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Autore: CedroContento    15/09/2022    2 recensioni
[Thilbo Bagginshield]
"Ricominceremo da capo, chiaro; siamo masochisti, quasi speriamo che la volta dopo le cose saranno diverse.
Potrebbero, perché no?
Allora, se siete pronti, riavvolgiamo tutto ancora una volta."
Sulla scia degli eventi del film "Lo Hobbit", questa fic racconta la storia d'amore che vorrei.
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bilbo, Gandalf, Thorin Scudodiquercia
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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“Ah! Era così bella mentre ammazzava gli orchi, con quei suoi lunghi capelli rossi che ondeggiavano sospinti dal vento. Sembrava danzasse. È stato lì che l’ho capito, che una così dovevo sposarmela.”
 
Kili
 

Ebbero un gran bel da fare a tirare Bombur fuori dal ruscello in cui era caduto, e non solo perché era il nano più grosso di tutti, ma anche perché dovettero fare attenzione a non toccare l’acqua, finendo addormentati a loro volta. 
Nonostante svariati tentativi, non ci fu modo di strappare il nano al suo sonno; di lì in avanti avrebbero dovuto trasportarlo di peso.
 
Sfiniti, affamati - soprattutto affamati - e di umore sempre più nero, presto i nani cominciarono a litigare tra loro per delle banalità. Più di una volta Thorin fu costretto ad alzare la voce per riportare l’ordine nella compagnia. 
 
“Ci stiamo mettendo troppo,” commentò il Principe dei nani, dopo aver sedato l’ennesima rissa. “Questa maledetta foresta sembra non avere mai fine,” sbottò, sull’orlo della frustrazione. 
 
Bilbo annuì, cercando un modo delicato per comunicare a Thorin che secondo lui ormai si erano belli che persi, perché la verità era quella.
 
Lo hobbit alzò lo sguardo sul cielo che gli sarebbe piaciuto poter almeno scorgere lì in alto, ma che era del tutto coperto dalle chiome scure e fitte degli alberi. Sentiva di avere un bisogno disperato di aria. Se soltanto avesse potuto volare fin lassù, avrebbe potuto respirare liberamente, e magari ci avrebbe capito qualcosa su dove si trovassero. 
 
La foresta doveva avere fine, solo che l’unico modo per orientarsi in cui potevano sperare ormai era avere una visuale dall’alto. 
Bilbo pensò che se fosse stato necessario sarebbe stato disposto ad arrampicarsi su ogni singolo albero di quel maledetto bosco pur di trovare la via d’uscita da quel labirinto.
 
Lì, in alto.
 
L’istinto prese il sopravvento sui suoi pensieri, e Bilbo si ritrovò ad attuare l’idea ancora prima di essere del tutto consapevole di averla avuta.
 
Con un’occhiata veloce, studiò il tronco più vicino, per vedere se poteva fare al caso suo. Decise di sì e cominciò la scalata. 
 
Ansioso com’era di rivedere la luce del sole, non si premurò neppure di avvisare gli altri del suo piano e, concentrato sul suo obiettivo, quasi non si accorse della grande quantità di spesse ragnatele che aveva attorno che gli si appiccicavano ai vestiti e alle dita, costringendolo a fermare la sua scalata per scuotere le mani e liberarsene. Continuò a salire senza lamentarsi anche quando le braccia cominciarono a dolere. Di guardare giù non se ne parlava, quello non osava farlo. 
 
La prima boccata di aria fresca, quando la sua testa sbucò dal tetto di foglie, fu una benedizione. Il cielo sopra la sua testa - il cielo, Bilbo aveva quasi dimenticato quanto fosse bello e immenso! - era tinto di rosso. Il sole era basso, stava tramontando ad ovest, e lo hobbit dovette sbattere gli occhi diverse volte prima di abituarsi alla luce, accecante, dopo tutto quel tempo passato nell’ombra. 
 
Finalmente gli parve di poter tornare a respirare libero. E lo spettacolo che aveva attorno era di una bellezza sconvolgente: centinaia di farfalle - forse disturbate dalla sua presenza - volteggiavano sbattendo delicatamente le ali nere, sembravano fatte di seta. Erano Imperatrici Nigre, riconobbe lo hobbit, che un pochino se ne intendeva.
 
