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Autore: Aru_chan98    10/11/2022    2 recensioni
Italia ha sempre aspettato il ritorno del suo primo amore, sperando di rivederlo presto ma man mano che i mesi passavano cominciò a pensare che fosse inutile aspettare, finché non incontrò un ragazzo tedesco assomigliante al suo primo amore. Basterà il loro amore per guarire tutte le ferite del passato?
Genere: Drammatico, Song-fic, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A broken heart is all that's left (Un cuore infranto è ciò che resta)
I'm still fixing all the cracks (Sto ancora aggiustando tutte le crepe)
Lost a couple of pieces when (Ho perso un paio di pezzi quando)
I carried it, carried it, carried it home (L’ho riportato, riportato,
riportato a casa)

“Tornerà a casa?” pensava ogni giorno Feliciano, mentre i giorni passavano. Alle dipendenze di Austria tutti quegli anni ormai era familiare con tutti gli aspetti di quella vita, dalle pulizie al cibo terribile, dalle sfuriate musicali di Austria alle coccole di Ungheria. Alla presenza di Sacro Romano Impero, che sembrava quasi dare quel pizzico di colore in più alle sue giornate. Lui e i suoi goffi approcci di attirare la sua attenzione. Feliciano abbassò gli occhi sul secchio d’acqua con cui stava pulendo i pavimenti, sospirando, chiedendosi dove fosse adesso. Si erano scambiati una promessa, un bacio teneramente rubato, che si sarebbero rivisti. Negli anni che erano passati piano piano la sua voce era cambiata, i vestiti diventati troppo corti, le sue relazioni con le altre nazioni pure, al punto che aveva paura Sacro Romano Impero non lo avrebbe riconosciuto. “Tornerà a casa?” si chiedeva ancora e ancora, sentendo la preoccupazione annidarsi nel suo cuore ma sempre saldo nella convinzione che un giorno, si un giorno si sarebbero rivisti e avrebbe finalmente potuto dichiarargli tutti quei sentimenti che coi secoli erano cresciuti in lui, tutti quei pensieri e ridere di quelle paure. Se lo chiedeva, giorno dopo giorno.


Un giorno Austria aveva ospiti e ad Italia era stato ordinato di tenere pulito. Feliciano non ne era più di tanto contento: per quanto avesse paura di Francia e non lo volesse nel suo territorio, lo considerava comunque un cugino e un familiare al pari del suo stesso fratello e di suo nonno. Si sbrigò a fare le pulizie per quando la sua pigrizia gli permetteva, per poi passare alle varie commissioni che gli toccavano in quella tenuta. Mentre lavorava Ungheria lo vide e, allungandogli una lettera, gli chiede se poteva farle il favore di consegnarla ad Austria, essendo lei occupata in altre faccende. Arrivò in pochissimo davanti alla porta della sala dei ricevimenti di Austria, la sua solita aria allegra, il suo solito pensiero “Quando tornerà sarà felice di vedere come sono diventato utile” e stava per aprire la porta quando un rumore forte lo spaventò: qualcuno aveva battuto un pugno su un piano probabilmente. Feliciano si bloccò sulla porta.

“Was zur Hölle, Frankreich![1] Doveva essere una lotta intestina, non questo disastro! Spiegami cosa dovrò dire a Gilbert quando verrà in visita”
“Te l’ho detto Empire d'Autriche[2], le cose ci sono sfuggite di mano. Se devi dare la colpa a qualcuno dalla al vostro esercito per non essere stato in grado di battere il mio generale”

Un altro rumore forte, dopodiché si sentì una canzone suonata al piano. Feliciano le aveva sentite tutte in quegli anni (ed era in parte per quello che aveva preferito restare a casa di Austria invece che andare da Francia) ma quella era nuova per lui. Era ritmica, veloce e virtuosa come ogni volta che Austria si arrabbiava ma c’era qualcosa di diverso. Qualcosa di triste, come se oltre alla rabbia ci fosse anche dolore. Il ragazzo non si mosse dalla porta, intento a sentire quella melodia che stranamente sembrava risuonare col suo cuore, in particolare con quel sentimento di mancanza che lo accompagnava da quel lontano pomeriggio di primavera. Quando la musica finì mise una mano sulla maniglia, pronta ad entrare quando si bloccò da un'altra esclamazione a voce alta:

“Herr Napoleon poteva vincere anche senza coinvolgere mio cugino, du Idiot” e altre note scaturirono dal piano.
La mano di Feliciano si strinse più forte alla maniglia, mentre processava quelle parole. “Non è vero… Non può essere vero” pensò, cercando di tenere a bada la sua ansia. Si disse che forse aveva capito male, in fondo non parlava molto bene né tedesco né francese, doveva essere un malinteso. Quella musica gli impediva di calmarsi però, sapendo bene che più Austria era furioso più la sua musica era elaborata. Aprì di scatto la porta, il suo cuore ormai in allarme.

