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Autore: Neamh Moonstar    18/09/2022    0 recensioni
Il rumore al di fuori divenne simile a quello di passetti strisciati e stentati, seguito a ruota da sussurri e risatine leggere. Non sapendo che altro fare, Julian afferrò la prima cosa che si ritrovò davanti - il bicchiere ora vuoto del caffè - e si avvicinò all'ingresso della biblioteca a passo felpato. Rompere un bicchiere in testa a qualcuno non era una delle cose che si sarebbe immaginato di dover fare durante una nottata di lavoro, ma casi d'emergenza richiedono misure estreme.
Così, con la guantata mano tremante, afferrò la maniglia della pesante porta di legno - ora priva dell'intricata serratura che la bloccava in tempi normali - e la aprì con un unico, forzato, movimento del braccio che rese l'azione molto più goffa di ciò che si era figurato. Alzò la mano "armata" pronto a colpire, ma si bloccò dopo essersi ritrovato davanti l'ultima persona che si sarebbe mai aspettato di vedere.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Asra Alnazar
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il silenzio e la polvere si adagiavano dolcemente sugli scaffali, accompagnati dalla quiete. Il sole era tramontato da un po', lasciando il posto ad una placida e serena notte stellata. A guardare il cielo - limpido, blu e violetto - quasi non si sarebbe detto che altro non era che la cupola di una città in rovina, mangiata da un male rosso sangue che sgattaiolava tra le vie e i canali sottoforma di lucidi scarabei scarlatti. Colpi di tosse diventavano rivoli di sangue, semplici influenze si trasformavano in febbri alte e deliranti, il corpo veniva scavato e sclere lattiginose si tingevano dello stesso caratteristico bordeaux che ormai Julian credeva di vedere ovunque, come un incubo o un fantasma che vagava ai bordi della sua coscienza.

Aveva passato chissà quanto tempo a cercare qualcosa che potesse fermare la Peste Rossa, ma tutti i suoi appunti e tutti i suoi ragionamenti andavano a finire in un buio, profondo e metaforico buco. Inutile dire che ciò andava poi ad assottigliare la già inesistente pazienza del conte, ora ridotto ad una logorata, seccante e pallida figurina immersa nelle - guardacaso - rosse lenzuola del suo letto. Certo, avere a che fare con Lucio era molto peggio del ritrovarsi chiusi nella biblioteca del palazzo a trapanarsi il cervello in cerca di una cura, perciò non avrebbe dovuto lamentarsi.

Con uno sbuffo, alzò la testa dalla scrivania per uscire dallo stato di torpore misto disperazione in cui era caduto. Si staccò con noncuranza il foglio che gli era rimasto appiccicato alla guancia - ora decisamente sporca di inchiostro - e stirò le lunghe braccia magre. Che razza di disastro doveva sembrare, pensò, con le già evidenti occhiaie ora ben disegnate sotto agli occhi e i capelli ramati più scombinati che mai. Dormire non era un opzione ma il caffè nero, per fortuna, sì; perciò non doveva fare altro che versarsene ancora e tornare a lavoro. Ormai era quella la sua routine: lavoro, boccata d'aria, crollo di metà pomeriggio con conseguente senso di colpa e possibili sgridate spaccatimpani da parte del conte, caffè, lavoro, altro caffè, lavoro e così via fino a notte fonda.


Fu proprio quando andò ad afferrare la tiepida caraffa piena di liquido scuro alla sua destra che sentì degli strani rumori provenire dall'esterno.

I capelli dietro al collo gli si rizzarono e un brivido gli percorse la spina dorsale. Non c'era mai nessuno nei corridoi a quell'ora - se non lui e il suo plumbeo stato d'animo, ovviamente. I servitori staccavano a mezzanotte e le guardie erano sempre appostate alle entrate principali apposta per fermare chiunque non fosse autorizzato ad entrare. In poche parole: qualcosa non andava e lui non era armato - non che non fosse capace di tirare un calcio spettacolare e ben assestato all'occorrenza, ma le notti insonni lo avevano reso poco incline a certi atti di autodifesa improvvisata.

