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Autore: time_wings    25/07/2022    2 recensioni
Dal testo:
Atsumu vorrebbe dormire.
Gli succede ogni volta che non riesce più a bilanciare la sua sicurezza da va-sempre-tutto-a-meraviglia e quell’insicurezza cronica che non viene mai via. È un gioco di equilibri, sono tutte dosi. Atsumu è un chimico, un farmacista di bugie. Ogni volta che sbaglia vorrebbe dormire, per non avere nulla da nascondere, per non dover prendere misure. Perché quando dorme può essere antipatico, scansafatiche, sfrontato quanto vuole, ma può anche non esserlo.
Atsumu è su una delle spiagge più belle del mondo, ma vorrebbe dormire.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Shouyou Hinata
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Inciampare nei tulipani

 





È un taglio, una lama di rasoio su cui viene fatta abbastanza pressione perché incida con gentilezza. Il sangue gocciola come cera di luna, ma è invisibile. È più linfa. Alza lo sguardo e infatti la luna piange cera, si riversa in un riflesso increspato sulla cresta di un’onda. È densa la sua scia, graffia il mare scuro, apre una ferita con appena più tenerezza di una barca a vela.
“Non lo so,” sussurra. Ha paura, è annichilente, è un funambolo sospeso su un inferno senza fiamme, ma fatto di schiuma. E non vorrebbe camminare sulla fune, lui vorrebbe stendersi sul filo, vorrebbe dare la schiena al buio e lasciare che sia la fune a scegliere da che parte cadrà.
C’è qualcosa di inspiegabilmente straziante nel lasciare una parte di sé nelle mani di qualcun altro, perché quella parte è come un fiore reciso e poi regalato: prima o poi rinsecchisce e muore. Atsumu vorrebbe portarne i segni addosso. Vorrebbe che gli altri lo guardassero e a colpo d’occhio fossero capaci di vedergli riflessa addosso quella storia. E invece non ha lasciato tracce.
Chi lo guarda negli occhi non lo capisce, ha bisogno che glielo spieghi, ha bisogno che esordisca: ‘Sai, un tempo sono stato…’
Le persone non si perdono come le chiavi di casa, perché dove cazzo sono finite?! Erano qui un attimo fa, mannaggia al cazzo, le ho proprio viste, le ho fatte roteare quattro volte in senso orario e poi una e mezzo in senso antiorario, mi hanno colpito il dito e ho bestemmiato. Hai visto in cucina? Sì, ho visto in cucina, ‘Samu, ma secondo te sono… Oh, merda, sì erano in cucina.
Le persone si perdono proprio così ma al contrario. Si dice: ho la sensazione che ci stiamo abbandonando. No, ma che dici, hai visto bene? Dare per scontato fa parte dell’amore. Ma sì, hai ragione, era proprio qui un attimo fa, sicuro torna. E infatti torna, ma con un frammento in meno. All’improvviso torna che è la metà di se stesso, poi un terzo, poi un quarto e poi resta solo una scheggia.
Un fantasma, questa è una persona persa. Da presente passa a ricordo, il mondo continua a girare e nessuno è morto. Potrebbe tendere una mano, bussare a una porta, regalare un tulipano (ma non reciso) e dire: “Ciao, mi sei mancato,” e invece non lo fa, perché, anche se tendesse la mano, sarebbe troppo lontano e la porta di casa non è qui, è in paradiso, e i tulipani non esistono più. L’ha detto un politico in giacca e cravatta alla televisione. Ha detto: ‘Da oggi in poi sono finiti i tulipani, trovatevi un altro fiore’ e Atsumu ha pensato a un girasole ma è questo il problema. È proprio questo che gli manca: il sole.
E allora ha detto: ‘ma sì, lo faccio domani, domani sicuro ci saranno i tulipani. Facciamo che aspetto i tulipani. Il tulipano sarà il mio segnale’ e poi non li ha più visti. Osamu ha detto che in realtà era pieno di tulipani, ci inciampava a ogni passo. Osamu ha detto che lui ha camminato in un fottuto intero campo di tulipani. Osamu ha detto che è Atsumu che non li vede, che si mette a guardare solo la schiuma e la luna che piange cera.
