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Autore: Kakashi_Haibara    16/07/2022    0 recensioni
Francis Bonnefoy è un giovane alla ricerca del suo posto nel mondo. Dopo un percorso universitario all'insegna dell'alcol e della droga, decide finalmente di riprendere in mano la sua vita, ma non sarà facile. Vuole trovare l'amore e chissà se un tassista londinese con la lingua tagliente conosciuto per caso sarà capace di donarglielo.
(Dal testo)
Che cosa ci facevo seduto sul sedile del passeggero di un taxi londinese, con indosso degli abiti da matrimonio e un tassista scorbutico che mi urlava contro le peggiori ingiurie, bloccati nel traffico del centro di Londra di una calda giornata di agosto?
[Accenni di FrUK, Spamano e PruHun]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Seychelles, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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[ATTENZIONE: il seguente capitolo tratta temi sensibili che riguardano la depressione, la dipendenza e l’allusione al suicidio. Se siete sensibili a uno o più di questi argomenti, vi prego di non leggere, e se volete farlo comunque, siate consapevoli (ovviamente, nel testo non fomento niente di tutto ciò, anzi). Spero vi piaccia! ^^]

 

La Solitudine di Francis Bonnefoy

 

Che cosa ci facevo seduto sul sedile del passeggero di un taxi londinese, con indosso degli abiti da matrimonio e un tassista scorbutico che mi urlava contro le peggiori ingiurie, bloccati nel traffico del centro di Londra di una calda giornata di agosto?

Penso che sia necessario partire dal principio.

Concluso il liceo a pieni voti, ho lasciato il mio primo amore, Parigi, per intraprendere gli studi presso l’università di moda più prestigiosa di tutta Londra, seguendo il sogno di diventare un affermato stilista, al pari dei grandi nomi di fine ‘900.

I sogni, però, non erano abbastanza.

Il mio percorso universitario era stato piuttosto deludente fin dal principio, costellato da costanti fughe d’amore con ragazze - e perché no, anche ragazzi - conosciute dentro e al di fuori del campus, e da party imperdibili, all’insegna dell’alcol e delle droghe, di cui avevo cominciato a fare ampio uso. Inizialmente, la ricerca di amanti e il consumo di alcolici e stupefacenti erano un modo per divertirsi e distrarsi dalla routine universitaria, una rara occasione trasportata dall’euforia del momento, ma sono diventati ben presto una vera e propria dipendenza, tanto da compromettere i miei studi.

Cercavo una consolazione nei seni delle donne, nei fianchi degli uomini, nell’ultima goccia della terza bottiglia di vino, nel fumo che penetrava nei miei polmoni e nel senso di temporanea leggerezza ed euforia che mi provocava la cocaina che girava senza controllo tra gli studenti dell’istituto. Consolazione per cosa? Forse per colmare il senso di solitudine e angoscia che avevo provato dal momento in cui avevo lasciato i miei affetti, la stabilità della routine liceale e tutte quelle piccole cose che fungevano da ancora per trasferirmi in una città umida, fredda e seria come Londra.

Lo studio non era mai stato il mio forte. Al liceo me l’ero cavata senza il minimo sforzo, ma l’università era una cosa diversa. Bisognava impegnarsi per avere un futuro. E io non mi stavo impegnando affatto. Faticavo a seguire tutte le lezioni e a volte alzarsi dal letto era un primo passo che non riuscivo a compiere. Potevo solo stare sotto le coperte a piangermi addosso.

Fu in quel momento che iniziai a intraprendere le prime relazioni all’interno del campus. Sempre se si possono chiamare relazioni. Sin dal periodo delle medie ero stato un rubacuori: grazie alla mia peculiare bellezza, nella mia adolescenza avevo avuto parecchie di quelle che si possono considerare fidanzate e quelle che ho avuto negli anni universitari non possono essere chiamate tali.

Nell’ottobre del primo anno, a poche settimane dall’inizio del semestre, mi misi insieme a una ragazza vietnamita, Linh, del mio stesso corso di moda. Durammo poco meno di un mese, perché lei non sopportava il fatto che ci provassi con altre persone per divertimento. Me ne feci un ragione, c’erano molti pesci che avrebbero fatto a gara per avermi. E difatti, il secondo fidanzato arrivò appena due giorni dopo. Si chiamava Kiku ed era uno studente giapponese del corso di marketing. Forse avevo un debole per gli asiatici. Ma anche quello non durò a lungo. Mi piantò in asso quasi subito, diceva che non gli piaceva che rivelassi la nostra relazione ai quattro venti. Probabilmente non aveva torto, ma io ai tempi non mi ero fatto alcun problema al riguardo. Da quel momento in poi, ebbi solo “relazioni” occasionali, giusto il tempo di flirtare e finirci a letto. Dentro di me, la vedevo come una vittoria: era come un gioco, la sera mi svagavo e di giorno giravo per le lezioni in cerca del prossimo amante con cui passare la notte.

