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Autore: MaikoxMilo    12/02/2023    2 recensioni
Vi fu un tempo, anche se privo dello stesso concetto di tempo, in cui, si narra, Cielo e Terra, Mondi e Dimensioni, Caldo e Freddo, Umido e Secco, coesistessero in una sola sostanza che racchiudeva tutto; tutto ciò che avrebbe poi assunto un nome, ma che, allora, nome non possedeva. Non c'era quindi un inizio, né una fine, non esisteva Destino, né legge, tutto era miscelato, un tutt'uno indistinto, estroflesso, inscindibile, nonché eterno. Tale concentrato di materia venne chiamato posteriormente "Principio Primo di Tiamat", prima di scomparire completamente nella Notte dei Tempi, svanendo per milioni e milioni di anni.
Tutti gli universi possiedono quindi un'origine comune? Che ne fu di quell'epoca, CHI ordinò il Creato, dandogli una forma propria, dividendo le dimensioni, espandendole all'infinito di propria mano? Chi ebbe la forza per farlo? Perché lo fece, imprimendo così la propria imperitura effige?!
Marduk, Sommo dio Marduk, fosti tu a volerlo, stracciando il gigantesco corpo della dea Madre Tiamat, scindendo così, per la prima volta, il Cielo dalla Terra; gli Universi dalla Matrice?!
Storia ambientata tra i capitoli 10 e 12 della Melodia della Neve, di cui è quindi indispensabile la lettura insieme alle fanfiction precedenti.
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Cygnus Hyoga, Nuovo Personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
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Capitolo 8: Ricordi intrecciati (prima parte)

 

 

 

Mi ricordo montagne verdi e le corse di una bambina

con l’amico mio più sincero, un coniglio dal muso nero.

Poi un giorno mi prese il treno

l’erba, il prato e quello che era mio

scomparivano piano, piano e piangendo parlai con Dio.

 

Quante volte ho cercato il sole

quante volte ho mangiato sale.

La città aveva mille sguardi

io sognavo montagne verdi

 

(Marcella Bella)

 

 

 

La manina della bimba si levò oltre i corti capelli a cespuglietto del colore delle castagne mature appena cadute dall’albero. Le dita le si chiusero un istante dopo. Nulla. Riaprì il palmo. Lo richiuse. Ancora nulla. Che strano, eppure l’aria era così tersa, da poterla quasi toccare!

Avanzava indomita sulla stradina sterrata, un poco insicura sulle gambe non ancora del tutto stabili, come le radici delle piante appena attecchite. Non dava comunque peso a ciò che si trovava per terra, la sua attenzione era tutta per il cielo azzurro, per gli uccellini che volteggiavano armoniosi sulla sua testa e per quel verde delle foglie degli alberi che, grazie alla luce intensa del sole, appariva sgargiante più che mai.

Era bello, ma bello davvero. La vita, quell’enorme impulso vitale che le diceva di continuare a camminare. E camminava, un po’ traballante, sempre con gli occhi persi nell’infinità sopra di sé. Azzurro e blu; blu e verde. Blu e ancora giallo, il calore appena tiepido della primavera.

Amava tanto il blu, tanto davvero. Era un po’ il suo colore e le piaceva. Forse per questo ne andava a cercare di altri, di colori. Cercava di farli suoi, ed era così che aveva assorbito tutte le sfumature verdi delle piante, pari solo a tutte le specie esistenti sul pianeta; il giallo del sole, che poi lo possedevano anche alcune piante in autunno; il marrone della terra, che era tuttavia diverso da quello dei tronchi degli alberi, e ancora… ancora tanti altri.

C’erano tanti colori in quel mondo, non ci si poteva di certo annoiare e, forse, neanche una vita sarebbe bastata ad assorbirsi su di sé, a farli propri. Occorreva pazientare, come per il grano -giallo anch’esso!- nell’attesa di essere raccolto.

Ma se c’era una cosa che Marta non riusciva a sopportare di non aver ancora ottenuto, nonostante tutta la fatica, era senz’altro quel celeste tenue del cielo. Inarrivabile, sebbene l’aria sembrasse talmente trasparente da essere acciuffata, eppure… che rabbia! Pareva talmente vivido, nitido, da poter essere afferrato anche dalle sue manine ancora minuscole, invece sfuggiva; sfuggiva sempre.

Ci provò ancora una volta, senza successo. Sospirò, riportando lungo il corpicino il braccio sconfitto. Non abbassò comunque la testa, sarebbe stato un po’ come gettare la spugna, arrendersi, e non voleva, quello no. Ci sarebbe riuscita prima o poi, ad arrivare anche a quella sfumatura.

Sorrise tra sé e sé, respirando a pieni polmoni l’aria ancora fresca del mattino. D’accordo, forse il celeste cobalto non lo avrebbe ottenuto, non quella volta, ma vi era un’altra cosa che desiderava ottenere, e l’odore nell’aria dei fiori, il cinguettare frenetico degli uccellini, ubriachi della primavera, sembravano volerle indicare una speranzosa riuscita.

Ridacchiò tra sé e sé, da sola, come spesso si era trovata, nonostante gli appena cinque anni di età. Sì, ci sarebbe davvero riuscita quella volta, non sarebbe stata più sola!

Continuava ad osservare distrattamente sopra di sé, non accorgendosi di essere arrivata dalla parte opposta della stradina sterrata rispetto al paese da dove proveniva. Era sul punto di canticchiare perfino tra sé e sé per la felicità, quando, un acciottolio di sassi che rotolavano uno contro l’altro, la fece piombare sulla terra. Anche la sua testa si raddrizzò, portando così i suoi occhi a distinguere una figura appena sopraggiunta proprio davanti a sé.

Fermati, stai varcano il mio territorio!”

Marta sorrise a quell’affermazione, riconobbe nell’espressione del bambino a poca distanza da lei un qualcosa di corrucciato e tremendamente infastidito. Non ci diede peso, fischiò più forte, spostandosi al margine del sentiero per proseguire indisturbata.

Ehi! Non mi senti? E’ il mio territorio, questo!” insistette il bimbo, gonfiando le guance, indignato.

Non era che Marta non lo sentisse, era che semplicemente aveva cose ben più importanti a cui pensare, come per esempio… uh, quella roccia strana, appena dietro la curva che girava verso il monte! Accelerò il passo, l’altro bimbo quasi soffiò irato, sul punto di bloccarla, ma lei lo scansò e… la sua bocca e gli occhioni si aprirono meravigliati davanti allo spettacolo appena apparso!

Non ci siamo capiti, questo è mio...”

Ma tu vivi lì?!” chiese sbalordita lei, osservando il paese arroccato sul monte in tutta la sua magnificenza. Perché da Carsi si vedeva, sì, era rassomigliante ad una fortezza e incuteva già una certa reverenza, ma da vicino… era ancora più spettacolare!

Il bimbo capì a cosa l’estranea si stesse riferendo. Fu combattuto dal desiderio di difendere ciò che era suo, scacciandola, o pavoneggiarsi davanti a lei, tutto fiero e impettito di vivere in un posto che non aveva eguali. Vinse quest’ultima opzione.

Ebbene sì, è la Rocca di Cerviasca!”

UAU!!!”esclamò Marta, carpita, osservando con ammirazione quel posto, dimentica, per un solo istante, del suo obiettivo primario e di avere l’altro bambino lì, molto vicino a lei.

Ci vivo con mio nonno, sai? Solo io e lui, gli altri se ne sono andati ormai da anni! - le comincio a spiegare lui, socchiudendo gli occhi e annuendo tra sé e sé con goduria, neanche stesse presentando un suo prodotto di marca – Per questo gli estranei non sono ben accetti, e tu sei una di loro, devi… EHI, TI STO PARLANDO!!!”

Così preso a decantare le meraviglie di quel posto, quasi non si era reso conto che la bambina aveva ripreso la sua strada, ignorandolo bellamente. Scattò quindi verso di lei, la prese per il polso. Voleva costringerla a voltarsi, o perlomeno bloccarla, ma la piccola reagì male, quasi gemette a quel contatto. La sentì produrre un rumore strano, a metà strada tra un sussurro strozzato e lo squittire di un topo che stramazzava su una di quelle trappole con colla che utilizzava suo nonno Mario. Si pentì quasi subito di averlo fatto, perché l’estranea era una bimbetta, probabilmente più piccola di lei e, sempre suo nonno, gli aveva insegnato che mai si doveva essere sgarbati con le donne di ogni età, perché erano portatrici di vita.

Cosa volesse dire lo sapeva bene solo lui, ma il punto era che quel comando scolpito nella sua mente, in quel momento urtò selvaggiamente con l’orgoglio e la necessità di difendere il proprio luogo natio.

Scu-scusa! - borbottò lui, arrossendo, grattandosi poi la testa nel vedere che l’altra bambina aveva piegato le braccia davanti al petto, tremava, e, sempre guardando altrove, perché evidentemente non riusciva a sorreggere il suo sguardo, si era chiusa alla sua presenza – Non sono in molti che vengono qui, pensavo che fossi… uh, un maschio!”

Uh, ma che villano! - la bimba lo sorprese di nuovo nel rispondergli con forza, recuperando così terreno perso dopo che il contatto con lui si era interrotto – Sono una femmina!!!”

Uh? Ed io… io come facevo a saperlo? Hai i capelli corti e… AHIA, ma allora la forza ce l’hai!”

Gli aveva rifilato un calcio e… quanto doleva lo stinco dove l’aveva colpito! La osservò, oltraggiato, mentre lei tornava alla carica, rossa in viso. E non importava che non lo guardasse negli occhi, che mantenesse lo sguardo ottusamente basso, pareva una cavalla che rifiutava la ferratura.

Tu, bruto..!”

Il secondo calciò fortunatamente lo scansò, saltando di lato, prima di accorgersi che quella non demordeva, sbuffando come una locomotiva. Pochi secondi ancora e l’avrebbe avuta nuovamente addosso.

Ehi, ascolta! - tentò di placcarla, prendendole a forza i polsi per spingerla così a guardarlo negli occhi – Io non posso essere sgarbato con le donne, me lo impedisce il nonno, ma se tu continuerai a...”

Si bloccò.

Lei anche si bloccò.

Il loro sguardo si era incrociato, pur nella casualità del movimento, le loro bocche si erano aperte simultaneamente.

MA CHE BELLI I TUOI OCCHI!!!” trillarono in sincrono, prima di arrossire, girare la testa altrove, uno a destra e l’altra a sinistra, e scoppiare poi a ridere.

E risero a lungo. Imbarazzati, contenti, e un po’ stralunati. Nessuno dei due aveva mai visto quel particolare colore sfumato nell’iride. Era… smagliante, anche se in due modi completamente diversi!

Io sono Mart...”

Io sono Stef...”

Si riguardarono, accorgendosi di essersi nuovamente parlati sopra e, nondimeno, di avere ancora i polsi intrecciati nelle mani dell’altro. Si raddrizzarono, tossicchiando per darsi un tono.

Sono Stefano, puoi chiamarmi Ste – disse il bimbo, prendendo la parola – Tu?” la guardò di sottecchi.

Marta. Puoi chiamarmi… Marta!” disse solo lei, mentre la sua attenzione veniva attirata da un movimento giù nella valle.

Che differenza c’è?” chiese lui, inarcando confusamente un sopracciglio.

La confidenza, il tono… sai, il mio nome non può essere spezzato.”

Bo, sei strana forte, eh!” fece spallucce lui, notando che la bambina aveva preso ad avvicinarsi ad un cespuglio, da dove, con un vorticare intenso, prese il volo un passeriforme.

Hai dei bellissimi occhi, Ste!” si complimentò lei, incrociando le braccia dietro la schiena per seguire, con lo sguardo, il volo a zig-zag dell’uccellino non meglio definito. Di nuovo non era più in grado di sostenere il suo sguardo. Sembrava essere una bimba piuttosto stramba.

Grazie, anche i tuoi. Non avevo mai visto una persona con gli occhi blu, sembri… il mare, anche se non l’ho mai visto da vicino, solo dalla vetta dei monti qui sopra.”

E tu invece… non saprei. Stavo per dirti il cielo ma, in verità, hai un colore ancora più chiaro. - Marta gonfiò le gote, chinò il capo, calciando corrucciata un sassolino lì vicino. Poi la sua espressione si fece per qualche secondo pesta – Sai, anche io un tempo avevo quella sfumatura, mi… apparteneva!” disse, flebilmente.

Prego?” chiese educatamente Stefano, mascherando una certa dose di scetticismo, perché, nonostante i modi a volte un po’ rozzi e selvatici, suo nonno Mario gli aveva sempre insegnato, fin da piccolissimo, la gentilezza nell’esprimersi.

Inaspettatamente il tono riscosse la bambina dai capelli mossi, che si affrettò a dirgli di non curarsi di quel che diceva, perché ogni tanto straparlava ed era assolutamente normale per lei, ma non per gli altri.

Stefano avrebbe potuto dire tutto di quella bambina misteriosa, ma non che fosse normale, di gran lunga no! Rimase scettico a guardarla mentre lei tornava, trotterellando, al suo fianco. Si accorse distrattamente che, in fondo, dal punto di vista fisico, sembravano un po’ simili loro due: lineamenti del viso delicati, sebbene quelli di lei fossero ancora un poco più tondeggianti, taglio degli occhi non così diverso, anche se di due colori differenti, e quei buffi capelli un poco all’insù, quasi da rammentare un cespuglietto, o il riccio spinoso di un castagna. Castano scuro i suoi; castano chiaro, con sfumature velatamente rossicce, quelli di lei.

Sono molto belli i tuoi occhi, Ste! - confermò ancora la piccola, sorridendogli con dolcezza, sebbene il contatto visivo fosse ancora un problema, a giudicare dalla traiettoria a vuoto del suo sguardo – Solo che non so a cosa abbinarlo, non l’ho mai visto.” sospirò, affranta.

Ad un laghetto di montagna!” andò sul sicuro lui, tutto orgoglioso.

Ad un… laghetto di montagna?”

Sì, Nonno Mario me lo dice sempre; dice che è affine al colore interno dei ghiacciai.”

E che colore ha… hanno?” si fece tutta interessata lei, che evidentemente non li aveva mai visti.

Ma non sai proprio niente, tu, eh? Ecco, sono… - Stefano si gonfiò, pronto a decantare, prima di rendersi conto tuttavia che non aveva nulla per poterli descrivere, perché anche lui non li aveva mai visti da vicino - ...non lo so!” ammise infine, sebbene gli bruciasse.

Però deve essere proprio un bel colore, vero?”

B-beh, sì suppongo di sì!”

Quanti anni hai, Ste?”

S-set...”

Io cinque!”

Ma fammi finire di parlare, prima, non sono riuscito neanche a...”

CINQUE, sono più piccola!” ribadì lei, indicandoglieli con le dita della mano sinistra. Non era tuttavia il numero corretto.

Guarda che quello è il quattro, non il cinque!”

Ah… - Marta tornò a guardarsi la mano che aveva il solo pollice chiuso – Così, allora?” e abbassò anche il mignolo.

Macché, quello è il tre!” sospirò lui, massaggiandosi teatralmente i capelli.

Scusami, ahaha, i numeri sono troppo complicati per me!”

Una cosa era sicura, neanche lui amava la scuola, ma fino a quelle cose lì ci arrivava. Realizzò comunque che probabilmente non l’avevano ancora condotta in quel luogo infernale, e che probabilmente doveva avere delle difficoltà concettuali a fare i numeri con le dita, o qualcosa di simile, perché invece era perfettamente consapevole che sette fosse un numero più grande dei suoi cinque.

Strana davvero, comunque… e soprattutto, da dove era sbucata? Era di sicuro la prima volta che la vedeva.

Cosa ci fai qui da sola? Non hai una famiglia?” chiese ad un certo punto lui, osservando che si era nuovamente persa nelle fantasticherie. La vedeva alzare di frequente la testa verso il cielo per poi abbassarla, pattugliare i dintorni con quegli occhi color del mare, forse alla ricerca di qualcosa che tuttavia non trovava.

