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Autore: Ella Rogers    08/09/2022    0 recensioni
"Chi non muore si rivede, eh Rogers?"
Brock Rumlow era lì, con le braccia incrociate dietro la schiena e il portamento fiero. Il volto era sfregiato e deturpato, ma non abbastanza da renderlo irriconoscibile, perché lo sguardo affilato e il ghigno strafottente erano gli stessi, così come non erano affatto cambiati i lineamenti duri e spigolosi.
"Ti credevo sepolto sotto le macerie del Triskelion."
La risata tagliente di Rumlow riempì l'aria per alcuni interminabili secondi, poi si arrestò di colpo. L'uomo assunse un'espressione truce, che le cicatrici trasformarono in una maschera di folle sadismo.
E Steve si rese conto che, per la prima volta da quando l'aveva conosciuto, Brock Rumlow si mostrava a lui per quello che realmente era, privo di qualsiasi velo di finzione.
"Credevi male, Rogers. Credevi male."
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Movieverse | Avvertimenti: Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'The Road of the Hero'
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Monsters
 
 
 
1° luglio 2015
Washington DC, 00:01

 
 
 
 
Don’t get angry, don’t discourage
Take a shot of liquid courage
‘Cause my monsters are real, and they’re trained how to kill
And there’s no coming back and they just laugh at how I feel
And these monsters can fly, and they’ll never say die
And there’s no going back, if I get trapped, I’ll never heal
Yeah, my monsters are real
 
 
 
 
Il familiare odore che preannunciava l’arrivo della pioggia impregnava l’aria. Il cielo era scuro, coperto da una fitta cortina di nubi grigie e gonfie. C’era vento e il lontano rimbombare dei tuoni si confondeva con il rombo dei motori degli aerei che lasciavano l’aeroporto di Washington.
Era di nuovo lì, costretto a risolvere un altro casino per conto del Segretario di Stato. Sperava di adempiere a quel dovere nel minor tempo possibile, perché lei era sola in un territorio inesplorato e disseminato di mine. Un passo falso e le conseguenze avrebbero potuto essere disastrose.
 
“Facciamolo. Sono pronta ormai.”
 
“Voglio esserci.”
Quelle due semplici parole gli erano rimaste intrappolate in gola. L’aveva lasciata andare, così come lei aveva lasciato andare lui. Scostò appena la manica dell’uniforme – si rese conto di aver dimenticato i guanti – e osservò distrattamente il livore sempre più evidente che circondava il polso sinistro. Riusciva a riconoscere il profilo delle dita che avevano lasciato il segno. Percepiva ancora la ferrea stretta sulla pelle e, assieme ad essa, la muta preghiera di fermarsi.
Quando Anthea lo aveva affrontato, si era messo sulla difensiva per timore di vedere crollare tutte le facciate che teneva in piedi a stento e di cui aveva bisogno. Ripensò a Peggy e al momento in cui l’aveva spinto ad abbandonare il ruolo di scimmia danzante, convinta che lui potesse essere molto più di quello. Non sarebbe stata fiera di lui se lo avesse visto adesso.
 
“Ross ha ottenuto quello che voleva. Un soldato perfetto.”
 
Dita fasciate da freddo tessuto in pelle si posarono sul retro del collo e lo avvolsero. La durezza del metallo fu percepibile al di sotto del materiale sintetico.
“Dovresti stare in guardia. Da quando permetti ai nemici di prenderti alle spalle così facilmente?”
La voce di Bucky e il respiro che la accompagnò gli solleticarono l’orecchio destro.
 
“Tu non sei un nemico” lo corresse Steve e il tocco sul retro del collo si ammorbidì fino a sparire.
 
Bucky era in assetto da battaglia e dava l’impressione di essere appena uscito da una centrifuga, una di quelle fatte alla massima velocità raggiungibile.
 
“Non dovresti essere con Tony?” indagò Steve. Ammetteva di essersi perso alcuni passaggi della tabella di marcia rivisitata una settimana prima, o forse due settimane prima. I jet lag, il fuso orario e le veglie con una durata superiore alle ventiquattro ore non aiutavano a mantenere una cognizione del tempo che rasentasse la decenza.
 
“Cambio di programma. C’è la Hill a dare una mano al mio posto e tu sei a corto di personale” James passò una mano fra i capelli scuri e prese un profondo respiro “Non credevo avrei più accusato la stanchezza come una persona normale.”
 
Quella confessione provocò a Steve una stretta allo stomaco.
“Mi dispiace averti coinvolto in tutto questo invece di aiutarti a…”
 
“È una mia scelta e tutto questo in qualche modo mi aiuta. Non sono ancora pronto per il congedo.”
Nonostante la vena ironica, nelle iridi di Bucky era nato un riflesso più limpido, una finestra sulla parte più vulnerabile di un’anima devastata ma che preservava la forza di lottare.
“Se le cose dovessero andare male potrei insegnarti a vivere come un fantasma. Sono bravo a nascondermi da chi vuole controllarmi.”
 
“O da chi vuole aiutarti” precisò il biondo senza particolari inclinazioni nella voce e fece cozzare leggermente le loro spalle.
 
“Non me l’hai ancora perdonata?”
 
“Non c’è mai stato niente da perdonare.”
 
Bucky sospirò e lo sguardo ammorbidito si incastrò con estrema naturalezza in quello di Steve.
“Sarei dovuto morire in quella caduta e l’ho desiderato a lungo” ammise “Poi l’Hydra ha commesso l’errore di piazzarti sul mio cammino” un mezzo sorriso impastato di tenue ironia “Quante possibilità c’erano?”
 
Steve scosse il capo.
“C’erano davvero delle possibilità?”
 
La domanda rimase sospesa nel silenzio e sembrò creare un’eco che si estinse lentamente. Poi, l’arrivo di alcune auto distrusse il momento di intima vulnerabilità, costringendoli a recuperare concentrazione e freddezza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Washington DC, 00:03
 
 
Benson arrivò nell’ormai abituale suite d’albergo. Si chiuse la porta alle spalle e abbassò le luci, in modo da creare un’atmosfera più intima e rilassante. Allentò la cravatta e si incamminò in direzione della stanza da letto. Aveva bevuto qualche bicchiere di bourbon al bar del piano terra ed era decisamente alticcio. Poco importava, dato che l’ultima cosa che avrebbe dovuto usare fra pochi istanti era il cervello. Sfilò la giacca scura e la abbandonò sul pavimento, per poi arrotolare le maniche della camicia bianca fin sopra i gomiti.
Nonostante l’annebbiamento, si accorse subito che la siluette seduta sul bordo del letto era sbagliata, era sbagliata senza alcuna ombra di dubbio. Tuttavia, gli ci volle qualche secondo di troppo per realizzare chi avesse di fronte. Alla realizzazione seguì la nausea, causata un po’ dall’alcool e un po’ dalla paura che gli rattrappì lo stomaco.
 
“Tu” sputò fuori di getto.
 
“Anch’io sono felice di vederti.” Tagliente sarcasmo.
 
“Cosa hai fatto a…”
 
“All’affascinante biondino che ti aspettava? L’ho mandato a casa. Gli ho detto che saresti stato occupato con me stanotte.”
 
Henry decise di fare buon viso a cattivo gioco, supportato dall’alcool in circolo. D’altro canto, non avrebbe potuto opporsi in alcun modo. Era già un miracolo che fosse ancora vivo, considerato che si trovava al cospetto di un mostro.
“E come vorresti intrattenermi? Ti ascolto” concesse, come se avesse potuto fare altrimenti.
 
“Ho diverse idee in mente. Quale di queste deciderò di mettere in pratica dipende solo da te” fu la risposta che ricevette, accompagnata da un lieve inclinarsi della testa.
 
“Vedo che sei aperta al dialogo stavolta. Solitamente distruggi ciò che ti minaccia senza troppi giri di parole” la stuzzicò e benedì l’alcol che stemperava la paura che altrimenti gli avrebbe reso difficile stare in piedi.
 
La giovane scosse il capo e Henry riconobbe – perché lo aveva già visto e anche da molto vicino – lo scintillio agghiacciante che rischiarò le iridi buie. Ci fu qualcosa di ipnotizzante – pietrificante – nel fine sorriso che lei gli dedicò.
“Ti sbagli. Non distruggo ciò che minaccia me. Non più” lasciò che fosse il silenzio a custodire le implicazioni di quelle parole e passò oltre senza esitazioni “Parlando di minacce. Adam Lewis. Dimmi come arrivare a lui e sparirò senza rovinarti la serata.”
 
“È già rovinata, mia cara. Hai mandato a monte il mio appuntamento ed è difficile trovare partner con quegli standard.”
In qualche modo, Henry aveva capito di poter osare, di poterla tenere sulle spine. Il fatto che lei non avesse ancora attinto a qualche tortura fisica o psicologica era la prova che non fosse libera di agire a suo piacimento. La ragazza era diventata una residente della Terra e, come tale, doveva sottostare a determinate regole se auspicava ad una futura vita tranquilla. Inoltre, un passo falso non avrebbe trascinato a fondo solo lei.
 
“Potrei rovinarla più di quanto non abbia già fatto. Credimi.”
 
“Ti credo” lui aveva già sperimentato la furia di quel demonio sulla propria pelle “però se dovesse succedermi qualcosa gli causeresti grossi problemi, lo sai questo? E anche se io decidessi di collaborare, cosa ti fa credere che manterrò il silenzio sulla tua visita? Questo è un passo falso” le fece notare “vanificherai tutti gli sforzi del tuo adorabile compagno.”
 
Sorprendentemente, il demonio dalle innocue fattezze sbuffò divertito e si alzò dal letto con un movimento fluido e deciso, facendo oscillare la lunga treccia sulla schiena. Mosse qualche passo ed accorciò la distanza che li sperava. Era stranamente calma e controllata.
“Non dirai niente. Non vuoi farlo” gli assicurò con una convinzione sfacciata e le iridi furono attraversate da un baluginio differente “Tu vuoi liberarti di Lewis e prendere il controllo. Lo desideri dalla dipartita di Teschio Rosso. Ammettilo.”
 
Benson rimase in silenzio, a corto di parole. Si domandò quanti bicchieri di bourbon avesse effettivamente buttato giù, perché l’annebbiamento non faceva che aumentare. Di solito reggeva bene l’alcol.
 
“Liberati di Lewis. Tu vuoi farlo. Mettiti in contatto con lui e comunicagli che sono qui” insistette ancora la ragazza. La voce era ferma, lo sguardo neutro – assente a tratti – ed era stranamente calma e controllata.
 
Maledetto bourbon.
Benson non riuscì a comprendere appieno cosa successe nei minuti successivi. Si mosse in maniera quasi meccanica ed ebbe la spaventosa impressione che spirito e corpo stessero tentando di scindersi. Voleva il controllo, voleva liberarsi di Adam Lewis. Lo voleva, giusto? Non fu in grado di rispondersi nemmeno quando finì di inviare un messaggio a Lewis in persona. Non aveva idea di dove il dottore si stesse nascondendo, ma poteva contattarlo. Voleva il controllo. Non era arrivato fin lì attraversando l’inferno per ricevere ordini.
 
“È disposto ad incontrarti, ma dovrai andare sola. Vi tiene sotto controllo e saprebbe se deciderai di trasgredire quest’unica regola. A quel punto l’incontro salterebbe e non avrai un’altra chance” annunciò Benson pochi minuti dopo aver inviato il messaggio. Lewis non si era fatto aspettare. Quell’uomo aveva occhi e orecchie ovunque.
 
La ragazza arricciò le labbra in un sorriso appena percettibile.
“Dimmi dove posso trovarlo.”
 
“Lo eliminerai?” domandò allora Henry. Voleva il controllo.
 
“È quello che vuoi anche tu” sentenziò lei con una sicurezza disarmante.
 
“Voglio il controllo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Riesco a sentirti pensare.”
 
La mano destra di Bucky era stretta attorno la sua spalla sinistra e lo sguardo limpido lo stava scrutando con circospezione. Erano in piedi, davanti al portellone posteriore del jet. Mancava poco all’arrivo.
 
“Cosa ti turba?”
 
“Non so cosa aspettarmi” mentì l’interpellato.
 
“Non è mai stato un problema per te” gli fece notare James “Inventane una migliore.”
 
Steve era stato convincente. L’unica pecca era stata quella di non aver tenuto conto di chi avesse davanti, ovvero la sola persona che avrebbe saputo capirlo anche da un cenno sfuggente di un sopracciglio. Una sfida persa in partenza.
“Okay, va bene. Ricordi quella mezza idea…”
 
“Non dirmi che lo sta facendo ora.”
James mantenne a stento il tono della voce sotto controllo. Però le dita finirono per affondare con più forza nella spalla del compagno.
 