E fu così che finii il primo anno quasi al pelo, con dei voti non brillanti, ma abbastanza per continuare. D’altronde, ai miei genitori andava bene, l’importante era completare gli studi. Non avevano accettato la mia scelta di studiare moda, per me avrebbero preferito un lavoro più stabile, come il medico o l’avvocato, ma avevano capito che non ero tagliato per lo studio intenso e alla fine si erano arresi. Dopotutto, avevano pur sempre mia sorella minore su cui contare, il piccolo genio della famiglia. Lei avrebbe soddisfatto le esigenze dei nostri genitori, io avrei fatto di testa mia senza deluderli troppo.

Ma il secondo anno non filò liscio come il primo.

La mia attività da Dongiovanni continuò senza alcun intralcio. Ormai tutto il campus conosceva il mio carattere libertino e la mia straordinaria bellezza e gli studenti facevano la fila per poter fare dello “splendido sesso” con me, che fosse anche solo per qualche minuto nei bagni della scuola, negli spogliatoi o perfino nell’ufficio di un professore che si era dimenticato di chiudere a chiave. A me andava bene. O almeno, così pensavo. Non avrei mai potuto immaginare che proprio la cosa che più amavo fare sarebbe diventata presto la mia rovina.

Era raro che frequentassi le lezioni, ma non lo vedevo come un problema. I miei due compagni di stanza, Gilbert e Antonio, mi passavano spesso gli appunti, se per pena o per gentilezza ancora non lo so. Erano probabilmente gli unici due veri amici che ero riuscito a farmi in quegli anni e che, nonostante tutto, sono rimasti con me anche nel mio periodo più buio e oltre. Gilbert era un donnaiolo proprio come me, con l’unica differenza che le sue fidanzate duravano sempre almeno più di cinque mesi. Antonio invece stava in una relazione a distanza con un ragazzo italiano, Romano, conosciuto durante una sua vacanza in Italia in terza superiore. Pur tra alti e bassi, erano ancora insieme dopo tutti quegli anni.

Durante il periodo natalizio di quell’anno, spinto da Gilbert, iniziai a frequentare i famosi party universitari. Non mi ero mai interessato a quel genere di feste, preferivo bere e fumare con il mio partner occasionale nella tranquillità delle nostre stanze, piuttosto che stare in mezzo a gente ubriaca marcia e senza controllo. Si svolgevano ovunque: nelle camere degli studenti, nelle palestre, nei giardini. Il mio degrado iniziò durante la festa organizzata da un certo Alfred, famoso per le sue “feste da sballo”. Letteralmente, perché di droga per sballarsi ne girava parecchia. Spinto dall’euforia del momento e probabilmente da qualche goccio di alcol di troppo, provai la cocaina per la prima volta. Gli effetti che ebbe su di me furono devastanti. In quel momento mi sentii libero da tutto il disagio che avevo provato in quegli anni all’interno dell’università, libero dalla solitudine, dall’angoscia. So che Gilbert ancora oggi si sente responsabile della mia dipendenza, ma se non fosse stato per il party, avrei iniziato da solo.

Conclusi anche il secondo anno per pura fortuna e iniziai il terzo già a pezzi.

Durante l’estate, quando la maggior parte degli studenti era a casa dalle proprie famiglie e quindi le feste in università scarseggiavano, avevo cominciato a frequentare i pub in giro per Londra, con conseguenza il peggioramento del mio alcolismo. Era raro che tornassi nel mio alloggio universitario per la notte. Spesso mi addormentavo sul bancone di un bar o sul letto di qualche giovane donna con cui avevo passato la notte. Inoltre, non era raro che mi facessi pagare da ricchi signori in cambio di sesso. Loro erano felici di sfogare le loro frustrazioni sul mio bellissimo corpo quasi femminile e io guadagnavo soldi per comprarmi l’alcol e, nei momenti in cui ero al limite della mia depressione, anche l’eroina, sostituente della cocaina per l’effetto calmante che aveva sulla mia mente disturbata da pensieri perpetui. Non ne vedevo il problema. I miei amici invece sì. Erano preoccupati per me e le rare volte che tornavo in stanza per farmi una doccia e cambiarmi i vestiti, si offrivano di aiutarmi in qualsiasi modo. Non sapevano quanto disperatamente volessi chiedere aiuto, ma non ci riuscivo. Me ne andavo prima che potessi cedere alle loro suppliche, ripetendo che non avevo alcun problema. Non sapevo nemmeno io il perché.

