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Autore: Shion108    25/01/2023    1 recensioni
Quando la storia tramandata per secoli non è corretta, tutti possono dire quello che vogliono, anche che il buono è in realtà il cattivo.
Storia ispirata al corto di Miota su Re Deshret.
Genere: Angst, Drammatico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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   Il Sole splendeva alto come sempre nel Grande Deserto e la cittadina sotto la Grande Piramide era, come sempre, piena di vita. La gente danzava in quella splendida giornata ed i mercanti offrivano le loro delizie nel migliore dei modi possibili; i festeggiamenti erano iniziati all’alba perché quel giorno era il più importante dell’anno, si festeggiava il compleanno del Re, un giovane uomo che però si era già fatto conoscere in tutta Sumeru e non solo.
   In realtà egli non era molto giovane d’età, ma l’aspetto giocava a suo favore, nessuno a prima vista gli avrebbe dato più di vent’anni. Invero, era un Re molto amato nella zona, gli abitanti del deserto che vivevano sotto il suo regno lo veneravano per la sua bontà e per la sua umanità incredibile. Aveva però anche un lato oscuro, la sua totale noncuranza per le gerarchie celesti; aveva già rifiutato il dono di uno Gnosis e quindi aveva detto fermamente di no al diventare Archon.
   “Ci sono troppe regole da seguire se diventi un Archon”, diceva e lui di certo non era per seguire le regole, ancor meno se esse erano senza senso.
   La sua piccola mancanza lo avrebbe portato alla rovina, ma prima di raccontare di questo fatto, forse è meglio partire dal principio.
   Come detto, quel giorno la cittadina era in festa e tutti erano impazienti di ammirare la splendida parata dei Matra; era, in effetti, un evento raro e quando accadeva accorreva tutta la città per ammirare quegli uomini meravigliosi in vesti cerimoniali.
   La musica delle strade venne interrotta dal suono di un glorioso corno, segno che le porte si stavano aprendo ed i valorosi soldati stavano arrivando. Allora il popolo si mise ai lati della via principale, sulle terrazze delle case e sui tetti vicini, pronti per lanciare fiori e preghiere di protezione.
   Le porte finalmente si aprirono ed i soldati camminarono fieramente lungo il viale, ma c’era qualcosa di diverso, stavolta erano capitanati da un uomo a cavallo di uno splendido cammello dal portamento regale; i lunghi capelli del giovane condottiero, bianchi come il sale più pregiato, si muovevano per colpa della lieve brezza, conferendogli un aspetto solenne, già dato dall’elmo di falco e dalle vesti, non sontuosissime, ma di pregevole fattura.
   Molti bambini, avendo capito che quello era l’amato Re, cominciarono a correre per affiancare la cavalcatura, curiosi di poter vedere il sovrano e speranzosi di potergli regalare almeno un fiore come buon augurio.
   Durante quella gioiosa corsa, uno dei piccoli cadde rovinosamente, sbucciandosi un ginocchio; fu allora che il cammello si fermò ed il suo cavaliere scese dalla gobba per avvicinarsi ai bambini, inginocchiandosi per assicurarsi che il giovinetto stesse bene. Il bambino, in lacrime, sussultò per un attimo a trovarsi vicino il Re, ma per renderlo orgoglioso volle fare il coraggioso dicendo di star bene.
   Allora un sorriso si dipinse sul volto di Sua Maestà, lui amava con tutto il cuore i bambini, ma non era mai stato benedetto da tale dono meraviglioso; aiutò il bimbo ad alzarsi e poi lo prese delicatamente in braccio tirandosi su, prese su anche la bimba che era vicina all’amichetto e si riavvicinò al cammello per poi salire in sella con le due creature sedute sulle gambe.
   A vederlo compiere quel gesto, il popolo quasi si commosse, lieto di aver al comando un uomo con buoni principi e buono con le nuove generazioni.
   La parata proseguì fino all’enorme scalinata e lì il Re scese; mise gentilmente i bambini a terra per poi carezzare loro la testa, sussurrando parole gentili. Una volta lasciati, salì le scale compostamente, senza mai abbassare lo sguardo, ed una volta in cima si voltò verso quello che era il suo paradiso in terra. Volle dire solo poche parole, un sincero grazie e non molto altro, ma tutti sapevano che le sue erano parole venute dal cuore.
   A quel punto Sua Signoria entrò in quello che era il suo Palazzo per adempiere ai propri doveri. Il salone era ampio e luminoso ed era pronto ad accogliere tutte le persone che avevano richieste da fare al buon sovrano. Uno alla volta, senza fretta e con molta tranquillità, il Re ascoltò ogni richiesta e, con meticolosa attenzione a tutto, esaudì nel modo più consono le richieste; la sua sapienza lo aiutava molto in questi casi, sapeva come sfruttare i terreni e dove spostare le zone di caccia per non far mancare mai nulla.
   Alle volte dimenticava anche di mangiare quando aveva le udienze, perché non voleva tardare nell’ascoltare le richieste delle persone.
 