Vengo da Carsi.”

Da sola?! Carsi è un paese abitato!”

Da casa dei miei nonni, in verità… parlavano tanto ed io mi annoiavo, quindi ho deciso di esplorare.”

Tutta da sola?”

Sì.”

E i tuoi nonni che diranno?”

Tornerò tra un po’ per non farli preoccupare.”

I nonni...” una punta di gelosia lo investì. Lui, di nonno, ne aveva conosciuto solo uno.

Siamo venute su da Genova, mia mamma ed io. Nonno Dante ha comprato una casa lì e ce la voleva mostrare. - spiegò ancora, andando poi a rovistare in un cespuglio sul margine strada - Sei qui? Mmm, no, peccato!”

Stefano non comprendeva a chi si stesse riferendo nella sua continua, quanto infruttuosa, ricerca. Un’ulteriore punta di gelosia lo investì, ma non lo diede a vedere. A quanto pareva, lei aveva anche una mamma. Lui no. E neanche un papà. Cosa le mancava, quindi? Cosa andava cercando?

Scusami, cosa stai..?”

Un fratello, meglio se maggiore! - rispose la bambina, intuendo la domanda, sbuffando nel non riuscire a trovarlo da nessuna parte – Tu hai un fratello maggiore?”

No, sono figlio unico, almeno da quello che so, perché i miei genitori non li ho mai conosciuti.”

Oh… - Marta sembrava esserci rimasta parecchio male – E questo è brutto.”

Sì, lo è.” acconsentì il più grande, inscurendosi in viso, perché erano argomenti che non amava trattare, lo mettevano semplicemente a disagio.

Neanche io ho un papà… - confessò Marta, a sua volta scura in volto, sospirando affranta, prima di riprendersi subito dopo – Però cerco un fratello maggiore!” trillò, speranzosa.

Non puoi averlo.”

COSA?! Perché no?!”

Ci era rimasta veramente più male, lo guardava con occhioni ricolmi di tristezza. Stefano si pentì di essere stato così brusco, suo nonno lo avrebbe di certo ripreso per i modi poco gentili.

Mi hai detto che sei alla sua ricerca, quindi non ce l’hai, al momento, ma se lo cerchi maggiore, a rigor di logica, non puoi averlo. - provò a spiegarsi, cercando di alleggerire il tono – Sei stata portata dalla cicogna prima tu!”

La cicogna… - Marta era sempre più allibita, soppesava quelle parole, osservando il terreno come se si aspettasse la risposta, poi però si illuminò di nuovo – Magari la cicogna lo ha smarrito; ha smarrito il mio fratellino!”

B-beh, se la metti così...”

Stefano non sapeva che pesci pigliare. La piccola era stramba, ma stramba davvero. Alternava momenti di sfrenata euforia alla malinconia più atroce. Era molto curiosa, imprevedibile e… beh, dire che non aveva attirato la sua attenzione equivaleva a mentire!

Per la prima volta in vita sua, un essere umano diverso da suo nonno aveva acceso in lui il più sincero interesse della scoperta.

Per questo lo cerco, magari lo ha smarrito ma c’è! - disse ancora lei, con convinzione – Mi aiuti a cercarlo, Ste?” gli chiese, prima di proseguire verso Cerviasca e far scattare così Stefano, affatto intenzionato a far entrare una estranea, per quanto dalla personalità interessante, nel suo territorio.

ASPETTA, non di lì! Ti aiuto ma non di lì!!!”

Perché?”

Perché… - esitò, prima di farsi venire un’idea geniale – Perché ti ho detto che vivo da solo, no, con mio nonno, il paese è tutto mio!”

Marta continuò ad osservarlo, non capendo. Inclinò appena la testa di lato.

Non può esserci tuo fratello maggiore, se ci siamo solo io e mio nonno, giusto?”

Eh, no, in effetti...” acconsentì lei, pensierosa.

Allora ti aiuto, ma andiamo di là, verso il luogo da dove vieni, da Carsi!” propose, con un largo sorriso.

Tra l’altro, per quel poco che era riuscito a capire dalle sue parole, la bambina era scappata dalla super visione degli adulti, perché la gente di città, lo sapeva, difficilmente lasciava a piede libero i propri pargoli, sempre ossessionata dai pericoli incombenti. Non erano, di certo, tutti come lui e suo nonno, liberi di scorrazzare come le galline dell’aia, genuini e al 100% selvatici!

Con indubbia determinazione da parte sua, memore delle raccomandazioni di suo nonno su come trattare il gentil sesso, la prese per mano, guidandola indietro, dal luogo da cui era venuta, rassicurandola ancora una volta che, sì, l’avrebbe aiutata, ma non per di su, in giù, verso Carsi.

La piccola, dopo un poco di esitazione data dalla spontaneità del gesto a cui non era abituata, sorrise tra sé e sé, lasciandosi condurre dal bambino più grande.

Sì, forse suo fratello maggiore non era caduto verso quel luogo semi-abbandonato che Stefano chiamava Cerviasca, ma di certo, quel giorno di maggio, lei aveva trovato un amico.

 

 

Era tutto come in un sogno, come vedere il mondo dietro i suoi stessi occhi, come... essere lei e vivere il suo vissuto. Eppure, se ne era accorto già da prima, era tutto così vivido, come se le sensazioni, le emozioni, passassero anche per mezzo delle sue vene; le vene di una esistenza a sé stante e, insieme, incommensurabilmente legata alla sua.

Si sentiva esausto, divelto, scardinato… non capiva esattamente dove si trovasse, né cosa fosse successo per ridurlo così. Sapeva solo di essere sdraiato da qualche parte, privo di forze. La sofferenza inaudita, provata fino ad un attimo prima, era perlomeno cessata, lasciandolo comunque perso nelle tenebre dell’incoscienza. Fragile come solo una bolla di sapone poteva essere.

Non riusciva minimamente a muoversi, complice la spossatezza. Avvertiva ancora quel calore arcano, innaturale, lo percepiva propagarsi in tutto l’addome, espandersi sulla pelle, attraverso di essa, perché ovunque si trovasse, ovunque fosse andato alla deriva, il palmo destro della sua mano doveva essere corso istintivamente sopra la sua pancia, come per coprirsela. Il leggero tessuto della maglietta, smosso da una benefica brezza che aveva preso a soffiare nei dintorni, ondeggiava appena sul suo pollice, perché probabilmente se l’era tirata su, o si era sollevata da sola, forse a seguito di qualche suo movimento nel sonno.

Ma stava ancora dormendo? O sognando? Si accorse che il solo chiederselo gli creava agitazione e che non poteva assolutamente tollerarla. Era l’incipit di una crisi di panico... cercò di rilassarsi alla brezza e tornare ad una respirazione normale.

Camus non si sentiva a suo agio a mostrare quella parte del corpo -in verità, nessuna parte, ma quella specificatamente!- eppure amava percepire il venticello sulla propria pelle, soprattutto da quando era tornato alla vita. Lo faceva sentire vivo, completamente, perché, ogni tanto, gli sembrava che una parte di sé stesso fosse rimasta inequivocabilmente nel mondo delle tenebre.

Rabbrividì a quel pensiero. Di nuovo l’ansia lo avvolse. Non riusciva a ricordare nitidamente cosa fosse successo prima, forse non voleva proprio rammentarlo. Riportare la mente a quei momenti, del resto, gli procurava un nuovo dolore, perfino più intenso di quello precedente.

Eppure doveva necessariamente rammentare gli istanti prima della sua perdita di coscienza, la sua battaglia… no, la loro battaglia, perché non era solo, c’erano… chi c’era con lui?

La brezza leggera estiva si fece un poco più intensa, come a volerlo cullare. Respirò più a fondo. Poteva farlo, poteva rilassarsi, poteva… vivere!

Quel venticello leggero che gli solleticava l’addome per poi incunearsi dolcemente sotto la sua maglietta, era arrivato a smuovergli appena i ciuffi ribelli sulla sua fronte. Insieme, nello stesso istante, anche i fili d’erba ondeggiarono sinuosi, carezzandogli un poco la pelle nuda della schiena che era poggiata sul prato. Quale che fosse la ragione, entrambi gli sussurravano che poteva finalmente fermarsi a rifiatare.

Là dov’era. Ovunque lui era. Pace.

Stava bene, si sentiva bene. Rilassò ogni fibra del suo corpo. Prese tempo per percepirsi, prima il respiro che, gonfiando e sgonfiando il diaframma, guidava anche i movimenti del suo addome, che si facevano sempre più profondi e cadenzati; poi, posandosi una mano sul petto, avvertì i battiti del cuore tamburellare sotto le dita.

Era vivo per davvero, ma dove..?

“Questa è Cerviasca di Valbrevenna...”

Una vocetta minuta, infantile, sembrò rispondere al suo quesito esistenziale

“...e siamo sotto al mio tiglio preferito!”

Camus riuscì infine ad aprire gli occhi, pur dovendoli richiudere subito perché feriti dai raggi del sole. Si meravigliò nel constatarlo così possente, come non si ricordava. D’altronde, prima della sua morte, non amava particolarmente quell’astro, né il calore che profondeva. Eppure adesso gli appariva così indispensabile!

Dopo una serie di tentativi andati a vuoto, finalmente riuscì a tenere aperte le palpebre. Si trovava effettivamente sotto un bel tiglio secolare, a giudicare dallo spessore del tronco che, stante la posizione supina, vedeva solo in parte; più nitidi i rami dell’albero, le sue foglie, i suoi frutti dalla forma ovoidale. Doveva essere estate, probabilmente inizio luglio, a giudicare dal clima. L’afa non si era ancora stretta a morsa sulla natura e le piogge dovevano aver continuato il loro compito fino almeno alla settimana precedente, visto il colore verde acceso che creava un piacevole contrasto con il cielo cobalto, pur leggermente intaccato da batuffoli bianchi di nuvole.

“Ti piace?” chiese ancora la voce del bambino, in tono di chi desiderava un riscontro.

“Sì, è bellissimo! - confermò un’altra vocetta, che fece accelerare istantaneamente il suo cuore – Mi sono… innamorata!”

Quel timbro… che era entrato tardi nella sua vita, troppo, lui non avrebbe dovuto riconoscerlo in circostanza normali, ma aveva già sognato di lei, molte volte. Sapeva quindi distinguerla, ed era un suggerimento che arrivava prima dal cuore che non dalla stessa mente.

“Mar-ta!” riuscì faticosamente a mormorare, voltando altrettanto difficoltosamente il capo nella sua direzione, ove la vide, vicina a lui, ma separata, quasi dormiente, come lui, gli occhi chiusi e la boccuccia serena.

Lei non poteva udirlo, neanche poteva percepire fosse lì, lo sapeva bene, ma il solo vederla lo acquietò del tutto. Istintivamente sorrise. Anche la mano, prima sull’addome, si posò di lato, al suo fianco, mantenendo così scoperta la pancia, l’ombelico, che ancora gli faceva male senza ricordarsene il motivo Non aveva importanza, era al sicuro, a casa; la casa che gli era stata strappata in tenera età.

La piccola Marta non era da sola, al suo fianco -Camus lo vedeva bene- vi era un altrettanto piccolo Stevin, di due anni di differenza più di lei. Doveva quindi avere 7 anni mentre la sorellina 5, a giudicare anche dai capelli un poco corti e dall’acconciatura da maschietto tipica del periodo dell’asilo. Doveva trattarsi del 1999, il primo anno in cui i loro nonni avevano preso casa a Carsi, permettendo così al mondo di Marta di connettersi con quello di Stefano.

Ed io cosa facevo nel 1999?

Si chiese Camus tra sé e sé, rendendosi conto che in quell’anno lui era già decenne ed era, con ogni probabilità, in Siberia con… Fyodor…

Ricacciò quindi indietro il pensiero, gli occhi gli si erano fatti lucidi. Scrollò via con tutte le forze la sensazione di perduto che lo aveva investito.

“Potrai venire qui quando vorrai!” sorrise il bambino, perso ad osservare il cielo infinito sopra di loro

“Da-davvero?!” esclamò Marta entusiasta, aprendo i suoi occhi per poi girare il capo verso di lui.

“Certo che sì! - confermò ancora Stefano, tutto soddisfatto – Io sono il principe di questo regno, mio nonno è il re e siamo entrambi d’accordo su questo!” disse ancora, con enfasi, sicuro come non mai..

“Anche se ci conosciamo da soli due mesi?”

“Certo che sì, perché non dovrei?”

“All’inizio non volevi.”

“B-beh, le cose cambiano! - borbottò lui, colto in fallo, fingendosi sostenuto, prima di riaprire un occhio e guardarla con espressione furbetta – E poi mio nonno è d’accordo, anzi, ti vuole conoscere un giorno di questi, ma è sempre indaffarato giù a valle, esegue lavoretti per altri.”

“Che forte!!!”

“Certo che lo è, mio nonno è SUPER!” affermò Stefano con orgoglio, mentre una folata di vento più forte gli smuoveva i ciuffi a a cespuglietto che aveva sopra il capo.

Camus non riuscì a non notare, soffermandosi un poco su di lui, che i capelli del bimbetto avessero una conformazione strana, non dissimile dalla sua alla stessa età. Se ne meravigliò, chiedendosene tacitamente la ragione, prima di tornare a concentrarsi sulla sorellina, la quale aveva preso a canticchiare un motivetto tra sé e sé. La vide allungare una mano, prendere quella di Stefano per stringergliela, mentre, sempre intonando lo stesso motivetto ondeggiava, la testa sull’erba, godendosi il calore del sole.

“Quando fai così sei felice, giusto?” volle sapere Stefano, ricambiando la stretta per poi richiudere gli occhi e rilassarsi. La giornata era ancora lunga, ci sarebbe stato il tempo per tutto. Per il relax e poi più tardi, con l’avvicinarsi del fresco serale, per le esplorazioni.

“Sì, moltissimo! Mi hai invitato, praticamente a far parte del tuo cuore!” trillò lei, non smettendo un secondo di sorridere.

“Oh, beh sì, ecco… non lo faccio s-spesso!” bofonchiò lui, arrossendo nitidamente, prima di scrollarsi e richiudere le palpebre.

“Oh, lo so, lo so! - annuì Marta, prima di prendere una pausa nel discorso, inspirare con il naso ed espirare con la bocca e proseguire – Tra l’altro… ti ho scelto il nome, sai?”

“Il nome? Ma io ho già un nome, lo sai!”

“Il MIO nome, quello che io scelgo di dare a te e di chiamarti da ora in avanti.”

A quel punto aveva ottenuto la sua completa curiosità. La fissò trepidante, in attesa che proseguisse. Si sentiva emozionato.

“L’altro giorno, in paese, a Carsi, una mamma ha chiamato suo figlio per nome, però con il dialetto locale. Io non capivo, mia Nonna Ines mi ha dovuto spiegare.”

“E questo nome sarebbe..?”

“Stevin. Stefano è il nome italiano, ma Stevin quello dialettale valbrevennino!” ridacchiò lei, divertita.

“Stevin...”

“Io scelgo di chiamarti così, ti piace?”

Stefano ci rimuginò un po’ su. Prese tempo ad osservare una nuvola in cielo che passava sonnacchiosa sopra le loro teste. Era un bell’appellativo, non poteva negarlo, composto dalle sillabe -ste, che erano comunque parte del suo nome, e susseguito da quel -vin che era accattivante al solo essere pronunciato. Sorrise, euforico.

“E’ molto bello, sì, MI PIACE!”

“E allora ti battezzo!”

“Non esagerare!”

“Perché, no? L’ho scelto io, il nome è il mio, ehe!”

Stefano si accorse che, in fondo, era proprio così. Sorrise, rilassato. Non sapeva se era per il nome o per qualcos’altro, ma si sentì per la prima volta come veramente parte di qualcosa, finalmente legato alla valle che gli aveva dato i natali e che tuttavia, fino a quel momento, era stata percepita da lui inspiegabilmente come non del tutto sua, a tratti estranea. Ma adesso aveva un nome che lo intesseva intimamente a quel luogo tanto amato ed esplorato. Si riscoprì felice di essere venuto al mondo, proprio lì, anche senza genitori, senza fratelli, con un unico nonno a fargli da guida e… un’amica preziosa da poco trovata!