Il rumore al di fuori divenne simile a quello di passetti strisciati e stentati, seguito a ruota da sussurri e risatine leggere. Non sapendo che altro fare, Julian afferrò la prima cosa che si ritrovò davanti - il bicchiere ora vuoto del caffè - e si avvicinò all'ingresso della biblioteca a passo felpato. Rompere un bicchiere in testa a qualcuno non era una delle cose che si sarebbe immaginato di dover fare durante una nottata di lavoro, ma casi d'emergenza richiedono misure estreme.

Così, con la guantata mano tremante, afferrò la maniglia della pesante porta di legno - ora priva dell'intricata serratura che la bloccava in tempi normali - e la aprì con un unico, forzato, movimento del braccio che rese l'azione molto più goffa di ciò che si era figurato. Alzò la mano "armata" pronto a colpire, ma si bloccò dopo essersi ritrovato davanti l'ultima persona che si sarebbe mai aspettato di vedere.


    «Asra?!» Esclamò in un sussurro che comunque riuscì a riecheggiare nel corridoio.

Il giovane mago davanti a lui sembrava essere appena passato in mezzo ad un uragano. I suoi caratteristici capelli bianchi parevano una nuvola con la nausea, gli occhi viola erano nascosti dietro un velo trasparente ed acquoso che li rendeva lucidissimi anche al buio e dalla sua spalla, oltre alla sciarpa, penzolava la piccola Faust - il serpentello bianco che amava "abbracciare" Julian a tradimento - ora più simile ad uno spaghetto scotto che al famiglio pieno di vita di sempre.

    Sul volto bronzeo di Asra si dipinse un'espressione di sorpresa, subito seguita da una risatina: «Ciao Ilya» salutò, la bella voce ora vagamente graffiata ed incerta, «sei un guastafeste. Volevamo farti una sorpresa».

Faust fece saettare la linguetta biforcuta un paio di volte prima di tornare a penzolare come una liana al vento.

    In tutta risposta, Julian sbarrò gli occhi, il braccio ancora alzato: «Mi hai fatto venire un colpo!» Disse, ancora cercando invano di non far rimbombare la sua voce tra le pareti del palazzo. Subito dopo, la realizzazione lo colpì in pieno: «Aspetta, hai bevuto?»

Avrebbe riconosciuto quel modo di fare dovunque: lui stesso si era ritrovato in quello stato dopo svariate pinte di birra - nonostante l'esperienza e certe compagnie lo avessero reso abbastanza resistente all'alcool. Aveva persino scoperto come la sbornia potesse essere divertente se non si contavano gli effetti collaterali. Ma mai avrebbe pensato che uno come Asra potesse ridursi in quello stato... Come al solito, il suo improbabile collega aveva il magico - letteralmente magico, probabilmente - dono di sorprenderlo anche solo esistendo.

    Dopo essersi fatto serio per una frazione di secondo, Asra riprese a ridacchiare senza freni: «Chi? Io?» Chiese, spalla contro lo stipite della porta, «sì? No? Forse». Fece un solo, traballante passo verso la stanza e subito iniziò a cadere in avanti.

Con uno scatto, Julian protese le braccia verso di lui per afferrarlo e fece cadere il bicchiere al suolo. Il vetro si frantumò in mille pezzi, inondando l'area attorno a loro e dicendo definitivamente addio ai tentativi di mantenere la pace e il silenzio. Ma il dottore non ci fece nemmeno caso, troppo occupato ad arrossire alla vista del mago ora afflosciato come un sacco vuoto su di lui.

    Asra continuò a ridere, iniziando ad arrampicarsi sugli abiti neri di Julian in un disperato tentativo di rimettersi in piedi: «Scusa» disse cercando di passarsi una mano sugli occhi e sbagliando completamente la mira, «mi sa che abbiamo svegliato mezza corte». Mentre parlava, alzò il volto, piantò le iridi in quelle grigie dell'altro e sorrise con gli occhi mezzi socchiusi, come faceva sempre quando qualche pensiero dispettoso gli ronzava per la testa.