“È successo qualcosa a Sacro Romano Impero?” domandò, la preoccupazione lampante nella sua voce. Quel sentimento era così forte da battere la sua paura e riverenza per le altre due nazioni. Austria smise di suonare non appena Feliciano entrò, rivolgendogli un’espressione amara, senza spiccicare parola. Anche Francia, che di solito non perdeva tempo a vantarsi delle sue conquiste belliche o creare subbuglio nella stanza, stranamente taceva. Feliciano li guardò entrambi, odiando quel silenzio. Francia gli andò incontro, facendolo sobbalzare un po' per la paura di quella vicinanza.

“Mi dispiace Italie, Sacro Romano Impero non c’è più. Dovresti dimenticarti di lui. Hai già sofferto abbastanza, no?” gli disse, con un’espressione seria, anche se i suoi occhi non tradivano un certo fastidio.

“Cosa?” gli chiese di ripetere Italia, incredulo. I suoi occhi passarono velocemente ad Austria, che abbassò gli occhi sui tasti del piano, accennando lievemente ad un sì con la testa.

“Sacro Romano Impero non tornerà più” gli ripeté Francia, col suo italiano dal forte accento francese. Feliciano ripeté quella frase, senza sentirsi pronunciarla. Sentì il suo cuore andare in pezzi e lacrime salirgli agli occhi. Lasciò andare la lettera che Ungheria gli aveva affidato, poco gli importava finisse in terra, abbassando la testa mentre cercava di non piangere a dirotto. Aveva comunque paura di essere sgridato se avesse fatto troppo casino. La nazione che aveva tanto amato, che aveva tanto aspettato non avrebbe più fatto ritorno.
Sacro Romano Impero non sarebbe più tornato.
 
 
 
 
I'm afraid of all I am (Ho paura di quello che sono)
My mind feels like a foreign land (La mia mente sembra una terra straniera)
Silence ringing inside my head (Il silenzio risuona nella mia testa)
Please, carry me, carry me, carry me home (Ti prego portami, portami, portami a casa)
I've spent all of the love I saved (Ho speso tutto l’amore che avevo risparmiato)
We were always a losing game (Siamo sempre stati una partita persa)
Small town boy in a big arcade (Un ragazzino di città in una
grande sala giochi)
I got addicted to a losing game (Sono diventato dipendente
da una partita persa)

 
Oh, oh-ooh-oh
All I know, all I know (Tutto ciò che so, tutto ciò che so)
Loving you is a losing game (Amarti è una partita persa)
 
 
La piccola nazione aprì gli occhi lentamente, svegliato dalla voce chiassosa di un uomo. Era tutto sfocato, la testa gli faceva malissimo e aveva un dolore lancinante al petto. Si portò una mano nel punto in cui provava più male, sentendo il tessuto di bendaggi umidi sotto le sue dita. L’odore di sangue lo disgustava, anche se gli era tremendamente famigliare. Cercò di guardarsi intorno, nel tentativo di capire dove si trovasse, ma non riconobbe niente di quel posto: era in una tenda, forse un accampamento. Vide una figura celeste avvicinarsi a lui e posargli una mano sulla fronte, come a misurargli la temperatura, solo che non lo lasciò prima di avergli accarezzato i capelli biondi. Sentì la voce della figura ma non capì bene, scivolando nell’incoscienza e nel dolore.


Quando riaprì di nuovo gli occhi il mondo era limpido. Il dolore non era diminuito minimamente ma riusciva a vederci. L’uomo non c’era più. Il ragazzo si chiese dove fosse e se era in pericolo o meno. Cercò di tirarsi a sedere ma il dolore al petto lo bloccò. Istintivamente si portò una mano alla ferita e la ritrovò sporca di sangue secco, probabilmente di quando aveva toccato le bende in precedenza. Si costrinse alla calma, cosa che gli riuscì più facilmente di quanto si sarebbe aspettato e cercò di ricordare come era arrivato in quel letto. La testa gli faceva malissimo e pulsava, sforzata da quei pensieri senza fine.

“Finalmente ti sei svegliato” disse la stessa voce che aveva sentito. Il ragazzo si girò di scatto verso la fonte, piantando gli occhi su un ragazzo di quasi 20 anni dalla divisa militare blu. Più della divisa militare, il dettaglio che più lo colpì fu il suo aspetto: l’uomo aveva occhi rossi come rubini e capelli bianchi come la neve. Il ragazzo non sapeva perché ma spostò il proprio peso nella direzione opposta di quello sconosciuto, come se il suo corpo sapesse qualcosa che lui ignorava.