Poteva finalmente dire di aver raggiunto la pace, nonostante i bulletti di Mareta, il paese rivale del lato opposto della valle, lo avessero preso di mira fin dal primo giorno di scuola, appellandolo come selvaggio e arrivando, a volte, perfino a picchiarlo.

Sospirò nel tentativo di scacciare i loro volti arcigni. Non era più… solo! La sua vita aveva acquisito un senso. Sorrise tra sé e sé.

“Sai, Stevin? - riprese Marta diversi minuti dopo, bisognosa di aggiungere ancora qualcosa - Amo la vita, amo la natura, amo...”

Si era voltata verso il compagno, ritrovandolo però addormentato con le labbra un poco dischiuse e il corpo placidamente rilassato.

“...amo anche stare qui con te, vicino a te, con l’azzurro un poco opaco del cielo che, oggi sì, si confonde con i tuoi occhi. Grazie… per avermi donato anche questo colore. Ora so che esiste e un giorno, forse, vedremo davvero quei laghetti glaciali che tuo nonno dice siano così simili alla sfumatura che ti è propria!”

Rise ancora una volta, speranzosa più che mai per il futuro, prima di soffermarsi ad osservare maggiormente il cielo, i raggi del sole, nonché una Cinciallegra che tornava al nido, venendo subito accolta dal cinguettare frenetico dei suoi piccini affamati.

La vita è così forte e vera, che pare impossibile avere una fine...

Camus vide e percepì tutto questo in lei e tramite lei, come se fosse vissuto dalla sua stessa corporeità. Lentamente si girò sul fianco destro. Lì, in quell’anfratto sicuro, non c’era che lui, le emozioni della sorellina che lo attraversavano, istanti di felicità che, per quanto non direttamente suoi, lo cullavano come una nenia.

“Piccola...” la chiamò con dolcezza, ben sapendo che non avrebbe potuto udirlo in alcun modo.

Non lo aveva udito, infatti, ma la bimba mormorò comunque qualcosa tra sé e sé, prima di chiudere a sua volta gli occhi: “Amo… questo calore che è vita!”

Camus non avrebbe nemmeno potuto toccarla, anche di quello ne era consapevole. Non era mai successo, nei sogni precedenti, che le loro mani riuscissero ad intrecciarsi. In quell’ultimo spiraglio, però, senza che peraltro lui se ne potesse rendere concretamente contro a causa della troppa stanchezza, qualcosa stava cambiando. Si era già ritrovato, sin da subito, inconsuetamente sdraiato insieme a loro, quasi a percepire in prima persona su di sé l’arietta fresca, il caldo del sole, il cinguettare degli uccellini. Ora la sua mano si era mossa per puro istinto, agevolata dall’annebbiamento dei suoi sensi che venivano sempre meno. Camus, nella penombra del dormiveglia, avvertì concretamente forte dentro di sé il desiderio di toccarla, coccolarla, e farle percepire la sua vicinanza, anche se era tanto, tanto, lontano e stremato.

Ne avevano bisogno. Entrambi.

E fu così che, quel giorno, quasi magicamente, la brezza leggera di inizio luglio diventò la sua mano che le carezzava teneramente la fronte, e poi ancora i capelli castani, su e giù, come se un refolo dispettoso si fosse intestardito proprio sulla frangetta.

“Mia piccola e delicata Marta...” le mormorò parole dolci, sorridendo nel guardarla. Poi, vinto dalla stanchezza, chiuse a sua volta gli occhi e si abbandonò.

La sua mano si adagiò poco più sotto, sopra il minuscolo petto della sorellina, e lì rimase, immobile mentre i loro respiri, quasi all’unisono, intonavano uno stesso ritmo perfettamente cadenzato.

Di quella breccia nel sogno, Camus dell’Acquario non percepì più nulla. Semplicemente, con la naturalezza con cui si cade nel sonno dopo una giornata estenuante, si assopì e, di nuovo, tornò a vedere le scene come se fosse dietro gli occhi della sorellina.

 

 

Non era andato granché bene il giorno della presentazione di Marta a Nonno Mario.

Non era andato granché bene essenzialmente perché l’incontro strenuamente immaginato non c’era stato.

Il giorno dell’incontro prestabilito, era successo che su per la stradina sterrata che portava al paese disabitato di Cerviasca, Nonno Mario si era fatto vedere anzitempo, sul suo bel trattore rosso papavero dalle grandi ruote. Li aveva salutati con ampio gesto del braccio, urlando i loro nomi, e Marta… Marta semplicemente si era trovata paura ed e aveva preso la fuga. Letteralmente. Via, di corsa verso il nido sicuro di Carsi.

Stefano non si capacitava di come fosse successo, da quanto veloce fosse accaduto. Aveva preso ad inseguirla, nella paura che capitombolasse per terra, ma la piccola era veloce e agile, nonostante le dimensioni ridotte, la riuscì a raggiungere solo due tornanti più sotto.

FERMATI, si può sapere che è preso?!” volle sapere, riuscendo finalmente ad acciuffarla dal braccio. Lei trasalì, gli occhi blu sgranati nella paura di essere toccata da un estraneo. Tuttavia, quando si accorse che era il suo amico, si calmò un poco.

Lasciami, Stevin, voglio tornare a casa!” lo implorò, quasi supplichevole, tirando da una parte per liberarsi dalla stretta.

Prima mi dici che è successo, sembrava andare tutto bene, perché...”

Perché non mi piacciono i maschi!” rispose, guardando per terra, le guance arrossate e gonfie.

E-eh?!”

Era convinto di aver capito male.

Non mi piacciono i maschi. - confermò lei, imbarazzata – Scusami, ho voluto tanto conoscerlo, ma non ero pronta!” si affretto a spiegarsi, smettendo di tirare senza comunque alzare più lo sguardo verso di lui.

Cosa significa, questo? Anche io… sono un maschio!”

Marta sollevò il capo dalla sorpresa, rendendosi conto maggiormente che, sì, Stevin era un maschio e lo sapeva, ma con lui era tutto inspiegabilmente più facile.

Lo so, ma sei diverso.”

Stefano non sapeva se prendere quella frase come un complimento, o cosa.

Va bene, però sono comunque un maschio!”

Sì.”

Confermava quanto diceva lui, senza tuttavia riuscire ad esprimersi e andare avanti nel dialogo. La faccenda doveva essere indagata.

E allora perché con me sì e lui no?”

Io… non lo so, Stevin, mi sono agitata.”

Occorreva procedere a tentoni per altre vie parallele, quella sembrava una strada priva di sbocchi.

Ma, scusa, la prima volta che ci siamo conosciuti, non mi hai detto che cercavi un fratello maggiore?” chiese lui, sforzandosi di capire il suo punto di vista che era bizzarro e singolare al tempo stesso.

A quella frase gli occhi di Marta cambiarono, tornando luminosi come accadeva sempre quando parlava di qualcosa che le piacesse particolarmente. Un largo sorriso si fece spazio sul suo visetto.

Anche con lui è diverso. Siete le mie eccezioni!”

Stevin, in quei mesi di conoscenza, aveva più o meno capito che Marta doveva aver creato una sorta di amico immaginario con cui interagiva, e che chiamava, per l’appunto, ‘fratello maggiore’. A volte lo cercava, come se non lo riuscisse più a trovare, a volte ne parlava come se ce lo avesse lì presente al suo fianco, altre ancora, invece, sembrava quasi non ricordarsi minimamente della sua esistenza, per quanto congetturata dalla sua stessa mente. Altre, come quella...

Ha i capelli lunghi, sai, di un colore inconsueto. Lo sguardo un po’ burbero come Nonno Dante, ma il cuore gentile e molto caldo. E’ snello e slanciato, alto, forte e delicato al tempo stesso, è... lui è un sacco di cose, Stevin, è il mio fratellone, ed io...”

...altre, come quella, ne parlava in maniera fin troppo concreta, faceva quasi paura.

Va bene, va bene, ho capito… - le disse garbatamente, fermandola dal parlare a raffica perché il punto non era comunque quello – Intendo che, come hai fatto un’eccezione con me, come la fai con questo tuo amico immaginario, potresti dargli una possibilità. Anche mio Nonno Mario è una persona gentile.”

Io… - la piccola sembrava titubante – E se non gli piaccio?”

Non è possibile, questo!” la rassicurò lui, cercando di incoraggiarla.

M-ma...”

Tuttavia l’abbozzo del suo discorso venne troncato proprio dall’arrivo di Nonno Mario. Marta, d’istinto, vedendoselo in avvicinamento, si rifugiò dietro la schiena dell’amico.

Oh, Percival! Correte proprio come delle lepri, voi altri. Beata gioventù!”

Nonno!” lo salutò Stevin, voltandosi con un largo sorriso in modo da guardarlo in tutta la sua interezza.

E così tu sei Maria...” salutò la piccola, che sbucava con la testolina, da dietro le spalle di Stefano.

No, nonno...” sospirò il più grande, scrollando la testa.

Oh, memoria, memoria… che se ne va! Maura, allora!”

No...”

Martina?”

Quasi...”

MARTA! - esclamò, ricordandosi di colpo il nome nel darsi manate sulla fronte – Scusami, scricciola, sono vecchio ormai, perdo colpi!”

Marta non rispose verbalmente, ma ridacchiò tiepidamente, sporgendosi un po’ di più per vedere meglio il signore, che malgrado una certa età già acquisita, aveva ancora una discreta ciurma di capelli in testa, non di certo come la piazzola di suo nonno. Ridacchiò tenuamente a quell’ultimo pensiero.

Psss, puoi uscire… - la chiamò Stefano, guardandola di profilo – Non mangia bambini, come puoi ben vedere!”

E così Marta uscì, sebbene fosse ancora un poco incerta nel trovarsi davanti a quel signore. Non era in grado di mantenere il contatto visivo diretto con le persone che non conosceva bene, solo che bisognava farlo, era decoroso, così le aveva insegnato suo nonno.

Decoro, decoro e decoro… la piccola non sapeva cosa fosse, ma aveva trovato un espediente concreto per sopperire a quella mancanza: fissare le rughe della fronte o in mezzo al naso e dare così l’impressione di sostenere lo sguardo. Era difficile, molto, anche se il trucchetto le riusciva sempre meglio con gli estranei.

Così non guardo Nonno Mario negli occhi, non quella volta. Non distinse il colore delle sue palpebre, ma gli parvero della sfumatura de tronchi degli alberi, forse un poco più scuro. Insomma, una bella gradazione, però con quella di Stevin non ci azzeccava nulla: lui era chiaro nelle iridi e scuro di capelli, Nonno Mario l’inverso. Che mistero!

Fra l’altro… Marta studiò le mani, le braccia e la bocca dell’uomo, cosa che le riusciva infinitamente meglio, e per quanto si sforzasse non vedeva somiglianze.

Osservò ancora l’amico che le sorrideva per incoraggiarla. Si chiese distrattamente da chi avesse preso, se dalla mamma o dal papà, ma poi avvertì un movimento da parte del signore davanti a lei, percepì un’ombra tra i raggi del sole. Si ritrasse istintivamente.

Marta!”

Stevin provò a richiamarla, lei si era rifugiata nuovamente dietro di lui. Sbuffò tiepidamente, capendo che sarebbe stato difficile, nonostante le sue speranze di vederli andare d’accordo subito.

Scusa, nonno… è molto timida! - tentò di far presente, grattandosi la testa – Non si fa toccare!”

Che non si facesse toccare volentieri se ne era accorto fin da subito, anche se con lui, dopo l’iniziale riluttanza, si era lasciata andare, che invece fosse timida non era pienamente convinto, perché Marta era un sacco di cose, stramba sopra di tutte, ma aveva dimostrato ben presto una discreta parlantina. Almeno con lui.

Tuttavia odiava i maschi, glielo aveva rivelato poco prima, e ciò lo aveva stupito, a maggior ragione quando la bambina aveva aggiunto che lui e l’amico immaginario -il fratello!- erano le sue eccezioni.

Cosa voleva dire essere eccezione?

Oh, fa’ niente, ho sbagliato io… - ridacchiò tiepidamente Nonno Mario, con calore – Ehi, Ste, psss… vieni un attimo qui!” fece poi cenno al nipote di avvicinarsi, muovendo le dita della mano.

Stefano compì qualche passo, pur non allontanandosi troppo da lei, la quale, sempre dietro di lui, al riparo, si era messa a fissare con indubbio interesse un coleottero camminare a poca distanza dai suoi piedi.

Pareva assente, del tutto concentrata nel suo mondo.

Da uomo a ometto: cosa posso fare per conquistarla?” chiese consigli il nonno, massaggiandosi il mento con il pollice e l’indice.

E’ difficile, e…” la guardò, era di nuovo catturata dall’ambiente circostante, come la prima volta che si erano conosciuti, come le innumerevoli altre volte dopo.

Farfalle, foglie, prati… questo era il suo mondo, quella era la dimensione in cui si rifugiava quando non si sentiva a suo agio.

E’ sempre così?” chiese ancora il nonno, studiandola da distanza.

Ecco… sì!”

E’ come se avesse degli interessi assorbenti e tutto il resto non contasse.” rimuginò ancora, facendosi serio.

Stefano si preoccupò che Nonno Super non accettasse la prima amica che si era mai fatto e che gli dicesse di riportarla dove l’aveva trovata. Rabbrividì a quel pensiero. Era strana, d’accordo, ma non voleva separarsene. Pensava già a cosa dirgli per convincerlo che bastava conoscerla per farle aprire piano piano il guscio di ghisa in cui si rifugiava spesso, ma...

Che carina che è, una bambolina dagli occhi blu stupendi! - si compiacque Mario, intenerito – Non sembra però essere facile conquistarla!”

Eh, no...” sorrise tra sé e sé Stevin, un leggero sorriso sulle guance, arrossendo un poco.

Non mi aspettavo nulla di meno dal mio ometto, bravo!” annuì soddisfatto il nonno, annuendo la testa compiacente.

Sembrava averla comunque approvata, per Stefano era molto importante il suo parere, quasi indispensabile. Era infatti l’unico parente in vita rimastogli, i suoi genitori -gli era stato raccontato- erano morti in un brutto incidente. Malgrado andasse ormai per gli 80, sembrava invincibile, sempre in movimento, alla ricerca delle mille e una soluzioni possibili per risolvere i problemi del paese e, su più larga scala, quelli dell’intera valle. E, insomma, da solo, gestiva e aveva rimesso in piedi un paese abbandonato arroccato sulla cima di una montagna apparentemente inespugnabile, meritava il rispetto di tutto e tutti!

Aiutami, come posso conquistarla?” chiese Nonno Super al nipote che, da quando aveva conosciuto la scricciola pochi mesi prima, non faceva altro che parlare di lei e lei soltanto.

Ecco… - Stefano ci pensò su, più intensamente di prima, poi finalmente ebbe un’illuminazione – La pasta!”

La… pasta?” chiese Mario, convinto di non aver capito bene.

Sì, la pasta! - confermò Stevin, con un largo sorriso, prima di proseguire – E’ ghiotta di pasta, dovresti vedere quanto mangia! Mi hanno invitato a casa sua e ha spazzolato via tre, dico, TRE, piattoni di primo. E AVEVA ANCORA FAME, DOPO!” il bambino allargò teatralmente le braccia per dare l’idea del quantitativo, strizzando gli occhi.

Ah, incredibile! E dove se le infila tutte quelle porzioni? - domandò il nonno, sinceramente sbalordito, osservandola intenta a tenere in mano lo stesso coleottero di prima per studiarlo meglio – E’ un chiodo!”

Non lo so, ma te l’ho detto che è fantastica, no?!”

E che tipo di pasta predilige?”