Tanto bastò a colorare di porpora la pelle pallida di Julian, il quale si ritrovò a dover sorreggere il compagno per evitare che facesse un frontale con il suolo. Quello era l'effetto che Asra aveva su di lui: bastava una sfiorata, un ricciolo bianco contro la sua guancia, uno sguardo ben assestato per mandargli il cervello in brodo di giuggiole. C'era qualcosa in quell'aspetto esotico, in quei movimenti fluidi e placidi che faceva cadere le difese che Julian cercava in tutti i modi di tenere salde attorno a sé. Ogni sua sicurezza crollava in una pioggia di detriti di fronte a quel volto dai leggeri riflessi dorati: era stato così dal momento esatto in cui si erano conosciuti, e le sensazioni si erano evolute man mano che lavoravano assieme.


    «S-si può sapere che cos'hai combinato?» Balbettò il rosso, iniziando a manovrare le sue braccia in modo da sostenere Asra e raccogliere Faust allo stesso tempo. «Pensavo fossi tornato a casa». Una volta recuperata la bestiolina, la poggiò su una poltrona dove la vide torcersi pigramente su sé stessa.

    «Volevo tornarci, giuro» mormorò il mago aggrottando le sopracciglia. Il suo sguardo si perse per un attimo, poi cadde su Faust e le sue distintive fossette gli decorarono le guance: «Non attorcigli- non attorcir- sennò domani si ritroverà tutta annodata. Credimi, è già successo».

Si mise a mormorare frasi sconnesse su ciò che, secondo la sua mente annebbiata, erano stati gli eventi della serata. Julian riuscì a capire poco o niente, così si concentrò nel portare quel peso morto e chiacchierone verso la pila di cuscini e coperte che Asra stesso aveva buttato in un angolo della biblioteca perché fossero il suo "studio" - anche se "angolo pisolini" sarebbe stato un nome più adatto. Adagiarlo sembrava già un'impresa.

    «Va bene, mettiti giù adesso» disse con un filo di voce. Deglutì ed iniziò ad abbassarsi, azione che venne prontamente interrotta.

Asra prese la richiesta alla lettera e iniziò a tuffarsi tra le morbide stoffe sotto di loro. Nel farlo, usò quel poco di agilità che gli rimaneva per afferrare il bavero di Julian e tirarlo giù con sé.

Atterrarono l'uno sopra all'altro.

Julian si ritrovò naso a naso con Asra e sentì un'ondata di brividi di piacere prendere il sopravvento. Per mezzo secondo ringraziò quella posizione compromettente - dal momento che, se fossero stati in piedi, il latte alle ginocchia lo avrebbe portato a prostrarsi di fronte a quel volto furbo e arrossato. Avrebbe voluto dire qualcosa, così per rompere il ghiaccio, ma le parole gli morirono in gola.

    Fu il mago a parlare per lui: «Dovresti vedere la tua faccia, Ilya» sussurrò, buttandogli le braccia attorno alle spalle, «mi ricordi quella sera al negozio».

La sera che si era evoluta in una notte di fuoco. Oh, come dimenticarla? Era stata inebriante, bellissima e dolorosa: una serie di baci, ferite e morsi nati forse dalla disperazione, forse dal desiderio, ma in fondo che importava? Era successo, e ora Julian non poteva far altro che ripensarci intanto che il suo respiro si mescolava a quello di Asra. Erano di nuovo loro due soli, avvolti nel silenzio della notte e da una coltre di buio, le loro labbra a pochi millimetri le une dalle altre.

Ingoiò un nodo che gli si era formato in gola e prese a combattere con il pensiero che stavolta non poteva permettersi di arrivare a tanto, non con Asra in quello stato. Doveva ancora capire cosa lo avesse spinto fino a quel punto ma, soprattutto, doveva capire perché avesse deciso di venire proprio da lui dopo essersi ubriacato a puntino.

Fece per chiederlo, davvero: era arrivato quasi al punto di strattonare le parole fuori dal suo cervello imbambolato, ma fu troppo lento. Fu una cosa reciproca, una spinta involontaria - forse - che li portò a baciarsi.