Un’infinita distesa di foglie rosse, gialle e arancioni - i colori dell’autunno - si estendeva per quelli che valutò essere chilometri. Ma non in ogni direzione: ad est Bilbo poteva intravedere nitidamente le acque di un lago, brillanti alla luce del sole calante. Non aveva più dubbi, aveva trovato la fine della foresta. 
 
“Vedo il lago!” urlò, anche se non sapeva bene rivolto a chi. “Vedo il lago!” urlò ancora a pieni polmoni, questa volta sporgendosi verso il basso. 
 
Ma dai nani, da sotto, non arrivò alcuna risposta.
 
 
Thorin aveva detto a Bilbo di non credere nella sfortuna. Eppure, ora stava pensando che fosse una bella sfortuna che lui e l’intera compagnia si fossero ritrovati rinchiusi nelle segrete degli Elfi Silvani. Oppure era stata una fortuna, visto che quegli stessi li avevano salvati dal diventare il pranzo di quei mostruosi ragni giganti; e a finire nelle loro pance ci erano andati vicino, terribilmente vicino. 
 
Con un sospiro rassegnato, Thorin sì appoggiò ad una delle pareti di roccia umida della sua prigione. Era stata premura di Thranduil riservare a lui e a lui solo la cella più profonda e oscura, separata dal resto dei suoi amici. 
Dal sovrano del Reame Boscoso, comunque, Thorin non si sarebbe aspettato niente di meno. Aveva già avuto modo di sperimentare di che pasta fosse fatto, molti anni prima. 
 
Thranduil gli aveva offerto il suo aiuto in cambio di alcune gemme - così prevedibile -, attualmente sepolte ad Erebor e di inestimabile valore per gli elfi. Quelle stesse gemme che il Re degli Elfi Silvani riteneva i nani dovessero restituire al suo popolo, come non aveva mancato di puntualizzare. 
 
Tuttavia, Thorin aveva rifiutato l’accordo in malo modo, senza nemmeno prendere per un istante in considerazione la proposta. Non gli interessava un bel niente di una manciata di stupide gemme elfiche, beninteso, era un’altra la questione che ancora gli bruciava: Thranduil aveva perso la sua fiducia quando era avvenuta la catastrofe, quando il drago aveva attaccato la montagna, e la fiducia di Thorin era una cosa che difficilmente si guadagnava, e che una volta tradita considerava impossibile da riconquistare. 
 
Non credeva a una singola parola di Thranduil, non credeva che avrebbe mai mantenuto le sue promesse; quell’individuo era privo di ogni onore. 
 
Quando dopo l’attacco di Smaug, senza dimora, affamati e stremati, i nani erano andati a cercare il suo aiuto, Thranduil glielo aveva negato. Per mero capriccio, il Re del Reame Boscoso avrebbe lasciato morire di stenti un intero popolo. Thorin non era disposto a perdonare e tanto meno era disposto a prendere accordi con lui dopo quello che aveva fatto.
 
“Resta qui se vuoi, e marcisci,” lo aveva condannato il figlio di Oropher, una volta che Thorin gli aveva detto cosa poteva farsene della sua proposta. “Cento anni sono un mero battito di palpebre nella vita di un elfo. Io sono paziente, posso attendere”. 
 
Ma anche Thorin era sicuro di potersi permettere di attendere, e se Thranduil credeva che avrebbe passato il tempo della sua prigionia tormentandosi nel rammarico per averlo insultato, sbagliava di grosso. Non erano le minacce vuote e pretenziose dell’elfo ciò a cui Thorin continuava a pensare, ma una cosa che gli aveva chiesto frettolosamente Bofur, mentre - dopo essere stati minuziosamente perquisiti e disarmati dagli elfi - venivano trascinati via in catene. 
“Dov’è Bilbo?” 
 
Quella domanda aveva acceso la speranza nel cuore di Thorin. Era Bilbo quella speranza. 
 
Lo hobbit sarebbe riuscito a tirarli fuori di lì. Forse gli ci sarebbe voluto del tempo, ma avrebbe trovato il modo, prima o poi. Questo perché Bilbo era diverso da Thranduil, Bilbo non avrebbe mai abbandonato nessuno, non avrebbe mai abbandonato lui. Ed esserne così certo, pensandoci, lo terrorizzava a morte. 
 