“Sai che non riesco a dissuaderla quando si mette in testa qualcosa” si giustificò Rogers “e la spalla mi servirebbe ed è già messa male perciò…”
 
Bucky mollò la presa e scosse il capo. “È frustrante quando le persone a cui tieni si infilano in situazioni pericolose anche se le hai pregate di non farlo, vero?” c’era una nota di ironia nella domanda di Bucky.
 
A Steve dovette sfuggire la suddetta nota, perché rispose con un rassegnato “Non ne hai idea”.
 
“Spero per te di aver sentito male” fu la sottile minaccia che ricevette indietro.
 
Rogers non ebbe l’opportunità di porre rimedio perché la voce di Collins, resa più acuta da qualche ottava di troppo, richiamò la loro attenzione.
“Che cosa assurda!” aveva esclamato il ragazzo, ammaliato dall’immensa struttura di metallo e cemento che spuntava dalle acque agitate dell’oceano.
 
Erano giunti a destinazione.
 
Erano in pochi. A parte Steve, James e Dan, c’era una Janet stranamente silenziosa e l’abitualmente silenzioso Bennet. Sharon mancava all’appello stavolta, perché aveva chiesto dei giorni di congedo – lo aveva fatto per aiutare Tony con le nuove piste.
Tutte le comunicazioni con il Raft erano state interrotte tre ore addietro e non c’era stato modo di ripristinarle. Tuttavia, poco prima che i collegamenti saltassero, era stata inviata una richiesta di supporto, ma priva di dettagli su cosa stesse accadendo. Quindi, non avevano assolutamente idea di ciò che li attendeva.
Lo scenario iniziale non prometteva niente di buono. La piattaforma di atterraggio era ricoperta da uno strato d’acqua e il portellone di ingresso posto nel centro era aperto solo a metà, o meglio, una delle due pesanti ante metalliche era stata strappata via e giaceva sotto lo strato d’acqua.
 
“Non posso atterrare, Capitano” lo avvisò Bennet, impegnato alla guida del jet.
 
Le violente raffiche di vento, la pioggia battente e le pessime condizioni dell’unica zona di atterraggio disponibile stavano già complicando la situazione. Steve sospirò e lanciò un’occhiata a Bucky, che annuì di rimando.
 
“Avvicinati il più possibile alla piattaforma” ordinò il Capitano e Bennet eseguì.
 
“Sappi che continueremo il nostro discorso una volta terminato il lavoro qui” fece presente Bucky, intenzionato a chiudere la faccenda il prima possibile.
 
“Suona come una minaccia.”
Rogers agganciò lo scudo dietro le spalle e, con il lato esterno del pugno sinistro, colpì il pulsante rosso per abbassare la rampa posteriore del velivolo.
 
“Sei tornato ad essere perspicace” replicò Barnes e gli dedicò un sorriso poco rassicurante.
 
“Come scendiamo? Non è abbastanza basso per saltare e non è abbastanza alto per il paracadute e pure se fosse abbastanza alto il vento ci spazzerebbe via” si intromise Collins.
Il ragazzo aveva una mano fra i capelli che il vento si stava divertendo a sbattergli davanti gli occhi arrossati dalla stanchezza. Erano stati catapultati di notte nel mezzo dell’Oceano Atlantico, poco dopo essere rientrati a Washington. Era giustificabile non essere al massimo della forma.
 
“Saremo solo Barnes e io a scendere. Voi tenete sotto controllo lo spazio aereo. Se gli intrusi sono ancora dentro, avranno bisogno di un velivolo per lasciare questo posto” puntualizzò il Capitano “Avvisatemi al minimo movimento.”
 
“Ma…”
 
“Collins, le condizioni non sono negoziabili. Rimanete sul jet” Steve rivolse un’occhiata penetrante in direzione del ragazzo, un’occhiata di quelle che diceva esplicitamente “Niente colpi di testa” e sperò che il messaggio fosse stato recepito.
 
Daniel, suo malgrado, si morsicò la lingua e annuì. Era palese che non fosse affatto contento delle condizioni imposte. Però si fidava del giudizio di Steve e le avrebbe rispettate. A meno della comparsa di forze maggiori.
 
“Bene. Pronto a saltare?” stavolta Rogers si era rivolto a Barnes.
 
“Quando vuoi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Canada, Vancouver
 
 
Era tutto così strano. Era difficile definire le emozioni che avevano preso a vorticarle dentro. Adam Lewis sapeva come turbarla, sapeva come pungerle i nervi e come far sanguinare vecchie ferite. Quell’uomo conosceva ogni lembo del suo corpo, i punti di forza e le debolezze. Oh, quanto si era divertito a scovarle le debolezze.
Adam Lewis era un uomo privo di scrupoli, privo di senso etico e morale. Se abbassava le palpebre, poteva ancora vedere chiaramente la sua espressione fredda e distaccata durante i test – torture – a cui l’aveva sottoposta. Nemmeno le disperate grida di una bambina terrorizzata lo avevano smosso. Al contrario, lo avevano spinto ad osare di più.
Sentì riemergere con violenza gli insidiosi e suadenti istinti brutali. Il desiderio di sangue. La parte più oscura di lei scalpitava, bramando l’opportunità di rivelarsi. Bramando vendetta.
Si fermò di colpo e sollevò il capo, ammirando i fili della pallida luce lunare che riuscivano ad infiltrarsi fra le chiome delle immense conifere. Le protezioni metalliche sulle braccia brillavano nella penombra, avvolte dall’incandescenza generata dalle brucianti sensazioni.
 
“Tu devi essere la Voce, suppongo.”
 
Sorrise. Il primo incontro con Steve era avvenuto proprio in quella foresta e sembrava essere trascorsa un’eternità. Da cavia inerme e privata di ogni umana dignità, si era trasformata in una versione di sé che mai avrebbe sognato di poter diventare. Era ancora lontana anni luce dalla versione che avrebbe voluto essere, però aveva smesso di ripudiarsi. Un miglioramento notevole.
Riprese a muoversi. Il passo si trasformò in una corsa sempre più rapida. Più si avvicinava al punto di incontro, più riusciva a percepire le numerose presenze nascoste nell’ombra. La stavano aspettando e sperava vivamente che ci fosse anche Lewis, perché era lì per lui, per chiudere i conti.
L’ingresso della base era esattamente dove lo aveva lasciato quando ne era uscita per non doverci rientrare mai. Quanto sapeva essere beffardo il destino a volte? Di certo, essere costretta a rimettere piede nella vecchia prigione non l’avrebbe fermata. Lo doveva a se stessa, lo doveva a Steve e lo doveva a tutti i suoi compagni.
 
 
“Se fossi forte abbastanza da affrontare il nemico, sceglieresti di combatterlo da solo oppure insieme ai tuoi compagni?”
 
 
La base dismessa la accolse nel proprio grembo buio e polveroso. Riconobbe l’odore di morte che ne aveva impregnato le mura. Sollevò la mano destra in modo brusco e il fuoco consumò le ombre che la circondavano in pochi istanti. Lacrime fiammeggianti si librarono in aria e la seguirono come uno sciame di lucciole. Percepì una presenza incombente, in grado di saturare quel posto dimenticato da Dio. Le andò in contro e giunse in un luogo che conosceva bene. La cara e vecchia sala delle torture.
Sparsi a terra c’erano ancora i vetri della teca dove Lewis l’aveva guardata annegare innumerevoli volte, solo per capire fino a che punto il potere che custodiva sarebbe riuscito a strapparla dalla morte, morte che invece lei aveva desiderato affinché la sofferenza terminasse una volta per tutte. Ritrovò gli scomodi e freddi tavoli di metallo, un paio dei quali erano ribaltai, e strumenti chirurgici erano disseminati sul pavimento. Scavalcò lunghe catene, simili a carcasse di serpenti. Lo ricordava il peso delle catene. Se si concentrava abbastanza, poteva ancora sentirle sfregare contro la pelle.
 
“Volevi rievocare i vecchi tempi?” chiese, rompendo il silenzio tombale. Sollevò lo sguardo dalle catene e lo posò sulla presenza ferma dall’altra parte della grande sala.
 
“Sono un tipo nostalgico” parlò la voce di Adam Lewis in un corpo che non gli apparteneva.
La figura era alta e slanciata. Ad una prima occhiata la pelle le apparve violacea ma, guardando meglio, si rese conto che era solo una maglia aderente e dal tessuto fine. La maglia era infilata in pantaloni grigi, stretti attorno i fianchi da una cintura in pelle nera. Era calvo e pallido, ma quel pallore non trasudava malessere.
“Qui è dove tutto è iniziato ad andare storto” aggiunse l’uomo – se così poteva ancora essere definito – dopo una breve pausa e si avvicinò quel tanto che bastava per essere illuminato da alcune lacrime fiammeggianti. Di riflesso, le iridi brillarono alla stregua di raffinate ametiste. Evidenti cicatrici gli segnavano il volto e il collo.
 
Anthea ebbe l’impressione di aver già incrociato occhi simili. Scacciò il pensiero. Doveva rimanere concentrata.
“Dipende dai punti di vista. Ma non sono venuta per rivangare il passato. Sono qui per assicurare a quelli che amo un futuro senza di te.”
 
“Niente scrupoli per chi ti ha cresciuta? A proposito, sei cresciuta tanto, bambina.”
 
Era sempre stato un tipo da viscide moine. Ci sapeva fare con le parole. Era un fottuto manipolatore dopotutto. Era riuscito a frantumarla dall’interno fin troppe volte in passato, senza aver bisogno di poteri soprannaturali.
 
“Non grazie a te.”
 
“Mi rammarica sapere che non sei in grado di capire quanto dovresti essermi grata invece.”
 
Anthea scoppiò a ridere e rise in modo poco controllato finché non si fu sfogata a sufficienza, finché l’improvvisa e fastidiosa tensione non l’ebbe abbandonata. Fottuto manipolatore.
“Grata? Dovrei esserti grata? Per cosa esattamente?” la voce era fredda, calma ed esprimeva puro odio.
 
“Ho testato i tuoi limiti e ti ho spinta a superarli fin da bambina. Ti ho reso potente. Persino la morte impallidisce dinanzi a te” snocciolò il manipolatore, rimasto impassibile. “Devo correggermi. Impallidiva” precisò alla fine.
 
“Il fatto che tu creda davvero in ciò che dici ti rende solamente un mostro degenerato.”
 
Adam scosse il capo e sorrise. Era sicuro di sé e non era un buon segno. Possibile che non la temesse affatto?
“Mia cara bambina, ti mostrerò l’errore che hai commesso. Hai scelto di stare dalla parte sbagliata.”
 
“Rimarrai molto deluso” ribatté l’oneiriana. Affilò lo sguardo e le iridi affogarono nell’ambra.
Il corpo di Adam venne sollevato e rimase sospeso ad un paio di metri dal suolo, intrappolato da una forza pressante.
 
“Sei sempre stata impaziente, bambina” la rimproverò il fottuto mostro e l’odio per lui non fece che nutrirsi di altro odio.
 
Anthea percepì il suo potere venire come risucchiato e un dolore lancinante alla testa le annebbiò la vista. Perse la presa su Adam, che tornò libero e con i piedi per terra.
Eccola, l’interferenza. La stava aspettando dal momento in cui ne aveva percepito l’incombente presenza.
Passi cadenzati risuonarono nella stanza e un’esile figura si avvicinò a Lewis. Era giovanissima, coperta da un morbido e largo vestito bianco che le arrivava poco sotto le ginocchia. I capelli cortissimi – tagliuzzati in modo rozzo ed irregolare – erano tanto chiari da apparire bianchi. Sul viso smunto e pallido non c’era traccia di alcuna emozione. Le braccia ossute erano abbandonate lungo i fianchi, come se pesassero troppo. Era a piedi nudi, le cui dita arricciate tradivano una forte tensione.
 
Un angelo innocente trascinato all’inferno. Era così piccola.
 
“Antares ci teneva parecchio a farti fuori, così tanto che ha acconsentito alla richiesta di portarmi due individui fra la sua gente. Ho riservato loro lo stesso trattamento che ho riservato a te, ma meno diluito nel tempo, considerando che di tempo ne ho avuto poco.”
Lewis fece una pausa teatrale, guastandosi la nuova tensione che stava prendendo possesso di Anthea. Lui sapeva bene che farle perdere calma e controllo avrebbe aperto delle falle nelle sue difese.
“Il soggetto maschio è deceduto e l’ho usato come materia prima per costruire questo corpo. La sua capacità rigenerativa era spiccata, simile alla tua, ma era troppo debole. Lei invece si è dimostrata un’ottima candidata e, diversamente da te, è di sangue puro. Nessuna fragilità umana.”
 