Verso febbraio, seppi che l’università aveva avvertito i miei genitori della mia mancata presenza sia nell’istituto che agli esami. Erano furibondi. Risposi a una sola telefonata delle cento di mia madre, in cui mi ripeteva quanto fosse delusa e preoccupata, mentre io restavo in silenzio, incapace di dire la verità.

Una notte, un uomo a cui avevo offerto il mio corpo in cambio di droga mi sbatté fuori da casa sua, allarmato dall’inaspettato ritorno della moglie dal suo viaggio di lavoro. Nevicava e tirava un vento gelido. A causa della dipendenza, ero dimagrito di molti chili, il viso era smunto e non c’era più traccia di muscoli e grasso sotto la pelle, solo ossa. Per questo motivo, non riuscivo più a sopportare il freddo. I capelli biondi erano diventati secchi e sbiaditi, gli occhi incavati e spenti. Il cambiamento era stato lento, guardarmi allo specchio era una tortura. Mi trovavo in un quartiere che non conoscevo e giravo alla cieca in mezzo al mare bianco, barcollando intorpidito dai fumi dell’alcol assunto qualche ora prima. Sentivo le lacrime pungermi gli occhi. Non piangevo da molto tempo e non pensavo sarei mai più stato capace di farlo. Ma ero stanco, senza speranza, senza futuro. Frugai nella tasca del cappotto sgualcito e tirai fuori con la mano tremante la siringa di eroina che mi aveva dato l’uomo. Una lacrima mi bagnò la guancia. Non c’era via di uscita per uno come me, pensai. Era tutto inutile. Non avrei mai trovato la pace che tanto desideravo in questo mondo. Nessun partner, nessuna bottiglia e nessuna droga mi avrebbero mai reso felice.

Agii in automatico. Desideravo solo porre fine al mio dolore. Il buio.

Fui trovato qualche ora dopo, sdraiato a terra con la faccia schiacciata sulla neve, da un paio di poliziotti in pattuglia. Mi ricoverarono d’urgenza in ospedale e restai in uno stato comatoso per una settimana. Quando mi svegliai alcuni urlarono a gran voce al miracolo. Io dentro di me urlavo di disperazione.

Nel periodo di convalescenza in ospedale, Antonio e Gilbert vennero a trovarmi quasi ogni giorno. Cercavano di risollevarmi morale, ma io non avevo altri pensieri che per l’alcol e la droga. Mi trovavo in uno stato di astinenza. La mia famiglia, avvertita dai medici qualche giorno dopo il mio arrivo in ospedale, aveva preso il primo volo ed era atterrata a Londra. La vergogna che provavo nel vederli ogni giorno, con i loro visi contratti dalla preoccupazione, mi logorava.

E fu così che iniziai il mio percorso di disintossicazione e riabilitazione.

Furono i mesi più lunghi della mia vita. Dopo un periodo sotto osservazione clinica per la disintossicazione, dettato da una profonda crisi di astinenza che mi rese ansioso, aggressivo e irrequieto, iniziai il percorso di riabilitazione. Odiavo le sedute terapeutiche di gruppo, mi sentivo umiliato e pieno di vergogna. Guardavo i volti degli altri pazienti e non riuscivo a identificarmici. Lo psicoterapeuta che ci seguiva diceva che saremmo dovuti diventare consapevoli dell’ambivalenza verso la nostra dipendenza, da un lato la “bestia” che voleva tenerci ancorata ad essa e dall’altra la volontà di liberarcene, e accettarla. Io non ci riuscivo. L’idea di cadere di nuovo in mano di questa bestia e divenire suo schiavo mi terrorizzava. Odiavo dover ammettere che fosse ancora presente dentro di me. Odiavo questa parte di me.

Fu durante le ultime sedute che conobbi Michelle, una ragazza laureata in psichiatria, specializzanda nella riabilitazione dalle dipendenze. Trovai in lei un appoggio, una mano che mi permise di allontanarmi, anche di poco, dal tunnel buio in cui mi trovavo. Conclusa la mia riabilitazione, continuammo a frequentarci, fino a che non ci innamorammo.

Questo nuovo capitolo della mia vita mi permise di riprendere l’università, permettendomi di completare l’ultimo anno e garantendomi in seguito un lavoro come assistente di uno stilista non ancora affermato nel mondo della moda. Non esattamente il mio obiettivo, ma sapevo che avrei avuto bisogno di tempo.

Facevo visite periodiche per controllare il mio stato di salute fisico e mentale nei confronti della dipendenza. Sapevo che era ancora lì e in varie occasioni avevo avuto degli episodi di stress dettati dal desiderio di consumare droga o alcol, ma le medicine e le sedute aiutavano a calmarmi. L’unica cosa a cui non ero riuscito a separarmi era il fumo. Le sigarette erano come un piccolo vizio che mi concedevo con moderazione.