Ecco, mmm… - di nuovo ci pensò su. Ricordava il condimento ma non la tipologia, dovette concentrarsi un poco di più per riportarlo alla mente – Le trenette! Le trenette al pesto!” si illuminò di nuovo, guardando tutto soddisfatto suo nonno che, illuminato a sua volta, gli scompigliò i capelli.

E bravo il mio ometto ancora una volta, un eccellente spirito di osservazione!”

Avevano un’arma in più per conquistarla, e poi il pesto di Nonno Super era super a sua volta, lo sapeva bene Stevin, perché a Cerviasca, nel paese un tempo abbandonato che stava rivivendo grazie a loro, tenevano una piccola serra con del basilico a piccole foglie adatto proprio per quel tipo di condimento.

Orbene, lascia fare a me, ometto… coff, coff! - si schiarì la voce, avvicinandosi cautamente alla bimba – Maria!”

Pss… Marta!” lo corresse immediatamente Stefano, perché non gli andava che sbagliasse così platealmente i nomi, non con la sua amica.

Scusa, Marta!”

La piccola udì il richiamo, intravide l’avvicinarsi del signore che aveva appena decretato la tempestiva fuga del coleottero. Si rizzò un po’, agitata, abbassò il braccio, rimanendo chiusa a riccio lì, lo sguardo altrove, ad una acacia cresciuta su una vecchia fascia un poco più in su rispetto alla strada. Non scappò, ma era palese il suo disagio.

Un uccellino mi ha detto che...”

Che uccellino?” la piccola si fece di colpo interessata. Non riusciva a puntare gli occhi su di lui, non ancora, ma perlomeno si era girata nella sua direzione. Doveva avere un qualche tipo di interesse anche per gli animali.

Ecco, un… - a Nonno Mario non veniva in mente specificatamente nessun tipo di uccello, pertanto tirò fuori la prima parola che gli sopraggiunse in testa – Un corbezzolo.”

Stefano si nascose il viso tra le mani, scrollando la testa nel ripetere tra sé e sé un: “no, nonno, no!”

Perché Nonno Mario era super, sì, ma di animali selvatici non ci azzeccava un’acca.

Il corbezzozollo… - Marta storpiava il nome ma sapeva benissimo di cosa si trattasse – non è un uccello!” gli fece infatti notare, pacatamente ma con determinazione.

E che cos’è?”

Arbutus unedo. - spiegò immediatamente lei, lasciandoli sbalorditi entrambi – E’ un albero sempreverde, diffuso nel Mediterraneo occidentale, tipico dei paesaggi a ridosso del mare. Fa dei frutti simili alle bacche, maturano in autunno e sono buonissimi!” sciolinò, schiacciandosi ripetutamente le guanciotte con i due indici, come a rammentare la consistenza e il sapore di quelle delizie.

Ah… ahahahahahaha!!! – Nonno Mario ci fece una grossa risata su, arrossendo sensibilmente davanti a quel piccolo genio che, a detta di Stefano, aveva appena cinque anni e già dava il nome latino alle cose – Hai ragione, che stupido sono stato! Ah, vecchiaia, ah vecchiaia che si porta via la parte migliore di me!”

Marta rimase in attesa, i suoi occhi blu avevano trovato il coraggio di sollevarsi un poco, rimanendo così ad osservare il mento di quello strambo signore che tuttavia non sembrava affatto male, occorreva solo prenderci la mano, ecco.

In verità non importa chi me l’abbia riferito, ma ho saputo che ti piace tanto mangiare, vero?”

Sì.”

Perfetto, che ne diresti di venire a casa nostra, conoscerci un po’ di più, mentre ci gustiamo un bel piatto di trenette al pesto tutti e tre insieme?”

Trenette?!” ripeté la piccola, sbalordita, già con l’acquolina in bocca.

Certo che sì, rigorosamente preparate dal sottoscritto, si intende! - le fece l’occhiolino, soddisfatto – Vedrai, non avrai mai provato nulla di simile!”

Anche mia nonna fa il pesto, e anche mia mamma!” disse pronta lei, saltellando sul posto.

Sì, ma questo è coltivato da noi! - si intromise Stefano, finalmente rasserenato dalla piega che stavano prendendo gli eventi – Non te ne pentirai!”

Davvero, Stevin, posso?”

Certo che sì, fai parte della famiglia, ormai!” disse l’amico e, dopo un breve cenno, si incamminarono tutti e tre insieme verso il paese.

Famiglia...”

Marta rimuginò su quella parola di cui sapeva bene il significato ma che le regalava sempre un’arcana sensazione di benessere al solo sentirla pronunciare. Camminò quatta quatta al loro fianco, in mezzo, finché l’anziano signore si azzardò a prenderle la mano tra le sue. La piccola non si ritrasse, era molto calda, le piaceva.

Puoi chiamarmi Nonno Bis, se vuoi...”

Era strano come nome, ma divertente. Annuì con la testa, mentre il suo sguardo finalmente riuscì a salire fino ai suoi occhi, che ora la fissavano con un misto di tenerezza e premura.

Aveva gli occhi scuri, Nonno Bis, profondi e luminosi, nonostante fossero contornati da rughe piuttosto marcate. Ma la cosa più strana era che Marta, ancora una volta, non vi vedeva alcuna somiglianza con quelli di Stevin, che continuavano invece a risultarle misteriosi. Era il colore dei laghetti di montagna, le era stato detto, o dei ruscelli di alta quota… da chi li aveva ereditati, però, era una domanda priva di risposta.

Guardò avanti a sé i ciottoli della strada sterrata che li separavano dall’entrata del paese. Di colpo si rese conto di avere qualcosa di molto importante da dire.

Ehi, Stevin, Nonno Bis...”

Sì?” risposero pronti loro due, girandosi in sincrono verso di lei, la quale sorrideva tiepidamente tra sé sé.

Il corbezzozollo non è un animale né tanto meno un uccello, ma c’è una farfalla che vive proprio grazie a lui. Si chiama Ninfa del Corbezzozzollo e si contano due generazioni all’anno. Il bruco si nutre delle foglie della pianta madre e… molte specie fanno così, sapete, non solo i lepidotteri! E’… è come se tutto fosse uno; uno fosse tutto. C’è un equilibrio, c’è… - si perse un attimo, prima di ricominciare – Comunque è molto rara, è più presente in Africa che non qui sulle coste liguri e toscane, ma c’è, io l’ho vista l’anno scorso, e… bla, bla, bla...”

Sia Stevin che Nonno Super/Bis ridacchiarono nel sentirla prendere a parlare senza sosta, facendosi sempre più attenti ad ogni singola parola.

Era una bimba un po’ stramba, molto scostante e chiusa, a tratti inafferrabile, ma quando raccontava di tutto ciò che era stato capace di catalizzare la sua attenzione, non c’era modo di fermarla, e ascoltarla era un vero piacere.

Quello era stato l’incipit di tutto, di un meraviglioso percorso che veniva chiamato vita.

 

 

Vita. Un percorso che viene chiamato vita… il tuo percorso, piccola mia, la tua storia, che si è intrecciata con quella di Stevin...

Si ripeté debolmente Camus tra sé e sé, ancora intontito dalle vertigini del sonno.

Ricordava di essersi riaddormentato su un fianco, permettendo così al venticello di continuare a lambirgli il ventre scoperto dalla maglietta. Era piacevole. Il dolore si era di nuovo attenuato, al punto quasi di scomparire. Le mani semi-chiuse erano posizionate come a trattenere qualcosa vicino a sé; qualcosa di molto delicato e importante che riusciva a farlo sentire bene. Si ricordò di aver provato a stringere la sorellina, prima di perdere coscienza.

Era comunque molto stanco. Un vociare in lontananza giungeva alle sue orecchie come una litania soave, unito ai caldi raggi del sole che lo accarezzavano e… una strana sensazione di bagnato sul lato corporeo che rimaneva sotto. Respirò profondamente nel tentare di muoversi. Il suo intento era quello di girarsi, ma le energie erano ancora calanti, il vociare sempre più vicino.

Quelle voci infantili lo confortavano, cercò di aggrapparsi a loro, perché il risvegliarsi, il riprendere cognizione di sé, lo faceva sentire violato, sguarnito, ma c’erano loro, le risate tintinnanti dei bimbi che giocavano e si divertivano.

Respirò più e più volte a fondo, utilizzando nuovamente anche il diaframma. Alla quarta espirazione riuscì ad alzare difficoltosamente un braccio che andò a tastarsi proprio la zona dell’addome. Le sue dita incontrarono subito la sua stessa pelle e quel calore arcano che si irradiava tramite essa. Doveva tentare di estinguerlo in qualche modo, controllarlo, perché il solo percepirlo gli procurava dolore e senso di profanazione. Si massaggiò quindi il ventre intorno all’ombelico con movimenti circolari in senso ascendente, tentando in ogni modo di calmare quel qualcosa che sentiva distintamente dentro di sé, ma era difficile e faticoso. Buttò fuori aria. Tastò oltre, il fianco sotto. La punta delle dita si bagnò istantaneamente di fresco.

Acqua?

Ebbe appena il tempo di chiedersi, prima di essere investito proprio da una spruzzata e da una voce che riconobbe subito.

“Forza, Stevin!!!”

Aprì faticosamente gli occhi, trovandosi davanti ad un paesaggio fluviale e alla sagoma minuta della sorellina che, a poca distanza da lui, ma irraggiungibile, gli dava la schiena.

Marta, sei… sei sempre la solita!

La chiamò debolmente o pensò di chiamarla, perché la sua voce era afona. Sorrise comunque istintivamente, mentre la piccola, non riuscendo a stare ferma un attimo, aspettava l’arrivo dell’amico Stefano per poi ripartire di corsa.

“Ehi, così non è valido!” protestò il bambino a corto di fiato, una volta raggiuntala, mentre l’altra ripartiva a tutta birra senza nemmeno aspettarlo.

“Sei lento!” lo pungolò lei.

“E tu impaziente!”

Ribatté Stefano, seguendola per poi sparire a sua volta dietro un masso. I due bambini erano chiaramente intenti a rincorrersi attraverso il greto del torrente.

Camus, al solo vederli, ne provava un’intensa sensazione di refrigerio. Coniugò interamente le sue forze per riuscire a voltarsi supino, le braccia parallele al busto. Aveva bisogno di una serie di minuti per fare mente locale.

Rispetto alle visioni susseguitosi precedentemente, dovevano essere passati un paio di anni, perché oltre ad avere le codine, il corpo della sorellina si era accresciuto, diventando un poco più slanciato, pur appartenente sempre a quello di una bambina in piena età scolare. Allo stesso modo, anche Stefano si era fatto più sicuro di sé, i capelli sempre alla stessa lunghezza, con quel curioso ciuffo a cespuglietto simile in tutto e per tutto al suo, ma gli occhi azzurri molto più consapevoli.

Dovevano trovarsi nuovamente in estate, agosto per l’esattezza, per il semplice motivo che, guardandosi brevemente intorno, Camus aveva già distinto alcune foglie secche erose dal caldo, condizione affine, per l’appunto, all’ultimo dei mesi estivi, il più atroce. Inoltre, quello specifico anno, era stato probabilmente parecchio siccitoso: le fronde dei pioppi e delle acacie che crescevano a ridosso del corso d’acqua, vertevano, sofferenti, verso il basso, palesando una situazione di patimento.

Dopo tutto quel ragionamento, il Cavaliere dell’Acquario provò finalmente ad alzarsi, sebbene gli arti fossero pesanti. Gli girava la testa e aveva le vertigini, gli occorse ulteriore tempo per riuscire a focalizzare bene dove si trovasse. Si era addormentato sotto il tiglio e risvegliato inspiegabilmente sul greto del torrente Brevenna dopo un ulteriore intermezzo di sogno vissuto attraverso gli occhi di Marta. Un lato del corpo, esattamente come lo aveva percepito nel riprendere coscienza, era rimasto bagnato. Sensazione di intorpidimento che si sforzò di cacciare via, devolvendo le energie rimaste nel rintracciare i due bambini che, colti dalla frenesia del gioco, avevano proseguito, uscendo dal suo campo visivo, direzione monte.

Finalmente riuscì a rimettersi in piedi. Era faticoso, il suo respiro si era fatto accelerato e aritmico, ma non gli importava. Trattenendosi la pancia, che continuava a percepire dolorante, mosse i primi passi sull’ansa del torrente. Nutriva un intenso bisogno di seguire e vedere la sorellina, come gli era stato impedito di fare per tutti quegli anni di lontananza. Lo faceva sentire bene, sebbene Efesto si fosse raccomandato di…

Già, cosa si era raccomandato di fare Efesto?!

Di colpo, Camus si ricordò che suo padre poco prima -o molto prima?- gli aveva rivelato qualcosa sulla pericolosità di quell’attitudine che condivideva con Marta; qualcosa che forse avrebbe dovuto rammentare e che tuttavia gli sfuggiva.

Gli schiamazzi della sua sorellina, intenta a schizzare l’acqua verde smeraldo al compagno di mille avventure, lo distrassero da quel pensiero. Si avvicinò a loro strascicando i piedi tra i sassi e le rocce calcaree del greto. Notò che entrambi avevano indosso solo un costume e che sembravano felici. Sorrise automaticamente nel constatare ancora una volta quanto la sorellina sembrasse una scheggia iperattiva. Saltava con abilità di qua e di là senza curarsi di rischiare di tagliarsi con qualche pietra appuntita, o peggio rifiuti umani. Stefano invece, più grande di lei anche se di soli due anni, era giudizioso e prudente. Prestava attenzione all’ambiente circostante e cercava, per quanto poteva, di dare un occhio in più anche alla più piccola.

Erano sempre stati così quei due, li aveva ben visti nei sogni. Una, guidata dalla sua perenne curiosità per tutto, intraprendente e audace, al punto, talvolta, di sforare nella sconsideratezza; l’altro, decisamente più avveduto, sempre pronto a fermarla dall’inguaiarsi, più incerto e moderato, sebbene considerasse la valle sua totale pertinenza.

Marta -pensò Camus tra sé e sé- era sempre stata così coraggiosa fin da piccola… anche Stevin probabilmente lo sapeva; sapeva che, tra i due, la più risoluta nelle intenzioni, mal disposta a lasciar correre chicchessia, solo apparentemente fragile, era sempre stata lei, fin dal primo momento in cui si erano conosciuti. Tuttavia era proprio lui a vegliare sempre sull’amica, a farla ragionare, a evitarle il più possibile i rischi.

Non era di certo la prima volta che li vedeva destreggiarsi in simili situazioni, anche se, riflettendoci ulteriormente, quel sogno era piuttosto insolito. C’era qualcosa di tremendamente diverso in quella visioni, non erano state come le altre a cui aveva assistito o che sapeva di aver vissuto attraverso gli occhi della sorellina.

Nelle precedenti, nonostante il punto di vista potesse divergere da interno a esterno, erano comunque le emozioni di Marta a filtrare in lui e a dettare le regole, come se Camus fosse stato una mera appendice sua. Ora… ora invece era lui stesso parte dell’ambiente circostante. All’occorrenza… forse avrebbe anche potuto interagirci!

Strabuzzò gli occhi a quella consapevolezza. Ripensò alla sensazione di bagnato che percepiva ancora, come se davvero stesse vivendo quel momento come parte a sé stante.

Cosa mi sta succedendo? Non sono… stabile... nel mondo reale? Mi deve essere accaduto qualcosa, prima, perché sento che dovrei ricordarlo e invece non lo rammento? Davvero, poi, vorrei rammentarlo? Cos’è questa sensazione innaturale di calore? Questo dolore a stento sopportabile che si irradia nel ventre?

Si tastò nuovamente la pancia, premendo le dita in alcuni punti. Era però impossibile schiacciare l’ombelico, farlo incrementava spasmodicamente la sensazione di malessere e disagio. Si ricoprì, trattenne dentro di sé un gemito, l’ennesimo. Non riusciva più a tollerare di tenere coperto l’addome, il tessuto della maglia, per qualche strana ragione, sfregava sulla sua pelle, procurandogli ancora più fastidio e la sensazione, atroce, di bruciare.