 
La speranza su cui Thorin contava arrivò con un bisbiglio, una notte di tre giorni dopo, poco prima dell’alba. 
 
“Pssst, Thorin…” 
  
“Mastro Baggins!” esultò il nano balzando in piedi, mentre un mazzo di chiavi tintinnava nel buio e la serratura della porta scattava con un rumore secco.
 
“Sono io,” confermò lo hobbit. 
 
Non appena Bilbo lo ebbe liberato, Thorin lo prese tra le braccia e, al colmo della gioia, lo sollevò in aria facendolo volteggiare. Si rammaricò di non riuscire a vedere bene il suo volto nell’ombra. Se ci fosse stata più luce avrebbe probabilmente notato il rossore che colorava le sue guance. 
 
“Non ho dubitato un solo istante che saresti venuto a liberarci,” disse, riappoggiando un imbarazzatissimo hobbit di nuovo a terra, ma tenendolo ancora tra le braccia. “Come hai fatto ad entrare?”
 
“Sarei uno Scassinatore davvero di poco conto se non fossi nemmeno in grado di intrufolarmi nelle segrete di una fortezza elfica blindata e ben sorvegliata giorno e notte,” replicò Bilbo, senza dare tuttavia una vera spiegazione. 
 
“Non sei decisamente ‘di poco conto’ sotto nessun aspetto, mio caro mastro Baggins”. 
 
Mentre Bilbo balbettava una qualche risposta, Thorin aguzzò la vista per cercare di distinguere qualcosa dal punto in cui si trovavano. Non troppo distante riusciva a distinguere la luce calda e tremolante di quella che doveva essere una fiaccola.  
 
Dopo averla cercata a tentoni, afferrò saldamente la mano di Bilbo e cominciò ad avanzare cautamente lungo il corridoio della segreta in direzione della fiamma. Il rischio che lì ci fosse una guardia era alto, ma dovevano correre il rischio, non c’era scelta. 
 
“Dove sono gli altri?” chiese distrattamente, mentre i suoi sensi all’erta erano pronti a captare la presenza di chicchefosse. 
 
“Ai livelli superiori. Non so perché ti hanno rinchiuso qui giù. Ci ho impiegato parecchio a trovarti”. 
 
Raggiunsero un secondo corridoio e la luce che avevano intravisto senza che nessuno li ostacolasse. Thorin staccò la torcia dal suo supporto, almeno non avrebbero più dovuto brancolare nel buio. Senza contare che ora poteva vedere il suo dolce hobbit. 
 
“Thranduil non nutre troppa simpatia per i nani, e ce n’è uno che non gli va a genio in particolare,” spiegò a Bilbo, che annuì con un’espressione adorabilmente seria e non indagò oltre. 
 
Per un lungo istante, Thorin non poté fare a meno di ammirare la persona speciale che aveva davanti e che giorno dopo giorno era in grado di sorprenderlo. Quasi senza pensarci, appoggiò una mano sotto la sua guancia e lo tirò delicatamente a sé, ad un palmo dal suo viso. Fu forse in quel momento che, per la prima volta, seppe davvero dare un nome all’emozione che sentiva nella pancia. 
 
“In questi giorni ho avuto modo di guardarmi attorno,” sussurrò Bilbo, totalmente deconcentrato, guardando le sue labbra al posto dei suoi occhi. “Tutte le porte sono sorvegliate o sigillate, ma credo di aver comunque trovato un modo per uscire. Anche se non sono certo ti piacerà.”
 
Thorin prese nota con un certo piacere della tensione del suo corpo, del modo in cui la sua voce si era incrinata.
 
“Mi fido,” mormorò. 
 
 
“Io là dentro non ci entro!” protestò Gloin indignato, scuotendo con disappunto il capo davanti ai barili che, spinti attraverso una botola, avrebbero rappresentato il loro biglietto di sola andata per l’uscita. 
 
“È una follia!” rincarò Ori. 
 
“Vi prego, non c’è altro modo,” insistette Bilbo.
 
“Io non penso nemmeno di entrarci,” brontolò Bombur. 
 
