempre a zonzo con Bokuto o ad allenamento. E nonostante tutto sei entrato comunque, perché lo volevi, fortemente. Tu sei uno di quelli che quando vuole qualcosa più o meno la ottiene. Forse quel pezzo di carta, adesso, davvero non lo vuoi.” Akaashi si voltò per studiarlo meglio, poi gli chiese, epigrafico: “Cosa vuoi sul serio, adesso?”

Tetsuro si prese del tempo per rispondergli, un po’ perché era una domanda enorme, proprio tosta, e un po’ perché, a dirla tutta, si era un po’ perso a guardare a sua volta Keiji.

“Non pensarci troppo. Parti da una cosa sola, almeno una. Un passo alla volta. Il resto lo capirai strada facendo. Adesso cosa vuoi?”

“Per ora vorrei solo baciarti, Keiji.”

E così accadde, quella volta: Kuroo e Akaashi si baciarono di giorno, perfettamente lucidi e coscienti, le luci del salotto ancora accese che gli si riflettevano addosso, immersi in un inequivocabile bagliore, la chiarezza di volerlo. Più tardi, si trascinarono in camera da letto con tutta l’intenzione di fare, almeno quella volta, le cose come si deve, per bene e senza badare alle ore sull’orologio - che comunque Keiji in cuor suo non riusciva a smettere di contare.

C’era qualcosa di puro, essenziale, non forzato nello scoprirsi attratti da qualcuno di inaspettato, di un insolito compagno di studio, di uno che all’inizio era quasi un nemico, un errore di collocamento, che poi però nel bilancio sommario dei suoi tomi di Economia per assurdo funzionava.

Il punto era che a Kuroo semplicemente andava a genio la compagnia di Akaashi e ad Akaashi la sua e almeno quello era tutto così semplice.

Gli piacevano le note sui libri che si lasciavano a vicenda, le ore di studio a casa sua, le bottigliette d’acqua in più e la camomilla. Gli piaceva il modo in cui si vestiva (elegante, formale, al punto da sembrare fuori luogo), camminava o anche solo respirava. Gli piaceva portarlo al cinema a vedere quei film noiosi, cervellotici, da nerd, che solo due come loro potevano sorbirsi e poi commentarli insieme sulla strada del ritorno, un braccio dietro al collo, le dita intrecciate su una spalla - Keiji aveva sempre qualcosa di interessante da dire. Gli piaceva starlo a sentire, guardarlo con la coda dell’occhio o al centro di una stanza, dentro una bella teca di vetro. Gli piaceva passargli le dita tra i capelli, mutare il loro ordine perfetto, mentre dormiva, mentre studiava o quando se lo vedeva seduto tra le gambe e gli affondava piano tra le labbra. Gli piaceva ritrovarselo al mattino nel letto o incontrarlo in giro per il campus, facendo finta fosse stato un caso. Gli piaceva aspettarlo dopo lezione e invitarlo a pranzo fuori per un boccone, qualsiasi cosa, “Offro io”. Gli piaceva essere ripreso se tentava di baciarlo in pubblico e gli piaceva che poi lo lasciasse fare comunque. Gli piaceva la pace, il non dover metter su nessun teatrino. Gli piaceva non doversi sentire in colpa se ogni tanto la mente vagava sul pensiero di qualcun altro, anzi di due, perchè sapeva in cuor suo che anche a Keiji capitava: gli piaceva non esser solo anche in quella cosa. Gli piaceva essere compreso e che per una volta in vita sua fosse qualcun altro a prendersi cura di lui e non sempre lui a tenere le redini di ogni cosa, gli piaceva potersi dare un po’ di tempo. 

Gli piaceva, insomma, scoprì che gli piaceva e anche parecchio.

Erano tante le cose che gli piacevano, dunque, erano tutte nel loro insieme, erano Akaashi e quindi alla fine erano una sola, forse troppo poco per rispondere a quella domanda, enorme, che qualche sera prima gli aveva fatto (“Cosa vuoi sul serio, adesso?”), ma intanto quella una e sola Tetsuro sapeva di volerla.  

Rincominciò da lì, rincominciò da Keiji.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Haikyu!! / Vai alla pagina dell'autore: laurelleghuleh