“Non siamo molto di parole eh? Certo, essere al cospetto del grandioso me lascerebbe ammutolito lo stesso Papa ma mi aspettavo almeno una parola di ringraziamento. O il tessere delle mie lodi” aggiunse, avvicinandosi a lui. Quelle parole erano familiari al ragazzo, la lingua un dialetto che in parte comprendeva in parte no, come fosse una lingua straniera.

“Danke…” rispose con un filo di voce, i polmoni che già si lamentavano per l’aria rubata. “Quindi la mia lingua è molto simile alla sua. Veniamo dallo stesso posto?” si chiese, cercando indizi nella parola che aveva appena pronunciato e nei pensieri che erano seguiti. L’uomo gli fece una carezza sui capelli biondi e gli sorrise. Gli esaminò con calma le ferite, stando attento a non fargli male, mentre riempiva la stanza con il suono della sua voce.

“Wer bist du?[3]" chiese il ragazzo, accorgendosi che non sapeva nemmeno il nome di quel chiassoso soldato.

“Gilbert Beilschmidt, anche conosciuto come Königreich Preußen[4]” gli rispose, sorridendo ma in quegli occhi celesti non si accese nessun barlume di riconoscimento. Il ragazzo rimase in silenzio a fissarlo fino a metterlo a disagio. Prussia si schiarì la voce per poi fargli la stessa identica domanda. Il ragazzo abbassò gli occhi sul lenzuolo che copriva le sue gambe piede di lividi, senza rispondere. Si sforzò con tutto sé stesso di trovare la risposta ma la sua mente sembrava restare bianca.

“Io… non lo so. Qual è il mio nome?” quei penetranti occhi blu si piantarono in quelli rossi di Prussia, che si sentì annegare in quello sguardo che traboccava di curiosità e domande. Scosse la testa, ammettendo che non lo sapeva, sentendosi dispiaciuto per la delusione del ragazzo.

“Puoi essere il mio fratellino. Pensaci, è un grande onore che una persona del mio calibro offra una posizione simile a una piccola nazione come te” propose Prussia, più chiassosamente del necessario. Si aspettava una risposta pronta ma sul volto dell’altro non ci fu altro che maggiore confusione.

“Nazione? No, io non posso essere una cosa simile, sono un ragazzino qualunque”

“I ragazzini qualunque non sopravvivono a ferite come quelle” Prussia indicò la fasciatura sul suo petto “In te c’è qualcosa che lo lascia intendere, come per tutti gli altri. Siamo umani ma allo stesso tempo no. È una sensazione unica, solo nostra e percepibile da chiunque. Non hai sentito una cosa simile da quando sono qui?”
Il ragazzo restò in silenzio, prima di chiedergli di che posto fosse Prussia, che gli fornì una lezione di storia sul suo territorio, le sue avventure e i suoi cugini e rivali. Più il ragazzo ascoltava, più tutto gli sembrava risuonare ma non abbastanza da richiamare un ricordo, un’informazione qualsiasi, qualcosa. Quando smise di parlare era già passato diverso tempo.

“Ho deciso, sarai il mio fratellino, niente proteste” concluse alla fine Prussia “Però mio fratello deve avere un bel nome” e si mise a pensare. Cercò d’imporne diversi al ragazzo, che alla fine acconsentì ad accettare il suo nuovo nome.

“Allora da adesso il tuo nome sarà Ludwig Beilschmidt!” esclamò Prussia. Il ragazzo pronunciò il suo nome come un pappagallo ma anche quel tentativo di stimolare la sua memoria fallì. Qualsiasi nome avesse avuto prima era perso.


Nei giorni seguenti Prussia tornò spesso a prendersi cura e fare compagnia a Ludwig, raccontandogli tante cose, che il ragazzo ascoltava nella speranza di riconoscere qualcosa. Fu mentre Prussia gli parlava per l’ennesima volta dei suoi territori che Ludwig venne assalito da una domanda in particolare:

“Quindi tu riesci a percepire le tue terre e arrivarci?”.

“Ja. Il rovescio è che quando perdi un territorio ti senti proprio male”