Anthea dovette impiegare tutta la volontà in suo possesso per mantenere salda la concentrazione. Le barriere mentali erano lontane dall’essere solide. C’erano falle e le fondamenta non erano delle migliori. Prima Antares e poi lei, la nuova candidata di Lewis. Entrambi avevano avuto successo nel disintegrare le sue barriere e nel rompere gli equilibri. Era un dato di fatto ormai. Costruire barriere era una cosa che proprio non le riusciva bene e le sfuggiva il motivo.
La rivelazione di Lewis l’aveva scioccata e di colpo ricordò dove aveva visto gli occhi che il mostro manipolatore stava indossando. Come poteva non essersi accorta della scomparsa di due oneiriani? Come quella scomparsa era passata inosservata? Antares era davvero riuscito ad estirpare l’esistenza di due individui? Quel viscido traditore era morto, ma le conseguenze delle sue azioni erano ancora vive e vegete.
 
“Ora capirai quanto io abbia fatto per te in passato. Subirai sulla tua stessa pelle ciò che io ti ho donato e che tu hai buttato via” asserì con glaciale fermezza Adam Lewis.
 
Anthea fu risucchiata da occhi neri come la pece, immersi nel letto bianco della sclera. L’espressione della giovane vittima era un’inanimata maschera di porcellana, eppure l’intero corpo gridava disperazione e dolore.
 
“Lei ti ha già vista. A Los Angeles. E poi a Chicago. La mia Eta. Silenziosa, priva di voce propria, ma in grado di cambiare il suono di ciò che la circonda.”
 
Ed ecco le conferme.
Dopo Chicago, Anthea aveva fatto tesoro di ogni singola sensazione provata, analizzandone anche le sfumature più sottili. Aveva riportato alla mente il malessere che l’aveva investita durante i fatti accaduti a Los Angeles, dove Lewis aveva testato il potere psichico della sua cavia per la prima volta. Quel potere era maledettamente denso e distruttivo, tanto quanto la disperazione, la sofferenza e la paura che lo impregnavano.
Prima di arrivare lì dov’era, Anthea si era fatta un’idea di ciò che avrebbe dovuto affrontare una volta arrivata a Lewis. Suo malgrado, la realtà dei fatti si era dimostrata peggiore – molto peggiore – di quello che aveva immaginato. E aveva immaginato scenari terribili dal giorno in cui si era trasferita a Washington, quando aveva salvato quelle persone che Lewis avrebbe sicuramente usato per i suoi folli esperimenti.
 
“Sei parecchio lontana dai tuoi compagni, non credi?” le fece notare Adam, con la chiara intenzione di farle perdere la calma.
 
Fu dura per Anthea mantenere una facciata di freddo distacco.
“Ti assicuro che non hanno bisogno di me per prendere a calci le tue pedine” gli rispose con tono pungente, sopprimendo l’ansia che le solleticava lo stomaco.
 
“Ma tu avrai bisogno di loro” ribatté il viscido manipolatore e le sorrise.
 
La vittima – l’ennesima vittima – che Adam Lewis aveva plagiato e plasmato era potente. Il suo carnefice e carceriere si chinò in avanti per sussurrarle qualcosa nell’orecchio e, nel momento stesso in cui lui si tirò indietro, l’aria intorno a loro tremò. Le lacrime fiammeggianti si spensero in un soffio e l’oscurità li avvolse.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
C’era silenzio, interrotto solo dall’impatto degli stivali contro la superficie di un significativo strato d’acqua. Luci rosse lampeggiavano ad una cadenza costante, squarciando il buio che aveva inghiottito l’interno della struttura. Le spalle di Steve erano due passi avanti e Bucky era pronto a coprirlo, arma già alla mano e dito indice che sfiorava il grilletto. Erano solo loro due come lo erano stati innumerevoli volte, fin da bambini.
Avevano attraversato l’hangar, in cui era presente un solo elicottero distrutto. Non c’era traccia di mezzi nemici e tantomeno dei nemici.
 
“Dove sono finiti tutti?” fu la legittima osservazione di Rogers, una volta raggiunta la sala di controllo.
Gli schermi che avrebbero dovuto trasmettere le immagini delle telecamere sparse nella prigione erano spenti. C’erano parecchie lucine colorate che lampeggiavano sui pannelli di comando e davano vita ad una specie di spettacolo stroboscopico.
 
“Chi è stato rinchiuso in questo posto?” fu invece la lecita domanda di Bucky.
 
“So che Ross ha portato qui la maggior parte dei potenziati catturati vivi.”
 
“E cosa ha intenzione di farci?”
 
“Ricavare informazioni” rispose Steve e non si sforzò di eclissare la vena ironica insita nell’affermazione.
 
“Certo. Ricavare informazioni da automi incapaci di intendere e di volere mi sembra un’ottima strategia” ci tenne ad evidenziare Bucky.
 
“Ho detto la stessa cosa e Ross mi invitato a farmi i fatti miei se volevo evitare di fare compagnia agli automi” raccontò Steve con una tranquillità spiazzante.
Nel frattempo erano arrivati davanti l’ascensore che conduceva ai piani inferiori, costituiti per la maggior parte da piattaforme circolari, le quali ospitavano celle lungo il loro perimetro.
 
“Ottima argomentazione quella del Segretario.”
Barnes osservò il compagno premere più volte il tasto che avrebbe dovuto azionare l’ascensore e che invece non fece funzionare praticamente niente.
“Apertura manuale?” suggerì allora e non ci misero molto a forzare l’apertura delle ante metalliche. Peccato che della cabina non ci fosse traccia. Forse era rimasta ai piani più bassi. Parte dell’acqua sul pavimento scivolò nel vano e diede vita ad una piccola cascata.
 
“Usiamo i cavi.”
Steve fu il primo ad aggrapparsi ai cavi metallici che correvano verso il basso e si tuffavano nell’oscurità. Sembrava di star scendendo all’interno di un pozzo di cui non si vedeva il fondo. Calandosi cautamente, raggiunsero il livello inferiore, il primo fra quelli che ospitavano le prigioni. Nella scomoda posizione senza appoggi, fu più complicato forzare le porte, ma riuscirono a cavarsela.
L’acqua al primo livello arrivava poco sopra le caviglie. Anche lì l’illuminazione principale era saltata ed era stata sostituita da fastidiose luci rosse intermittenti. Le celle, disposte a formare una perfetta circonferenza attorno a loro, erano aperte. Tuttavia, i potenziati non erano fuggiti, né avevano avuto la possibilità di farlo, perché erano stati freddati da colpi da arma da fuoco diritti in testa.
 
“Brutto segno” commentò Barnes.
 
“Scendiamo ancora” decise allora Rogers.
 
Il secondo livello offrì il medesimo spettacolo, solo che l’acqua lambiva loro le ginocchia. Scesero ancora.
Il terzo livello era differente. Le porte infatti si aprirono su un corridoio spoglio.
 
“Inizia a diventare scomodo” asserì Bucky, mentre richiudeva le porte metalliche per evitare che la sempre maggiore quantità d’acqua li trascinasse indietro nella tromba dell’ascensore.
 
Erano bagnati fino all’altezza del sedere e avanzarono non senza difficoltà. Svoltarono a destra dopo aver percorso una cinquantina di metri, Steve bloccò il passo e abbassò lo scudo. James rimase alle sue spalle, ma riuscì comunque a vedere cosa avesse causato la battuta d’arresto.
Diversi cadaveri – almeno una decina – erano disseminati lungo il corridoio che si allungava davanti a loro. Galleggiavano sul pelo dell’acqua e il sangue che aveva abbandonato i loro corpi brillava sotto le palpitanti luci rosse. Gole recise, arti dislocati o spezzati, volti cinerei e occhi di vetro. Ecco dov’erano finiti coloro che avrebbero dovuto occuparsi della sicurezza della struttura. Un massacro.
Un debole mormorio spezzò il silenzio tombale. Un uomo stava usando la parete per rimanere in piedi e, lentamente, si stava trascinando verso di loro. Rogers agganciò lo scudo sulla schiena e lo raggiunse. L’uomo si aggrappò alle sue spalle, stringendole debolmente. “Aiutami” gemette, i denti rossi di sangue e il viso tumefatto. Un pugnale era conficcato nell’addome e la lama era scomparsa nella carne.
“Tieni duro, ti porteremo fuori da qui” gli promise il Capitano e si addossò il peso di quel corpo ferito.
 
James non lo vide arrivare. Avrebbe dovuto, ma non lo fece. L’uomo che Steve stava cercando di aiutare spirò nell’istante in cui un secondo pugnale si piantò nel retro del collo, recidendo pelle, muscoli, legamenti, vertebre e nervi. Il biondo registrò a malapena l’evento e si ritrovò schiacciato dal peso del compagno, contro una delle pareti del corridoio. La punta dell’orecchio stava sanguinando, graffiata dalla lama affilata di un secondo pugnale.
Eccolo, il fine suono dell’acqua che veniva smossa dal lento e vigoroso avanzare di una figura che stava emergendo dall’oscurità, scansando le vittime mietute senza pietà alcuna. La figura si fermò preservando una certa distanza da loro. Nonostante la visibilità intermittente, Bucky riconobbe i tratti di un volto che credeva non avrebbe più rivisto. Trattenne il respiro e la bocca dello stomaco si strinse con uno spasimo doloroso. Un gelo fatiscente penetrò sotto la pelle, fin dentro le ossa, e le ombre del passato si accalcarono alle sue spalle, pronte a saltargli al collo.
 
“È passato tanto tempo, Soldat.”
 
Era passato tanto tempo, ma non sufficiente per dimenticare. Non sarebbe mai stato sufficiente.
 
“Markov.”
 
I ricordi erano tutti lì, più vividi di quanto avrebbe voluto. James spinse Steve dietro di lui – un gesto puramente istintivo – e puntò in avanti il fucile.
 
“Abbiamo un conto in sospeso. A causa tua sono finito sotto ghiaccio.”
 
Il tono profondo e vibrante non era cambiato. Era proprio lui, uno fra i pochi che erano stati in grado di scalfire la corazza di indifferenza del Soldato d’Inverno. Bucky indossò la maschera di distaccata freddezza e si costrinse a rientrare in uno stato di solida concentrazione.
L’uomo avanzò ancora, uscendo dal cono d’ombra. Il ghigno tagliente che piegò le labbra fini divenne degno accompagnatore del luccichio intimidatorio che accese gli occhi scuri. Erano passati decenni dall’ultima volta che i loro cammini si erano incrociati. L’ultima volta che l’aveva visto era stata in una base segreta dell’Hydra, in Siberia. Josef Markov, la testa dello squadrone della morte dell’Hydra, fra i più pericolosi – forse il più pericoloso – assassini esistenti sulla faccia della Terra e questo prima che il siero del super soldato iniziasse a scorrere nelle sue vene. Il siero non solo l’aveva reso più forte, ma anche più spietato, alimentando il suo smodato desiderio di dominare.
Markov sciolse le braccia incrociate contro l’ampio petto. I muscoli delle spalle e delle braccia si tesero sotto il tessuto nero della maglia, che gli stava addosso come una seconda pelle. L’ibernazione lo aveva mantenuto in perfetta forma e non un singolo anno aveva affetto le fattezze del viso, ricoperto da una barba rasa. I capelli neri e corti avevano conservato il taglio marziale.
 
“Come avete fatto a…” iniziò Barnes.
 
“Ci hanno trovati e adesso abbiamo un debito da estinguere” Markov arricciò le labbra in un ghigno affilato “Non era previsto che ci incontrassimo qui. Ho avuto fortuna.”
Lo sguardo penetrante lasciò andare quello di James e finì per rivolgersi ad uno Steve confuso seppur pronto a scattare. Dopo un lungo attimo, l’attenzione dell’assassino tornò su Barnes. Mosse un ennesimo passo in avanti e le dita di metallo del Soldato d’Inverno si serrarono in un pugno scricchiolando. Un avvertimento.
 
Bucky sapeva di non dover mostrare esitazione, né alcun segno del subbuglio interiore che lo stava divorando. Solo che adesso non era più la spietata macchina priva di sentimenti in cui l’Hydra aveva tentato di trasformarlo per decenni.
“Chi diavolo è questo tizio?” gli domandò Steve e fu udibile l’esile nota di preoccupazione nella sua voce.
 
Il suddetto tizio ghignò e avanzò ancora. “Mi offende che non ti abbia parlato di me, Captain America” disse accentuando l’accento russo.
 
In uno sprazzo di recuperata lucidità, Barnes fece pressione sul grilletto. Partì uno sparo e il fucile finì in acqua, mentre del sangue prese a scivolargli lungo il braccio destro. Un secondo sparo esplose l’istante successivo e venne assorbito dal vibranio
 
“Stai bene?”
Steve adesso era davanti a lui, lo scudo sollevato e l’espressione tesa.
 
“Solo un graffio” lo rassicurò Bucky “Steve non sono l’unico Soldato d’Inverno” ammise di getto.
 
