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Autore: elenatmnt    04/01/2023    2 recensioni
Gli sbagli si pagano a caro prezzo. Sulla propria pelle? No, su quella del suo migliore amico.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Note di quella che scrive:

Questa storia partecipa alla Challenge del Gruppo “NON SOLO SHERLOCK – gruppo eventi multifandom”.
Avviso che è una storia un po' fortina, c'è della violenza sul pesantuccio andante, preferisco avvisare per chi non aprrezza il genere. Per chi invece vorrà proseguire con la lettura, auguro buon (sadico) divertimento e vi ringrazio di cuore.

P.S. se vi va di lasciare anche solo un piccolo commento ne sarò supermega felice!
 
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Dieci è un numero dispari
 
 
“Guarda, Sherlock Holmes”.
Non stava guardando, stava osservando.
“Guarda e taci”.
Le labbra erano serrate.
“Facciamo un gioco”.
Una partita persa in partenza.
“Giochiamo al gioco della resistenza”.
Non aveva idea a chi appartenesse quella voce.
“Il dottore sarà il protagonista”.
Sa solo che era ad un passo dallo scoprirlo.
“Per ogni tuo patetico tentativo fallito di fermarmi”.
Ma non ha fatto in tempo e non sa se ci riuscirà.
“Il tuo amichetto John riceverà una frustata”.
Maniaco. Sadico. Pazzo.
“Siamo a nove tentativi, questa è la decima”.
Chi è?
“Allora, hai capito chi sono?”.
Ricerca ogni possibilità nella sua mente.
“Non ce l’hai fatta vero?”.
Non ce l’ha fatta.
“In questo caso… saranno dieci frustate”.
Merda.
“Tu non dovrai sibilare nemmeno un suono. Se un solo miserrimo fonema uscirà dalle tue labbra, bhe… usa l’immaginazione”.
Buio e silenzio.
 
Una macabra carnevalata che aveva solo del disgustoso. E lui, il sadico, era nascosto da qualche parte nell’ombra.
“Se Sherlock non fiaterà e il Dottor Watson non tirerà le cuoia prima del previsto, vi lascerò andare. Facile no?”.
Follia pura.
“Ah Watson. Quasi dimenticavo… lei può urlare quanto vuole, è questo il bello. Ora non resta che giocare”.
 
 
Per Sherlock, tutto è iniziato come un gioco, un blando tentativo di non annoiarsi, la patetica maniera di credersi superiore agli altri.
Solo.
Lo è sempre stato. Finché John Watson non è entrato a far parte della sua vita. Da lì in poi è cambiato tutto. John è stato colui che è riuscito a scalfire la corazza invisibile di Sherlock, colui che gli ha insegnato che nella vita ci sono delle entità astratte che si chiamano sentimenti, colui che gli vuole bene più della propria vita.
John era davanti a lui e, per quanto tentasse di non mostrare la benché minima ruga di paura, Sherlock sapeva che era terrorizzato.
“Lasciatemi stare… Maledetti…”. Parlare, opporsi era inutile. Più di una mano lo trascinava via verso un punto ben preciso e nonostante la luce fioca di poche vecchie torce, era chiaro dove lo stavano portando: verso un pilastro.
Come incentivo a non ribellarsi, due pugni ben assestati sul volto del medico lo avevano costretto a stare fermo; che fosse per voluta resa o per lo stordimento, John si lasciò trascinare senza protestare.
 
Cosa fare? Come uscirne fuori?
 
“MALEDIZIONE! LASCIATELO ANDARE!” la mancanza di un piano, la mancanza di indizi e la mancanza di buon senso, avevano spinto Sherlock ad urlare. E solo dopo aver pronunciato l’ultima sillaba che il suo cervello lo condusse nel suo Mental Palace dove c’era un John con il volto deluso che gli rivolgeva solo una domanda “perché lo hai fatto?”.
 
Sherlock tornò quasi immediatamente nel mondo reale, quando il sadico parlò mettendo in pratica la propria minaccia. Non era un bluff, era tutto vero.
“Lo hai voluto tu”.
 
Schioccò le dita.
 
L’ex soldato fu brutalmente scaraventato a terra, mani violente ed indiscrete gli strapparono via i vestiti; qualcuno gli tratteneva i polsi dietro la schiena mentre con un piede gli schiacciava il viso sul pavimento. John sentì qualcosa scricchiolare e pregò di non essersi slogato o, peggio ancora, rotto la mandibola.
Provò un senso di nausea e disgusto, quando sentì i pantaloni e i boxer venir sfilati via. Provò ad opporsi, il risultato fu il tacco di uno stivale piantato nella pianta del piede.
Urlò.
Le sue membra nude giacevano sul pavimento polveroso di quello che poteva essere qualsiasi posto: un bunker, un edificio abbandonato, un nascondiglio sotto terra, una cantina. Qualsiasi luogo fosse, era buio e sporco.
E quando pensava di aver toccato il fondo, calci e pugni gli fecero cambiare idea. Si raggomitolò su sé stesso, nel blando tentativo di proteggersi le parti del corpo più sensibili. Il tempo sembrò allungarsi fino al punto di fermarsi, ma quei colpi no, quelli non finivano.
Poteva giurare di aver passato una vita intera in quel massacro, per chi visse la scena da spettatore, sapeva che erano passati solo pochi secondi, al massimo minuti.
John, per la prima volta nella sua vita, si sentì umiliato.
Fu tirato malamente in piedi e spintonato di prepotenza col petto contro il palo largo quanto un tronco d’albero; le sue braccia furono portate al di sopra della testa e legate insieme per i polsi con una corda. Si teneva a malapena in piedi, parte del suo peso era trattenuto dalle braccia issate.
Un uomo si era posizionato a pochi passi dietro di lui, pronto all’imminente tortura.
 