“Insegnami!” gli chiese determinato. Se fosse riuscito a capire come fare avrebbe sicuramente trovato le risposte che cercava disperatamente. Prussia accettò di insegnargli, a patto di accettare di essere addestrato anche al combattimento. Quei territori erano in tumulto tra loro e i popoli riottosi. Si respirava aria di guerra ma a Ludwig non importava. Prussia gli aveva detto di averlo trovato in un campo di battaglia privo di sensi e sanguinante, facendogli chiedere di che nazionalità batteva bandiera e perché nessuno del suo popolo lo aveva cercato. Soprattutto, voleva imparare in fretta per risolvere quello che per lui era diventato un mistero e una seccatura: certe notti, nei suoi sogni vuoti, c’erano stralci di immagini, un prato, un fiume, una tela e della pittura e una ragazza. Una ragazza che chiamava il suo nome ma non riusciva a sentirlo. Una ragazza che piangeva non appena lo vedeva e scappava ma allo stesso tempo era capace di espressioni dolcissime. Non ricordava quasi nulla di lei quando si svegliava, la vaga sensazione ma mai nulla di certo. L’unica prova tangibile di quella ragazza era che quando si svegliava il cuore gli batteva fortissimo. Era certo che un sentimento davvero forte lo legasse a lei ma non sapeva definirlo bene. Ci pensava spesso nelle sue giornate, che man mano si erano fatte più movimentate. Gli toccò imparare di nuovo tutto quello che aveva dimenticato e forse qualcosa di più. Prussia era una persona molto energica ma sapeva essere un insegnante severo, istruendolo e spronandolo al meglio delle sue capacità. Ludwig cercava d’imparare tutto il più velocemente possibile dicendosi fosse per sé stesso, senza accorgersi che man mano che i mesi passavano, quel sentimento che covava nel suo cuore era diventato la sua priorità, come l’unica cosa che contava, insieme alla persona a cui era connesso. Quando ci pensava però, non poteva che provare angoscia: se erano legati perché non l’aveva ancora cercato? Magari era una sua illusione e quei sentimenti non avevano davvero un proprietario.


E fu alla sua ricerca che gli anni passarono, guerra dopo guerra, sempre a fianco di quello che aveva imparato ad amare come un fratello maggiore.
 
 
 
 
How many pennies in the slot? (Quanti centesimi nella slot?)
Giving us up didn't take a lot (Rinunciare non c’è voluto molto)
I saw the end 'fore it begun (Ho visto la fine prima che cominciasse)
Still I carried, I carried, I carried on (Eppure ho continuato,
 continuato, continuato)

Oh, oh-ooh-oh
All I know, all I know (Tutto ciò che so, tutto ciò che so)
Loving you is a losing game (Amarti è una partita persa)


Da quel giorno erano passati decenni e ormai Italia aveva lasciato la casa di Austria da un pezzo, lasciandosi alle spalle i pezzi del suo cuore infranto, in favore della risoluzione per combattere al fianco di suo fratello per la loro terra. Avevano lottato, formato alleanze, vinto e perso terre ma alla fine ce l’avevano fatta: alla fine avevano formato una nazione con le loro sole forze, senza essere sottomessi a nessuno. Il governo aveva arrancato e i problemi da affrontare erano tanti, ma per Italia erano risolvibili in un modo o nell’altro. Tutto ciò che gli importava era avere di nuovo al suo fianco Romano ed essere il più possibile lontano da Austria. All’inizio aveva voluto aggrapparsi ai suoi ricordi, in parte arrabbiandosi con sé stesso per aver sprecato tanto tempo a scappare via da lui, ma non ci impiegò molto a seppellire tutto. Ogni cosa per rendere sordo quel dolore.

Piano piano che il nuovo secolo andava avanti, scoppiò un conflitto e poi un altro. I due fratelli presto si ritrovarono ad andare in guerra, senza conoscere davvero i loro alleati. Sapevano solo che centrava il re di Austria, il resto era irrilevante tanta era la paura che il loro territorio potesse di nuovo essere sottomesso e loro di nuovo ridotti a servitori. Non avrebbero mai permesso a qualcuno di portar loro via la loro terra, anche se quello significava firmare armistizi o passare al vincitore nel mezzo della battaglia. Nel corso di una battaglia in particolare, le cose si erano fatte preoccupanti, costringendo i due fratelli a separarsi e cercare riparo, mentre i loro soldati battevano la ritirata. Feliciano si era nascosto in tutta fretta in una cassa di legno destinata a contenere approvvigionamenti vari, il panico del nemico che marciava spedito ad annebbiare il suo giudizio. Sentì i passi di una squadra di militari marciare a diversi metri dal suo nascondiglio. “Tedeschi” realizzò, sentendo le parole di quello immaginava fosse il loro superiore. Fortunatamente, presto i militari si diressero nella direzione opposta alla sua, facendogli tirare un sospiro di sollievo.

“C’è qualcuno qui?” sentì chiedere a una voce. Feliciano sobbalzò dalla paura, rispondendo invece che stare zitto, attirando l’attenzione dell’uomo, che forzò la scatola per aprirla. Il ragazzo saltò in piedi come un pupazzo a molla, pregandolo di non sparargli, interrompendosi a metà: davanti a lui c’era un soldato dai capelli biondi, occhi azzurri e l’aria stoica. Per un attimo il suo cuore perse un battito: che potesse essere…? Mormorò quel nome mai davvero dimenticato nei suoi pensieri, la somiglianza tra i due era incredibile. Venne riportato bruscamente alla realtà dalle parole del tedesco, che gli intimava di uscire dalla scatola usando come arma un ramo.