Cercò in ogni modo di non pensarci, tornando sulla sorellina che, nel frattempo, attirata da qualcosa, aveva deviato prepotentemente traiettoria per dirigersi nei pressi di una grossa parete calcarea. Lì l’acqua era più profonda ed occorreva proseguire a nuoto, cosa che infatti la piccola fece senza la minima esitazione. Quel cambio improvviso di rotta, sorprese non poco Camus e, nondimeno, lo stesso Stefano che infatti, rallentando a sua volta la corsa, la osservò confuso.

“Che succede ora?” chiese infatti il bambino, interdetto.

Nessuna risposta verbale, pareva non averlo neanche udito. Anche quelle erano cose che capitavano piuttosto spesso, ormai si stava avvezzando a quell’atteggiamento. Semplicemente capitava che, senza alcun preavviso, la piccina venisse carpita totalmente da qualcosa, al punto da non accorgersi più di nient’altro.

Dei veri e propri interessi assorbenti...

Rimuginò Camus, facendosi serio. Era riuscito difficoltosamente a fiancheggiare Stevin, e lì era rimasto con lui a tentare di capire cosa avesse attirato l’attenzione della sorellina. Tentò di acuire i sensi, di spingersi oltre, a guardare ancora una volta il mondo con gli occhi di Marta, ma l’unica cosa che riuscì a distinguere nitidamente, furono alcuni cerchi concentrici nell’acqua, qualcosa che ronzava agonizzante e, in ultimo, le mani della bambina che congiunte, si sollevavano dall’acqua con qualcosa nei suoi palmi.

Allora, solo in quell’istante, capì.

Intanto, con non poca difficoltà la piccola, sbattendo con forza le gambe perché le braccia non erano momentaneamente utilizzabili, si girò verso loro -verso Stevin, perché Camus non lo poteva vedere!- e, una volta in grado di toccare nuovamente con i piedi, emerse, sempre con quella cosetta tra le mani.

“Spostati un attimo, Stevin, mi serve quel masso.”

“Il masso?” ripeté lui, sempre interdetto.

“Il masso, sì. Osserva!” finalmente gli mostrò emozionata cosa serbasse nei palmi.

“Un’ape?” chiese conferma lui, riconoscendo la creaturina che, fradicia, tentava di sbattere le alette che tuttavia erano ancora incollate al corpo.

“Sì. - confermò lei, chinandosi poi per posarla sulla roccia in questione – Ha bisogno del sole per asciugarsi. E’ stremata, piccola!”

Marta aveva salvato un’apetta che stava annegando, l’aveva raccolta e ora la lasciava respirare sulla roccia nella speranza che potesse riprendersi. Stefano si chinò a sua volta, accucciandosi di fianco all’amica.

“Come hai fatto ad accorgertene?” le chiese, sinceramente ammirato.

“Ecco, mi… mi chiamava, credo che si possa definire così.”

“Ti chiamava? - domandò ancora lui, tiepidamente sorpreso. Non era la prima volta che accadeva e, di certo, non l’ultima. Sorrise tra sé e sé – Ma, tipo, bzzzz, bz, bz, e tu hai risposto?” la prese poi un poco in giro, ricevendo per tutta risposta uno scappellotto sulla nuca.

“SCEMO!”

“Bzzzz, bzzzz!”

“DAAAAAAAAI!!!”

“Ahahaha, scusami, non è la prima volta che dici cose strampalate, mi immaginavo semplicemente come fosse avvenuto! - disse, ridacchiando, prima di tornare serio – Comunque menomale che sei passata di lì, altrimenti diventava pasto per i pesci!”

“Già. - acconsentì Marta, facendosi un poco più seria – Le api sono importanti per l’impollinazione, sai? Si stima che quasi il 90% delle piante selvatiche da fiore abbia bisogno di esserini così piccoli per riprodursi. Sono indispensabili per loro ma anche per noi, tutto è... collegato!”

“Tutto è collegato.” ripeté Stefano, trovando che fosse molto veritiero e misterioso al tempo stesso.

Tutto e collegato… -si sentì di aggiungere a sua volta Camus, chiudendo brevemente le palpebre- hai ragione, Marta, ed è per questo che ti invito a riflettere su un altro passaggio: hai salvato una piccola ape, e ciò dimostra il tuo buon cuore, la tua straordinaria sensibilità, è altresì assolutamente vero ciò che hai detto sul loro conto, sono indispensabili. Tuttavia, forse, il sacrificio di quell’ape, probabilmente troppo debole per sciamare, avrebbe permesso ad un altrettanto piccolo pesce affamato di nutrirsi. Intervenendo tu in favore dell’insetto, hai dato una scossa, per quanto minuscola, all’equilibrio del Tutto. Non è, non deve essere, compito degli uomini creare sbilanciamento, ergersi sopra le parti, come invece avviene troppo spesso. Devi ricordarti che noi siamo intessuti nel Creato, né sopra, né sotto, ma… dentro!

Non sapeva perché gli era venuto da fare quella sottospecie di ramanzina, da quale pulpito poi, si disse con un sorriso amaro, rammentandosi per l’ennesima volta che lui per primo sarebbe stato capace di smantellare un mondo per salvare le sole persone che amava, eppure le parole erano liberamente fluite e non sapeva spiegarselo. Forse aveva solo bisogno di comunicare, di farle sentire che, in qualche modo, lui c’era, era lì con lei, anche se non poteva vederlo, che ci sarebbe stato anche dopo, perché faceva parte del suo cuore e così sarebbe stato per sempre.

“Marta? Cosa stai osservando?” la domanda di Stefano si perse nel vuoto.

Camus ebbe appena il tempo di riaprire gli occhi che si trovò ben presto a trasalire: la sorella stava guardando proprio nella sua direzione, gli occhioni spalancati. Rimasero fermi per secondi che parvero infiniti, i respiri di entrambi un poco più accelerati. L’Acquario si disse che non poteva essere possibile, che la sorellina non poteva stare osservando proprio lui e che doveva esserci per forza un’altra spiegazione, cosa che non tardò ad arrivare.

“Guarda lì!” biascicò Marta, sbattendo le palpebre nell’indicare un punto oltre l’immagine invisibile di suo fratello.

Nei pressi del laghetto, infatti, era cominciata una lotta tra i pesci del Brevenna, per lo più cavedani e vaironi, e gli insetti delle più svariate dimensioni che, attirati dal riflesso dell’acqua e dalla prospettiva di bere, varavano appena sulla superficie della stessa con l’evidente rischio di finire nel mezzo di qualche bocca famelica. Una vera e propria lotta alla sopravvivenza.

“Appena in tempo, eh?” fece Stefano, traendo un sospiro di sollievo.

“Già...” bofonchiò Marta, apparentemente un poco corrucciata nel vedere gli schizzi d’acqua farsi sempre più violenti.

Quell’anno c’era stata la siccità, i pesci dovevano essere parecchio affamati. Molti dei più giovani e inesperti li avevano trovati morti sul greto già preda delle mosche. Era stata un’annata piuttosto dura per tutti gli animali.

Le mosche, poi, proprio in quel momento venivano facilmente predate dai pesci affamati; tuttavia i pesci, una volta morti, venivano mangiati dalle stesse mosche o usati come contenitori per la propria progenie.

Quella consapevolezza aveva da sempre inquietato la piccola Marta che, anche in quella circostanza, reagì male, con una fitta di malessere nello sterno in veloce diffusione a tutto il corpo. Se lo massaggiò nauseata, diventando di colpo mogia. Lo stesso accadde a Camus.

Stefano rifletté, osservandola attentamente piegarsi in avanti, che anche quella era tutta una sua particolarità. I cambi di umore in lei erano abbastanza frequenti, come se ad un pensiero felice ne susseguisse un altro terribilmente tetro. Era un crocevia di contraddizioni, una montagna russa di emozioni intense e non tutte facilmente ascrivibili ad una sola causa. Come in quel momento, ad esempio: aveva appena salvato un’ape, si era sentita contenta per poi essere perforata da quell’espressione dolente, a tratti colpevole.

Marta, non devi reagire così…

“Marta! - fu il turno di Stefano di chiamarla, dandole una leggera gomitata tra le costole- Guarda!” e le indicò l’ape che, proprio in quel momento, sufficientemente riscaldata dai raggi del sole, aveva preso a far vibrare le ali per poi prendere finalmente il volo.

Marta aprì brevemente la bocca, un poco sollevata nello spirito, lieta che la creaturina potesse riprendere il suo ciclo. Sorrise tiepidamente, orgogliosa di averla aiutata.

“Quella è l’ape che tu hai contribuito a salvare, prende la sua strada!”

“Sì!” disse lei, gli occhi nuovamente brillanti.

“Ed io ora ti porto a vedere qualcosa di molto bello.”

“Uh, che cosa?” gli occhioni della bambina erano tornati vivaci e pieni nel voltarsi verso l’amico.

“Se-gre-to! - ammiccò Stevin, facendole l’occhiolino – Almeno finché non ci arriveremo, tanto è poco distante!”

“Un piccolo indizio?”

“Tu seguimi, semplicemente!”

E così i due si incamminarono ancora più a monte, ballonzolando tra i sassi e l’acqua fresca.

Camus fece per seguirli immediatamente, ma un ronzio poco distante attirò la sua attenzione. Era di nuovo l’ape che, forse appesantita già da prima, ricadde nel laghetto. Lì si mosse disperatamente due o tre volte, le ali stridettero ancora un poco, prima di essere catturate da un nuovo, quanto improvviso, schizzo. Tutto tacque. Pochi istanti dopo anche l’acqua era tornata tranquilla, il moto ondulatorio delle onde si era dipanato, portandosi così dietro la cancellazione di una vita per il proseguimento di un’altra.

Camus conosceva molto bene quella sensazione, quel silenzio che si creava dopo la scomparsa di un palpito. Non era certo la prima volta che ne assisteva da silente spettatore, il Maestro Fyodor gli aveva insegnato a rispettare l’agonia di un’esistenza che finiva, perché ognuno stava su quella Terra per un tempo limitato, ultimato il quale i giochi erano conclusi e gli atomi tornavano al Grande Cerchio, ma si riscoprì comunque sconvolto davanti a quello spettacolo, a quella superficie ora nuovamente placata che tuttavia aveva creato le condizioni per portarsi via una vita, per quanto insignificante potesse apparire.

Si riscosse, fremendo, solo qualche secondo dopo, sforzandosi di riprendere la direzione che avevano preso i due bambini. Ringraziò mentalmente il fatto che, con ogni probabilità, la sorellina non avrebbe mai saputo quanto inutilmente si fosse dibattuta per tentare di salvare la creaturina.

Stefano stava conducendo Marta molto più a monte rispetto a dove si trovavano prima, in una particolare ansa del torrente che creava dei laghetti ancora più profondi. Certo, non era la prima volta che girovagavano in quella zona, ormai conoscevano bene il fondovalle, ma ad ogni giro trovano sempre qualcosa di nuovo, di non visto, di meraviglioso. Era tutta una scoperta, e le scoperte riempivano di emozione i due bimbi.

In quella particolare ansa, sul lato destro del torrente, vi scorreva un particolare rio immissario color verde smeraldo che nemmeno in estate si asciugava mai del tutto. A poca distanza da quello, un vecchio mulino ormai quasi rudere, resisteva strenuamente allo scorrere del tempo. La parete su quel versante era in parte scoscesa e franabile, ma garantiva comunque degli appigli sicuri ai coraggiosi che desideravano provare ad inerpicarcisi. Non era comunque quello il fulcro della motivazione che aveva spinto Stevin a guidare lì la sua giovane amica. Ci sarebbe stato tempo dopo, da più grandi, per tentare torrentismo e risalire. Per il momento…

“Guarda là, vai dietro quella roccia e sbircia, ma non fare troppo rumore, mi raccomando!” le disse, con un mezzo sorriso, attendendo che la piccola seguisse le sue indicazioni.

Così fece, le gambine agili, i piedi fermi e gli occhietti curiosi. Camus la seguì a corta distanza senza toglierle gli occhi di dosso, quasi come uno spirito protettore. Si appoggiò a sua volta sulla roccia indicata da Stefano, mentre Marta, in religioso silenzio, si acquattava sotto, sporgendosi solo un poco per dirigere il suo sguardo verso il laghetto verde che confondeva le acque del Brevenna con quelle del rio chiamato ‘di Mareta’, come il paese situato a mezza costa sul versante destro della valle. Affinò, affinarono insieme la vista nel tentare di capire cosa volesse mostrare il bambino. Non lo capirono, non subito. Solo quando, da un’isoletta di ghiaia probabilmente creata precedentemente da un’alluvione, individuarono un pigro movimento di un collo sottile, che si era girato nella loro direzione per controllarli, compresero i motivi dietro la scelta di Stefano.

Era un, anzi una…

Germano reale femmina, in cova…

Ne dedusse Camus, riconoscendo il piumaggio marroncino tipico della specie. Abbassò poi lo sguardo verso la sorellina, che non diceva niente, ma era emozionata, trepidante, gli occhietti luminosi. L’aveva di certo riconosciuta, lei, che aveva fatto della natura e degli animali un interesse assorbente tale da memorizzare perfettamente non solo il nome comune, ma anche quello latino; lei che in tutte le visioni avute, scorrazzava liberamente nel verde, soffermandosi sulle cose, sul palpito di ogni singola vita, sul respiro della Terra. Anche in quel momento, così rannicchiata dietro la roccia per non disturbarla, ne percepiva l’inesauribile battito, al punto quasi di commuoversi.

La mano di Camus si mosse ancora una volta senza che lui se ne potesse accorgere. Aveva la sorellina a pochissima distanza, le sue manine sulla roccia, le ginocchia per terra piene di graffi e lividi perché era una peste di prima categoria. Con la stessa naturalezza del soffio del vento che scompigliava i capelli, le posò il palmo sulla testolina, carezzandola lieve. Il respiro della piccola, per qualche istante, mutò. Così il suo.

Stefano, soddisfatto della reazione, la raggiunse quatto quatto poco dopo, sistemandosi vicino a lei in silenzio, del tutto concentrato a rimirare la stessa meraviglia. Camus spostò quindi istintivamente la mano per dargli spazio.

“Hai visto che bella?” le chiese, circondandole di riflesso le spalle con un braccio.

“Sì, è vero! - confermò lei, sorridendo raggiante – E’ una mamma premurosa!”

“Li cova, eh?” disse ancora Stefano, sorridendo.

“Però ora dorme, deve essere molto stanca!” fece eco Marta, parlando sottovoce per non disturbarla più di quanto non avesse fatto la sua precedente interferenza.

L’Anatide effettivamente, dopo il movimento iniziale, teneva il collo piegato nel folto piumaggio marroncino, ogni tanto riapriva appena gli occhi bruni per poi tornare a richiuderli.

“Me la fece vedere il nonno un paio di anni fa. Costruisce e si prende cura del nido sempre qui, ed è sempre lei, l’ho capito dalla leggera macchietta bianca che ha all’angolo dell’occhio destro. Volevo farla vedere anche a te!”

“E’ bellissima, Stevin, questa è... vita!” affermò Marta, commossa, mentre, come sempre, le sue sensazioni dorate e brillanti raggiungevano anche Camus. La vide stringere il braccio libero dell’amico, tremando sempre di più in una vertigine di emozioni.

Lo è davvero, piccola mia, il fulcro della vita E tu, pur così piccina, ne riesci già a sentire distintamente la vibrazione!

“Però il padre non l’ho mai visto.” notò Stefano, osservandosi intorno, come spaesato.

“Il maschio Germano è diverso dalla femmina, ha il piumaggio più brillante, il collo e il capo verde. Un anello bianco ne divide il busto bicolore: marrone scuro il petto, grigio chiaro il resto. Poi però anche la coda cambia, e sulle ali… le ali!”

“Lo so anche io come è fatto il maschio! - ridacchiò Stefano, punzecchiandole un poco la guancia con l’indice destro – Ma non l’ho comunque mai visto nei dintorni!”