Atsumu gli ha detto: ‘Grazie ‘Samu, ma non me ne frega un cazzo che tu cammini in un campo di tulipani, perché non si può fare, perché anche se adesso soffocassi nei tulipani comunque non potrei regalarli senza staccarli da terra, lo capisci?’ ma Osamu non capisce, nessuno capisce, neanche lui ci capisce un cazzo, è tutta una spirale, è una follia, lo leggi questo testo? Non ha capo, non ha coda, non ha neanche un tronco, un apparato respiratorio.
Atsumu a volte non respira. Non è l’ansia, lui non ce l’ha, l’ansia, è per gli sfigati. Quello che succede è che gli si stringe il petto di rimorso, rinsecchisce, sembra una noce brutta, fai tanta fatica per aprirla è poi pesa la metà di se stessa. Così si sente il petto, però poi si guarda allo specchio ed è un gran figo come al solito. Il migliore di sempre. Un astro che è già nato, è un astro vivente. Non è rinsecchito, anzi è quasi più bello del giorno prima. Così bello che non si sente se stesso. Perde contatto, si caca sotto quando succede, forse è la morte. Non respira, cioè lo fa, ma è come se respirasse aria già respirata, quindi riesce a entrare ma non è abbastanza e non è buona. È proprio marcia.
‘Adesso finisce’, sicuro finisce, non può durare per sempre, ma più respira quell’aria più ha la sensazione che non faccia altro che quello, da sempre! Si rende conto che l’aria è sempre stata una merda, è solo che adesso ci sta facendo caso. Lui non ha mai respirato bene in tutta la sua vita, ha dato per scontata questa cosa dell’aria e invece è sempre stata importantissima. E allora sai che c’è? Forse non gli va più di respirare se questo è come ci si sente. Che senso ha ostinarsi, impegnarsi, quando si può smettere?
‘’Tsumu, così non va bene,’ ha detto una volta quel camminatore-tra-i-tulipani di suo fratello. Si è seduto davanti a lui sui calcagni e gli ha sollevato la testa per la fronte per guardarlo bene negli occhi. Così era più alto di lui, perché Atsumu stava a culo a terra, con le gambe distese davanti a lui e la testa che ciondolava in avanti. Era ubriaco, completamente andato. ‘Domani ce ne occupiamo, ma adesso torniamo a casa, va bene?’
‘’Samu, veramente, io non sto attraversando alcun momento’ ha detto lui, strascicando la voce, ‘è solo che adesso sto un po’ così, sto un po’ confuso, ma non è niente.’
Osamu quella volta se l’è caricato su una spalla e gli ha dato del coglione. Secondo Osamu è stupido negare l’evidenza fino a farsi così male, ma l’evidenza certe volte è una cosa terrificante e uno vorrebbe solo convincersi che è tutto un trucco della mente, un suo modo contorto di non annoiarsi nei momenti morti. Uno si convince che certi pensieri son passatempi.
Atsumu si mordicchia il braccialetto di cuoio che porta al polso. Stringe il filo più sottile tra i denti e tira. La luna che piange cera cede il passo alle prime luci di un sole timido al di là di una montagna. Questa gli si mostra in ombra. Le chiome degli alberi lassù le danno un profilo irregolare, i raggi che la colpiscono da dietro ne sfinano i contorni. Il mare è calmo, la risacca lamenta il canto nostalgico dell’inizio della giornata. È una cosa drammatica, quella spiaggia, sta piangendo. È una fottuta tragedia.