In un attimo, tutto sparì. Non c'era più il palazzo, né Vesuvia, né Lucio che si lamentava, né la Peste... C'erano solo quelle belle e morbide labbra contro le sue, quei movimenti che - seppur non genuini - lo aiutarono a dimenticare tutto per un attimo e a scaricare la tensione. Era stato così anche quella volta, quella in cui avevano fatto l'amore nel negozio: si erano persi l'uno nell'altro alla ricerca di un sollievo effimero che però era bello, anzi stupendo, anzi una droga di cui Julian sapeva di non poter fare a meno senza impazzire al tocco di quelle mani cariche di meraviglie. Se si concentrava, poteva ancora sentire i profumi delle spezie e delle erbe che inondavano la casa di Asra, il tutto mescolato nell'acre odore del suo stesso sangue.

Quando si divisero, lo fecero solo per prendere fiato. Stavano commettendo un altro bellissimo errore, ma nessuno dei due sembrava intenzionato a fermarsi.

    Julian scosse debolmente la testa: «Domani te ne pentirai. Lo sai, vero?» Disse, segretamente sperando che Asra iniziasse a mordergli avidamente un labbro.

    Quest'ultimo fece spallucce, combattendo a stento contro un'altra risata incontrollata: «Me ne sono pentito anche l'ultima volta, ed ero completamente sobrio». Detto ciò, afferrò con meno forza del normale il ciuffo ramato dell'altro e lo tirò in un altro lunghissimo bacio.

Lunghissimo e affamato.

Julian ci sarebbe volentieri morto in mezzo a quella guerra. Lui e Asra si separarono spesso per poi ritrovarsi, i suoi tentativi di afferrargli la vita perché potesse girarsi e poggiarselo al petto vennero tutti interrotti da unghie ben affondate e morsi ben piazzati. Ogni tanto apriva gli occhi per scorgere dei leggeri brillii scivolare, ubriachi anch'essi, dalle magiche dita di Asra: una cosetta adorabile che aveva notato già la prima volta e che contribuiva a rendere il tutto più simile ad un sogno dal quale non voleva svegliarsi.

Il tutto andò avanti per tanti, dolcissimi minuti scanditi dai loro corpi che strisciavano e si abbarbicavano l'uno sopra all'altro. Si ritrovarono i vestiti divelti da veloci e poi abbandonati tentativi di spogliarsi, i capelli sparsi in ciuffi rossi e bianchi, scombinati da carezze e prese ferree.

Poi, così com'era iniziato, finì.


Julian si staccò a seguito di un singhiozzo che, come un fulmine a ciel sereno, scosse il corpo di Asra. Quando lo guardò, vide due grosse e pesanti righe di lacrime scendere lungo le morbide guance dell'altro. Gli stupendi occhi viola in cui si sarebbe perso per ore si erano improvvisamente fatti velati, solcati da un mare in tempesta, carichi di tristezza e disperazione.

Se prima non era riuscito a smettere di ridere, ora Asra sembrava intenzionato a non smettere mai di piangere.

    Inebetito, preoccupato ed imbarazzato, Julian si scostò subito da lui, aiutandolo a sedersi grazie ad un forte e sicuro braccio dietro le spalle. «Asra? Che ti prende?» Chiese, allungando appena la mano libera verso quel volto distrutto. Avrebbe voluto asciugare una ad una tutte le lacrime, ma la situazione improvvisa lo aveva riportato alla realtà così velocemente da lasciarlo insicuro e incerto.

Asra si limitò ad affondare la faccia tra il suo collo e il suo petto, facendo scendere tanti rivoli caldi lungo i punti nudi del compagno. L'unica cosa che il dottore poté fare fu circondare goffamente quella figurina singhiozzante e tremante che solo un attimo prima lo aveva rivoltato come un calzino. Approfittò di quei secondi per calmare i battiti incessanti del suo cuore, strofinando la schiena di Asra in tanti movimenti circolari. Non sapeva bene cosa stesse succedendo, ma non si sarebbe mai sognato di lasciare il suo mago solo su quella giostra di emozioni - non quando lui stesso era solito affrontare la sua senza il supporto di nessuno.

Fu Asra stesso a staccarsi appena per crollare nuovamente tra i cuscini senza mai smettere di lacrimare. Il suo sguardo si perse tra le decorazioni del soffitto e per un attimo parve quasi lucido, come se l'ubriachezza fosse svanita magicamente.