“Fermo, fermo! Non farmi del male! Odio il dolore e ho paura. Diventiamo amici. Ti prometto che sarò il migliore amico che tu abbia mai avuto” si affrettò a dire Feliciano, rendendosi conto di quello che aveva detto troppo tardi. Fosse stato chiunque altro sarebbe corso via più velocemente possibile ma, in quel caso, non era riuscito a muoversi di un millimetro. Non voleva che quella persona sparisse, benché percepisse chiaramente non fosse un soldato qualunque. Non voleva accettare che fosse colpa di quell’amore che aveva seppellito nel suo animo. Provò tenerezza a vedere quel soldato in difficoltà con la sua proposta, cosa che gli fece dimenticare la sua paura iniziale e instillandogli così tanta allegria da rincarare la dose, elencando tutte le attività che adorava fare in compagnia d’altri e cosa poteva fare per lui. Alla fine il tedesco sospirò, tendendo una mano al ragazzo per aiutarlo ad uscire dal suo nascondiglio.

“Mi chiamo Ludwig Beilschmidt, anche conosciuto come Deutsches Kaiserreich[5]” si presentò, sorpreso dall’improvvisa reazione energica dell’altro, che gli strinse più che calorosamente la mano.

“Feliciano Vargas, sono la parte del Nord del Regno d’Italia o Italia Veneziano, vee~! Saremo amici per sempre” affermazione che mise in difficoltà Ludwig, che tuttavia si sentì subito conquistato dall’italiano.


Quell’improbabile amicizia andò avanti per anni, attraverso la Grande Guerra, le sue conseguenze e i vari cambi di governo nel loro continente. Era un’amicizia che a volte sforava dai limiti, assomigliando ad altro ma per quanto Germania cercasse di mettere dei paletti al comportamento e alle libertà che si prendeva l’amico, l’altro sembrava sordo alle sue proteste. Nel tempo era nato un vero proprio affetto tra i due, con Germania che puntualmente si ritrovava ad aiutare e supportare Italia nei suoi pasticci ma per Italia c’era altro. Tutto in Germania gli ricordava Sacro Romano Impero, dai suoi modi al suo aspetto, facendo tribulare il suo cuore ogni volta. Com’era possibile però? Francia era stato chiaro a riguardo, così non si faceva mai davvero delle aspettative, nonostante nel più profondo del suo cuore sperasse che Germania fosse davvero lui. Nonostante quel dolore, Feliciano non intendeva lasciare andare il suo legame con l’amico, seguendolo persino nella politica, nonostante si facesse sempre più estrema, tenendosi però a un passo di distanza. Lo spettro di Sacro Romano Impero era sempre con lui alla fine e temeva che se si fosse innamorato di nuovo, se avesse lasciato prendere colore a quell’affetto unico che provava per Germania, prima o poi sarebbe sparito anche lui e non intendeva riprovarci un’altra volta. Preferiva restare i migliori amici di sempre invece di innamorarsi e rimanere solo e in lacrime un’altra volta.
 
 
 
 
Oh, oh-ooh-oh
All I know, all I know (Tutto ciò che so, tutto ciò che so)
Loving you is a losing game (Amarti è una partita persa)
I don't need your games, game over (Non ho bisogno dei tuoi giochetti,
Game over)
Get me off this rollercoaster (Fammi scendere da questa giostra)

Oh, oh-ooh-oh
All I know, all I know (Tutto ciò che so, tutto ciò che so)
Loving you is a losing game (Amarti è una partita persa)
 
 
Alla fine, si ritrovarono invischiati in una nuova guerra mondiale, ancora più violenta della precedente ma i due non si separarono. Germania sembrava inarrestabile, al pari di Giappone, vincendo una battaglia dietro l’altra, dando filo da torcere agli alleati, arrivando a sottomettere persino altre nazioni. Italia faceva del suo meglio per stare al loro passo, aiutando quanto poteva, a scapito dei suoi precedenti sentimenti nei confronti dei suoi nemici in battaglia: in alcuni casi era addirittura stato contento fossero crollati sotto l’Asse, soprattutto Francia. Non lo aveva mai davvero perdonato per aver ucciso la persona che più amava al mondo. Cercava anche lui di conquistare terre, incoraggiato dalla presenza del suo inseparabile compagno d’armi ma ogni campagna si rivelò un buco nell’acqua dietro l’altro, al quale Germania doveva sempre porre una pezza, rallentando le proprie manovre e impiegando risorse faticosamente risparmiate. Per quanto Germania comprendesse le intenzioni di Italia, quella situazione e la crescente pressione da parte degli alleati stava logorando il suo rapporto con lui. Provava forti sentimenti per Italia ma non riusciva a non sentirsi comunque frustrato per quella situazione. Il suo capo stava cominciando a stufarsi della condotta militare italiana e se la prendeva con lui per la sua testardaggine nel voler restare insieme ad Italia nonostante gli stesse praticamente facendo perdere la guerra.