“No, non lo sei” confermò una voce femminile.
 
Con una pistola stretta nella mano, una seconda figura comparve alle spalle di Markov e lo affiancò.
Darya Smirnova era la sola donna che era stata selezionata per il progetto Soldato d’Inverno e l’unica che si era lasciata sfuggire segni di esitazione poco prima della somministrazione del siero. Poi, ogni esitazione si era estinta. Nella sua espressione era assente qualsiasi tipo di empatia e la bionda coda stretta sulla nuca metteva in risalto i lineamenti induriti. Le iridi castane erano fredde e distaccate. Era alta e i vestiti neri che aveva indosso – identici a quelli di Markov – mettevano in risalto i muscoli del fisico slanciato.
 
“Ne mancano ancora tre all’appello” fu lo stridente pensiero di Bucky.
 
Il buio li inghiottì per alcuni lunghissimi attimi. Quando le lampade artificiali tornarono a funzionare, inondando la struttura di una soffusa luce rossa, la situazione era già precipitata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Lewis si stava godendo lo spettacolo. Non era scappato e nemmeno ci aveva provato. Era rimasto fermo con in viso un’espressione compiaciuta.
 
Quello schifoso mostro manipolatore.
 
Anthea morsicò l’interno della guancia. Eta era in grado di contrastarla, agendo alla stregua di un’interferenza distruttiva, e lei cominciava ad accusare gli effetti di quello scontro di logoramento. Il processo rigenerativo aveva già subito un brusco rallentamento e non aveva più un ferreo controllo sulle proprie energie.
Stavano portando avanti un gioco di resistenza psichica, puntando a distruggere l’una le barriere interne dell’altra. L’aria era diventata elettrica e le vecchie pareti della base avevano iniziato a sgretolarsi sotto la pressione di forze sempre più intense e violente.
Ogni qualvolta Anthea si avvicinava troppo a Lewis, Eta la respingeva indietro bruscamente, rilasciando un potere che il dottore aveva alimentato con metodi che conosceva alla perfezione.
Continuare così non avrebbe portato a niente. O meglio, Anthea si sarebbe fatta ammazzare. Qualcosa la frenava e questo la rendeva vulnerabile.
Non poteva – non voleva – abbattere la piccola oneiriana come aveva fatto con tutti i nemici incontrati durante il suo cammino. Non poteva – non voleva – fare del male ad una vittima innocente. Poteva ancora salvarla, poteva ancora riportarla a casa e non poteva – non voleva – rischiare di frantumare la sua già compromessa stabilità. In quello sguardo apatico e oscuro rivedeva se stessa. Sapeva cosa si provava. Riusciva perfino a udire le urla strazianti dell’oneiriana dietro il velo di silenzio imposto. Quanto dolore.
Dopo il contatto a Chicago, le era rimasto appiccicato sulla pelle un assaggio di quel dolore e aveva sperato di sbagliarsi, aveva sperato di dover affrontare semplicemente un altro mostro e non una vittima la cui anima era stata seviziata.
Anthea doveva – voleva – strapparla dalle grinfie del dolore. D’altra parte, Adam Lewis non doveva uscire da lì intoccato. Doveva arrivare a lui.
 
“Non volevi uccidermi? Avanti, cosa stai aspettando?” la provocò Lewis, come se le avesse letto nel pensiero.
Ma lui non poteva farlo, Anthea ne era certa. Il manipolatore non sapeva come utilizzare l’essenza oneiriana rimasta intrappolata nelle fibre del corpo artificiale. La rigenerazione invece era qualcosa di automatico, simile ad una basilare funzione vitale, e avrebbe riparato i danni subiti senza bisogno di alcun controllo.
 
Anthea non reagì alla provocazione. Era lì e sì, aveva la possibilità di cambiare tutto. Poteva gestire la situazione. Ne aveva gestite tante di situazioni difficili fino ad allora. Se avesse vinto lì, avrebbe messo un punto ai lunghi mesi di tensione, alla follia di un uomo tramutatosi ormai in un mostro e ai dissidi del passato. Però Lewis lo aveva previsto. Sapeva che lei non sarebbe stata capace di combattere la nuova cavia, non senza esitazioni. Fottuto manipolatore.
Quella bambina era una sua responsabilità, perché Lewis era una sua responsabilità e perché Antares era stato una sua responsabilità.
 
Anthea mise una certa distanza fra sé e la piccola cavia.
“Avevi previsto tutto questo, dico bene?”
 
“So quali tarli infilarti nella testa per spingerti a fare quello che voglio” fu la risposta che ottenne da Lewis.
 
“Credi davvero che lei possa vincere contro di me?”
 
“Vincerà prima che tu possa rendertene conto” attestò il mostro manipolatore e sorrise.
 
Stavolta Anthea reagì. Convertì la propria energia in lingue di fuoco palpitanti e la temperatura si innalzò pericolosamente. I tratti del viso di Lewis si fecero tesi e fu lei a sorridere invece. Quanto le sarebbe piaciuto vederlo sciogliersi come una statua di cera.
Il fuoco circondò anche Eta, la quale tentò di dissiparlo con il suo potere. Tuttavia, le fiamme divorarono fameliche il potere avverso e, invece di estinguersi, si rafforzarono.
Forse Lewis sapeva quali tarli infilarle in testa, sapeva prevedere le sue reazioni e sapeva ancora farla sanguinare – fuori e dentro – ma nemmeno lontanamente era consapevole di cosa lei fosse in grado di fare ora e lo avrebbe scoperto a sue spese. Il fuoco spiraleggiò, formando una prigione incandescente.
 
“Fermati ti prego.”
 
Le fiamme si dissolsero in un battito di ciglia e le ombre tornarono a regnare sovrane. Anthea si ritrovò con il fiato corto e il cuore che martellava violentemente nel petto. La voce di cui conosceva ogni nota, anche la più flebile, le stava ancora risuonando nella testa. Un tocco sulla spalla la fece voltare di scatto.
 
“Non dovresti essere qui. Perché sei qui?” balbettò incredula.
 
“Ero preoccupato per te.”
 
“Ma come…”
 
Steve le prese il volto fra le mani e le sorrise, placando la tempesta di emozioni, disinnescandola. Le sue dita scivolarono sul collo. Erano più fredde di quel che ricordava.
 
“Steve io…”
 
Le dita si chiusero attorno alla gola e l’aria cessò di arrivare ai polmoni. Anthea perse il controllo sul proprio corpo e gli arti smisero di rispondere rimanendo immobili.
Gli occhi limpidi della persona che amava la stavano guardando boccheggiare e lei non riusciva a muovere un singolo muscolo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Burt Schneider era un colosso la cui forza si era dimostrata eccezionale ancor prima che gli venisse iniettato il siero del super soldato. Tale forza amplificata dal siero era adesso impressa nelle cinque dita della mano destra stretta attorno alla gola di Steve e teneva quest’ultimo ad almeno tre palmi dal pavimento. A parte la stazza significativa, c’erano la corta cresta mora, la lunga barba scura e i folti baffi dalle punte arricciate in su, che gli conferivano un aspetto ancora più minaccioso.
Nel frattempo, la Smirnova stava percorrendo con lo sguardo la colonna vertebrale del Capitano e visualizzava quei punti critici che lei conosceva alla perfezione.
Bucky sapeva che erano in guai seri. Non erano pronti ad affrontare uno scontro di quella portata. Dovevano mettersi in contatto con Stark o fare in modo che Anthea li raggiungesse. Erano già in svantaggio numerico e ne mancavano altri due all’appello. Doveva inventarsi qualcosa, qualsiasi cosa permettesse loro di uscire da lì.
 
Doveva portare Steve fuori da quel fottuto casino.
 
Un gancio in pieno viso spezzò la linea dei pensieri e Bucky fu costretto a distogliere del tutto l’attenzione dal suo migliore amico.
 
“Occhi su di me, Soldat.”
 
Markov gli scaricò addosso una rapida sequenza di colpi che finì con due pugni dritti in faccia. James si ritrovò a boccheggiare quando le nocche del nemico si conficcarono nel costato. Poi un calcio in pieno petto lo spedì contro la parete, che si incrinò nell’impatto. Non fece nemmeno in tempo a riprendere fiato che l’assassino gli fu addosso. Lo vide caricare il pugno destro e si preparò a sentire l’osso della mandibola cedere. Fu però la mandibola di Markov a rischiare una rottura.
Nonostante la vista annebbiata, Bucky riconobbe il noto profilo della schiena di Steve e tornò a respirare. Una vita prima, le parti sarebbero state invertite, ma non provava nostalgia per questo. Gettò un’occhiata agli altri due super soldati. Burt aveva il naso che sanguinava e il sangue gli aveva sporcato la barba scura, mentre Darya aveva una mano permuta sullo stomaco.
 
Avevano sottovalutato Steve. Grosso errore.
 
Rogers caricò un secondo pugno, ma la Smirnova si frappose prontamente fra lui e Markov. Le braccia della donna circondarono il collo del biondo e con il ginocchio destro gli colpì ripetutamente l’addome, mettendo a dura prova le costole. Riuscì poi a spezzargli l’equilibrio colpendolo sullo stinco e approfittando della minore mobilità dovuta all’acqua in cui erano immerse le loro gambe. Rogers si oppose alla caduta utilizzando la parete davanti a lui come supporto. Darya gli rimase appiccicata addosso, gli afferrò i capelli sulla nuca con una mano e fece collidere ripetutamente la fronte contro la stessa parete.
Steve soffocò un gemito di dolore fra i denti serrati, mentre un rivolo di sangue scivolava fra gli occhi e si biforcava in corrispondenza del setto nasale.
 
“Non romperlo così presto, Smirnova” fu il sarcastico commento di Schneider.
 
Burt scostò Darya con una spallata e afferrò Steve da dietro, bloccandogli le braccia lungo i fianchi. La donna ne approfittò per assestare un paio di pugni sul viso del Capitano, la cui testa ricadde in avanti e non si risollevò.
 
“Avanti, Steve!” gridò Bucky, a pieni polmoni, mentre tentava di non essere sopraffatto da Josef e al contempo di scartarlo – se solo il bastardo si fosse distratto anche solo per un singolo istante. Markov gli sbarrava la strada ed era intenzionato a finire ciò che aveva cominciato prima che Rogers si mettesse in mezzo.
 
Steve strinse i denti e, con un secco colpo di reni, fece collidere la nuca contro il naso già insanguinato del colosso che lo teneva fermo. Lo sentì grugnire e la presa si allentò abbastanza da consentirgli di romperla. Eseguì poi una mezza rotazione che gli permise di piazzargli una gomita dritta sulla mascella. Bart fu costretto a ripristinare una distanza di sicurezza dal Capitano, tuttavia gli dedicò un ghigno eccitato.
 
“Incapace” berciò Darya.
 
La donna afferrò uno dei cadaveri che galleggiava nelle vicinanze e lo lanciò addosso al Capitano, prendendolo alla sprovvista.
Rogers cadde all’indietro, la schiena impattò contro la superficie dell’acqua e affondò fino a toccare il pavimento. Scansò il corpo privo di vita per poter riemergere, ma la suola di uno stivale premuta contro il petto lo tenne schiacciato a terra. Steve riusciva a vedere la sagoma di Bart che lo sovrastava, sfumata dall’acqua che lo separava dall’ossigeno di cui cominciava ad essere a corto. La seconda suola del colosso gli bloccò il polso sinistro.
Il Capitano voltò il capo alla sua destra e si ritrovò a fissare gli occhi bianchi dell’uomo che solo poco prima lo aveva implorato di aiutarlo. Una scarica di adrenalina riattivò i processi cognitivi annebbiati ed estrasse dal collo del cadavere il pugnale che gli aveva strappato via la vita. Piantò la lama sopra il ginocchio di Schneider.
 
Quando riemerse, Steve credette che i polmoni sarebbero scoppiati.
 
“Sta’ zitto!”
 
Il grido agghiacciante di James costrinse Steve a recuperare lucidità in fretta. Markov era addosso al suo migliore amico, lo teneva premuto contro la parete, il braccio di metallo sollevato sopra la testa e imprigionato nella presa della mano sinistra. Bucky sembrava come paralizzato.
Rogers si precipitò in suo soccorso. Appena due passi dopo, un sottile filo metallico venne stretto attorno alla sua gola e Darya era dietro di lui. Schneider invece gli ostruì la visuale su Bucky e, sfoggiando un ghigno affilato, gli mostrò il pugnale che si era sfilato dal ginocchio. Gli conficcò quella stessa lama nella coscia destra e la lasciò lì.
Steve non fu nemmeno in grado di gridare, troppo impegnato a soffocare. Cercò di afferrare il dannato filo usando addirittura le unghie, ma finì solo per scorticare la pelle già lesa. La coscienza iniziò ad abbandonarlo inesorabilmente. L’ultimo sprazzo di lucidità si spense assieme alla forza di opporsi.
 