    Julian lo guardò a lungo, aspettandosi una parola, un commento, una spiegazione che non venne mai. Deglutendo, capì che avrebbe dovuto prendere in mano le redini della situazione; così, facendosi un pelo più vicino, sussurrò: «Vuoi dirmi cosa ti è successo, adesso?»

Forse non si meritava di essere la spalla su cui Asra stava piangendo, anzi, tolse subito il "forse". Ma di nuovo: non poteva lasciarlo annegare nelle sue stesse lacrime, così attese pazientemente che l'altro si aprisse.

    I singhiozzi del mago si placarono appena, lasciandolo debole e tremante. Poi, in un sussurro, la risposta ruppe il silenzio: «Ho perso l'amore della mia vita».


Quelle parole colpirono il petto di Julian come un'ondata di frecce. Si sentì impallidire, come se tutto il suo sangue avesse deciso di abbandonarlo per andare a fluire tra le fughe del pavimento. Sbarrò gli occhi e smise di respirare intanto che un crescente senso di colpa iniziava a rosicchiarlo.

Se solo lo avesse saputo... Non si sarebbe mai permesso di- non avrebbe mai-

    «Asra, io-» mormorò, ora troppo imbarazzato per guardarlo. Avrebbe voluto urlare che gli dispiaceva, che non poteva saperlo, che non aveva mai avuto intenzione di colmare un vuoto sicuramente incolmabile, non voleva approfittarne... Intanto che cercava di capire cosa fare e cosa dire, il suo sguardo volò alla scrivania ancora piena di libri e appunti. Per la seconda volta quella notte, la realizzazione lo fece sobbalzare e la sua bocca si mosse da sola: «È stata la Peste».

Non era una domanda: sapeva che era andata così. Difatti, quando tornò a guardare Asra, lo vide annuire e passarsi nervosamente le braccia sugli occhi.

    «Ed è per questo che hai accettato di... Cioè, è per questo che sei venuto ad aiutarmi» affermò poi, ricevendo un'altro energico e disperato segno di assenso in risposta.

    «È stata tutta colpa mia» singhiozzò Asra. «Mi sento come se mi avessero spezzato il cuore in due».


La Peste si era portata via tantissime persone. Quando la città si era fatta troppo piccola e i cimiteri troppo stretti, era stato costruito il Lazzaretto. Poi, quando il Lazzaretto si era fatto troppo piccolo e troppo stretto, erano state costruite le fornaci. Il fumo nero che circondava l'isolotto a largo delle coste di Vesuvia era diventato prassi, ormai, tanto da confondersi con le nuvole. Le spiagge stesse di quel luogo erano ormai più ceneri che altro; una distesa di polvere che una volta era stata viva e vegeta: un marito, una moglie, un partner, un figlio, una nonna, un'amante... Sogni, amori e speranze andavano a morire laggiù e nulla era ancora stato capace di fermare tutto ciò.

E Julian lo sapeva meglio di chiunque altro, non solo perché ora il destino di coloro che erano rimasti gravava sulle sue spalle, ma anche perché...

    «Ho perso qualcuno anche io» mormorò. «E sai qual'è la parte migliore? Ero talmente tanto occupato a sbattere la testa contro la scrivania che me ne sono accorto troppo tardi». Un sorriso amaro gli ruppe il volto intanto che andava a ripescare ciò che aveva tanto cercato di sotterrare perché non gli facesse troppo male. Aveva pianto anche lui - tanto e molto a lungo - lasciando che le sue lacrime andassero a rovinargli gli appunti. Le buone intenzioni e il suo stesso lavoro sembravano remargli contro; ciò che cercava di combattere intanto ne approfittava, togliendogli il terreno sotto i piedi.

    Asra gli rivolse un triste sguardo di compassione: «Mi dispiace, Ilya».

Assurdo. Dopo tutto ciò che era successo e tutto ciò che era trapelato, il primo ad offrire una parola di supporto era stato colui che era venuto a cercarlo.

    Julian scosse la testa: «No, cioè. Dispiace anche a me per te e per... Beh, tutto» incespicò, cercando di non sembrare il perfetto idiota che era.