Sherlock, saldamente trattenuto da due uomini dalla mano pesante i cui volti erano nascosti da un cappuccio nero, non poteva fare altro che guardare e a dispetto del suo cuore di pietra, delle lacrime silenziose gli rigarono il viso. Pieno di dispiacere, di dolore e un infinito senso di colpa che mai avrebbe cancellato da quel briciolo di coscienza che gli rimaneva.
Tutta colpa sua.
 
Il Mental Palace sarebbe stato il luogo ideale per sfuggire a tutto ciò che i suoi occhi assimilarono, era tentato di fare il vigliacco. No, lui non faceva il vigliacco, lui era un vigliacco.
L’ingegno che vantava di possedere, non serviva ad un accidente di niente. Intelligenza, astuzia, intuizione erano solo parole nella situazione in cui si era cacciato, anzi no, nella situazione in cui aveva cacciato il suo unico, migliore, grande amico.
No.
Doveva rimanere lucido e subire anche lui la punizione che meritava. Lo doveva a John.
Doveva guardare.
 
“She…er…lock…” la sinfonia di note dissonanti uscì dalle labbra di John. Quelle labbra sorridevano. Sfidando il viso maltrattato, sfidando la sorte avversa, sfidando la propria paura… John rimase fedele a sé stesso, doveva aiutare Sherlock. E che l’ultima risorsa fosse un banale sorriso, non aveva alcuna importanza, il suo amico doveva capire che non era colpa sua.
John aveva sempre seguito Sherlock, in ogni sua avventura o bravata (spesso le due cose coincidevano tra loro) accettando ogni rischio; in fondo era un soldato e la consapevolezza di ritrovarsi prima o poi ad un punto di non ritorno l’aveva impressa a fuoco nel proprio cuore nel momento in cui aveva deciso di diventare un soldato.
Combattere, curare, seguire, avevano come minimo comune denominatore l’amore per il prossimo. Questo era John.
 
Il detective resistette non con poca difficoltà alla voglia di rispondere.
Non poteva. Maledizione, non poteva.
La vita di John dipendeva da un suono.
“… va tut…to…be - AH!!!”.
 
Primo colpo.
L’ex soldato si era ripromesso mentalmente di non urlare, di resistere fino all’ultima oncia di sopportazione. Si era tradito da solo, quando la sferzata sulla sua schiena nuda gli procurò il primo di dieci profondi e brucianti tagli.
Le grida riverberavano in quel luogo tetro, strazianti suoni di agonia che non avrebbero trovato conclusione tanto facilmente.
Due.
Tre.
Quattro.
 
Ancora le lacrime solcavano il viso di Sherlock, non aveva nemmeno la forza di serrare i pugni. La visione straziante del suo amico coraggioso, lo scaraventarono di getto in una realtà abominevole nella quale nemmeno il grande Sherlock Holmes poteva risolvere niente.
Guardare.
Solo guardare e tacere.
 
Cinque.
Sei.
Sette.
 
E lui, il sadico, al di là del buio ghignava inebriandosi del profumo della vittoria, godendo della disperazione del detective e delle grida strazianti di un ex soldato.
Otto.
“Guarda il tuo amico, Sherlock”. Ne era divertito il bastardo.
Come un guardone, gustava lo sguardo del detective che mai si mosse; si crogiolava nella libidine di aver sconfitto Sherlock Holmes.
Nove.
Le gambe di John avevano ceduto, se stava in piedi era per merito dei suoi polsi lacerati dalla corda. Il sangue gli scorreva lungo la schiena, la gola bruciava per lo strepito straziante della sua voce, densa saliva mista a sangue scorreva lungo il mento e il collo e gocce di sudore imperlavano ogni angolo del suo corpo.
 
Dieci.
 
Un numero meraviglioso nella matematica, un numero pari, semiprimo, tetraedrico, decagonale, triangolare. Il dieci, secondo Pitagora, è considerato il numero perfetto e costituiva il cosiddetto Tetraktys che a sua volta è la somma della successione dei primi quattro numeri e rappresentava i quattro principi cosmogonici. Dieci è il numero in cui è diviso il del Decameron, dieci sono i comandamenti, dieci piccoli indiani, le dieci piaghe d’Egitto.
In quel preciso istante, il dieci era tutto, tranne che perfetto. E Sherlock poteva giurare, senza ombra di dubbio, che quello fosse diventato un numero sbagliato; un numero dispari.
Il cuore gli rimbombava nelle orecchie e come un tamburo di guerra, inneggiava alla vendetta. Ma non ancora, non ancora.
 