 
 
“Portatelo di sopra. Qui finisco io” ordinò Markov, intensificando la pressione sul pomo d’Adamo di Barnes, assediato da fantasmi del passato che stavano lentamente prendendo il sopravvento.
 
Bucky si odiò in modo viscerale. Si odiò per essere rimasto a guardare, incapace di reagire. E adesso Steve era alla completa mercé di assassini senza scrupoli. Nel momento in cui Bart si caricò sulla spalla destra il suo migliore amico, Bucky fu sul punto di supplicare, ma i sussurri nelle orecchie divennero grida e poi stridii graffianti.
Sovvenne la nebbia. Fitta, gelida, soffocante e spaventosa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Adam sorrise compiaciuto. Percorse con lo sguardo il corpo della sua bambina. Lunghe catene ancora solide la stavano stritolando lentamente. Le avvolgevano le gambe, l’addome, le braccia e la gola. Di fronte a lei, immobile ad un singolo passo di distanza, c’era Eta.
La gracile cavia non aveva una forza fisica significativa. D’altro canto, aveva un potere psichico notevole e capacità molto simili a quelle di Antares. La suggestione era un’arma potente e avrebbe vinto grazie ad essa.
 
Adam avrebbe riavuto la sua bambina. Viva o morta.
 
Lewis colse le labbra di Anthea muoversi e si avvicinò incuriosito. La sentì sussurrare parole apparentemente sconnesse, almeno fin quando lei non trovò la forza di comporre un’intera frase, nonostante la voce tremante e la pressione sulla trachea.
 
“Lui non mi farebbe mai del male.”
 
Adam si specchiò negli occhi bui dell’oneiriana e solo allora realizzò che lei lo stava guardando. Anthea era fuori dall’illusione creata per distruggerla.
“Spezzala” ordinò d’impulso ad Eta e indietreggiò con una tale urgenza da rischiare di incespicare nei suoi stessi passi.
 
Le catene divennero incandescenti e Anthea si lasciò sfuggire un grido di dolore e di frustrazione. Le fiamme tornarono ad ardere e dissolsero le ombre. Le catene si spezzarono, incapaci di contenerla.
 
“Eccoti un assaggio dell’inferno in cui finirai.”
 
Le iridi della sua bambina si tinsero di rosso e Lewis lesse in esse una furia incontenibile in opposizione ad un calma incrollabile. Sembrava che anime diverse – in contrasto – stessero collidendo.
 
“Da solo sei niente, Lewis. I tuoi nemici non ti temono e tu lo sai, ecco perché ti nascondi. Ti nascondi perfino dietro le spalle di una bambina. Allora dimmi, vuoi davvero nasconderti per sempre?”
 
Adam fu sopraffatto da un senso di vuoto e di impotenza. Il fuoco era più vicino e aveva assunto le fattezze di artigli pronti a dilaniarlo.
 
“So che vuoi uscire allo scoperto ed essere tu stesso la falce che miete i tuoi nemici” affermò infine Anthea e Lewis, incapace di ribattere, la osservò accorciare la distanza che li separava.
 
Eta si mise in mezzo e tentò di resistere al potere che alimentava le fiamme. Tuttavia, finì per portare le mani alla testa e urla strazianti le graffiarono la gola. Cadde sulle ginocchia ossute e si piegò su se stessa. La spina dorsale era visibile sotto il leggero tessuto del candido vestito.
 
“Mi dispiace” sussurrò Anthea “mi dispiace tanto.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Io scendo.”
 
“Vuoi mettere fine alla tua patetica vita?”
 
La Stewart fulminò Collins con lo sguardo e poi tornò a rigirarsi il pugnale dall’elsa bianca fra le mani. Era seduta in modo scomposto su uno dei sedili posteriori ed era palesemente frustrata e stanca.
 
“Potrebbero avere bisogno di aiuto” protestò Dan, che aveva percorso la lunghezza del jet almeno una ventina di volte, andando avanti e indietro.
 
“Sono due fottuti super soldati. Non hanno bisogno di te” replicò la donna, seccata.
 
Daniel ignorò il commento poco gentile e recuperò il suo personale ed ingombrante zaino pieno di tasche e cerniere. Promemoria per la prossima volta – se ci sarebbe stata una prossima volta – doveva organizzare con criterio la sua attrezzatura e non gettarla totalmente a caso nello zaino. Riempì le diverse tasche dei cargo scuri con tutto ciò che ritenne utile e poi tirò fuori un rampino.
 
“Datemi una mano a scendere. Il vento si è abbassato. Posso farcela.”
 
“Il Capitano ha detto di rimanere qui. Dovresti sturarti le orecchie.”
Janet non diede segno di volersi muovere e questo non fece che conferire maggiore peso alle parole appena pronunciate.
 
Collins si rifiutò di cedere.
“Bennet, ti prego. È passato troppo tempo. A quest’ora lui ci avrebbe comunicato qualcosa, qualsiasi cosa. Fammi scendere.”
 
Bennet, stabilmente fermo al posto di comando, si sporse indietro. L’espressione neutra non lasciava trasparire alcuna emozione.
“Vedi di non farti ammazzare” fu l’unica cosa che disse prima di tornare a concentrarsi sulla guida, in modo da avvicinarsi quanto più possibile alla piattaforma.
 
“Stai davvero dando ascolto al ragazzino?”
La Stewart smise di giocare con il pugnale. Si raddrizzò sul sedile e la tensione le irrigidì i lineamenti.
 
“Collins ha ragione.”
Bennet era un uomo di poche parole. Dava l’impressione di essere sempre sulle sue, invece era attento a tutto ciò che gli accadeva intorno. Si adattava velocemente al modus operandi dei colleghi e memorizzava le scelte che essi prendevano quando erano posti dinanzi a determinate situazioni. Quelle scelte dicevano molto di una persona e delle sue priorità. Le priorità di Steve Rogers erano gli innocenti e i compagni che lo affiancavano. Non avrebbe mai sacrificato la vita di nessuno di loro, nemmeno se ciò avesse comportato il fallimento della missione. Però avrebbe sacrificato se stesso e per questo era sempre in prima linea.
Durante l’intera carriera, Bennet ne aveva conosciuti pochissimi di tale raro stampo e doveva ad uno di loro il privilegio di essere ancora vivo. Se c’era anche solo una possibilità che Steve Rogers avesse bisogno di una mano, non sarebbe stato lui a negargliela. Collins era sveglio e capace. Se anche il ragazzo avesse tardato a dare loro notizie una volta sceso là sotto, lo avrebbe raggiunto subito dopo aver chiamato i rinforzi.
 
“Grazie, ti devo un favore.”
Daniel era già di fronte al portellone posteriore, rampino alla mano.
 
“Fate come volete, ma sappiate che non voglio responsabilità” volle sottolineare Janet e mantenne la posizione, non muovendo un dito nemmeno quando Daniel si ritrovò penzoloni a qualche metro di troppo da terra, attaccato alla corda del rampino fissato alla buona.
 
Collins non si fece scoraggiare dall’altezza che lo separava dalla piattaforma, né dal vento poco favorevole e tantomeno dalla pioggia che lo stava infradiciando dalla testa ai piedi. Non appena fu abbastanza sicuro che non sarebbe caduto nell’oceano, si lanciò. Non perse tempo ad esultare per il salto ben riuscito ed entrò nella struttura senza esitazioni.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Era seduto sul bordo del letto da ore. Un bottiglia di vino giaceva distesa al suo fianco, svuotata. Alcune gocce del liquido vermiglio avevano macchiato le lenzuola bianche e sembravano schizzi di sangue. Avrebbe davvero potuto esserci il suo sangue sparso su quelle lenzuola se il demonio che vestiva i panni di una giovane e delicata ragazza avesse deciso di finire ciò che aveva cominciato mesi prima. Era certo che ci fosse Rogers dietro la visita inaspettata.
Quel figlio di puttana proprio non voleva saperne di gettare la spugna. Gli era capitato di sognarlo, bloccato sulla sedia della macchina per la riprogrammazione. Nei suoi sogni tutto andava secondo i piani, nessuna interruzione durante la procedura, nessuna strega nei paraggi. All’inizio il biondo opponeva resistenza al trattamento, ma alla fine si arrendeva e si mostrava pronto a soddisfare ogni sua richiesta. Il risveglio era fastidioso in quelle circostanze.
Steve Rogers si era trasformato in una ossessione da quando era venuto a conoscenza del suo ritrovamento. Prima di allora, Captain America era stato solo un idolo adolescenziale, tutto ciò che un debole ragazzo grassoccio, disadattato e bistrattato avrebbe voluto essere.
 
Ma dato che mai avrebbe potuto essere lui, si sarebbe accontentato di averlo.
 
Con la dipartita di Adam Lewis, Henry avrebbe avuto finalmente il controllo. Non avrebbe più dovuto rendere conto a nessuno. Voleva il controllo. Voleva Steve Rogers. Voleva il controllo.
Nessuno avrebbe più osato prendersi gioco di lui, nessuno gli avrebbe più messo i piedi in testa. Avrebbe avuto la sua rivincita su tutti coloro che avevano riso di lui e del suo piano di voler diventare qualcuno di importante, qualcuno capace di condizionare le sorti dell’umanità.
 
Un bussare insistente lo distolse dai pensieri e da ricordi lontani che l’alcol riusciva ancora a far riemergere. Arrivò alla porta con passo malfermo.
 
“Chi è?” chiese.
 
“Il vino che ha richiesto, signore.”
 
Tempismo perfetto.
Benson aprì la porta e ci mise un po’ a registrare la presenza che si ritrovò di fronte. Una presenza nota, ai piedi della quale c’erano le sue guardie del corpo decedute.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non era stato difficile raggiungere la sala di controllo. Non c’era anima viva. Arrivò all’ascensore le cui porte erano state palesemente forzate e capì che Rogers e Barnes dovevano essere scesi ai livelli inferiori. Si stava preparando a quella sorta di discesa lungo i cavi d’acciaio, quando voci distinte risalirono dalla tromba cava.
 
“Sei lento” attestò una fredda voce femminile.
 
“Lo saresti anche tu se dovessi trascinarti dietro un peso morto” ribatté a tono un voce profonda, appartenente ad un uomo che istintivamente immaginò bello grosso.
 
Dan tornò sui suoi passi, fino all’ingresso della sala di controllo e si nascose nel corridoio esterno. Rimanendo con le spalle pressate contro la parete, si affacciò quel tanto che bastava per avere una visuale sulla tromba dell’ascensore.
Due individui uscirono dal vano. Un uomo decisamente grosso e una donna dall’aria intimidatoria. Ma non furono loro a preoccuparlo. Daniel smise di respirare alla vista di uno Steve inerme, adagiato sulla spalla dell’uomo. La testa bionda penzolava contro schiena del colosso e dalle punte dei capelli gocciolava acqua mista a sangue.
 
Doveva mantenere la calma. Doveva mantenere la calma. Doveva mantenere la calma.
 
Dan serrò la mascella quando Steve venne messo giù con poca grazia. Fu la donna a sistemarlo seduto, con la schiena appoggiata alla parete, appena di fianco al vano dell’ascensore. La osservò accovacciarsi di fronte a lui e premergli le dita sulla carotide.
 
“È vivo?” domandò il grosso uomo dalla folta barba e Daniel, suo malgrado, lo ringraziò per averlo chiesto.
 
“So quello che faccio. Non commetto errori” fu però la criptica risposta della donna.
 
Il ronzio dei cavi metallici dell’ascensore richiamò la loro attenzione. Qualcosa stava venendo su.
 
“Era ora” commentò il colosso.
 
La cabina salì fino alla sala di controllo e da essa vennero fuori altri due uomini. Uno di loro aveva tratti asiatici e il capo calvo. L’altro, dalla pelle d’ebano, era più alto e robusto.
 
“Mi sono perso il divertimento” affermò il tizio dalla pelle scura, scoccando un’occhiata in direzione di Rogers.
 
“Sii più rapido la prossima volta, Abell” ribatté la donna.
 
“Glaciale come sempre, Darya. Tu e Bart non eravate con Josef?”
 
“Lui è con Barnes. Ci raggiungerà presto. Siamo comunque bloccati qui finché non torneranno a recuperarci.”
 
“Avrebbero potuto aspettare che finissimo quei bastardi. Senza di noi non sarebbero riusciti nemmeno ad entrare qui dentro” si lamentò l’uomo dal capo calvo.
 
“Portare al sicuro l’obiettivo aveva la priorità. Sai come funziona, Jian.”
La donna, Darya, fece forza sulla gambe e tornò in piedi.
 