Sull’orlo di una crisi di nervi, lo hobbit represse un urlo di frustrazione. Essere a stomaco vuoto da giorni lo metteva di pessimo umore, poco incline a portare pazienza per la cocciutaggine dei nani e il fatto che trovassero da ridire su qualsiasi, davvero qualsiasi, cosa. E questo senza considerare che gli stavano facendo perdere un mucchio di tempo prezioso, neanche a dirlo. 
 
Quelli appena trascorsi erano stati tre giorni terribili per Bilbo. Aveva vagato incessantemente, in solitudine e protetto unicamente dalla magia dell’anello, per il palazzo del Re di Bosco Atro, alla ricerca di un modo per tirare fuori tutti loro da quella sciagurata situazione. In qualche occasione era riuscito a sgraffignare qualcosa da mangiare, ma era sempre terrorizzato dall’idea di essere scoperto. Nelle lunghe notti solitarie, quasi non aveva osato chiudere occhio per riposare, tanta era la paura. 
 
La tentazione di abbandonare i nani però non lo aveva mai sfiorato - anche se lo tentava in quel momento, eccome se lo tentava - anche quando era riuscito a guadagnare l’uscita attraverso i cancelli principali. Semplicemente aveva realizzato che non era in grado di farlo. Anche se, prima che gli si presentasse quell’opportunità, si era quasi arreso ed era stato lì lì per andare a cercare Gandalf. 
 
Ma poi la fortuna aveva girato a loro favore. L’occasione che Bilbo aveva pensato di sfruttare non si sarebbe ripetuta tanto presto: la maggior parte degli elfi si trovava ai piani superiori del palazzo, dove si stava tenendo una festa, mentre il capo della guardia - l’elfo che avrebbe dovuto sorvegliare le prigioni e i nani, in particolare - aveva pensato bene di brindare assieme al maggiordomo per consolarlo del fatto che loro due fossero costretti a lavorare mentre gli altri si divertivano. I due avevano rubato qualche coppa di vino del Dorwinion, un pregiato vino prodotto dagli Elfi del Sud e destinato al Sovrano, di cui però avevano sottovalutato l’elevato tasso alcolico. 
 
Con il carceriere fuori gioco e le guardie assenti, non era stato troppo difficile per Bilbo sottrarre un mazzo di chiavi. E ora i nani avevano via libera per darsi alla fuga, prima che qualcuno capitasse lì da basso per caso, li vedesse e desse l’allarme. 
 
Se solo quegli zucconi avessero collaborato! 
 
“Fate come dice,” disse Thorin, con un tono che non ammetteva repliche, e che infatti non ne incontrò.
 
Controvoglia - mettendoci molto più tempo del necessario, notò Bilbo stizzito - i nani cercarono e si infilarono ciascuno in un barile vuoto.
 
Gli elfi, aveva osservato e origliato lo hobbit, facevano scivolare i barili vuoti, che avevano contenuto vino e altre mercanzie, in un ruscello sotterraneo, facendoli trasportare dalla corrente fino a Lago Lungo, dove venivano raccolti dagli uomini che abitavano sul lago. 
 
Una volta che i barili furono sistemati sulla botola con i nani dentro, Bilbo azionò la leva per spalancarla sul torrente. Con una serie di tonfi secchi i barili impattarono sulla superficie mossa dell’acqua e, una volta che si furono bilanciati, cominciarono a scorrere via, trascinati dalla corrente. Li osservò allontanarsi nel buio, pregando di non aver condannato tutti ad una fine orribile per annegamento.
 
Fu solo in quel momento che dovette decidersi ad affrontare una o due questioni che aveva deliberatamente scelto di ignorare, ovvero che: primo, non sapeva nuotare; secondo, lui non si trovava in un barile! Aveva rimandato così a lungo quel problema che ora rischiava di essere troppo tardi. 
 
Con lo stomaco in gola, prima che la botola avesse modo di richiudersi, Bilbo ebbe la prontezza di afferrare una botte e, reggendocisi, lanciarsi in acqua. Come avrebbe fatto ad infilarsi lì dentro sarebbe stata una questione che avrebbe affrontato dopo. 
 