“Ebbene Sherlock Holmes. Sei stato molto bravo in questo gioco e il tuo fedele cane da guardia non è stato da meno. Come premio per la vostra ‘vittoria’, avrete salva la vita”.
Sherlock fissava John.
“Come avrai capito, possiedo tutti i mezzi per fare qualsiasi cosa io voglia. Non provocarmi, non cercarmi. Non ti ucciderò perché non voglio far di te un martire. Ma sappi che se tornerai a darmi la caccia, massacrerò senza pietà le poche persone che hanno la pietà di provare un briciolo di amore per te. Addio Sherlock Holmes”.
 
La sagoma nera, non perse tempo un secondo di più; aveva fatto ciò che doveva e se ne andò ghignando seguito dai suoi seguaci.
Silenzio.
E un respiro che minacciava di scomparire.
 
Il detective rimase immobile, catatonico. Vedeva ma non osservava, respirava ma non sentiva alcun odore, l’aria era fredda ma non tremava. Il suo cervello aveva deciso da sé, per pochi secondi, di non registrare più alcuna informazione.
Fu lo squillare del proprio cellulare, lasciatogli appositamente dai rapitori a ridestarlo dal sogno ad occhi aperti. E solo allora riprese coscienza del fatto che John era ancora issato nudo e sanguinante al maledetto palo.
“JOHN!”.
Con un balzo fulmineo corse verso il suo amico, in fretta slegò i legami che gli avevano dilaniato i polsi e lo adagiò a terra disteso prono. Pensò in gran velocità cosa fare ma non era abbastanza lucido da trovare la soluzione più logica, potevano trovarsi dovunque; intanto il fastidioso telefono continuava a squillare… squillare.
Subito lo prese e lesse sul display che il nome che in altre occasioni gli avrebbe fatto roteare gli occhi per la frustrazione, ma in quel momento era l’ancora di salvezza.
“Mycroft! Rintraccia questo cellulare e trovami! John è ferito gravemente”.
Sherlock non gli diede il tempo di parlare; sapeva che suo fratello sarebbe arrivato in poco tempo, avrebbe smosso l’intera nazione pur di trovarlo.
 
“John, John… mi senti?” lo scosse lievemente toccandogli le braccia. “John!”. Posò le dita sulla giugulare, il battito c’era anche se dannatamente veloce ed irregolare.
Sherlock si precipitò a recuperare una lanterna abbandonata sul pavimento e la puntò contro il dottore, mostrando la schiena segnata da un reticolato rosso di ferite aperte, per non parlare della quantità indicibile di ematomi viola su ogni parte del corpo.
Qualcosa nel petto del detective si incrinò proprio lì dove credeva di non avere nulla o se c’era non aveva mai funzionato. Gli angoli degli occhi ricominciarono a pizzicare, questa volta fece di tutto per non cedere alle lacrime. Non doveva farsi trovare in quello stato.
 
Si sfilò via il cappotto e coprì il suo amico che tremava visibilmente, lo stesso fece con il suo gilet che trovò posto sotto la guancia di Jonh per fargli da cuscino.
“John andrà tutto bene. Mi senti? John per favore… ti sto chiedendo per favore…”.
 
Cosa avrebbe fatto John? Cosa avrebbe desiderato John se fosse stato sveglio?
 
Sherlock allungò la propria mano fino ad afferrare quella di John. Mai, mai e poi mai avrebbe fatto una cosa simile, perché poi? A cosa poteva servire un gesto simile?
Ne ebbe consapevolezza quando le sue dita si intrecciarono in quelle dell’amico; un vago senso di sollievo si sprigionò da quella stretta delicata. Era un modo illusorio di tenerlo avvinghiato a sé, era un modo per dirgli che c'era e che non lo avrebbe abbandonato. Era il modo silenzioso per dirgli che gli voleva bene.
“She…lo…”.
“John!” gli occhi del detective si illuminarono, abbassò il viso verso l’amico per vederlo negli occhi, tanto sperati di vederli aperti. “Si John, sono qui. Stanno venendo a prenderci, tu resisti”.
“No… col…pa… tu…”.
“Non parlare, risparmia le forze”.
Sherlock si interrogava su un milione di perché. Perché John Watson si ostinava a doverlo salvare? Perché si preoccupava di lui prima che di sé stesso? Perché non gli attribuiva nemmeno un minimo di colpa per ciò che aveva appena subito?
Domande senza risposte o in attesa di esse per molto tempo ancora.
 
Il rumore di molteplici passi pesanti in avvicinamento rivelava l’arrivo di Mycroft, un tempismo impeccabile il suo.
“Coraggio John, stiamo per andarcene da qui” dichiarò Sherlock con un sorriso di speranza rivolto all’amico.
“Non… anda…re… via”.
Sherlock sentì la mano di John avvinghiarsi alla propria. Una stretta debole, sudata, tremante… era la sua stretta.
“Non ti lascio John. Non più”.
 
   
 
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