Il mago si fece scappare una mezza risata. Poi, in una transizione fluida e innaturale, il suo volto si corrugò di nuovo e tornò a piangere. Se c'era una cosa buona dell'alcool, era che ti faceva buttare fuori tutto ciò che tendevi a lasciar marcire dentro: lacrime, dolore, rabbia, frustrazione... Non era un bel vedere e nemmeno una cosa bella da provare, ma era una via di fuga - e Julian amava le vie di fuga, soprattutto quelle impervie e pericolose.


Senza sapere che altro fare, il rosso si alzò e andò a recuperare la piccola Faust dalla poltrona. La sollevò delicatamente e andò a poggiarla sul petto di Asra, lasciando che scivolasse pigramente alla ricerca di una sistemazione. Il mago gli aveva spiegato il particolare e inusuale legame che c'era tra lui e la creaturina: una delle poche cose che ricordava chiaramente era il senso di pace e completezza che provavano nell'aversi l'uno accanto all'altra.

    In effetti, una volta ricevuto il suo famiglio, Asra parve rilassarsi appena. Passò amorevolmente una mano lungo la testolina di Faust e aggrottò le sopracciglia: «Guardala, poverina. Mi dispiace averla ridotta così».

    Julian sorrise, afferrò una delle tante coperte sparse in quell'angolo di biblioteca e gliela stese addosso: «Allora sarà bene che inizi a riposare. Quando inizierai a stare meglio, inizierà a stare meglio anche lei... Sempre se ho capito come funziona».

    Asra sorrise a sua volta: «Sei tu il medico: dovresti essere tu a farmi stare meglio.»

    «Sei tu il mago: potresti anche far sparire la sbornia con qualche parolina» sogghignò il rosso, sapendo bene che "la magia non funziona così".

    A prova che non era completamente in sé stesso, l'altro si soffiò via un ricciolo dalla faccia con aria pensosa: «Mh, potrei provare. Ora come ora penso che rischierei di far sparire il palazzo chissà dove, però.»

    «Se facessi sparire Lucio, sappi che non mi dispiacerebbe».

Si misero a ridere, genuinamente stavolta. Smisero solo quando Asra irruppe in uno sbadiglio, facendo pizzicare nuovamente le guance di Julian.

    «S-su, vai a dormire» balbettò quest'ultimo. «Per fortuna, sei con un esperto della sbronza: domani ci penserò io a te» affermò poi, cercando di recuperare un po' del suo solito fare scherzoso.

    L'altro si raggomitolò e gli rivolse un tono di miele: «Grazie, Ilya» fu tutto ciò che riuscì a dire prima di addormentarsi con le guance ancora rigate di lacrime.

Con una delicatezza disarmante, Julian gliele asciugò e si rimise in piedi, dettandosi una lista mentale di cose da preparare per contrastare i postumi dell'indomani: acqua fresca, frutta e magari anche un po' del tè che ad Asra piaceva tanto con una buona cucchiaiata di miele. Erano le cose che Mazelinka preparava per lui quando tornava dalla taverna più fuori di un balcone, perciò sapeva per certo che avrebbero funzionato alla grande.

Si soffermò per qualche istante sul volto ora placido dell'altro e per un attimo rimuginò su quanto dolore e quanto senso di vuoto aveva dovuto provare per andare ad annegare i suoi dispiaceri nell'alcool.


Non succederà più, si disse andando di nuovo a scandagliare i fogli sulla scrivania.

Altro che Lucio e le sue maledette lamentele. Se doveva mettere fine a quel morbo, lo avrebbe fatto solo perché così nessuno avrebbe sofferto per la perdita dei propri cari. Non sapeva chi fosse stato così incredibile da rubare il cuore di quel mago dal fare misterioso e sbarazzino, né conosceva il contesto attorno a tutta quella storia, ma non importava. Avrebbe trovato una soluzione a costo di schiacciare ogni scarabeo rosso di Vesuvia, a costo di essere spedito nei sotterranei come il conte aveva già spesso e volentieri minacciato di fare.

Tristemente, tracciò con un dito la calligrafia tonda ed ordinata che alle volte affiancava la sua: ciò che rimaneva della persona che aveva lasciato scivolare via a sua insaputa.

Sarebbe stato attento, stavolta.

Aveva una missione da compiere, in fondo, e l'avrebbe compiuta a qualsiasi costo.

   
 
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