La mia relazione con Michelle andava a gonfie vele. Ero felice con lei. Dopo l’università, mi ero trasferito nel suo bilocale nella periferia di Londra e la sua vicinanza aveva contribuito al mio miglioramento.

Un anno dopo, compiuti i miei venticinque anni, fui dichiarato libero dalla dipendenza e io e Michelle decidemmo di sposarci. Lei sognava un matrimonio nel centro di Londra e io mi permisi di accontentarla. Organizzammo tutto nei minimi dettagli, invitammo soltanto i parenti e gli amici più stretti. Tutto stava andando bene.

Eppure… Perché, sulla soglia della chiesa, con indosso il mio abito da sposo, mi sentivo così vuoto? Tutto stava andando bene, ma a me andava davvero bene? Non mi ero mai posto quella domanda prima. Mi ero sempre fatto andare bene tutto. E sappiamo bene dove questo mi aveva portato.

All’altare, venni travolto dai dubbi. Amavo davvero Michelle o amavo l’idea che mi ero costruito di lei? Avevo davvero trovato il vero amore che disperatamente cercavo da tempo, dopo tutte le relazioni superficiali in cui ero entrato, o mi ero solo aggrappato alla sua mano come un’ancora di salvezza per uscire dal tormento in cui mi trovavo? In quel momento, guardando negli occhi ambrati di Michelle, vidi soltanto la terapista che era riuscita a darmi un pretesto per continuare a vivere. Una figura sconosciuta che assumevo come medicina per alleviare il mio dolore. Una possibilità, non un futuro. Il panico mi assalì.

Michelle lesse l’ansia nei miei occhi - Va tutto bene, Francis?

Corsi via. Lungo la penombra della navata, sentii i mormorii dei presenti seduti ai lati, ma li ignorai. Corsi fino al portone della chiesa, che spalancai con forza, inondato dalla luce accecante di mezzogiorno. Il cuore batteva all’impazzata nel petto. Gocce di sudore mi imperlavano fronte e collo. Un milione di pensieri mi affollavano la mente, ma l’unica cosa che volevo fare in quel momento era fuggire via.

Notai un taxi che si avvicinava alla mia destra.

- Taxi!! - lo chiamai a gran voce, gesticolando con una mano.

Mi fiondai giù per le scale del sagrato della chiesa e, una volta che il taxi si fermò, aprii la portiera gettandomi sul sedile del passeggero.

- Portami subito il più lontano possibile da qui! - ordinai, lanciando un’occhiata ansiosa al portone della chiesa. Qualche invitato stava già cominciando a precipitarsi fuori. Avevo il fiato corto e il corpo in fiamme, come qualcuno con la febbre.

- Le buone maniere le hai lasciate in chiesa? - domandò il tassista con una voce affilata come lame di coltelli. Aveva appeso al collo un cartellino con quello che doveva essere il suo nome: Arthur Kirkland. Francis gli diede un'occhiata al viso solo di sfuggita e poté subito notare le sue folte sopracciglia nere che troneggiavano sugli occhi verde smeraldo, assottigliati in uno sguardo accusatorio.

Nonostante il suo tono acido, il tassista premette l’acceleratore e l’auto portò Francis lontano dalla chiesa, ma non dai pensieri. Avrebbe saputo solo in seguito che questo incontro gli avrebbe cambiato per sempre la vita.

 

 

 

Note dell’Autrice:

Devo dirvi la verità, non mi aspettavo questa piega deprimente.

Tutto era partito dalla visione di un video divertente di una sposa che fuggiva dal suo matrimonio e si catapultava dentro il finestrino di un’auto. E sul momento ho pensato: “E se fosse stato Francis? E se l’autista fosse stato Arthur? Quale sarebbe la relazione che si instaura fra i due? E quali sono stati i motivi che hanno spinto Francis ad agire in quel modo?” e a quanto pare l’ultima domanda è stata la mia rovina perché sono arrivata a creare questa cosa che sembra uscita direttamente da un testo esistenzialista. Mi scuso se a tratti sarà risultato pesante, le parole mi uscivano in automatico e non riuscivo a frenare le idee che avevo. Mi scuso, ancora, se il finale sembrerà un po’ affrettato. La prima parte è stata più semplice da scrivere perché mi sono ispirata direttamente alla mia vita universitaria e alla mia difficoltà di trovare uno scopo che mi facesse continuare gli studi (non vi preoccupate, a livello mentale sto un po’ meglio e non ho mai assunto né droghe né grandi quantità di alcol, non è la soluzione).

Spero vi sia piaciuto, nonostante l’atmosfera triste.

E' partita come One-shot, ma potrebbe diventare una fanfiction breve di due o tre capitoli (ditemi voi se volete altri capitoli o se vi può sembrare completa anche così con un solo capitolo)

Grazie a tutti quelli che hanno letto fino a qua, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate! A presto! <3

   
 
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