Sebbene non sia infrequente che questa specie di anatre stia in gruppi anche piuttosto larghi, i Germani no sono monogami bensì poligami. Solo la femmina si occupa della cura dei nascituri, e anche il concepimento può avvenire in maniera un po’…

Camus scrollò il capo, risparmiandosi di dire il resto. Non potevano sentirlo, era vero, anche se per qualche strana ragione lui percepiva l’ambiente intorno a sé come se ne facesse parte, bastava ricordare la sensazione di bagnato o, in quel momento, la roccia concretamente sotto di sé, ma non gli andava comunque di rivelare come avveniva il concepimento, brutale, di quell’animale.

“Forse il padre non c’è, non si occupa dei figli.” arrivò alla conclusione Stefano, tornando a osservare l’uccello.

“E’ così ma non ha importanza, potremo vegliare noi!” sancì Marta, determinata, sempre con quella luce negli occhi.

“Dici? Come potremmo fare?”

“Come degli zii acquisiti!”

“Degli zii?! Noi?”

“Certo! - Marta era motivata più che mai, ben consapevole delle sue scelte – Informiamo anche Francesca e Michela, così aiuteranno anche loro!”

“Oh… - il sorriso di Stefano si spense un poco – Le tue nuove amiche.”

“Che c’è?” indagò Marta, incrociando l’espressione un poco corrucciata di Stevin.

“Nulla.”

“Non ti piacciono?”

“Ma no, è che...”

“Cosa?”

Stefano gonfiò appena le gote, prima di girarsi dall’altra parte. Era geloso ma non voleva ammetterlo. Aveva paura di essere sbalzato via da loro, da queste due nuove bimbette, una più grande addirittura di lui, l’altra più piccola di Marta, che da circa un anno erano entrate fisse nella vita della bambina.

“Quando ci siamo conosciuti che girovagavi tra Carsi e Cerviasca eravamo solo noi. Tu avevi appena 5 anni e non conoscevi nulla di qui.”

“Sì, lo ricordo.”

“Ecco, è stato molto bello tutto quel periodo, quell’anno in cui eravamo solo noi. Poi hai cominciato anche tu la scuola e… e...”

“E ho stretto amicizia con Michela e poi Francesca, quindi tu hai paura che mi dimentichi di te!” arrivò alla conclusione pratica Marta, sorridendo tra sé e sé.

Stefano imporporò seduta stante, fece ‘no’ con la testa, più intensamente del normale, poi strizzò gli occhi.

“Le tue azioni parlano più delle tue parole!” gli fece notare ancora Marta, ammiccando appena.

Beccato. Stefano si vergognò di quel siparietto, abbassò lo sguardo, fissandosi su un sasso tondo tondo. Non sapeva come controbattere.

“Ma sai, Stevin, in verità sia Francesca che Michela le conosco già da prima, mia mamma è amica delle loro da molti anni, solo che, sì, prima ci vedevamo spora… ehm...”

Si era incartata, non sapeva bene la parola. Ci rifletté su ma non gli venne comunque. L’amico accorse in suo aiuto.

“Intendi che prima vi vedevate in maniera meno frequente e ora...”

“Sì, esatto! - esclamò Marta, contenta che l’avesse inteso, prima di proseguire oltre – Questo per dirti che, nonostante questo, tu rimani il mio amico.”

Stefano arrossì, ingoiò a vuoto, prima di tossicchiare e darsi l’aria da serio.

“Non me lo avevi mai detto, però, che le conoscevi già prima. Quel giorno in cui vagabondavi per la stradina tutta sola e soletta… ecco, io pensavo che lo fossi per davvero, perché sembravi… come me!”

“Beh, sai, all’inizio penso che mi considerassero un po’ strana.”

“Lo sei.”

“Grazie! - Marta gli fece boccaccia, prima di ridacchiare di nuovo – Lo sono, sì, non a tutti fa piacere la mia compagnia, gli crea… disagio!”

“E a loro creavi disagio, prima?”

“Francesca l’hai vista, è molto riservata, studia le cose, le persone… e poi ha già 10 anni, è su un altri piano. Michela, invece, è più piccola di me, penso non riuscisse a capirmi bene. Ora però va meglio, parliamo di più, IO RIESCO A COMUNICARE CON LORO, SAI?! - si trattenne, aveva alzato troppo il tono, al punto che l’anatra, infastidita, aveva alzato il collo, arruffando le piume – Ed è stato merito tuo.” aggiunse, grata.

“Merito… mio?!”

“Tu mi hai mostrato come interagire, senza farmi problemi su cosa pensano gli altri. Perché tu sei tu, sei strano a tua volta. E non te ne vergogni. Ebbene… anche io non me ne voglio più vergognare!” affermò, risoluta, accucciandosi maggiormente.

“Ah, ehm, è un complimento questo, oppure… no, perché sai, è un po’ agrodolce e… AHIO!”

“E’ un complimento sì, tonto!” esclamò lei, dandogli una leggera gomitata sul fianco.

“B-beh, allora grazie e… - Stevin arrossì ancora di più, ammiccando tra sé e sé – Mi fa piacere!”

“Per cui non ti preoccupare, sei il mio amico e lo sono anche loro. Vorrei tanto che anche fra voi potesse nascere un’amicizia!”

“Vedrò… vedrò cosa riesco a fare!”

“E invece per la germana… sarà il nostro piccolo segreto! - propose ancora la piccola, porgendogli il mignolo da intrecciare – Almeno finché non ti sentirai di condividerlo anche con loro!”

Stefano non contraccambiò subito il gesto, rimase ad osservarla per diversi secondi, stupito e un po’ abbagliato. La bocca si era schiusa in una piccola ‘o’.

“Allora, ci stai?”

“Io...”

BZZZ-ZZ

Camus dovette aggrapparsi istintivamente alla roccia per non cedere all’improvvisa sensazione di barcollare. Impallidì di molto, sforzandosi comunque di rimanere vigile.

Qualcosa dalla sua prospettiva era improvvisamente mutato, come se il sole si fosse parzialmente oscurato. C’erano ancora i due bambini davanti a lui, e l’ambiente circostante, anche se un poco rarefatto, ma le percezioni corporee, il suo stesso respiro stavano cominciando a cambiare. Qualcosa gli schiacciava le tempie, diventando di secondo in secondo sempre più opprimente. A fatica, si rimise dritto. Doveva trattarsi senz’altro di un banale giramento di testa. Calma. Chiuse d’istinto le palpebre, ma la sensazione non migliorò minimamente. Andava sempre peggio…

“V-va bene, allora te lo prometto, Marta, sarà il nostro piccolo segreto e… proverò a diventare anche loro amico.”

Camus fece l’errore di riaprire forzatamente gli occhi proprio in quel momento, ne derivò un’intensa sensazione di mancamento. Cercò di riequilibrarsi, ma era troppo tardi, cadde all’indietro. Tonfò in qualcosa di liquido -acqua!- percepì appena gli schizzi intorno a sé, prima di provare l’atroce sensazione di affondare. Tutto intorno a lui si era fatto buio, ad eccezione di una fievole luce lontana un poco rassomigliante al sole, anche se molto più fievole.

Non c’erano più i due bambini, né l’anatra, né il laghetto, né tanto meno il calore dell’estate. Non c’era più niente di tutto questo, solo… lui sott’acqua, l’ossigeno che gli mancava, e quella stanchezza colossale che lo prendeva sempre più spesso.

Stava affondando nelle tenebre ed era come precipitare nel vuoto. Provò ad alzare un braccio che tuttavia non rispose ai suoi comandi. Le energie non erano sufficienti, il suo corpo stava diventando troppo pesante. Si agitò, provò ad urlare, ma il suono della sua voce era afono.

Inerme, ancora una volta. Troppo stanco per reagire. Troppo stanco anche solo per provarci. La luce la vedeva ancora sopra di sé, anche se dannatamente lontana. Un ultimo tentativo ancora, il braccio si alzò di un poco, prima di essere circondato dalle tenebre. Serrò dolorosamente le palpebre.

Il buio gli aveva strappato prima le percezioni dell’ambiente circostante e poi la vista, ma non le sensazioni del proprio corpo che stavano diventando sempre più atroci e intollerabili per la sua psiche già duramente messa alla prova.

Sembrava davvero di essere metri e metri sotto rispetto alle superficie, l’acqua improvvisamente gelida gli lambiva la pelle per poi passargli sotto la maglia e scoprirgli interamente il ventre e parte del torace. Si irrigidì notevolmente a quel pensiero. I giochi d’acqua, la sua corrente, sostavano a lungo su di lui, gli scoprivano la pelle centimetro per centimetro, denudandogli quasi interamente il busto; i giochi d’acqua erano come mani, e le mani lo riportavano atrocemente a lui, a quell’essere ignobile che ormai popolava stabilmente i suoi incubi più terribili.

Camus trasalì nel rammentarlo, la schiena gli si piegò di riflesso. Per un solo istante gli parve di vederlo di nuovo sopra di sé, si stava inumidendo le labbra per poi procedere vilmente su lui come di consueto. Tentò di aprire la bocca per urlargli di andarsene, ma inghiottì solo acqua. Tentò quindi di ribellarsi in altra maniera, ma qualcosa, una forte pressione sulla bocca, gli piegava violentemente la testa indietro. I suoi polmoni ebbero un sussulto, fremettero più volte, mentre lui cercava in ogni modo e maniera di si divincolarsi, con l’unico risultato concreto di percepire ancora di più quanto ne fosse in balia, quanto non riuscisse a contrastarlo, quanto l’acqua -che era anche il Mago- si divertisse a piegarlo totalmente al suo volere.

-Sai che non puoi opporti, Camus…

-Nngh… NO!

-Lo sai bene, presto non mi resisterai più!

-NO!

Era un netto rifiuto, il suo, dato con tutta la volontà che gli era rimasta, ma le braccia non si muovevano più, erano semplicemente lungo i fianchi, semi-aperte e del tutto abbandonate a sé stesse come il resto del corpo.

-Non sei stanco? Non vorresti respirare senza tutto questo dolore?! Io posso darti… la pace!

-Non a queste condizioni. Ho promesso a Marta che ti avrei combattuto con tutto me stesso!

-Uhmpf, al solito trai da quella ragazzina la forza di non arrenderti… ma ormai non ne sei più in grado, Camus, sei esausto, a pezzi, solo.

-N-non sono, anf, solo…

-Ah, no?!

Quell’essere gli reclinò ulteriormente la testa all’indietro. Camus serrò disperatamente gli occhi, mentre il tessuto della maglia gli veniva completamente alzato sulla schiena, dove una presa ferrea lo tratteneva dalle scapole. Era davvero una follia provare a contrastarlo…

-Sei solo, sì. Puoi pensare di avere gli altri al tuo fianco, è vero, ma nessuno può sapere con certezza ciò che patisci di giorno in giorno senza requie alcuna. Neanche la tua Marta!

-Urgh!

-Perché tu tenti di nasconderle sempre tutto e… ciò che rimane qua dentro, tra me e te, è solo e soltanto consapevolezza nostra. Siamo intimi, Camus, che ti piaccia, o meno!

Le mani di quel mostro gli sfilarono lungo tutta la schiena per poi prenderlo dai fianchi e alzargli con prepotenza l’addome in modo che fosse più agevole ghermirlo con le dita rapaci. Camus ebbe un nuovo sussulto di terrore nel ricondurre quella sensazione terribile a qualcosa di recente che tuttavia non rammentava distintamente, prima di ritrovarsi completamente prosciugato di ogni forza e volontà.

Solo il ventre perdurava ad essere bollente. Il ventre… e il potere che esso celava. Forse, se lo avesse utilizzato...

-Sei solo e questa ne è la prova. Stavolta non ci sarà Marta a scacciarmi, né Hyoga, né nessun altro, ragazzo!

Le dita di quel mostro del tutto, simili ad artigli, gli si strinsero selvaggiamente sul bordo dei pantaloni. Camus ne percepì la violenza dell’intenzione prima ancora che Fei Oz la palesasse.

-Sei lontano da loro, dai tuoi amici, e debilitato dal potere che stai avventatamente adoperando. Non hai più alcun… uargh!

CAMUS!!!

Un’altra voce lo stava chiamando per nome. Era in evidente apprensione, calda, confortevole. Non era in grado di riconoscerla,non subito ma contrasse appena le palpebre nel rendersi conto, con sollievo, che era di nuovo da solo, anche se ancora perso in quell’acqua troppo gelida perfino per lui.

Camus, per tutti gli dei, cosa ti sta succedendo?!

Di nuovo la voce, ancora più densa di paura. Stavolta riconobbe trattarsi di un uomo. Il suo timbro famigliare era inconfondibile, ma ancora non riuscì a codificarlo.

CAAAMUUUS!!!

La voce era diventato un baritono di terrore. Stavolta lo riconobbe, meravigliandosi di averci messo così tanto per riuscirci. Contrasse più volte le palpebre nel tentativo di sillabare il suo nome.

Mi-Milo…

Stavolta non ottene risposta, ma sentì forte e chiara la paura, l’ansia del compagno ed amico. Non riusciva ad aprire le palpebre, il corpo perdurava a non reagire. Si intestardì, arrivando a muovere appena il pollice della mano destra. Poteva farcela, non era da solo. Lentamente, articolò quasi tutta la mano, che si aprì e chiuse diverse volte alla ricerca di un sostegno amico.

-CAMUS!

-CAMUS, NON ARRENDERTI!

-FORZA!

Si sforzò di respirare più regolarmente. Era più stanco di prima, stremato. Qualsiasi cosa facesse non sembrava poter avere requie, ma c’era Milo, là fuori, il suo migliore amico, e poi ancora Marta, le allieve, gli amici Cavalieri d’Oro.

Le luci della sua vita lo chiamavano con sempre più insistenza, diventando un unico coro che lo pregava di non arrendersi.

NON ARRENDERTI!

-Milo, spostati, che sta succedendo?

-Lui… non lo so, ha cominciato ad avere le convulsioni, la sua pancia è nuovamente bollente, sanguina copiosamente e…

-SPOSTATI!

-Ma…

-Bisogna intervenire d’urgenza, la frequenza cardiaca è troppo alta, incompatibile con la vita!

Camus non riusciva a codificare niente di ciò che stava avvenendo al di fuori di lui. Oltre alla voce del suo migliore amico se ne erano aggiunte altre, più secche e brusche, anche se ugualmente famigliari. Non le comprendeva a cosa si riferissero, non sapeva spiegare cosa gli stesse accadendo nel mondo reale, ma…

Improvvisamente avvertì un occhio pulsare, prima di avere la sensazione che gli venisse aperto a forza. Una luce lo accecò, riportandogli alla mente una delle ultime sensazioni tangibili prima che il Potere della Creazione annacquasse la sua coscienza e tutto il resto.

Lo stesso occhio aperto. A forza. La stessa luce abbagliante puntata nella pupilla. Utopo e le sue sevizie. Le torture a Michela. L’intervento del suo Hyoga che gli aveva salvato la vita...

In quell’istante tutti gli atti mancati, le sensazioni di smarrimento e malessere provate lungo il sentiero dei ricordi imboccarono un’unica direzione: come stavano i suoi due allievi dopo tutto il male che gli aveva inferto Utopo?!

Trasalì a quella domanda, rammentandosi del loro cosmo così fievole e del coraggio che avevano dimostrato durante la battaglia.

No, non poteva soccombere a quel folle, doveva reagire, doveva farlo… PER TUTTI LORO!

Sputò fuori acqua e diede un colpo di reni, scalciando con foga in giù per poi fare una capriola in acqua ed ergersi dritto.

Camus… coraggio, non puoi arrenderti!

Non posso arrendermi, hai ragione, Milo...

Ripeté lui, soppesando quelle parole, cercando di equilibrarsi nel rimanere dritto in mezzo all’acqua. Aveva sempre gli occhi chiusi e un folle dolore alla pancia, ma la sensazione di non farcela, di soccombere al Mago, stava scomparendo.

...altrimenti come potrei avere il coraggio di farmi chiamare ‘Mago dell’acqua e del ghiaccio’ da voi, che nella mia vita siete… tutto?!

