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Autore: Gaia Bessie    28/09/2022    1 recensioni
Le domanda: ma non lo volevi anche tu, amare per essere amata, una ballata senza stonature, un cavaliere in armatura e tutte quelle cose lì?
Margaery sorride, ha una cicatrice frastagliata sul petto, lì dove dovrebbe trovarsi il cuore: certo che no, commenta piano, non sono mica sciocca – è cresciuta nella bambagia cotonosa di Altogiardino, ma mai nessuno è stato così folle o ingenuo da inculcarle che sia giusto e sensato, avere dei sogni. O, meglio, va bene sognare: potere, ricchezza e influenza (tutte le cose che puoi ottenere, ha sussurrato suo padre mentre le metteva la corona in testa, tutte cose che avrai).
[Sansa/Margaery, Sansa/Sandor. Accenni di Sansa/Loras e Margaery/Joffrey]
Partecipa all'iniziativa "Cinque fette di torta alla melassa" indetta sul gruppo Facebook "L'angolo di Madama Rosmerta".
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Joffrey Baratheon, Margaery Tyrell, Sandor Clegane, Sansa Stark
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza
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Aggiorno lampo, questa storia avrà una fine e l'avrà in fretta, sappiatelo.
Spero vi piaccia,
Gaia

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Ha cercato d’insegnarle la prudenza, l’obbedienza, la perseveranza – tutte le virtù di un cane ma lei, che nasconde frammenti d’acciaio di Valyria dietro i denti di porcellana, ha detto di no: che c’è un modo di essere perseverante che Sandor sembra non conoscere, ed è l’amore.
Ma lui ci sputa sopra, a quel suo amore sprecato, lo calpesta e lo tira via come macchia appiccicosa sotto ai calzari. Ha cercato di insegnarle l’arte di accontentarsi, che forse Sansa Stark potrà ancora sognare l’amore, ma anche nei sogni devi venire a patti con il fatto che non tutto è raggiungibile, ottenibile, che. Che nasci lupa e muori cagna e, per quanto Sandor Clegane provi a fingere un cuore di cristallo, ha sempre pietra dura a cingergli le costole al posto delle vene e delle arterie.
 
Parte seconda: Fante di pietra

 
[Cold]
 