   La sera, una volta concluso il lavoro, egli si ritirò nelle proprie stanze dove, per svagarsi un po’, si mise a suonare il sitar, strumento ricevuto in dono dalla buona amica Rukkhadevata, l’Archon in carica a Sumeru. Non ci aveva messo molto ad imparare a suonarlo e di certo adorava il piacevole suono che esso emetteva, quindi si dilettava a “strimpellarlo”, anche se i servitori dicevano che la sua abilità era pari ai migliori musicisti del regno.
   Qualcosa interruppe il suo momento di pace, una sensazione strana che gli attraversò tutta la spina dorsale, arrivando alla nuca; lasciò lo strumento sui tappeti e si avvicinò a quello che era una sorta di terrazzo. Sentiva che il vento stava portando una tempesta di sabbia dalle proporzioni mastodontiche e la cosa lo innervosì molto. Ogni volta che accadeva, il suo pensiero andava alla Dea dei Fiori, Nabu Malikata, che per aiutarlo ad ottenere la Vera Conoscenza aveva donato la vita. Non lo aveva mai ammesso apertamente, ma la dea gli aveva rubato il cuore e vederla morire lo aveva gettato nello sconforto; un sacerdote lo aveva però avvisato una volta, ella sapeva del sentimento di lui e lo avrebbe usato per i propri scopi o per le proprie vendette senza mai ricambiarlo davvero. Non aveva mai dato peso a quelle parole, anche se sapeva che lei, in quanto Madre delle Djinn, non era la creatura più pura del mondo; non voleva nemmeno acconsentire al fatto che spesso lei gli aveva dato i brividi per colpa di particolari sguardi maligni o simili.
   Quando lei era venuta a mancare, lui aveva usato tutti i mezzi a propria disposizione per costruire un posto perfetto, l’Oasi Eterna, dove lei avrebbe riposato per sempre, in un’eternità immobile e triste, seppur bellissima.
   Ripensarci non lo aiutava a star meglio, ma in un certo senso lo aiutava a pensare. Allora accadde…
   Una scintilla si accese nella sua testa, una scintilla piccola e folle, ma che avrebbe forse potuto fare qualcosa per il suo dolore. Allora agì, scese nella biblioteca del palazzo e cominciò a cercare ogni informazione possibile; quelle, unite alla Vera Conoscenza, lo avrebbero aiutato a riportare in vita la donna che lui aveva amato.
 
   Il rito era difficile e richiedeva molta preparazione, ma egli aveva tutte le capacità per compierlo. In quella notte preparò tutto e si apprestò a compiere quel rito, ma qualcosa parve andare storto. La Vera Conoscenza si unì agli oggetto del rituale, ma nel farlo creò qualcosa di corrotto e malvagio che cominciò a fluire nel regno portando con sé quella che era una piaga maledetta. Il popolo cominciò a morire e nel giro di una notte rimasero solo poche persone che trovarono rifugio nella foresta.
   “Allora era questa la verità”, pensò lui. Nabu Malikata era conscia che Sua Maestà avrebbe compiuto un Rito della Rinascita per lei e sapeva che così facendo avrebbe innescato una maledizione che avrebbe sterminato il Popolo del Deserto; era tutto un piano ben studiato che prevedeva la morte della Dea e vedeva come fine la morte del Re. La verità era che di fatto ella lo odiava dal profondo del cuore, anche se si spacciava per sua amica.
   Il sovrano non sapeva a cosa avrebbe portato un’azione del genere, sapeva solo che doveva fermare quella cosa prima della fine, non solo di Sumeru, ma di tutta Teyvat.
   Rukkhadevata volle accorrere in suo soccorso e gli tese una mano, ma lui non volle metterla in pericolo e le intimò di fuggire via da lì, lontano da quel luogo di morte ed odio. Lui aveva cominciato questa cosa e lui l’avrebbe fermata per sempre.
   Con tutta l’energia che aveva in corpo, richiamò a sé quella maledizione, o meglio quella cosa informe, ed entrò di corsa nella Grande Piramide, chiudendosi al suo interno. Davanti a lui, la maledizione cercava di uscire, ma a costo della propria vita il Re l’avrebbe fermata. Si tolse l’elmo e lo stesso fece col mantello, alzò gli occhi al cielo per un ultimo saluto al quel mondo che tanto amava ed imbraccio la lancia e la khopesh scagliandosi all’attacco, verso la propria fine.
 
 
   Questo racconto non lo conosce nessuno, tutti hanno sempre pensato che il Re scagliò la maledizione volontariamente per sterminare i sudditi, ma la realtà è ben diversa, ma deve essere il lettore a crederci o meno.
   
 
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