Ma a lo hobbit fu chiaro fin da subito che aveva fatto un grave errore di valutazione riguardo alla forza della corrente e da quanto poco desse spazio di fare altro se non cercare di non farsi trascinare sotto dal suo impeto. Nel panico le sue gambe scalciarono alla disperata ricerca di un fondo, che però non trovarono. Non avrebbe mai avuto il coraggio di lasciare la presa dal suo barile, figurarsi tentare una manovra per saltarci dentro. 
 
Le prime volte che la violenza del fiume lo sommerse furono le peggiori. Terrorizzato, annaspò, affamato d’aria, mentre veniva sbalzato su e giù, dentro e fuori dell’acqua gelida e scura. 
 
Presto la vista gli si offuscò, mentre tutto il suo sforzo era concentrato nel tenersi saldamente, e nel respirare, quando avvertiva la testa sbucare oltre la superficie. Non sempre riusciva ad inspirare per tempo e più di una volta al posto dell’ossigeno era l’acqua - con il suo pungente sapore ferroso - ad invadergli i polmoni, e allora tossiva violentemente. Fu solo la forza della paura più nera quella che gli permise di non lasciare la presa, nonostante i muscoli delle braccia bruciassero dal male. 
 
A tratti gli sembrava di capire qualcosa di ciò che vedeva: gli altri barili, da cui ora inspiegabilmente sporgevano i busti dei nani che urlavano e si agitavano; sagome indistinte sulla riva che lo inseguivano; frecce che volavano ad un pelo dalla sua testa. Gli parve anche di sentire qualcuno urlare il suo nome, forse era Thorin, forse era Balin, o poteva anche essere Fili. 
 
Lottò con tutto sé stesso nello sforzo di non perdere coscienza. Non avrebbe saputo dire quanto durò quell’agonia. Non sapeva dov’era, sapeva a malapena chi era, se non qualcuno che si aggrappava alla vita, così vicina a scivolargli via. Quella era una dolorosa, netta consapevolezza: se avesse mollato sarebbe annegato. 
 
 
“BILBO!” 
 
C’era qualcuno che urlava disperatamente il suo nome. La voce, così dolcemente familiare, lo strappò dalla semincoscienza in cui era sprofondato.
 
“BILBO!” 
 
Udì lo scroscio placido del fiume che ora scorreva più dolcemente, il ritmico ondeggiare del barile a cui ancora era miseramente aggrappato; doveva essersi incagliato da qualche parte, perché sentiva il legno stridere contro la pietra, lentamente, avanti e indietro. 
 
“BILBO!” 
 
Schiuse gli occhi e cominciò a riprendere percezione del proprio corpo. Era stremato, tutto un dolore, completamente fradicio, e stava congelando. 
 
“Bilbo…” 
 
Si sentì afferrare, e le braccia calde e sicure che lo avvolsero ebbero il potere di persuaderlo a staccare senza timore le dita intorpidite dal suo appiglio. Erano le braccia di Thorin quelle che lo stringevano? 
 
“Bilbo, stai bene? Dimmi che stai bene,” gli chiese quello che era, senza più alcun dubbio, Thorin. 
 
“Sono vivo,” concesse, con un filo di voce. 
 
Thorin rise di sollievo: “Sei vivo!” 
 
Sotto alla guancia, ad occhi chiusi, poteva sentire il cuore del Principe dei nani battere all’impazzata, e per un po’ nel mondo di Bilbo non esistette che quello, aveva bisogno che esistesse solo quello. Fino a quando Thorin non lo scostò, solo appena: “Ho avuto paura di averti perso…”
 
Il resto accadde in un battito di ciglia: Thorin indugiò con la mano sul suo viso, la fece scorrere tra i suoi capelli, fino alla nuca. Lo tirò a sé e premette le proprie labbra sulle sue, per poi ritrarsi, ma senza fretta.
  
Anche ripensandoci in seguito, lo hobbit non riuscì mai a capire se Thorin fosse veramente consapevole di averlo baciato, era stato appena un istante. Qualche volta, Bilbo arrivava a dubitare perfino fosse veramente accaduto, perché poteva benissimo averlo anche solo sognato. Sì, forse era stato solo un bellissimo sogno.
   
 
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