Atsumu sbuffa sulle mani e poi se le porta tra i capelli, la testa abbandonata tra le gambe piegate e i talloni sporchi di sabbia soffice del mattino. Se avesse un ghiacciolo in mano, un pallone striato di rosso e bianco sotto il braccio, un costume con le palme stilizzate disegnate su uno sfondo blu sarebbe il ritratto della vacanza in spiaggia. Il vociare della strada alle sue spalle racconta delle battaglie all’ultimo sangue ormai sopite per attirare l’attenzione di un barman che shakera drink colorati a petto nudo. I drink colorati sono come le rane velenose: più attirano l’attenzione più bisogna spaventarsi. Atsumu ne vorrebbe uno fosforescente rosa e giallo, col ghiaccio tritato dentro e un ombrellino che ondeggia sulla superficie. Vorrebbe ondeggiare insieme al bicchiere, alzarlo sulle teste degli altri per non farlo cadere e poi vorrebbe dimenticare anche il suo nome. Vorrebbe sentire solo quella risacca piagnucolona e chiederle perché non la smette di autocommiserarsi. Vorrebbe dirle: ‘Risacca, così non va bene’, poi vorrebbe passarle un braccio sotto un’onda, alzare gli occhi al cielo quando schiuma e piantare i piedi nella sabbia bagnata del fondale mentre la sorregge. ‘Più tardi ce ne occupiamo, ma adesso torniamo a casa, va bene?’ E la risacca sbufferebbe e gli direbbe: ‘No, ma Atsumu, davvero, non c’è niente che non vada. Lasciami piangere un po’, ché mi fa bene. C’avete questo concetto, voi umani, per cui l’oceano è indomabile, feroce. Sono stato ghiotto di navi, di tanto in tanto, questo lo ammetto, ma certe volte a te non va di essere solo risacca?’
Atsumu vorrebbe dormire.
Gli succede ogni volta che non riesce più a bilanciare la sua sicurezza da va-sempre-tutto-a-meraviglia e quell’insicurezza cronica che non viene mai via. È un gioco di equilibri, sono tutte dosi. Atsumu è un chimico, un farmacista di bugie. Ogni volta che sbaglia vorrebbe dormire per non avere nulla da nascondere, per non dover prendere misure. Perché quando dorme può essere antipatico, scansafatiche, sfrontato quanto vuole, ma può anche non esserlo.
Atsumu è su una delle spiagge più belle del mondo, ma vorrebbe dormire.

 
“Credo che me ne andrò a dormire” disse, seduto sulla sedia di legno secco mangiucchiata. Alzò la testa appena appena, per accertarsi che Shouyou lo stesse sentendo.
Lui lo guardava in piedi, a braccia conserte. Atsumu abbassò gli occhi di scatto come se quella delusione arrabbiata e quella rabbia delusa fossero cotone nella gola. Tossì per liberarsene ma non cambiò nulla.
Se avesse giocato sette set di fila non sarebbe stato comunque così stanco come in quel momento.
“Io non posso aspettarti.”
Atsumu sollevò di nuovo gli occhi su di lui, spalancati. Quelli di Shouyou erano vivissimi, un luccichio di una città e il suo riflesso sul fiume che l’attraversava. Guardarlo faceva male. Era deciso, inamovibile, irrimediabilmente impaziente e schiavo di un vento che sentiva solo lui, che gli altri potevano sfiorare solo quando lo vedevano prima ritagliato dai contorni neri di una rete di pallavolo, poi libero da quei riquadri e sospeso in aria per un tempo disumano. Quello era l’unico momento in cui gli altri potevano sentire il soffio lieve di quel vento: quello del salto. Era un privilegio solo degli avversari, chi era dal suo lato del campo poteva sentirlo, ma non poteva capirlo.
“In un altro caso ti avrei aspettato, perché ho capito che hai paura, davvero, ma adesso non posso proprio.”
Atsumu si sentì di nuovo un avversario, inerme davanti alla sua fame, qualcosa che condividevano nel senso ma non nella modalità. Gli aveva promesso di alzare per lui e non di tarpargli le ali.
Gli si seccò la bocca. Pensò a un futuro lontanissimo, in cui avrebbe ricordato quella conversazione nella forma intermittente delle loro poche parole. Si sarebbe ricordato di lui e della penombra, ma non di quella stanza né di quella sedia di legno mangiucchiata. Shouyou aveva abbandonato la sua. Se ne stava in piedi e lo guardava, perché anche se gli aveva detto che non l’avrebbe aspettato gli stava comunque ancora dando il tempo di scegliere. Lui non l’avrebbe aspettato, ma Atsumu avrebbe potuto non aspettare e basta.