Si chiese, con un sorriso, per quanto tirato. Stava lentamente riprendendo facoltà sul suo corpo. Respirava meglio ora, più profondamente, di nuovo utilizzando il diaframma, oltre che ai polmoni, per compensare. Finalmente riuscì a riaprire nuovamente le palpebre. Si trovava sempre in acqua ed era sempre avvolto dall’oscurità, ma rispetto a prima timide lucine del tutto simili a lucciole gli baluginavano intorno, dandogli nuova vigoria e spinta ad agire.

Marta...

Erano belle, bellissime, e calde, ne sfiorò una e ci vide attraverso il viso della sorellina ancora neonata; ne carezzò un’altra, e c’erano lei, Francesca e Michela che, dopo aver vinto una caccia al tesoro, si abbracciavano festosamente; e poi un’altra ancora, la raccolse nel palmo della mano.

Dal sentiero dei ricordi non poteva ancora fuggire, lo percepì come coscienza in sé. Non poteva ancora svegliarsi nella realtà, c’era… qualcosa di molto importante da fare!

Guardò per un attimo in su, in quel mare profondo di lucciole traballanti. Erano tutte belle e tutte meritavano di essere vissute -in certi casi, lo sentiva, le aveva perfino già viste, ma avrebbe comunque avuto piacere di rivederle- ma, fra tutte, l’unica in cui proveniva qualcosa di oltre, era proprio quella che sorreggeva in mano e che, proprio in quell’attimo, traballava tra le sue dita come un fiocco di neve. Raddrizzò nuovamente la testa, pensieroso. La nuova posizione assunta aveva permesso alla sua maglietta di scendere un poco più giù, lasciandogli comunque scoperto il basso ventre e l’ombelico che, proprio in quel momento, pulsava e scalpitava con maggiore intensità rispetto a prima, come ad indicargli di procedere. Socchiuse gli occhi, avvicinando il palmo alla fronte per poi prendere delle nuove, più profonde, boccate di ossigeno. Ormai aveva compreso come prepararsi al salto, non era poi così difficile. In quell’esatto momento, i lunghi capelli fluenti, prima un poco sollevati per effetto dell’acqua stessa, tornarono morbidamente giù sulla schiena, carezzandogli, lievi, i fianchi nudi.

Sapeva come fare, non avrebbe più esitato. Riaprì le palpebre, lasciando che la piccola luce entrasse placidamente nella sua testa passando dalla fronte. Subito udì le risate della sorellina dentro di lui, come tanti tintinni lieti. Istantaneamente sorrise, sollevato, immergendosi interamente e con serenità nel ricordo che aveva scelto.

Ogni cosa mutò. Non vi era più acqua, bensì aria; la sensazione di essere bagnato aveva ceduto il passo alla consapevolezza di trovarsi altrove, all’ombra fresca di un albero. Era appoggiato con la schiena al tronco di quello che sembrava un vecchio castagno secolare ormai in dirittura di arrivo. I raggi del sole passavano oltre la chioma verde inframezzata da ricci di castagne che, un tempo, erano stati tutto per la gente che viveva in quella valle. Gente umile avvezza alla fatica.

Era fine estate, Camus lo riconobbe dall’afa ancora persistente nonché dalla maturazione del frutto medesimo. Le foglie non erano più così rigogliose e, in generale, l’intero albero non versava in condizioni ottimali. Ampi solchi sul tronco indicavano che, nella sua lunga vita, doveva essere stato colpito più e più volte dai fulmini, l’ultima delle quali, probabilmente, anche piuttosto recentemente. Alcuni noduli legnosi di grosse dimensioni, dei veri e propri cancri della pianta, rendevano la corteccia asimmetrica, dando quasi l’idea che potesse scoppiare da un momento all’altro.

Il castagno stava andando incontro alla sua ultima stagione ma, strenuo, a giudicare dal quantitativo di castagne in preparazione, aveva dato il tutto e per tutto in quell’ultima fruttificazione.

Forse, uno dei suoi figli, partendo proprio da uno di quei piccoli ricci, sarebbe riuscito nell’impresa di germogliare e, nel giro di anni e anni, memore dell’impronta lasciata dal genitore, sarebbe cresciuto e avrebbe prodotto a sua volta altre castagne, offrendo a sua volta refrigerio al passante affaticato.

Camus, nuovamente in piedi e padrone di sé stesso, vide tutto ciò, passato e futuro, morte e vita, impresso nei solchi del vecchio albero. Si permise di guardarlo con solenne rispetto, accarezzandogli più volte la corteccia umida e segnata. Lo sentiva pulsare indomito, ancora, contro il suo palmo, ne percepiva l’intensa respirazione.

“Sei stato bravissimo. - gli disse, poggiandoci sopra la fronte per comunicargli meglio il messaggio, come gli aveva insegnato il maestro Fyodor – I tuoi sforzi non saranno dimenticati, puoi riposare ora!”

Socchiuse gli occhi nel prendere profondi respiri, il vento smosse appena la sua chioma come quella dell’albero. Due foglie, ormai per metà gialle, gli caddero tra i capelli, perché stavano comunicando, era vero, ma non nel linguaggio delle parole, bensì in quello misterioso del silenzio. Se ne sentirono giovati entrambi.

Da quanto non lo faceva -si rese conto Camus in un fremito- da quanto non parlava con gli alberi, e quanto gli era mancato! La vita al Santuario non concedeva distrazioni, era serrata e frenetica, a tratti insostenibile. Il Cavaliere si accorse di quanto ciò gli cominciasse a pesare, di quanto quella via, forse, non corrispondesse neanche e neppure lontanamente a quella che avrebbe voluto realmente intraprendere. Ma ci si era trovato invischiato e, col tempo, aveva imparato ad accettarlo, ad approvarlo perfino, almeno finché gli ultimi avvenimenti, il ritrovare la sorellina, l’essere catapultato in un passato lontano ma comunque suo, e il ritornare alla vita diverse volte, lo avessero minato in profondità. E ora, lì appoggiato a quell’albero a comunicare in un linguaggio inaccessibile ai più, gli aveva fatto provare un’intensa nostalgia per le cose perse e mai pienamente vissute.

Aveva solo bisogno di tranquillità ora, e serenità, passare del tempo con le persone che amava, con i suoi amici, con i suoi allievi, con la sua Marta. Basta battaglie e sofferenze, basta!

“Per di qui, ho trovato una scorciatoia!”

Proprio la voce della sorellina arrivò cristallina alle sue orecchie, portandolo ad aprire lentamente le palpebre, voltarsi, e indirizzare lo sguardo verso la dolina sopra di lui. La bambina stava scendendo con agilità, precedendo gli altri. Sembrava un leprotto, da come saltava o, meglio ancora, una giovanissima cerbiatta selvatica che aveva imparato a reggersi sulle sue lunghe, quanto sottili, zampe senza tentennamenti, buttandosi, un poco sprovveduta, giù dal pendio, fiduciosa delle sue capacità.

Dietro di lei tutti gli altri, ben più lenti, a parte Stefano che volutamente rimaneva nelle vicinanze del restante gruppo per poter essere così di aiuto.

Sei riuscita... a riunirli tutti!

Sorrise Camus, guardandola con quella punta d’orgoglio che le riservava sempre, prima di osservare entrambe le altre sue allieve e dedicare loro la medesima occhiata fiera. Erano davvero il suo orgoglio. Si soffermò maggiormente sulle versioni mignon di Michela e Francesca. La prima, nella fattispecie, sembrava avere non poche difficoltà a muoversi.

Ma Marta, di quelle problematiche, vuoi per la giovane età, vuoi perché di gran lunga troppo entusiasta, non si curava più di tanto. Sapeva destreggiarsi bene nei sentieri, compiva dei salti da una roccia all’altra -in piena discesa, oltretutto, roba che se metteva il piede male, si torceva la caviglia!- senza realizzare appieno che il resto dell’allegra comitiva era rimasto indietro.

Si stava inconsapevolmente avvicinando a lui, del tutto presa a scrutare i dintorni con sguardo felino per valutare l’appoggio più sicuro tra la radice che riaffiorava dal terreno assetato di pioggia e il masso muschiato a poca distanza. Infine scelse per quest’ultimo. Si diede bene la spinta per atterrarci proprio sopra, al punto che Camus, trovandosi nei paraggi, ebbe l’impulso di scostarsi. Si spostò giusto in tempo per lasciare campo libero a Marta, la quale atterrò, sì, sul masso, ma con il piede destro un poco più indietro del sinistro. Quel movimento non del tutto regolare né calcolato, minò direttamente al suo equilibrio, tanto da costringerla ad alzare le braccia per bilanciarsi un minimo in avanti.

Anche in quella circostanza, Camus agì d’istinto con gesto delicato della mano, sorreggendola, per poi sospingerla un poco in avanti e aiutarla nel procedimento.

“Stai attenta, ma petite bichette, i salti delle tue intenzioni sono enormi, ma il tuo corpicino deve ancora svilupparsi e crescere! - le sorrise, in un moto di tenerezza, constatando che stava recuperando più saldamente l’equilibrio – E poi gli altri sono ancora indietro, devi prestare attenzione anche ai componenti della tua vivace comitiva!”

A quelle parole, forse per un abbaglio, gli sembrò che le palpebre di Marta sbattessero più volte, come a riprendersi da un miraggio, poi lentamente la vide voltarsi indietro nell’osservare il punto più in su del versante del bosco per vedere a che punto fossero gli altri.

Francesca, da distanza, le diede un’occhiata indicativa, come a dire di aspettare, perché Michela aveva degli evidenti problemi a scendere. Certo, il suo viso aveva ancora qualche residuo della bambina che era stata, anche se si stava allungando per diventare la ragazza -ragazzina, in quel caso- che anche il Cavaliere dell’Acquario avrebbe poi conosciuto all’età di 20 anni, ma già in quel momento si dimostrava matura nelle decisioni, riflessiva, affidabile, ed estremamente contenuta. Aveva sempre i capelli corvini lunghi e lisci, anche se più corti, il seno in via di formazione, lo sguardo glauco attento e percettivo. Certo, era la più grande del gruppo, prima perfino di Stevin che, pur avendo solo due anni di differenza rispetto a lei, appariva ancora come un bambino.

Perché i maschi maturavano molto dopo -rifletté Camus, sempre concentrato a guardarli- e loro erano in quell’età che anche in un solo anno di differenza sembrava passarci un mondo. Lo aveva ben visto nel veder crescere Hyoga e Isaac.

“Aspetta un po’, noi siamo più lente!” la avvertì Francesca, rincarando il suo sguardo con le parole.

“Lo vedo.” borbottò Marta, con espressione furbetta, saltando giù dal masso e risalendo come a dire che lei invece ci riusciva benissimo a stare in piedi e a essere agile.

Era ovviamente una sfida di occhiate, perché lei, temprata dalle estati in valle, si sentiva sicura di sé e, non da meno, un pizzico superiore alle amiche che invece erano cittadine a pieno titolo.

“Poi inciampi, come poc’anzi, e rischi di fracassarti sul greto del torrente!” gli fece notare la più grande, inarcando un sopracciglio nel raccomandarsi la solita pazienza nell’avere a che fare con dei bambini.

“Ma non è successo e voi siete lumache!” la punzecchiò ancora Marta, facendo linguaccia, ricominciando nuovamente a salire e scendere e correre in lungo e in largo, pur rimanendo sullo stesso piano. Le piaceva dare mostra di sé, in quell’ambito.

“Se hai così tante energie, perché non ci vieni a dare una mano?!”

Marta, da birichina bastian contrario qual’era fin da piccolissima, non diede peso alla richiesta, semplicemente si buttò nella boscaglia più giù, di corsa ad abbracciare un albero di roverelle e poi di nuovo su, a salutare una felce nelle vicinanze.

“Io non so come faccia, davvero… - scrollò la testa Francesca, sbuffando – Usa tutte quelle energie, e ne ha tante, eh, senza rendersi conto poi effettivamente di quanto ne sperperi. E’ capace, stasera, di crollare addormentata dovunque si trovi e va a a finire che la dobbiamo riportarla noi a casa!”

“Se succede, ci penso io, la porterò in spalla - Stevin rassicurò la compagna più grande, buttando un occhio a lei per poi seguire la minore con un cipiglio d’urgenza – Adesso affretto il passo per raggiungerla, così se cade l’acciuffo io ed evito che si distrugga le ginocchia come ogni santissima estate!”

“Meglio, sì, io penso a Michela!” annuì ancora lei, sorridendo appena.

E Camus, in quel breve scambio di sguardi ne percepì la complicità di chi, più grande, deve badare ai più piccoli. Seguì poi le manovre di Stefano con uno strano peso sul petto, misto però a curiosità e senso di protezione per quei ragazzi che, chi in un modo e chi nell’altro, erano entrati nel suo cuore. Marta, del resto, aveva per davvero le ginocchia rassomiglianti ad un ricettacolo di tagli, abrasioni e sbucciature varie, ma non se ne curava minimamente, continuando invece a scrutare ogni più piccolo anfratto dell’ambiente circostante e interagirci.

Sei pestifera, ci vuole una certa dose di pazienza, con te. Sei testarda e orgogliosa, convinta di avere ragione qualunque cosa accada, al punto, a volte, di non renderti conto delle difficoltà degli altri. Ma sei davvero una brava bambina, solo… un po’ scapestrata. Avrei tanto voluto essere qui con voi, a vivere le vostre avventure...

Si ritrovò a pensare Camus, con un mezzo sorriso, mentre assisteva alla scena di Stevin che, forse calpestando un sasso non del tutto stabile, rischiò di cadere, finendo per essere acciuffato alla ben meglio da Marta che, vedendolo in pericolo, si era precipitata a sorreggerlo.

“E poi sei tu quello che sostiene di acciuffare me, eh?!” lo prese in giro lei, ridacchiando di gusto insieme all’amico, prima di scattare improvvisamente per abbracciare il vecchio castagno, lo stesso con cui aveva interagito Camus.

“Imponente, eh?!” fece notare Stevin, osservando l’immenso tronco d’albero in proporzione alle braccine dell’amica.

“Sì, prima ho abbracciato anche una roverella, ma lui ne ha più bisogno.”

“Perché?”

“Perché questo… è giunto alla fine del viaggio.”

Se fosse stato possibile sbiancare, da inconsistente spirito, probabilmente Camus lo avrebbe fatto, trasalendo sensibilmente a quell’affermazione.

Che Marta percepisse inconsciamente il fulcro della vita, nonostante non avesse mai avuto un addestramento da Sciamana, lo sapeva, reminiscenza di Seraphina, si era detto, ma che potesse così abilmente sondare l’Uno e il Tutto senza la minima incertezza, senza probabilmente neanche accorgersi della portata delle sue azioni, era qualcosa di inconcepibile perfino per lui, che aveva impiegato anni per riuscirci pienamente.

“Come sarebbe a dire alla fine del…?” ripeté Stevin, non capendo pienamente, non prima di aver osservato con più attenzione il tronco.

Effettivamente l’albero dava chiari segnali di essere a fine ciclo vitale.

“Alla fine del ciclo. - spiegò per l’appunto Marta, sorridendo malinconicamente nell’appoggiarsi con la fronte alla corteccia per aumentare l’intensità di quel momento – Ed io gli vorrei dire che non sarà da solo, che probabilmente rinascerà, che la sua lunga esistenza ha avuto un senso...”

Piccola…

Gli occhi di Camus erano lucidi, nell’osservarla. Provava il bisogno di stringerla a sé e dirle, ancora una volta, quanto fosse orgoglioso di lei, anche se molto spesso la sua attitudine, i suoi stessi obiettivi, lo terrorizzavano

Sei così avanti senza che neppure ti sia stato impartito un addestramento specifico… ed io cosa devo fare con te, Marta? Sei intrinsecamente portata ad essere una Sciamana Evocatrice, ma è un percorso ricolmo di sofferenza al quale io, che mi sono fermato prima, non posso accompagnarti se non nei tuoi primi passi.