Daniel non aveva carpito molte informazioni utili dalla breve conversazione. Al di là dei loro nomi, ora sapeva che erano venuti lì per recuperare qualcuno – l’obiettivo – e a fare altro di cui non aveva idea. Adesso stavano aspettando il passaggio che li avrebbe riportati da ovunque venissero. E aveva la netta sensazione che avrebbero portato Steve con loro, altrimenti non si sarebbero scomodati a trascinarselo dietro. Non poteva proprio permettere a quei tizi di portarlo via.
Okay, doveva pensare. Era necessario un piano o anche solo parte di esso. Si sarebbe accontento addirittura di una mezza idea e quella lo solleticò una manciata di secondi dopo essersi spremuto – spappolato – le meningi. Bene. Ora aveva un disperato bisogno di un diversivo e gli frullò in mente una soluzione che avrebbe potuto essere tanto stupida quanto efficace. Dall’ascensore lo separavano sì e no una cinquantina di passi. Era abbastanza vicino e lui era abbastanza veloce. Frugò nelle tasche dei cargo e trovò il suo diversivo.
Mentre il flusso di pensieri prendeva la tangenziale – ti prego fa che funzioni funzionerà deve funzionare oddio farò un casino andrà malissimo invece ce la fai Collins – uscì allo scoperto attirando l’attenzione dei nemici, la mano destra che stringeva una sfera metallica sollevata in bella vista.
 
“Denotazione in quattro, tre, …” avvisò una voce metallica, proveniente dalla sfera stessa.
 
Dan riuscì a scorgere lo sgomento tendere i tratti dei nemici e ghignò mentre lanciava la sfera nella loro direzione. Trattenne il respiro ed espirò solo quando li vide disperdersi all’intento della sala di controllo, nel tentativo di allontanarsi prima che la denotazione li travolgesse. E ovviamente – okay, non era così ovvio, ma ci aveva sperato davvero tanto – non si presero la briga di spostare Rogers.
La fine del conto alla rovescia fu seguito da una miriade di scintille e da una gran quantità di fumo bianco. Collins sapeva che effetto faceva, aveva subito lo stesso raggiro durante l’addestramento allo SHIELD e il supervisore aveva riso parecchio di fronte al panico che si era venuto a creare fra le reclute – come se fosse divertente convincere dei poveri agenti inconsapevoli che sarebbero finiti in pezzi nel giro di pochi secondi.
Daniel arrivò a Steve ancor prima che i quattro individui realizzassero di essere stati raggirati. Lo afferrò per la cinghia sulla spalla destra e lo trascinò all’interno dell’ascensore. Spinse a caso tutti i pulsanti e le porte iniziarono a chiudersi. Incontrò lo sguardo affilato – incazzato – di Bart, l’omone che probabilmente avrebbe potuto spezzarlo come un fuscello e che fortunatamente non riuscì a raggiungere la cabina, non prima che le porte si chiudessero e che questa iniziasse a scendere.
 
“Okay. Okay. Okay” ripeté Dan come un ossesso e schiacciò altrettanto ossessivamente il pulsante per bloccare l’ascensore.
 
Okay. La strategia aveva funzionato. Ora era di nuovo senza un piano. Non sapeva come andare avanti.
Osservò il corpo di Steve, steso sulla schiena e che non dava segni di vita. Dan rimase immobile, spaventato dalla peggiore prospettiva che aveva preso d’assedio il cervello. Si diede dell’idiota e costrinse le gambe a spiantarsi, così da poter raggiungere il compagno. Utilizzò ancora come appiglio le cinghie di supporto per lo scudo – dove era finito lo scudo? – in modo da sistemarlo seduto contro una delle pareti della cabina.
Si accovacciò sulle ginocchia e appoggiò le dita tremanti – dannazione smettila di fare la mammoletta Collins – sulla carotide del super soldato. Quasi gli venne da piangere nel momento in cui percepì il sangue palpitante sotto i polpastrelli.
“Oddio grazie” sussurrò e scostò alcuni ciuffi biondi dalla fronte del compagno, notando lo spacco che percorreva la pelle sottile. Le escoriazioni e i lividi sul viso lo preoccupavano meno del taglio sanguinante che gli circondava il collo livido. Inoltre, c’era il pugnale infilato nella gamba destra e Dan decise di tirarlo fuori prima che il Capitano recuperasse coscienza. Perché Steve si sarebbe ripreso. Lo estrasse con uno strappo secco e non ottenne alcuna reazione, nemmeno la più flebile. Premette sulla ferita per rallentare la fuoriuscita di sangue, ma capì che non sarebbe stato sufficiente, così strappò senza troppi complimenti una delle lunghe maniche della maglia nera che aveva indosso e la legò attorno la ferita. Da Steve ancora nessun segno di ripresa e Dan iniziò a preoccuparsi seriamente.
La preoccupazione si trasformò in ansia quando un rumore sordo risuonò sopra le loro teste. Un primo colpo vibrante ammaccò la parte superiore della cabina.
 
“Cap, devi riprenderti.”
 
Daniel lo scosse leggermente tenendolo per le spalle, ma non ottenne i risultati sperati. I colpi sempre più violenti rimbombavano all’interno dell’ascensore. Scosse Steve una seconda volta, con maggiore insistenza.
 
“Steve, andiamo.”
 
Sobbalzò quando il pannello di metallo cedette e si aprì una fessura. Adesso aveva la certezza di avere a che fare con potenziati parecchio forti. Un paio di mani si infilarono attraverso la fessura e ne forzarono un lembo, in modo da aprire un varco.
Dan tornò a rivolgere l’attenzione a Steve. Gli prese il volto fra le mani, in un gesto che trasudava una buona dose di disperazione.
 
“Ho bisogno di te, Steve. Ti scongiuro svegliati. Per favore.”
 
Il tonfo di un peso ingente che atterrava alle sue spalle fu seguito da altri tre successivi.
 
“Non avresti dovuto prenderti gioco di noi” asserì la voce profonda di Bart.
 
Daniel fece scivolare via le mani dal viso di Steve e si alzò in piedi. Ruotò su sé stesso e si ritrovò a fronteggiare i quattro individui dalla forza sovraumana. Ne erano bastati due per sopraffare Rogers.
Si preparò a lottare, incurante del fatto che molto probabilmente lo avrebbero ridotto ad un ammasso informe di ossa e carne.
 
“Ti avevo detto di rimanere sul jet.”
 
Mai, prima di allora, essere rimproverato gli aveva provocato una scarica di felicità e sollievo.
 
“Adesso si ragiona” convenne l’uomo dalla pelle d’ebano, Abell, il cui sguardo stava brillando di pura eccitazione.
 
Dan spostò lo sguardo su Steve, che lo aveva affiancato. Nonostante le ferite e nonostante si fosse appena ripreso, il Capitano non mostrava segni di incertezza o di sofferenza.
“Stavi tardando e tu non sei mai in ritardo” si giustificò il moro per il fatto di essere dove non avrebbe dovuto essere.
 
“Non ti è bastata la lezione?”
Era stata Darya a parlare e scansò Bart per porsi in testa al gruppo.
 
“Dovrai impegnarti di più. Mi è stato detto che ho la testa dura” la schernì Rogers.
 
A Collins quasi andò di traverso la saliva. Magari sarebbe stato meglio non istigare quei pericolosi tizi più del necessario. Suo malgrado, Steve non era dello stesso avviso.
 
“Prima di cominciare, qualcuno vuole scendere?”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le interferenze erano subdole. Nell’esatto momento in cui venivano percepite, era già tardi per poterne uscire illesi. Distruggevano gli equilibri, frantumavano le barriere psichiche e rendevano instabili i flussi di energia. Bastava scegliere le frequenze giuste per destabilizzare un oneiriano, anche se era difficile trovarle quelle frequenze.
 
Ma Lewis conosceva i suoi punti deboli. Sapeva come destabilizzarla.
 
Onde elettromagnetiche stavano facendo vibrare l’aria stantia all’interno della base e Anthea aveva perso l’equilibrio e con esso il controllo.
Le fiamme serpeggiarono nei corridoi, consumarono l’ossigeno e finirono per inghiottire la base, inarrestabili e fuori controllo.
Eta, fonte della distruttiva interferenza, aveva eretto una solida barriera di energia per proteggere Lewis, che sembrava sorpreso dai risvolti provocati. Probabilmente il manipolatore si era aspettato di vederla crollare e non scatenare una deflagrazione su larga scala. Povero illuso.
Anthea rimase calma. Non si oppose all’interferenza. Si lasciò travolgere e portare alla deriva, mentre cercava l’unico saldo appiglio che le avrebbe dato l’occasione di porre rimedio ad una parte del male causato da Lewis. Fu come sincronizzarsi su un’altra frequenza, una frequenza a cui nessun altro a parte lei aveva accesso. L’interferenza di Eta si trasformò in un sibilo lontano, appena percettibile.
Intanto, tutto attorno a lei stava bruciando. Eppure, quasi non percepiva il soffocante calore. Al contrario, fu colta alla sprovvista da un’ondata di gelo e dalla sensazione di bagnato sulla pelle.
 
 
“Qualunque cosa tu stia facendo, ti prego fa presto.”
 
 
Concentrò le energie in direzione della barriera che proteggeva Lewis. Eta cercò di reagire. La pece insidiatasi nelle iridi era colata sulle guance pallide ed erano emerse le sottostanti sfumature violette.
 
Le loro energie entrarono in risonanza.
 
L’esplosione che ne seguì portò al collasso dell’intera base e aprì uno squarcio sopra le loro teste, trapassando cemento armato, travi di acciaio e strati di terra.
Un’ondata di fiamme azzurre fuori controllo risalì in superficie e divorò tutto quello che trovò lungo il cammino.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Steve non sono l’unico Soldato d’Inverno.”
 
Ce n’erano altri cinque e quattro di loro si stavano alternando per sfaldare le sue difese. Non conoscevano il gioco di squadra, Steve lo aveva intuito durante lo scontro precedente e adesso ne aveva la conferma. Erano ebbri di un potere che stavano ancora sperimentando e testando, in modo da esplorarne le potenzialità e i limiti – conosceva la sensazione.
Daniel gli stava dando manforte senza azzardare attacchi troppo diretti, optando per una tattica difensiva. Steve non mancava di tenere un occhio su di lui, anche se questo comportava incassare qualche colpo che avrebbe potuto evitare. La spalla sinistra era di nuovo dislocata – poteva ancora usarla però – e immaginò Anthea spiattellarsi una mano sulla faccia – l’avevo appena sistemata, Steve!
L’adrenalina stava toccando picchi talmente elevati da assopire le terminazioni nervose del dolore e spingere le fibre muscolari oltre i già anormali limiti di funzionamento. Era profondamente concentrato e i riflessi rasentavano la predizione.
I suoi avversari dovevano essersene accorti, perché avevano messo via le espressioni divertite, consci che non conveniva giocare troppo con lui.
 
Steve inchiodò Darya alla parete con la mano sinistra stretta attorno alla sua gola e piantò il gomito destro sulla faccia di Abell, che aveva tentato un approccio alle spalle. Scagliò poi la donna contro Bart, spingendo entrambi sulla parte opposta della cabina. Infine, si accertò che Daniel stesse riuscendo a tenere impegnato Jian. Il secondo successivo parò con entrambe le braccia un calcio del super soldato d’ebano e gli afferrò la caviglia prima che riuscisse ad abbassarla. Lo fece ricongiungere con gli altri due super soldati, usandolo alla stregua di un giavellotto.
 
“Mi state intralciando” si alterò Darya, mentre si toglieva di dosso Abell e si rialzava facendo perno su un ginocchio di Bart, il quale era con il sedere per terra proprio dietro di lei.
 
Rogers afferrò Collins per la collottola e lo tirò a sé, impedendo a Jian di affondare il pugno nel costato del ragazzo. Allo stesso tempo, torse il busto e centrò la mandibola dell’uomo con il collo del piede, mandandolo giù, in ginocchio e stordito.
 
“Grazie” farfugliò Dan, tra un respiro affannato e l’altro.
 
Steve sollevò Daniel verso l’alto e lo fece poco prima che Bart invadesse il suo spazio personale. Un calcio fra le scapole da parte di Abell accelerò le dinamiche spingendolo verso il colosso, che lo agguantò al volo per la gola e lo privò del contatto con il pavimento solo per poterlo sbattere schiena a terra.
Schneider si piazzò sul bacino di Rogers e gli strinse i fianchi fra le ginocchia. La reazione del biondo fu troncata sul nascere da Abell e Darya che gli bloccarono le braccia sopra la testa, mentre Jian lo afferrò per le caviglie, privandolo del movimento delle gambe.
 
L’ascensore si riempì di corti respiri affannati e nessuno osò muoversi per i successivi secondi.
 