Esitò e quello fu l’esito.
“Non aspettarmi, allora.”
Atsumu era orgoglioso ed era arrogante. Tutto era una gara e tutto era una missione. Non volle altro tempo e non gli chiese nemmeno un tentativo, una cosa piccola che la notte avrebbe cancellato come un’onda sulla battigia. Serrò la mascella, perché si sentiva gli angoli della bocca impastati di saliva ansiosa e densa e non importava quanto li leccasse, questa non andava via. Shouyou piegò le sopracciglia concentrato. Stava provando a leggerlo, ma non c’era persona al mondo più brava a rendersi indecifrabile di un gemello. Se Atsumu l’avesse lasciato entrare anche solo poco sotto il livello della cornea forse l’avrebbe baciato.
“Allora non ti aspetto.”
Atsumu inspirò e si strinse nelle spalle, come se al bar fosse stato indeciso fra due cocktail sgargianti come una rana velenosa. Rise. “Non ci capisco un cazzo, Shouyou. Secondo me ho travisato.”
Shouyou fu punto da quel veleno.
“Sicuro ho travisato. È meglio così.”
Se fosse stramazzato al suolo Atsumu non l’avrebbe aiutato, perché la realtà di non sfiorarlo faceva male, una pulsazione sorda contro i polpastrelli, ma l’idea di sfiorarlo, ne era certo, glieli avrebbe bruciati, gli avrebbe spazzato via le impronte digitali, gli avrebbe completamente stravolto i piani. Tutto quello che era ed era stato, la sua identità, tutto sarebbe andato perduto.
Atsumu era un pazzo su un campo, era pronto a cambiare tutto all’ultimo secondo ed era certo che questa creatività fosse la cosa che faceva funzionare il suo gioco con Shouyou, ma la vita era tutt’altra cosa. Atsumu aveva deciso che avrebbe giocato a pallavolo e quello aveva fatto, abbattendo caparbiamente infiniti ostacoli lungo una strada che però aveva già spianato. Shouyou invece era un pazzo su un campo e fuori. Era stato capace di battere le ciglia e sostituire il cemento con la sabbia.
“Ma tu non sei mai stato confuso?” e forse Atsumu risultò un po’ sgarbato, ma proprio non riusciva a capire.
“Sì, ovvio.” Gli sorrise. Era una cosa ingiusta in una stanza buia. “Per un po’, ma non ha senso preoccuparsi di qualcosa, se poi accettarla porta solo cose belle, non importa se gli altri non la capiscono.”
Atsumu pensò: tu sei una cosa bella. Fu una cosa veloce come un singhiozzo a sorpresa, una lama, ignara di tutto quel tumulto. Ormai non sapeva più se si stava costringendo a pensarci in questi termini per accertarsi di non crederci davvero o se fosse solo un’onesta considerazione di un innamorato. E più si tormentava, più entrambe le ipotesi divenivano equiprobabili.

 
Atsumu non ricorda quella conversazione a intermittenza, non ricorda solo la voce di Shouyou, non ha dimenticato la sedia mangiucchiata, la penombra, le pareti spoglie e l’aria fresca ma stantia. Se lo ricorda perché mentre si preoccupava di tenere insieme tutti i pezzi di lui che traboccavano oltre l’orlo di un recipiente improvvisamente troppo piccolo, in realtà aveva già cambiato forma. Mentre si preoccupava di salvare le impronte digitali si era già ustionato tutto il resto del corpo.