“Italien, forza! Mettici più impegno al poligono di tiro!” lo spronava Germania negli allenamenti. Erano passati un paio d’anni dall’inizio di quel conflitto ma Italia non sembrava minimamente migliorare nell’addestramento militare, a differenza di Giappone che in pochi mesi aveva superato Germania stesso. I due erano rimasti soli da allora, con Giappone che impiegava tutto quello che aveva imparato e Germania che si divideva tra il campo di battaglia e l’allenamento di Italia.

“Ma è troppo lontano” si lamentò Feliciano, mancando il bersaglio un’altra volta. Avrebbe tanto voluto che quella guerra finisse in fretta. Voleva tornare a fare la corte alle signorine, dipingere ritratti di Germania e cucinare insieme a Romano. Più di tutto, voleva che Ludwig tornasse a mostrargli quell’espressione gentile che lo aveva attratto tanto in quegli anni, più di quanto osasse ammettere. Forse era vero che era innamorato di lui ma non gli era mai venuto in mente di dire una sola parola a nessuno: sarebbe stata una perdita di tempo, specie perché dubitava che il tedesco lo guardasse con occhi diversi anche se da qualche anno a quella parte aveva cominciato ad essere più fisico con lui. Non era più così avverso agli abbracci come una volta e non si lamentava quasi più quando lo trovava addormentato nel suo letto alla mattina.

“Nein Italien. Devi mirare più in basso per bilanciare il rinculo del fucile” gli spiegò, piegandosi su di lui per correggere la sua posizione. Feliciano poteva sentire il petto scolpito di Germania premuto sulla sua spalla, spostando la sua concentrazione dalle sue parole. Insospettito dal suo silenzio, Ludwig si accorse della posizione che aveva assunto e si sbrigò a tirarsi su, leggermente rosso in viso.

“Non è il momento di distrarsi” lo rimproverò

“Non vedo perché no, Ludwig è uno gnocco come sempre” scherzò l’italiano, che amava quel flirtare a senso uno in cui lui buttava giù tutte le sue tecniche di rimorchio e si godeva l’imbarazzo dell’amico.

“Se ti allenassi di più anche tu avresti i muscoli”. A quelle parole Feliciano si alzò da terra, lasciando giù il fucile e spazzolandosi via la terra dalla divisa militare. Si avvicinò a Ludwig con la sua solita aria dispettosa: era il momento di gettare il carico da novanta, così da farlo imbarazzare al punto che avrebbe annullato la lezione.

“Ve~ Se diventassi troppo muscoloso poi non ti piacerebbe più abbracciarmi. Sono soffice al punto giusto, ammettilo” lo provocò, avvicinandosi a lui e mettendogli le braccia al collo. Germania arrossì, balbettando qualche frase che servisse a chiudere quell’argomento che si era già chiuso in una vittoria per l’italiano, che stava gongolando sotto i baffi.

“Non posso farci niente se mi piaci…” si lasciò sfuggire Germania, prima di arrossire ancora di più e correggersi in “Non posso farci niente se mi piacciono le cose morbide. La tua lingua è troppo difficile da parlare”. Feliciano sgranò gli occhi dalla sorpresa, non aspettandosi quella confessione così spontanea. Lo trovò così adorabile che decise di calcare ancora di più la mano, sinceramente curioso della sua reazione.

“Beh, se non riesci a parlarla magari si può fare altro…”. Germania lo guardò serio, i suoi occhi celesti in quelli nocciola dell’altro. Italia era pronto a ridere e andarsene a fare merenda che le mani di Germania gli presero il viso e lo baciò. Era la cosa più innocente del mondo, un secondo netto ma sentimenti uguali ai precedenti fluirono nel cuore di Feliciano di nuovo, che resto imbambolato con un’espressione sorpresa e il visto rosso quando quel breve contatto finì. Non si aspettava che sarebbe stato Germania a vincere alla fine ma non ci pensava più: lentamente si avvicinò di nuovo, ignorando le parole imbarazzate di scuse che fluivano fuori da quelle labbra che voleva baciare di nuovo, tirandolo a sé. Il secondo bacio fu più lungo, più senza pensieri. Alla fine del terzo ormai non c’era altro nei loro pensieri se non altri baci, altre carezze, altra vicinanza.

“Vieni con me” lo tirò per un braccio Italia, dopo un po'. Germania protestò un po' ma lo seguì senza farsi troppe domande. Feliciano lo condusse in una stanzina della struttura dove si addestravano solitamente le truppe, che aveva una porta difettosa e la scritta “Lavori in corso” stampata sopra.