Bart ghignò vittorioso e avvolse le grandi mani attorno al collo di Steve, posizionando entrambi i pollici in corrispondenza della trachea.
“Mi hai fatto divertire parecchio, biondino. È quasi un peccato che debba già finire.”
 
“Cosa vi ha promesso Adam Lewis?” li prese in contropiede Rogers e Schneider si bloccò prima di iniziare a stringere.
 
“Non sono affari che ti riguardano” fu Abell a rispondere.
 
Steve doveva guadagnare un po’ di tempo e respirare gli faceva ancora comodo. Così tentò un approccio diverso. “Non rispetterà mai il patto. È un bugiardo manipolatore. Fermatevi adesso e…”
 
“Stai parlando troppo” Schneider cominciò ad applicare pressione sulla gola di Rogers, in maniera graduale “E non c’è niente che tu possa offrici”.
 
Ad un cupo fragore seguì il brusco inclinarsi della cabina dell’ascensore. Scivolarono e rotolarono sul lato che pendeva verso il basso. Il diversivo permise a Steve di togliersi di dosso i soldati d’inverno.
Daniel si calò di nuovo giù nella cabina, appeso ad un cavo attaccato alla cintura. Con entrambe le mani afferrò Steve per il braccio sinistro, un attimo prima che l’ascensore precipitasse.
 
“Miseriaccia, non funziona.”
Collins aveva cercato di azionare il meccanismo di riavvolgimento del cavo, ma sembrava inceppato.
Rogers si dondolò per potersi aggrappare ad uno dei cavi metallici che correvano lungo la tromba e, a quel punto, Dan lasciò andare il suo braccio e lo imitò. Udirono distintamente voci e movimento provenire da parecchi metri più in basso, segno inequivocabile che i super soldati stavano già risalendo. Allora anche loro iniziarono la risalita.
 
Steve si concesse un istante di debolezza. Non aveva idea di dove fosse Bucky e sperava che stesse bene.
C’era di mezzo Lewis, questo lo aveva appurato. Perché avesse deciso di prendere di mira il Raft rimaneva un’incognita.
I suoi attuali problemi – grossi problemi e dove diavolo era finito il suo scudo? – furono improvvisamente offuscati. La sensazione che dita d’acciaio roventi gli stessero stritolando il polso sinistro lo colse del tutto alla sprovvista. A malapena fu in grado di tenersi al cavo. Senza alcun tipo di preavviso, un fischio acuto gli trapanò i timpani e immagini sfocate si sostituirono alla realtà.
“Qualunque cosa tu stia facendo, ti prego fa presto” fu l’unico pensiero che ebbe la lucidità di formulare e non si oppose, nemmeno per un istante, perché altrimenti l’avrebbe tagliata fuori.
Dopo un tempo che parve infinito, tutti gli stimoli estranei si spensero e con essi sparì anche il calore rovente arrampicatosi lungo il braccio. Si sentì svuotato. Esausto.
 
Anthea aveva incontrato l’interferenza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
È buio ed è un buio denso, tanto che è difficile perfino muoversi. Le sembra di essere sott’acqua e la pressione è schiacciante. Ma non si lascerà schiacciare. Ha imparato a resistere a quella pressione distruttiva.
L’oscurità si riempie di sussurri incomprensibili, parole che si intrecciano e si mescolano, perdendo di significato. È una cacofonia assordante e non riesce a comprenderla, non riesce a darle un ordine.
La percepisce. Lei è lì, da qualche parte, immersa nell’oscurità fremente. Vuole raggiungerla. Vuole salvarla.
La cacofonia si spegne e si tramuta in un mormorio quasi impercettibile. Stavolta riesce a distinguere e a riordinare le sillabe dolenti che riemergono dal silenzio imposto.
 
“Aiutami.”
 
La voce è flebile e tremula.
Qualcosa tintinna. Riconosce il suono. Lo ha ascoltato per anni, senza comprenderlo, il tintinnio delle pesanti catene che ha trascinato con sé per troppo tempo, prima di riuscire a liberarsene. Ogni tanto, le capita ancora di sentirlo.
 
“Ti prego. Fa male.”
 
È più vicina. Spinge lo sguardo attraverso l’oscurità. Intorno tutto trema, scosso da forze incomprensibili.
La vede. È così piccola, così fragile, così innocente. E ha paura. È terrorizzata. Le catene che la imprigionano sono troppo pesanti affinché possa sostenerle. La spezzeranno.
Tende una mano verso la piccola innocente, ma l’oscurità la avvolge e la risucchia nel proprio ventre.
Cerca di contrastarla quell’oscurità, di penetrarla. Non è in grado di dissiparla come suo padre ha fatto per lei, perché lei non è luce. Sono gli altri, coloro che la amano, a donarle la luce e lei può solo risplendere di riflesso.
Non riesce a contrastare quell’oscurità. Non riesce a penetrarla. Non è in grado di dissiparla. Tuttavia può accoglierla e farla sua. Così lascia che sia l’oscurità a penetrare in lei e smette di contrastarla.
Improvvisamente sta affogando. Dita lunghe sono avvolte attorno alle caviglie e la trascinano a fondo. Mani bollenti si aggrappano alle membra, ustionano la pelle, distruggono le terminazioni nervose, eppure il dolore non cessa. Il dolore cresce e si autorigenera, miete ogni altra sensazione e monopolizza l’anima, stringendola in un abbraccio indissolubile. L’anima vibra, trema, si contorce sotto il peso del dolore, ma non cade a pezzi.
 
È in grado di sopportarlo il dolore. Lo accoglie, come fosse un vecchio amico.
 
Riesce di nuovo a vederla, l’anima innocente che può ancora lasciarsi l’oscurità alle spalle e camminare su un luminoso sentiero. La piccola può ancora essere luce.
 
“Sono qui. Non avere paura.”
 
La raggiunge e la stringe a sé, in un abbraccio intenso e rassicurante. Non la lascerà andare. La salverà.
La convinzione che il cuore stia per implodere si trasforma in una scarica elettrica che coinvolge l’intricata rete di sinapsi palpitanti. Fa male. Il dolore si insinua nelle viscere e gli anelli roventi di una catena le circondano il collo e sembrano volersi fondere con la pelle, penetrando il sottile strato di carne. La catena attorno al collo stringe, ma non le importa. La bambina innocente non può sopportare il peso delle catene, perciò se ne farà carico lei.
 
“Fa male” pigola la piccola anima straziata.
 
“Lascia che sia io a prendere quel male. Abbassa le tue difese e permettimi di entrare.”
 
La lascia entrare. Il corpo brucia e il calore si converte in adrenalina che corre in arterie e vene. I polmoni si contorcono e le membra tremano. Fa male. Può sopportarlo.

 
 
 
 
 
 
Sollevò le palpebre e un così elementare movimento la prosciugò degli ultimi residui di energia. Rimase immobile, gli occhi rivolti al cielo buio, velato da un grigia cortina di fumo, oltre la quale riusciva a scorgere le stelle che palpitavano nell’oscurità.
 
Forse si era spinta oltre.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ti serve un minuto?”
 
Collins lo stava guardando con espressione parecchio preoccupata. Avevano raggiunto il terzo livello e nel farlo erano riusciti a mettere una certa distanza fra loro e i soldati d’inverno, guadagnando del tempo per riorganizzarsi. Anche se era strano che non li avessero già raggiunti. Si erano forse persi?
Il livello dell’acqua si era abbassato, perché parte di essa era scivolata all’interno della tromba dell’ascensore. Adesso erano immersi fin poco sopra le caviglie. Avevano superato il corridoio disseminato di cadaveri e stavano continuando ad avanzare senza una meta precisa.
 
“Non sono stanco.”
 
Lo era invece. Anche la resistenza di un super soldato aveva dei limiti e gli attuali avversari la stavano mettendo a dura prova. Inoltre, la sua amabile compagna non avrebbe potuto scegliere momento peggiore per tentare una connessione con lui. Le immagini che aveva visto erano apparse troppo sfocate per capire cosa stesse accadendo. Qualcosa – una scomoda sensazione – gli diceva che lei si era spinta oltre i limiti stabiliti e, suo malgrado, non ne era sorpreso. Sperò solo che lei se la stessa cavando meglio di lui.
 
“Cosa facciamo? Non riesco a mettermi in contatto con Bennet” lo informò Collins.
 
“Sto pensando.”
 
“Lungi da me farti pressione, ma dovresti pensare più in fretta.”
 
Il sibilo dell’aria che veniva tagliata raggiunse l’udito fine di Rogers, i cui riflessi gli permisero di afferrare al volo il suo stesso scudo in vibranio. Diresse lo sguardo verso il fondo del corridoio semibuio che stavano percorrendo. Un’ondata di sollievo portò via parte dell’opprimente tensione e Steve sorrise.
 
Bucky era lì.
 
Lo raggiunse. Lo scudo stretto fra le dita della mano sinistra era percorso da piccole gocce d’acqua. La lampada led sopra le loro teste si era fulminata. Erano all’interno di un cono d’ombra.
 
“Stai bene?” fu la prima cosa di cui volle accertarsi Rogers e cercò gli occhi del compagno.
 
Bucky però abbassò il capo e lo prese per le spalle, si aggrappò ad esse con quella che parve disperazione. Steve ignorò la stretta al cuore e fece per parlare, in modo da poterlo rassicurare e dirgli che sarebbe andato tutto bene, che lo avrebbe portato fuori da lì.
Le parole non vennero mai fuori. Il palmo di metallo finì premuto contro il suo viso e gli mozzò il respiro. L’impeto del violento gesto portò la nuca bionda a cozzare contro una parete del corridoio. I loro sguardi si incontrarono e Steve fu pugnalato dalle iridi gelide e inespressive del Soldato d’Inverno. Quegli occhi furono sufficienti a paralizzarlo.
 
Nonostante lo sgomento, Daniel cercò di fermare Barnes, ma la riluttanza lo rese vulnerabile al manrovescio dritto sulla mandibola che lo stordì tanto da spedirlo in un limbo fra coscienza e incoscienza.
Guidato dal solo istinto di sopravvivenza, Rogers infilò lo scudo nella giuntura del gomito di metallo e la morsa sul viso si aprì con uno scatto secco, consentendogli di riprendere a respirare.
Il Capitano scivolò via dalla parete e Il Soldato d’Inverno seguì il movimento, fronteggiandolo, pronto ad attaccare di nuovo.
 
Steve indietreggiò.
 
Il cuore martellava prepotentemente nel petto, mentre il ricordo dello scontro sull’Helicarrier riemergeva con spaventosa nitidezza. Non costringermi a farlo.
“Bucky fermati” lo implorò e cercò un qualsiasi segno che il suo compagno ci fosse ancora, sotto lo strato di nebbia.
James non parve nemmeno sentirlo e i lineamenti del viso non fecero che indurirsi, tesi da uno stato di distaccata concentrazione.
Steve indietreggiò ancora. Lasciò scivolare lo scudo dalla mano e quello affondò nell’acqua torbida. Un altro passo indietro e le spalle cozzarono contro un petto ampio e solido.
 
“Avevo aspettative più alte su di te” asserì la voce di Markov.
 
Il braccio destro dell’assassino gli circondò il collo e Steve lo artigliò con entrambe le mani, nel tentativo di scollarselo di dosso. Josef allora gli premette il palmo sinistro contro la nuca, bloccandogli la testa.
Di colpo, ogni singolo muscolo perse la tensione adrenalinica che lo aveva spinto a lottare fino a quel momento. La sensazione che stava provando lo riportò indietro nel tempo – una vita indietro – ad uno di quei tanti giorni in cui rimanere immobile era l’unica cosa che riuscisse a fare, privo di forze e sopraffatto da dolori dovuti ad un fisico troppo debole e cagionevole. Ricordava la rabbia e la tristezza. Ricordava il richiamo suadente della resa, ricordava la vocina che gli sussurrava di smettere di combattere, smettere di provarci, smettere di rialzarsi. Finché Bucky non arrivava a rimettere insieme i pezzi.
 
“Cosa gli hai fatto?” chiese Steve fra i denti.
 
Markov soffiò una risata fra i suoi capelli.
“Gli ho ricordato cosa è e qual è il suo posto. Diversamente da noi altri, è sempre stato malleabile, un perfetto burattino. Avanti, Soldat.”
 
“Bucky ti prego torna in te” lo scongiurò ancora Steve a mezza voce. Ma Bucky lo fissava senza vederlo.
 
Il Soldato d’Inverno venne avanti e gli piantò le nocche di metallo nel costato. Rogers ebbe a malapena la possibilità di gemere, perché Markov serrò maggiormente la stretta su di lui. La vista si oscurò totalmente quando il pugno sinistro di Bucky si abbatté violento sul lato del viso. Ne arrivò un secondo e poi un terzo. Steve non tentò nemmeno di proteggersi. Le braccia erano abbandonate lungo i fianchi.
 