Innamorarsi di Shouyou è stata una bruciatura, una scottatura sotto il sole cocente brasiliano di cui aveva sentito solo parlare, ma che Hinata aveva portato inciso nella pelle, incastrato nella rima inferiore dell’occhio, dimenticato in una piega storta di una maglietta. Innamorarsi di Shouyou è stato spaventoso, perché è un ragazzo, e a ripensarci adesso Atsumu crede che sia un fatto molto ingiusto, una cosa antica che lo costringe a portare la storia del mondo sulle spalle ed è un peso davvero inaccettabile, se uno si ferma a ragionarci. Non c’è scritto da nessuna parte che lui debba farsi carico di questo fardello sociale.
Una brezza sottile comincia a tirare con l’indolenza del mattino. È lì da un paio d’ore perché non ha voluto che la notte finisse alle quattro. Certe notti uno vorrebbe allungarle in eterno, perché sono troppo belle perché scivolino nella monotonia della vita vera o perché sono incomplete e si vorrebbe procrastinare fino al mattino per essere sicuri di aver fatto il possibile per non perdersi qualche pezzo per strada.
Atsumu ha bevuto un drink colorato come un coleottero e velenoso come un serpente, ha morso quella fosforescenza ma non ne è rimasto intossicato perché ha sviluppato un curioso mitridatismo, forse per tutte le volte che non si è concesso di sentire e si è invece arreso al pensare. Adesso è immune al sentire, adesso non sente, adesso è un po’ sordo, tanto che a volte lo chiamano e lui non risponde.
Quella di Shouyou Hinata è stata una tragedia sommessa. È avvenuta tutta sotto il pelo dell’acqua, ribollendo sottopelle, sfiatando con fumarole che prendevano le sembianze di sospiri. A piccole dosi si è reso immune a tutti i veleni del mondo, perché ha conosciuto il peggiore. Quando l’amore lo senti sporco non può essere un buon segno. All’inizio Shouyou gli piaceva perché giocava come un pazzo, poi perché quando lo faceva aveva l’aria concentrata, poi perché schiacciava in alto, poi perché aveva delle belle mani quando lo faceva, poi perché le aveva sempre e basta, poi perché era buffo, poi perché era entusiasta, poi perché aveva coraggio, poi perché aveva iniziato a giocare con lui, poi perché Atsumu aveva visto che aveva le lentiggini sulle spalle, poi perché ricordava la sua schiena, poi perché la sognava, poi tutte queste ragioni si erano unite a formare coppie, gruppi da tre, fino a diventare un ammasso e, invece che esplodere in mille coriandoli colorati, gli si è bloccato in gola. Un boccone amaro che non voleva ingoiare.
Perché Shouyou era un ragazzo.
 

“È un ragazzo, ‘Samu,” disse e nel momento in cui lo disse lo rimpianse perché sembrava un’ammissione. Pareva che in tribunale stesse per dire: ‘non l’ho ucciso io, Vostro Onore’ e invece gli fosse scappato: ‘sono stato io, è stato bellissimo, ne vado fiero e lo rifarei altre mille volte, se ne avessi la possibilità. Anzi sgozzerei anche lei, se mi fornissero uno strumento per farlo, salterei e le strapperei quel martelletto dalle mani perché lei mi giudica, mi ha messo sotto torchio, mi ha chiesto di fare l’avvocato di me stesso, ma qui ci siamo solo io e lei, nessun testimone. In questa testa stupida ci siamo solo noi due e io un tempo conoscevo un ragazzo fantastico, il migliore del pianeta. Era sicuro, aveva successo, non aveva paura di niente, l’opinione degli altri gli scivolava addosso e sa perché? Perché non solo era il migliore al mondo, ma ne era anche consapevole. E allora io l’ho ucciso, perché d’un tratto mi sembrava fasullo, pareva che per tutta una vita avesse tenuto nascosta la verità sulla nullità che era davvero e si fosse lasciato scappare questa menzogna facendo piccoli errori ingenui, come promettere che avrebbe alzato per Shouyou Hinata, un giorno, un sogno a occhi aperti in cui sarebbero saliti, insieme, sul tetto del mondo. Io l’ho ucciso e l’ho fatto a pezzi con un motosega e dopo ho provato un grande senso di vuoto, perché sapevo che saremmo rimasti solo io e lei, uno il giudice dell’altro, ma lo ucciderei altre mille volte solo per la soddisfazione di averlo fatto esplodere in quella pozza di sangue e melma, perché non riuscivo più a sopportarlo, anche se non volevo ammetterlo.’ “È un ragazzo” ripeté.