“Che posto è questo, Feli?” gli chiese finalmente, mentre entravano in quella stanza.

“Questa? Oh, è solo una palestrina dove vengo a fare la  siesta ogni tanto”

“E gli altri soldati?”

“La serratura è rotta, solo io so come aprirla. Inoltre, i lavori di manutenzione sono sospesi per mancanza di fondi. Nessuno verrà qui” gli rispose seduttivamente il ragazzo, che nel mentre si era avvicinato di più a lui, per poi tirarlo su uno dei materassini sparsi per terra, pieno di libri, riviste di moda e bottiglie di vino. Fu un pomeriggio emozionante per entrambi, un’emozione così forte, inesprimibile se non attraverso la pelle stessa. Feliciano aveva visto le stelle, sentendo ogni diga avesse costruito nel suo cuore per prevenire quel sentimento crollare. Ludwig si sentiva liberato di un sentimento che pensava di aver rimosso dalla sua vita e, per la prima volta da decenni, ripensò alla ragazza del suo sogno.


“Voglio che tu abbia questa” disse Ludwig, sfilandosi dal collo la sua croce celtica e mettendola vicino al suo volto. Erano entrambi stesi su quel materassino, respirando quell’aria di esaustione e soddisfazione, senza vestiti ma senza la minima vergogna.

“Ma è quella che ti ha regalato il fratellone Prussia!” gli fece notare, spostando una mano da sotto il suo mento per toccarla. Ludwig gli aveva confessato che quella collana era preziosa per lui, essendo un ricordo legato a un momento molto importante della sua gioventù con Gilbert. Germania insisté e alla fine Feliciano accettò, sorridendo come raramente aveva fatto.

“Grazie Lud, la conserverò per sempre. Ti amo!” aveva esclamato, facendo arrossire Germania.


Da quel giorno, altri pomeriggi come quelli si susseguirono, di pari passo ai giorni della guerra e sembrava andare tutto bene, sebbene Italia perdesse territori a causa delle sue scelte militari sbagliate. Alla fine vennero gli ultimi mesi della guerra. Germania era esausto: la sua spedizione per andare a combattere Russia era fallita, America, Francia e Inghilterra marciavano verso casa sua e Italia aveva bisogno del suo aiuto, come sempre. Era una situazione esasperante per lui, che avrebbe voluto un altro tagliato come Giappone per la guerra. Teneva nascosti in sé quei sentimenti perché amava Italia ma non ce la faceva più. Durante gli addestramenti non lo ascoltava, in battaglia pasticciava, si faceva catturare e aveva piani tattici impossibili. L’unico con cui poteva parlare era suo fratello.
Per Italia invece, qualsiasi perdita fosse non sembrava così grave, dopotutto aveva fatto quella che considerava la conquista più grande della sua vita: il cuore di Germania. Portava la sua collana al collo costantemente, lasciando che trapelasse dai vestiti militari, incurante dei commenti del fratello. Era il suo vanto, il suo orgoglio, il suo tesoro più prezioso. Feliciano non era il tipo da vantarsi di cose del genere ma non esitava a farlo con chiunque gli chiedesse di quel ciondolo e del significato dietro quello sguardo dolce che gli rivolgeva, nazione o umano. Non lo nascose ad Austria, né a Giappone, così quando Prussia gli fece domande a riguardo Italia non esitò a rispondere con il suo solito fare allegro

“Me l’ha data Germania!”. Se la sfilò dal collo per poi porgerla al prussiano. “Lud ha accennato che gliel’hai regalato tu per il suo primo compleanno. Ha accennato che commemorava qualcosa di molto importante per voi ma non è mai sceso nei dettagli”

“E tu sei curioso, vero piccolo Italia?” lo prese in giro Prussia, che quasi invidiava la fortuna del fratello. Il ragazzo annuì energicamente, gli occhi d’ambra illuminati dalla scintilla della curiosità. Prussia lo trovo incredibilmente carino così decise di raccontagli la storia dietro a quel simbolo. Aveva trovato Germania che era solo un ragazzo in una trincea piena di soldati morti e, non fosse stato per un presentimento che aveva avuto, lo avrebbe creduto morto. Aveva al collo quella croce, la stessa che lui e Austria condividevano, così l’aveva presa per esaminarla meglio. Un anno dopo l’aveva riconsegnata a Germania, credendo gli avrebbe detto dove l’aveva presa ma il ragazzino pensò si trattasse di un regalo di Prussia ed era così felice che Gilbert non ebbe il cuore di raccontagli la verità.