Sansa Stark sente sempre freddo – o, almeno, è quel che dice per mascherare i brividi che le scuotono le vertebre al passaggio del sovrano di Westeros: si avvolge nel mantello come se fosse abbastanza per assicurarle che, questa volta, non le si spaccherà la pelle sotto quell’inverno che inizia a gattonare verso il Sud.
Gioca con il mantello drappeggiato sulle spalle e le dita che tremano lungo i bordi di quelle spine disegnate sul dorso delle carte da gioco. La regina, che si rimpicciolisce e accartoccia come foglia secca giorno dopo giorno, vince – tutto quello che non ha saputo vincere in vita sua.
I Tyrell hanno scommesso due volte e due volte di troppo e, adesso che la giovane Margaery prega tutti gli Dei (antichi, nuovi, inventati) di regalarle una pace che duri più di qualche secondo, adesso scoprono che di tutti gli azzardi il secondo re Baratheon è stato il peggiore. La regina madre, capelli color oro che fanno a pugni con una tiara che non indosserà mai più, gongola silenziosamente sulla scia della crudeltà del suo primogenito: dice che non c’è pace, Cersei Lannister, dice che non c’è pace perché la coscienza sporca è sempre inquieta. Perfino la sua.
Pensa di poter mettere su l’armatura e combattere quelle battaglie che le sono state precluse dal suo essere donna, pensa che la perdita di Jaime le basti per giustificare quell’attentato continuo che fa alla propria vita (e a quella degli altri).
La regina di rose che, sulle mani ha cicatrici come spine disegnate, china il capo quando mormora le proprie preghiere, sapendo che non contano niente – né quelle per sé, né quelle per gli altri: Sansa Stark aspetta la propria mano fortunata anche quando gioca a carte con la propria ombra ma, il giorno in cui Joffrey Baratheon la chiama nuovamente al proprio cospetto, si rende conto che la fortuna funziona esattamente così. Ovvero non funzionando mai.
Con il re che la guarda, il sorriso che gli trafigge il viso come una cicatrice inutile, uno sfregio in un viso troppo affascinante per quell’uso improprio che ne sta facendo: sia quel che sia, pensa Sansa piegandosi all’ennesima riverenza, me lo merito per essermi fidata.
«Mia signora, alzati pure» commenta Joffrey, gioviale. «Ti domanderai perché ti ho ammessa alla mia presenza, nonostante il tradimento di tuo fratello».
Imperdonabile – non che abbia tradito: Sansa che è egoista e poco nobile, ma non perdonerà mai Robb per non aver vinto. Che prometti quello che puoi mantenere e, suo fratello, aveva promesso la testa del bastardo dei gemelli Lannister sulla picca ancora sporca del sangue degli Stark.
Ma Robb Stark non è vissuto abbastanza a lungo da conoscere il gusto della vittoria e la noia della pace, non ha potuto vedere i suoi figli nascere, crescere, qualcuno morire un po’ troppo giovane (come lui), qualcuno arrivare all’età adulta e via di nuovo. Robb Stark non è vissuto abbastanza per potere salvare quel che i Lannister hanno preservato, come una concessione, della sua famiglia.
E anche sé stesso.
«Ne sono onorata, maestà» sussurra, a capo chino – una colata di sangue. «Non merito di essere oggetto della vostra attenzione, ma rimango la vostra umile serva».
Un latrato, sommesso, quasi inudibile: Sandor Clegane soffoca un accenno di risata, il viso contratto lungo la cicatrice, nel sentire quelle parole – canti una bella canzone, le ha detto, ma non è vera: pensi che tutte quelle trine servano a qualcosa, uccelletto, pensi che ti salveranno la vita?
Lui, la vita, gliel’avrebbe salvata se solamente lei avesse avuto abbastanza coraggio per dirgli di sì. Anche se aveva dovuto domandarselo, se fosse questione di coraggio, se fosse questione di prendere e andare via perché non era così codarda da preferire rimanere in un inferno che non avrebbe dovuto comprenderla.
E si era risposto, perché a un certo punto aveva sentito l’esigenza pietrosa e gelida di una risposta, che se Sansa Stark non s’era avvolta in un mantello (il suo, macchiato di sangue) per fuggire da Approdo del Re, allora, era semplicemente perché non aveva voluto farlo e il difetto non era nel coraggio ma nella volontà. Sandor Clegane aveva ringhiato, latrato – convincerla, mai – ed era tornato sul campo di battaglia pensando che, forse, è meglio ardere vivi in guerra che sotto lo sguardo incerto di un uccellino di carta di riso.
Glielo vorrebbe chiedere, vedendola tremare nel vestito azzurro cielo, vorrebbe domandarle cos’è che ha cambiato, sopravvivere in una gabbia rivestita di spine e cocci di vetro. Crede, a ragione, che la giovane lupa non saprebbe cosa rispondergli (se non che avrebbe dovuto scegliere di andare via con lui).
«Vedi, mia signora, fatico perfino a chiamarti per nome» commenta Joffrey, tagliente, appollaiato sul trono paterno. «Ogni volta che devo rivolgermi a te diviene evidente quel che di sbagliato c’è in te: la tua famiglia».
Lei non risponde – vorrebbe urlare: che fa freddo, che gioca a carte su un roseto spinoso solamente per scoprire che la regina, che si professa sua migliore amica, bara con il mazzo pur giocando contro una giovane lady priva di fortuna e chissà che altro.
«Non vi offenderei mai» sussurra Sansa Stark, in un singhiozzo. «Nemmeno con il mio nome».
«Credo che sia ora di trovarti un marito, lady Stark» quel nome pare un insulto, pronunciato dalle labbra di un re troppo biondo di doratura scrostata per il nome che porta. «Non sei di nessuna utilità, finché porti il nome di tuo fratello».
Così sia – è quello che lei dice, muovendo a malapena le labbra, così sia per quest’esistenza un poco sprecata a cui Sansa s’è condannata da sola il giorno in cui ancora faticava a rendersi conto che non è amore tutto quel che riscalda (e c’è l’inverno che corre lungo i pendii delle colline e ti sta raggiungendo, bambina, cala l’asso finché sei in tempo).