Confessa.
Se avesse avuto a disposizione uno specchio con uno strato soddisfacente di condensa l’avrebbe scritto con le dita a ripetizione e si sarebbe guardato in quelle scie spesse quanto i suoi polpastrelli. Confessa, si sarebbe detto guardandosi. Confessa.
Osamu si strinse nelle spalle. “Però, che occhio che hai.”
Atsumu alzò lo sguardo su di lui, scettico.
“Che c’è? È un’osservazione davvero cretina, ‘Tsumu. Affermazioni cretine richiedono risposte cretine.”
“Ma a me non piace in ogni caso.”
“E allora di che stiamo parlando?” Osamu si lasciò cadere accanto a lui sul divano e incrociò le braccia al petto.
“E non lo so, tu hai detto che ne dovevamo parlare.”
“Tu non hai niente da dire?”
Atsumu scrollò le spalle. “Che devo dire? Gliel’ho detto, che aveva capito male, e poi lui è tornato in Brasile. Cioè, in generale. Non è tornato in Brasile perché l’ho offeso. Non si è offeso, ha capito. Infatti non c’è alcun problema, è storia vecchia, non so perché ne stiamo parlando.”
Osamu si mise in bocca una barretta al cioccolato, guardandolo. “Okay,” disse masticando. Fece schioccare la bocca, faceva anche un po’ schifo. “Reggi,” gli disse porgendogli la barretta, poi si sporse per raggiungere i piedi del divano e recuperare il suo computer. Riprese possesso della barretta e fece vagare la mano libera sulla tastiera.
“Che stai facendo?”
“Sto cercando i voli per il Brasile.”
“‘Samu…”
“Sei bello e ricco, no? Qual è il problema?”
Atsumu provò a sottrargli il PC. “Ma che devo fare in Brasile?”
“Non lo so, però fai qualcosa, perché mi hai proprio rotto il cazzo, sono sincero. Vai un po’ in Brasile e levati dai coglioni.”
 

Atsumu sente il fruscio gentile della sabbia alle sue spalle e anche quando Shouyou si siede accanto a lui non lo guarda. Lo sente guardare il mare, immagina le ciglia curve incorniciare il riflesso della schiuma, mentre questa si asciuga quando l’acqua si ritira. Immagina le labbra sottili e secche per colpa del vento. Immagina la luce che filtra tra i capelli e gli bagna delicata la punta del naso. È una mattina un po’ nuvolosa, forse presto rischiarerà, ma Atsumu è sicuro che il sole non sta lottando troppo duramente per raggiungerli, perché la luce trova sempre la strada per Shouyou.
Atsumu pensa: tu sei una cosa bella e ne ha paura ancora una volta, ma è rassegnato. Che gli bruci i polpastrelli, le viscere, l’anima anche. Va bene, ha attraversato l’oceano. 
Quando è nuvoloso pensa che respirare sia più soddisfacente, l’aria scende ruvida lungo la gola ed è piacevole, è un tuono. Respirare non è sempre una merda, ci si può fare qualcosa.
La risacca si abbatte sul bagnasciuga e sembra più sobria. Vorrebbe dirle che può piangere quanto vuole, che si può essere oceano impetuoso e risacca esausta senza sacrificare coerenza e credibilità, che siamo sfaccettature sul pelo di un’acqua increspata, che in ogni riquadro che il vento intesse sulla superficie del mare c’è uno spezzone di quello che siamo, che possiamo tradirci senza snaturarci, che possiamo cambiare idea cento volte, se serve, che non siamo confinati a un istante soltanto in cui comprendiamo qualcosa di fondamentale, ma che cresciamo, ci ritiriamo. Siamo risacca su una stessa spiaggia, ma portiamo acqua sempre nuova.