“Non fermarti, Soldat” fu il secco ordine di Markov.
 
“Fino alla fine” sussurrò Steve, come se lo stesse ricordando a se stesso e non alla persona davanti a lui.
 
E Bucky esitò. Nello sguardo si accese una scintilla dai toni più caldi. Tale singola e debole scintilla aprì uno squarcio nel velo di nebbia che gli aveva ingrigito le iridi.
 
“Brama. Arrugginito. Diciassette.”
 
La scintilla si affievolì.
 
“Alba. Fornace. Nove. Benigno.”
Markov stava pronunciando parole che per Rogers erano sconnesse ed insensate, eppure per James si tramutarono in scariche elettriche sparate dritte al cervello.
 
“Ritorno. Uno. Vagone merci” pronunciò ancora il super soldato.
 
Sul viso di Bucky tornò distaccata concentrazione e perfino la più sottile inclinazione emotiva gli fu strappata via. Sfumò ogni esitazione.
Il Soldato d’Inverno serrò il pugno di metallo e le nocche seviziarono la debole barriera offerta dalla pelle e fecero vibrare le ossa.
 
“Non era così che avevo immaginato di affrontarti.”
 
La voce tremava a causa del dolore e le gambe erano malferme. Collins cercò di mostrarsi impavido, ma la verità si trovava all’estremo opposto. La parte destra del volto era ricoperta di sangue che veniva giù dalla tempia e dall’attaccatura dei capelli scuri. Perfino la sclera dell’occhio era diventata rossa ed erano visibili i sottili capillari rotti. Non era stata una grande trovata gettarsi sulla traiettoria del braccio di metallo senza innalzare alcuna difesa. A sua discolpa, poteva affermare di non aver avuto alternative valide. Era già al limite delle proprie forze e non aveva idea di come fosse riuscito a sopravvivere fino a quel momento. Il semplice fatto di essersi rimesso in piedi e aver corso fin lì era stato un’impresa colossale. In realtà, un’altra cosa era riuscito a metterla in pratica e, arrivato a quel punto, doveva solo fare un ultimo sforzo. Essere sottovalutati poteva risultare un grosso vantaggio a volte.
Mezzo giro su se stesso lo portò faccia a faccia con Steve e incontrò il suo sguardo vacuo. Daniel si aggrappò alle braccia di Markov con entrambe le mani, un attimo prima che le dita fredde di Barnes lo afferrassero per il retro del collo e lo tirassero via.
L’acqua non attutì molto l’impatto con il pavimento e si risollevò tossendo, mentre continuava a contare alla rovescia. Non si mosse quando James venne nella sua direzione e nemmeno quando Steve lo pregò di allontanarsi.
 
Zero.
 
Barnes si irrigidì, sopraffatto da una scarica elettrica ad alta intensità che si diramò a partire dal fianco sinistro, dove Collins aveva fissato un piccolo dispositivo circolare che ora lampeggiava di una luce gialla. Poco dopo, lo stesso led si accese sul braccio destro di Markov e anche lui fu colto da violente convulsioni, che finirono in parte per coinvolgere anche Rogers.
 
Sotto gli occhi di Dan, i tre super soldati si accasciarono a terra, schiavi di dolorosi spasmi muscolari.
 
“Scusami, Steve.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il risveglio fu traumatico. Riprese coscienza nel pieno del processo rigenerativo che stava ricostruendo interi strati di pelle carbonizzati dalle fiamme. Non appena i muscoli terminarono di autorigenerarsi e tornarono a supportare le ossa, si alzò in piedi. Era fottutamente doloroso e non era abituato al dolore. Però lo conosceva bene il dolore, lo aveva visto prendere possesso di un numero considerevole di corpi.
Essere in grado di sopportare il dolore e non temerlo poteva rendere un individuo pericoloso, potente, persino inarrestabile. Per questo aveva fatto in modo che Anthea imparasse ad accogliere il dolore e a trasformarlo in forza.
Più grande era il dolore, più grande era la forza che la sua bambina sprigionava e la prova ce l’aveva dinanzi agli occhi, si estendeva per centinaia di metri. Anthea aveva incenerito qualsiasi cosa – vivente e non vivente – si trovasse nel raggio di almeno mezzo chilometro, compresi tutti i soldati che erano rimasti appostati fuori dalla base.
Adam si mosse fra le ceneri. Brandelli di vestiti si erano fusi con la pelle ancora ustionata. La trovò, stesa sulla schiena, ricoperta di cenere e sangue, gli occhi sbarrati rivolti al cielo e il respiro accelerato. Ora che la foresta intorno alla base era stata spazzata via, la pallida luce della luna che penetrava la cortina di fumo poteva rischiarare il buio della notte. Il tenue chiarore rendeva visibili le fibre muscolari scoperte delle braccia e dell’addome della ragazza e Lewis attese di vedere il processo rigenerativo attivarsi e riparare i danni. Ma non accadde.
 
“Perché?” c’era rabbia nella voce dell’uomo ed incredulità.
 
Anthea distese le dita della mano destra, che aveva testardamente tenuto strette in un pugno tremante. Sul palmo giaceva un candido pezzo di stoffa, sporco di terra e sangue. Lewis lo riconobbe.
 
“Cosa hai fatto?”
 
L’oneiriana si sforzò di sorridere. Gli angoli della bocca furono scossi da tremiti quasi impercettibili. Una lacrima scivolò dall’occhio destro e le segnò la guancia imbrattata di sangue e cenere.
Lewis rimase immobile, la sua ombra le oscurava parte del viso. Non poteva finire così, i piani non erano quelli. Non doveva andare così.
 
“Cosa hai fatto?” domandò una seconda volta.
 
“Cenere alla cenere” fu la flebile e sola risposta che ottenne da lei.
 
L’aria venne scossa da una corrente calda. Il vento erose il corpo di Anthea e, quando Adam cercò di afferrarlo, si ritrovò ad affondare le mani nella cenere.
Colto da un moto di panico, si guardò intorno con frenesia. Non c’era traccia di Eta.
 
“Signore! Dobbiamo andare!”
 
Lewis si era accorto a malapena dell’arrivo dei suoi uomini, quelli rimasti vicini ai mezzi di traposto e abbastanza lontani da non essere inceneriti.
Il rumore di un elicottero in avvicinamento li fece agitare maggiormente e Adam si lasciò trascinare via da lì.
 
Aveva appena perduto le sue insostituibili armi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La gelida pioggia lo aiutò a tornare vigile. Dalle punte dei capelli scivolavano rivoli di acqua, alcuni dei quali erano insozzati da sfumature rossastre.
 
“No, ti prego.”
 
Il battito cardiaco subì una brusca accelerazione e Daniel provò vero e proprio sconforto. Tutta la fatica fatta per arrivare sulla sommità della prigione, con il solo obiettivo di chiedere supporto ai loro compagni, si era appena rivelata vana. Il loro jet giaceva sulla piattaforma di atterraggio, mezzo distrutto. Un secondo jet era invece in volo e sembrava pronto a partire.
Rogers fece scivolare Barnes giù dalle proprie spalle e lo stese a terra con attenzione. “Rimani con lui” disse e Collins annuì, per poi guardarlo correre in direzione del jet precipitato, incurante della pioggia battente, del forte vento, della presenza del velivolo nemico e dello stato in cui era ridotto.
Il Capitano sollevò e piegò pezzi del jet ricorrendo ad ogni brandello di forza ancora in suo possesso. Non si fermò finché non riuscì a raggiungere Bennet e la Stewart.
 
“Tu. Me la pagherai.”
 
Daniel si voltò indietro e, di nuovo, il cuore prese a scalpitare con un’insistenza quasi dolorosa.
Markov era lì ed era visibilmente incazzato. Si era ripreso troppo velocemente, nonostante gli avesse lasciato addosso altri due di quei dispositivi ad alto voltaggio. Un uomo normale sarebbe morto almeno un paio di volte – se fosse stato possibile morire più di una volta.
Daniel si frappose fra l’assassino e il corpo privo di sensi di Bucky, anche se al momento non si sentiva molto sicuro nel dare le spalle al Soldato d’Inverno. Il Capitano, d’altro canto, stava ancora tirando fuori i loro compagni dal velivolo. Doveva guadagnare tempo.
 
‘Respira. Concentrati. Non farti sopraffare dalla paura’ si ripeté Dan, poco prima che Markov lo attaccasse.
 
Mantenere la calma era arduo quando faticava perfino a capire da dove arrivassero gli attacchi, distruttivi e precisi. Markov sapeva dove colpire per rompere gli equilibri, spezzare il fiato e mandare in tilt il sistema nervoso. Dan ci provò con tutte le forze che aveva in corpo a resistergli. Fece uso di ogni tattica appresa e perfezionata. I colpi inferti non ebbero alcun effetto, mentre ogni colpo subito gli fece vibrare pericolosamente le ossa e, ancor prima che fosse in grado di rendersene conto, si ritrovò in ginocchio boccheggiante, le braccia strette attorno allo stomaco. Era stremato e sull’orlo della disperazione.
 
L’attenzione di Markov deviò.
 
“Perché non vieni a rivalutare le tue aspettative?” lo invitò Rogers, che li aveva raggiunti appena in tempo.
 
Markov non se lo fece ripetere una seconda volta e iniziarono a darsele di santa ragione, grondanti di acqua. Lottando, si spinsero vicendevolmente verso il bordo della piattaforma. Un lampo improvviso illuminò a giorno il cielo e il rombo del tuono fece vibrare l’aria. I due super soldati a malapena lo notarono, troppo concentrati nel cercare di farsi a pezzi.
Lo scontro era equilibrato e rimase tale fino al momento in cui Rogers premette in modo brusco le mani sulle tempie e serrò le palpebre. Markov non si preoccupò di chiedersi cosa stesse accadendo al suo avversario e sfruttò l’occasione per spingerlo carponi.
 
“Ti dispiace se ci fermiamo qui? Io sono a corto di tempo e tu sei finito.”
 
Il jet nemico scese di quota. La rampa era abbassata e Darya era in piedi su di essa, in attesa.
Josef agguantò Steve per i capelli, lo tirò in piedi senza sforzo e lo trascinò a ridosso del bordo della piattaforma. Un noto scatto metallico raggiunse l’udito fine dell’assassino che, rapido, spostò la presa sul collo del biondo e lo costrinse ad indietreggiare finché non fu sospeso nel vuoto, sopra l’oceano infuriato.
 
“Uccidimi e lui verrà con me.”
 
“Giuro che troverò il modo di farti a pezzi” fu la promessa che ricevette dal Soldato d’Inverno.
 
“Parole grosse per uno che non è in grado di opporsi ad un insulso lavaggio del cervello” gli ricordò Markov, la voce impastata di tagliente ironia. “Getta l’arma” ordinò.
 
Barnes lasciò cadere la pistola che aveva stretta nella mano destra. Fissò le iridi tornate limpide sul viso contratto di Steve e scorse sollievo dietro il velo di sofferenza. D’istinto, tentò di avvicinarsi.
 
“Non lo farei se fossi in te” lo avvisò l’assassino e le sue dita scavarono solchi più profondi sulla gola già martoriata che tenevano saldamente.
 
“Lascialo andare” berciò James, colto da un moto di rabbia e panico mischiati insieme.
 
“Attento a quello che chiedi.”
Markov girò il capo per poter guardare Barnes e sbattergli in faccia un ghigno sarcastico.
 
Una distrazione.
 
Rogers slanciò le gambe in avanti e si aggrappò con forza al braccio che lo teneva sospeso. Il movimento lo riportò sulla piattaforma, più precisamente sopra Markov, caduto sulla schiena.
L’assassino reagì istantaneamente, cercando di tornare in piedi, e l’impeto con cui lo fece fu deleterio per entrambi i super soldati, perché finirono per oltrepassare il bordo della piattaforma. Si aggrapparono l’uno all’altro, perché nessuno dei due aveva intenzione di finire a fondo da solo.
 
Bucky si era mosso il più velocemente possibile, ma non era riuscito a raggiungere Steve in tempo. Allora, senza alcuna esitazione, lo seguì.
 
 
 
 
Dan vide Rogers e Markov cadere nel vuoto. E vide Barnes lanciarsi dalla piattaforma.
Non fu in grado di fare niente. Il corpo, rannicchiato in posizione fetale, si rifiutava di muoversi. Era inerme sotto la pioggia scrosciante, torturato da una dolorosa morsa allo stomaco.
 
Una ordinaria missione di soccorso si era appena trasformata in una disastrosa disfatta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Note
 
Un grazie sentito a tutti coloro che sono giunti fin qui ❤️
Il frammento iniziale è estratto dalla canzone “Monsters” degli Shinedown.
 
Un abbraccio,
 
 
Ella
   
 
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