“Ve~ ma allora come mai gli hai detto che rappresentava qualcosa di importante per voi, se non era per il vostro primo anno insieme?”. Gli occhi cremisi del ragazzo lo squadrarono per un attimo, come a intendere che la risposta fosse ovvia. Nonostante quella pausa però, Feliciano sembrava sinceramente all’oscuro di quella risposta, così disse

“Beh, quelle croci sono state fatte esclusivamente per noi cugini, diversi secoli fa, quando Feli non viveva ancora con noi, così mi è sembrato strano. Vivo ancora col dubbio, ma non voglio farmi illusioni ”. Noi cugini furono le parole che fulminarono Italia. Noi cugini, Prussia, Austria e lui. Sacro Romano Impero. Che fosse davvero lui? Il suo cuore cominciò a battere forte, riempiendosi di un sentimento fin troppo forte per lui ma che cercava di smorzare con tutta la propria forza di volontà. Italia avrebbe voluto passare più tempo a sentire le storie di Prussia, tutto per assicurarsi che quei vaghi sospetti fossero fondati, ma aveva preso un impegno con Germania quella sera e non voleva fare tardi. Aveva tanto da dirgli, ma soprattutto voleva esprimere anche quei sentimenti che aveva tralasciato nei secoli trascorsi, sentendosi vittorioso per aver vinto quella scommessa fatta col sé stesso bambino.
 

Quella stessa sera Germania era al telefono con Gilbert, lui e Italia dovevano vedersi in qualche ora per cenare insieme e Ludwig aveva ricevuto delle brutte notizie dal fronte. Stavano parlando da quarti d’ora interi, sfogandosi a vicenda sulla situazione bellica. Ad un certo punto Gilbert tirò fuori Italia e Germania si sentì di lasciare andare tutti i suoi pensieri, confidando nella segretezza del fratello.

“È terribile Bruder. Non fa altro che dormire, giocare coi mici e prenderle dagli Alleati. Ci sto provando ad addestrarlo, a insegnargli tattiche militari ma nulla. Inoltre… Pensa ad altro e mi distrae”

“Wow, qualcuno in grado di distrarre l’intransigente Ludwig! Pensavo che questo giorno non sarebbe mai arrivato”

“Tu ridi Gil, ma io non lo sopporto più. E quello che più di tutto odio è che a volte mi rendo conto di essermi innamorato di una causa persa”. Un rumore alle sue spalle fece voltare il tedesco di scatto. Feliciano era entrato in casa sua in anticipo, lasciando cadere la busta con le razioni di quel giorno. Sulla sua faccia Germania poté leggere come si sentisse tradito e ferito da quelle parole. Lasciò andare il telefono senza attaccare, correndo dietro ad Italia, che si era voltato ed era corso via in lacrime. Lo chiamò ma lui non si girò, seminandolo a un certo punto.


Una volta arrivato a casa, Feliciano pianse. Pianse tanto, al punto da non riuscire a respirare. Il petto gli faceva malissimo e quelle parole lo tormentavano. Pianse per un’ora, calmandosi solo dopo molto tempo. La cosa che lo feriva di più è che era sicuro che Germania fosse davvero Sacro Romano Impero: Prussia gli aveva raccontato le circostanze del loro incontro ed era quasi certo anche lui che le due nazioni fossero la stessa persona. Aveva aspettato il suo ritorno per tanto tempo ma alla fine era sempre e solo stato un gioco. Anche lui aveva scherzato all’inizio ma pensava che finalmente le cose sarebbero andate diversamente. Tirò fuori la collana di Germania dalla sua camicia, soppesandola in mano per pochi minuti.

“Fine del gioco” mormorò, strappandosi la collana dal collo e lanciandola in un cassetto, accanto a una lettera di America, che lo invitava a unirsi agli Alleati, alla quale Feliciano non voleva rispondere. La tirò fuori e la lesse più attentamente. Si era deciso che amare quel ragazzo sarebbe sempre e solo stato un gioco perso in partenza, così, quando si calmò completamente, decise di rispondere ad America.


Non sarebbe rimasto ad aspettare l’addio di Germania un’altra volta.
 







(1) "Che diavolo, Impero Francese!"
(2) "Impero Austriaco"
(3) "Chi sei?"
(4) "Anche conosciuto come Regno di Prussia"
(5) "Anche conosciuto come Impero Tedesco"






Piccolo Angolo dell'Autore
Ciao a tutti!!

Dopo una vita, voilà una gerita (rima pure ahahah). L'idea mi è venuta mentre dovevo studiare, perchè si, ogni distrazione è buona pur di non farlo (anche se mai al livello di Heavens). Ho fatto un sacco di ricerche a livello storico perchè la volevo storicamente accurata e posso dire che la storia della Germania è proprio un casino?

Comunque, spero vi sia piaciuta e alla prossima!

 
   
 
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