Atsumu non vorrebbe mai parlare, perché quando parla sbaglia qualcosa. Gli scappa sempre la messinscena, le parole stesse sono un filtro che nasconde l’effervescenza. Quando pensa si rimprovera perché crede di essere più cinico di così, più cattivo, e i suoi pensieri sono davvero da sfigato. Se ne vergogna, li combatte, perché non ha la più pallida idea di come si tratteggi con la voce un’emozione.
“Alla fine ti ho aspettato,” dice infine Shouyou e ridacchia come un bambino che mette le mani nel posto sbagliato.
“Tendo a fare questo effetto, col mio fascino,” Atsumu gli lancia un’occhiata di sottecchi e Shouyou ride più forte. È una catastrofe.
Ad Atsumu per un attimo non fotte più una beata minchia delle rane velenose, delle risacche, dei tulipani e della caducità dell’essenza umana. Perché le cose sono sempre state molto più semplici di così, tutto questo è un’onda d’urto, è una conseguenza delirante della negazione.
Atsumu ha questo brutto vizio di complicare le cose. Non vuole che la gente noti il suo dualismo e allora si rende illeggibile. Non vuole che suo fratello capisca quanto la sua presenza sia fondamentale e quindi lo sfida, lo tortura, lo sfianca e gli dice che lo odia. Non vuole che Shouyou gli piaccia e quindi fa passare una quantità spropositata di tempo e spende un patrimonio per raggiungerlo in Brasile. L’unica cosa semplice nella sua vita è la pallavolo ed è per questo che la respira.
Stende le gambe davanti a sé e si sorregge con le mani. Con la destra cerca il mignolo di Shouyou a tentoni sulla sabbia. Quando ci riesce, sente l’euforia montargli nel petto come quando la palestra è vuota, il cesto dei palloni è già a portata di mano e tra lui e una battuta non c’è altro se non il tempo che gli ci vorrà a correre a realizzarla. Il contatto è reso ruvido dai granelli di sabbia, ma non è spiacevole. Sorride e tenta di nasconderlo, come se fosse proibito.
Atsumu lo guarda, Shouyou concede un’altro sguardo lento al mare, per dargli il tempo di ripensarci, ma poi si volta anche lui. Atsumu ha vinto tante volte, è nato per farlo, ce l’ha scritto nella frustrazione che ha provato le poche volte che non ce l’ha fatta e adesso è a una confessione di distanza dal vincere di nuovo una cosa bella.
Confessa.
Vorrebbe scriverlo nella condensa sull’orlo del mare.
“Non ho travisato.”
Shouyou gli stringe il mignolo, la mattina si fa più spazio in cielo. Poi, con una velocità che Atsumu non prevede, Shouyou si sporge verso di lui, lo guarda negli occhi, gli respira sulle labbra. “Lo so,” sussurra e si allontana quel tanto che basta ad Atsumu per seguirlo a filo per non aumentare quella distanza.
Shouyou però non vuole saperne, ride e gli preme una mano sullo sterno. Poi si toglie la maglietta.
Atsumu aggrotta la fronte e gli guarda le spalle, le lentiggini seminascoste e contemporaneamente accentuate dall’abbronzatura. Qualche granello di sabbia si attarda sul suo petto. Ad Atsumu fa male il cuore.
“Adesso aspetti tu. Non ho mai fatto il bagno all’alba.”
E, senza aggiungere altro, Shouyou corre in mare.
Atsumu resta a guardare quella scena perfetta, col sole che ancora lotta con le nuvole e accende il mare in punti casuali come fosse un riflettore.
“Ma che cazzo,” mugugna alzandosi e spogliandosi in un unico movimento fluido. Quando lo raggiunge, Shouyou gli schizza prima che abbia la possibilità di ambientarsi, ma poi lo prende per un braccio e lo trascina in mare.
Un’onda li cela alla vista per un attimo lungo una vita.

Sulla strada che costeggia la spiaggia, un carro di fiori sfreccia velocissimo. Il vento gli ruba un tulipano e lo appoggia nel solco che hanno lasciato le loro mani nella sabbia.

 
   
 
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