E Sandor Clegane, nel vederla voltare appena il collo nella sua direzione, magari senza nemmeno sapere che lui è lì a guardarla, si domanda se non possa prenderla come quella che non è. Una richiesta di aiuto, pari pari a quel mantello che non gli ha mai restituito.
«Mi sono consultato con il Consiglio, e con la mia regina» prosegue il re di Westeros, diverito. «La mia diletta Margaery aveva proposto suo fratello, ser Loras».
E magari sarai felice, bambina, che alla fine tutte le tue preghiere sono state ascoltate (o, almeno, buona parte): che forse te la daranno, una briciola della felicità che sognavi quand’eri bambina, o l’altrieri, che magari riuscirai per davvero a fuggire via di qui. Ma c’è un re crudele, che spine non ne ha ma lame più affilate a circondargli il corpo anche quando non siede sul trono, che ti guarda e non sembra disposto a concederti un desiderio luminoso come una lucciola agonizzante.
Sei spigolosa come una stella che è inciampata nella volta celeste e, adesso che ti guardo mentre preghi a labbra serrate, lo so: che ti sei graffiata da sola nel tentativo di affilarti gli artigli e, adesso che il gelo ti entra dentro da quegli squarci su pelle troppo sottile, a cosa serve sperare?
C’è un re che ti guarda e la corona non lo rende regale la metà di quel che dovrebbe essere, ma paura te ne fa lo stesso.
«Ne sarei onorata, maestà».
«Infatti, lo penso anche io» conviene Joffrey. «Ma che onore potrà avere, la figlia di un traditore e la sorella di un altro? No, mia signora, non ti permetterò di macchiare l’onore della famiglia della mia regina».
Si vede la sua speranza sgonfiarsi e frantumarsi come una sfera in vetro soffiato quando l’artigiano non è abbastanza esperto e, quando Sansa Stark abbassa lo sguardo sulle proprie mani tremanti per scoprire che i cocci sono ancora tutti lì, incastrati tra le dita e l’anima.
«Tuttavia» prosegue il re, sorridendole con finta dolcezza. «Per il rispetto che ti porto, ho deciso di concederti la libertà di scegliere».
Non si stupisce nel vederla spalancare gli occhi, voltarsi a cercare lo sguardo di Margaery Tyrell (stanca, stanca, stanca) o di sua grazia, la madre del re: ma la giovane regina sta fissando un punto indefinito davanti a sé, gli occhi quasi trasparenti, annebbiati dai giorni che ha trascorso come moglie di Joffrey Baratheon, e non dice niente.
E nemmeno dovrebbe stupirsi di scorgere un sorriso stiracchiato sul bel volto di Cersei Lannister, il capo eretto come se stesse ancora reggendo una corona, nel sentire quelle parole crepare l’aria come un sospiro: sua grazia, la madre del re, ma niente di più. Ha combattuto per tutta la propria vita con il suo dover essere madre, moglie, donna – ha fallito.
Jaime Lannister non si trova da nessuna parte, ostaggio, fuggitivo, un niente su una strada infinita: se ne sente la mancanza, quando alla sera Cersei si trova a fare il conto della sua situazione, di chi potrebbe salvarla dall’essere per sempre nulla di più che la madre del re.
Suo padre, il grande Tywin Lannister, ha scosso il capo con aria stanca e le ha detto: impara a essere donna, Cersei, non sei fatta per il comando.
Tyrion Lannister, un borbottio di sottofondo nella quieta corte di re Joffrey, trama nelle ombre, tesse, scuce, ricuce trame per salvare Westeros dal proprio stesso sovrano – e da lei.
«Di scegliere, maestà?» Sansa non comprende, cerca un indizio, un suggerimento negli sguardi vuoti di chi la circonda. Non trova niente.
«Discutendo con mio nonno, il Primo Cavaliere di sua maestà, abbiamo notato che la guardia reale si è fatta… affollata».
Sansa Stark ha un terremoto che le sta spaccando le ossa – Sandor Clegane, privato del mantello bianco da quel re che avrebbe voluto tradire, la vede incespicare sui propri piedi nel tentativo di non crollare sulle ginocchia davanti al trono di spade.
«Credo che nessuno dei miei cavalieri si sentirebbe eccessivamente offeso dal prenderti in moglie» continua il re, quieto. «Avevo proposto il mio nobile zio, Lord Tyrion, ma mi rendo conto che sarebbe degradante, per lui, abbassarsi a prendere in moglie una Stark».
Ridono tutti – lei no, lei lo guarda come se avesse in mano le redini della sua esistenza (e le ha) nel momento in cui finalmente alza lo sguardo e incontra il ghigno soddisfatto di Joffrey Baratheon.
«Quindi, alla fine, ho pensato che sarebbe coerente darti in moglie a qualcuno che sia come te» soffia il sovrano, assottigliando lo sguardo. «Le cagne ai cani, non trovi, mia signora?».
È in quel momento che Sansa Stark si volta, gli occhi azzurri congelati in un blocco di gelo traslucido, guardando dritto di fronte a sé – Sandor Clegane ricambia quello sguardo, quieto, ma anche lui ha sorpresa ghiacciata bloccata in gola.
E Joffrey Baratheon ghigna, serafico, nell’osservare lo sconcerto dell’ultima Stark rimasta in vita: non ride, non ne ha bisogno. Il silenzio che tiene legata Sansa Stark in un fiocco fatto di spine e petali di rosa è abbastanza per ferirla mortalmente.
«Scegli».
Quella sera, quando Sansa Stark dovrà camminare per le stanze della regina Tyrell tenendo il mantello stretto attorno al corpo per trattenere le ultime briciole di calore attorno a sé, si renderà conto che è una serie di ultime volte. E si siederà di fronte a Margaery, che nemmeno proverà a rivolgerle un sorriso che sia vero e non una scheggia di vetro in un ornamento di cristalli spezzati, tra i capelli, spine sul dorso delle mani a ricordarle che ha scommesso Altogiardino e adesso è tutto sterpaglia e fiamme inestinguibili.
Una partita molto veloce.
Regina di spine batte fante di pietra (ha perso la spada e pure l’onore, tra le rocce), Sansa Stark sospira e si domanda se abbia fatto la scelta giusta.
   
 
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