Strinse si riflesso i pugni, osservandola comunicare con l’albero senza margine di errore. Anche Stevin appariva coinvolto, sebbene rimanesse distante, come se il solo guardare lo spettacolo di una vita secolare che si stava inesorabilmente spegnendo, gli procurasse un’emozione forte, a stento contenibile.

Cosa devo fare? -si chiese ancora Camus, sempre più scuro in volto- Dovrei farti conoscere Elisey, dovrei affidarti alle mani di quell’uomo?! Se solo ci fosse stato ancora il Maestro Fyodor qui con me, lui avrebbe di sicuro trovato il modo per farti attingere interamente alla tua dote...

Nel frattempo, più in su, la situazione si stava facendo complicata, obbligando la più grande del gruppo, Francesca, ad ingegnarsi per trovare una soluzione alla problematicità.

Michela, visibilmente la più piccina dei cinque, si era come impietrita davanti ad un passaggio fatto di sassolini sgretolanti che non davano garanzie di sicurezza. In quel frangente, teneva i capelli raccolti in due minuscole codine e si sorreggeva quasi interamente all’amica più grande nella paura di cadere. Ad un certo punto, probabilmente spaventata da un salto troppo lungo, si era messa a piangere.

“Uuuuuuuuuuh, non posso, non riesco!!!”

“Dai, Michela, salta! Ti prendo io!” la provò a spronare Francesca, scendendo prima lei dalla sua posizione per poi allargare le braccia e farla sentire più al sicuro.

“Sigh, sigh, nuuuu, cado!!!” si oppose lei, tirando su col naso.

“Michy...”

“Ho paura! Ho paura!!!”

La più piccola era sempre stata una gran frignona fin dalla più tenera età, prima di crescere e irrobustirsi. Piangeva spesso per ogni più piccola cosa ed era difficile spingerla a fare ciò che lei non si sentiva all’altezza di compiere. Davvero difficile. Ci voleva tutta la pazienza del creato o… una buona motivazione!

In quell’esatto momento Marta, staccatasi dal grande castagno, tornò un poco indietro, arrampicandosi quasi come una scimmietta per avvicinarsi all’amica.

“Dai, Michela, se vieni giù poi ci prendiamo un bel gelato!”

“Ma dove? Che la valle non ha negozi?!”

“Da nonno Mario!” rispose lei, tutta, convinta, ricercando la complicità di Stefano.

“Eh?! Ma il nonno… - provò a ribattere lui, ma il sibilò che le regalò lei, a metà strada tra il ronzio di una zanzara e lo squittire di un topo, gli diedero la spinta giusta su come agire – ehm, sì… Si! E vedrete che GELATO, cioccolato e stracciatella!”

“Da-davvero ci offrirà un gelato?” chiese ancora Michela, con gli occhioni brillanti e la boccuccia a formare una ‘O’ perfetta.

“Certo, sarà il nostro premio per la missione anatroccoli!” sogghignò Marta, motivando finalmente l’amica a scendere giù insieme a loro, con i suoi tempi, certo, ma senza più lacrimoni.

“Cosa le dirai quando torneremo a Cerviasca e non ci sarà il gelato?” gli fece notare Stevin sottovoce, dandole una leggera gomitata tra le costole.

“Oh, non ti preoccupare! - fu la serafica risposta di lei, con un sorriso sgargiante – Ingaggerò mia nonna che oggi è andata ad aiutare Nonno Bis con l’orto. Lei ha sempre un dolce per tutti!”

“Quindi fammi capire… stai puntando tutto su una scommessa che tua Nonna Inés abbia avuto l’idea di prepararci di sua spontanea volontà un dolce?!”

“Non è una scommessa, SONO SICURA che ci avrà pensato!” le fece l’occhiolino lei, tutta contenta, rimettendosi alla testa del gruppo direzione laghetto dove la germana covava.

Finalmente anche Michela e Francesca sarebbero state zie, la piccola era entusiasta al solo pensiero. Il gruppo dei bimbi proseguì quindi il percorso con il doppio delle energie, nulla sembrava poter andare storto quel giorno. Infatti quando giunsero, ignari, sulle rive del Brevenna nei pressi del laghetto verde creato dal rio di Mareta, non si accorsero, non subito, che qualcosa in verità era cambiato. Al contrario, Camus lo percepì, una sensazione di formicolio gli attraversò immediatamente la schiena, mettendolo in allerta: l’aria recava con sé odore di sangue. Fu sul punto di fermarli, ma all’ultimo si ricordò che non era corporeo.

Marta proseguiva dritta, un largo sorriso le alzava gli zigomi rosei rendendola graziosa e ancora più bambina; Stevin appena dietro di lei e Francesca e Michela subito appresso. Proprio Stefano però, ad un certo punto, percependo un odore dolciastro nell’aria -aveva un ottimo olfatto, di molto superiore alla norma!- si fermò di botto, come stordito.

Qualcosa non andava.

L’atmosfera era pesante e intrisa di sangue.

Vi era proprio odore di sangue, in effetti.

In maniera non dissimile da Camus, si mise istintivamente in allerta, i sensi tesi oltre l’inverosimile. Qualcuno dietro di lui sussultò, presagendo qualcosa di simile. Stevin si accorse, quasi avesse inspiegabilmente gli occhi dietro la testa, che era stata Francesca ad aver prodotto quella sottospecie di flebile brusio, trattenendo immediatamente Michela dietro di sé con fare protettivo

Che cosa l’avesse messa a sua volta sulla difensiva era inspiegabile, il bambino la conosceva ancora troppo poco per dirlo con certezza, ma passava in secondo piano al pensiero che Marta, invece, ignara di tutto, quasi trotterellando, proseguiva dritta per la sua strada.

“Ehi, no, aspetta, Marta, fermati!” la provò ad avvisare, mentre l’amica proprio in quel momento stava giusto svoltando il grande masso che celava parzialmente il profondo laghetto.

La bambina non si fermò a quel richiamo, del tutto allegra, ciò spinse Stevin a scattare nella sua direzione per afferrarla da un un braccio e costringerla così a voltarsi.

“FERMAT..!”

Non ultimò la frase, con quel balzo aveva a sua volta girato il masso, trovandosi davanti una scena che aveva del raccapricciante. Deglutì a vuoto, sgranando gli occhi, prima che il visetto confuso di Marta entrasse nel suo campo visivo, occludendogli la visuale. Fortunatamente l’amica non aveva visto ancora nulla, era riuscito ad agire in tempo, ma ora era lì, lo tempestava di domande circa le motivazioni di quell’improvviso stop che aveva avuto proprio da lui.

“Ehi, Stevin, che succede, adesso? Che cosa c’è?”

“Ehm...”

“Non vuoi più presentare i nostri nipoti a Michela e Francesca? Non ti senti ancora pronto?” volle sapere lei, cercando di codificare la sua espressione.

Stefano non riusciva a rispondere, non era in grado di argomentare, il viso un nugolo di orrore. Indietreggiò di qualche passo, portandosi dietro lei. Doveva trovare in fretta una ragione sufficientemente convincente per spingere l’amica a retrocedere senza destare l’interesse dei ragazzetti, a loro due tristemente ben noti, che si erano già appropriati del laghetto prima del loro arrivo.

“E’ proprio stecchita, questa, ragazzi...”

“Guarda che buco che ha… ehi, Paolo, infilaci il bastoncino!”

“Che??? Il bastoncino?!”

“Sì, voglio vedere che effetto fa!”

Confabulavano intanto tra loro, del tutto concentrati sul coacervo di piume e sangue che stavano ispezionando con interesse quasi morboso.

Era tardi… tardi per tutto, ma forse, se avesse convinto l’amica ad andarsene, avrebbe potuto perlomeno evitarle quell’orrendo spettacolo.

“EHI, STEVIN, CHE SUCCEDE?!”

Marta, però, insisteva a parlare ad alta voce, un po’ perché aveva avuto un tono sempre discretamente alto, un po’ perché l’amico sembrava immobilizzato, non reagiva.

“Stevin?”

“Io...”

“Sei impallidito di molto. Stai male?”

“Ho dimenticato una cosa. - tentò di sviare lui, cercando di tornare ad una espressione normale, accettabile, nel fissare i suoi occhi in quelli dell’amica – Possiamo tornare indietr..?”

“OH, MA GUARDA CHI SI VEDE, IL SELVAGGIO E IL PICCOLO DEMONIETTO DAGLI OCCHI BLU CHE GLI STA SEMPRE APPRESSO!”

Piccolo demonietto dagli occhi blu… era il modo in cui molti bambini e ragazzini si rivolgevano a Marta a causa dell’intensità del suo sguardo. Camus lo aveva ben visto nei sogni che condivideva con lei, perché erano parole impresse indelebilmente nella mente della piccola che, proprio in quel momento, riconoscendo malauguratamente il richiamo, si voltò.

Stevin come Camus, come Francesca, avrebbe voluto impedirle quel movimento, condurla lontana, non farle vedere cosa avesse attirato così l’attenzione del gruppo di teppisti.

Ma ormai era tardi anche per quello.

La piccola trasalì nel riconoscere il coacervo di piume insozzate di sangue che era appartenuto alla madre dei germanotti; un foro netto da una parte all’altra del collo indicava che qualcuno doveva averla trafitta con qualcosa di acuminato.

“N-no! No!” sussurrò la bambina, in un singulto strozzato, il faccino una maschera di orrore, le mani istintivamente portata sulla bocca.

Camus strinse i pugni, le palpebre gli si fecero pesanti nel percepire su di sé le emozioni della sorellina. Qualcosa gli pizzicava fastidiosamente l’angolo degli occhi, mentre osservava Stefano abbracciare istintivamente Marta che, scioccata dalla visione, aveva preso a tremare e balbettare frasi indistinte.

Cadde un silenzio atrocemente pesante. Solo la vocetta di Michela, a cui era stata risparmiata la scena grazie al tempestivo intervento di Francesca che le aveva lestamente coperto gli occhi, trovò il coraggio di elevarsi, del tutto inconsapevole della tragedia che era appena avvenuta in quell’angolo di mondo.

“Fra… FRAAAAA, cosa stiamo facendo? Stiamo giocando a nascondino? Chi conta?” chiese ingenuamente la più piccola.

Nessuno le rispose. Nessuno del gruppo di amici si sentiva di rispondere. Si udivano solo le risate di scherno degli altri, i teppisti di Mareta, quelli dell’altro versante della valle, perennemente in guerra contro Stefano e Marta e quindi, conseguentemente, anche con loro due, che pure venivano su in valle solo nei week-end e durante le festività.

“Fra, che succede? - insistette Michela, affatto contenta di non ricevere risposte – Ci sono altri bambini con qui giocare? Dove…?”

“Non ora, Michy.” la fermò la più grande e giudiziosa, sospirando affranta.

Marta, intanto, parzialmente ripresa dallo shock iniziale, aveva preso a dimenarsi tra le braccia di Stefano, il quale, a stento, provava a trattenerla. Ad un certo punto, in un impeto, riuscì a liberarsi per poi dirigersi ad ampie falcate verso il gruppetto dei quattro ragazzini nemici.

Camus non lo vide con nitidezza, ma gli parve, per un fugace attimo, di distinguere un veloce fascio cremisi lampeggiare negli occhi blu della piccola, baluginare, per poi sparire. Si irrigidì per istinto.

Come quella volta…

Rifletté in un fremito di consapevolezza, tremando distintamente per diversi secondi. Di qualsiasi cosa si fosse trattato, a giudicare dalla reazione degli altri ragazzini che si intirizzirono istantaneamente, dovevano averlo scorto anche loro. Non poteva quindi trattarsi di un abbaglio.

“Perché lo avete fatto?!” il tono della bambina era limpido, nonostante la rabbia crescente.

“Noi non...”

“Che cosa avete fatto?!?” chiese ancora lei, sempre più livida, nel vederli indietreggiare come dei fifoni.

In quel momento, il più grande fra loro, probabilmente il capo a giudicare dal modo di atteggiarsi, nel non distinguere più quel fascio atroce negli occhi della mezza tacca chiamata Marta, si fece forza e avanzò di qualche passo per fronteggiarla apertamente

“Noi niente, demonietto, non...”

“MA SE E’ MORTA!!! - ululò ancora la bimba, perdendo le staffe. Si era fatta rossa, e poi violetto, gli occhi fiammeggiavano sinistri, al punto da far sussultare lo stesso Camus, che quasi non la riconosceva. - VOI L’AVETE UCCISA!”

Non vi era più, in lei, quel bagliore cremisi, terribile, di prima, ma avvertiva distintamente qualcosa di enorme divincolarsi all’interno della piccina, e così in lui, mordendo per voler uscire, calciando. Il cuore gli si accelerò in petto, e capì che lo stesso stava accadendo alla sorellina.

Doveva fermarla a tutti i costi. Se non lo avesse fatto, qualcosa di tremendo sarebbe successo da lì a breve.

Devi calmarti, Marta! Devi riportarlo sotto la tua volontà. Non cedere alla furia, NON CEDERE al suo controllo!

Si tratteneva la pancia nel pensarlo, quasi facendosi male lui stesso, graffiandosi la pelle sotto la maglia con intensità crescente. Qualsiasi cosa fosse, era come se la avvertisse concretamente anche dentro di sé. Ed era terribile.

“Non siamo stati noi ad ucciderla, genia! - si aggiunse intanto il capo in seconda, affiancando il primo, prima di scostarsi e mostrare qualcosa a poca distanza – Guarda là, osserva!”

Si girarono tutti, ad eccezione ovviamente di Michela, nella direzione indicata. Un nuovo singulto li scosse, mentre la rabbia di Marta, semplicemente, vinta da qualcosa di forse ancora più atroce, evaporava completamente, dandole nuovamente i connotati propri di una bambina.

A poca distanza dai due gruppi rivali, infatti, sul lato destro del torrente, vi era un grosso uccello dalle piume cenerine che Camus riconobbe subito come un airone. L’animale, senza curarsi del trambusto nei dintorni, era completamente preso a servirsi il pasto, consistente proprio in uno degli anatroccoli figli della povera madre. Di tutti gli altri non c’era più alcuna traccia, probabilmente predati prima, o comunque fuggiti nel tentativo di salvarsi, anche se, senza la mamma, le possibilità di farcela erano pressoché nulle.

Era la dura legge della natura. Sia Stefano che Francesca la conoscevano bene. Per Marta, invece, quella fu la prima volta. La bimba si lasciò cadere a terra, la bocca semi-aperta, mentre dei fiotti di lacrimoni le inondavano le guanciotte, segnandole barbaramente il viso che si era cristallizzato in un’espressione spezzata, indicibile.

Gli aironi potevano mangiare gli anatroccoli perché erano prede facili e deboli. La natura non dava spazio alla debolezza. E valeva per tutti. Esseri senzienti e non. Non era un mondo per i fragili di cuore, né per la gentilezza. Era semplicemente crudele… crudele e magnifico insieme!

Marta piangeva senza tuttavia singhiozzare, e quelli… quei teppistelli, del tutto incuranti del suo stato, avevano preso a ridere sguaiatamente, a prenderla in giro ed insultarla, perfino, mentre lei si nascondeva il volto con le mani, ginocchioni per terra, inconsolabile nella presa d’atto di quel mondo fino a poco prima tanto amato e ora improvvisamente odiato, che distruggeva ciò che lui stesso era stato capace di creare.

Perché, venire al mondo, vivere e respirare… non era affatto così bello come inizialmente aveva pensato. Era una maledizione e una condanna, era come trovarsi su un treno diretto e sparato verso un’unica, inevitabile, meta. I tarli, infine, all’età di 8/9 anni, si erano insinuati dentro di lei.

E Camus, che aveva sempre voluto salvaguardarla dal suo primo battito, si ritrovò invece impotente a dover assistere a tutta quella cattiveria nei confronti della sorellina, alla spietatezza con la quale loro si rivolgevano a lei, senza la benché minima esitazione, senza la minima comprensione di ciò che lei stava attraversando. Strinse con foga i pugni, ancora… e ancora. Si dovette raccomandare il controllo, che in quel momento era labile in lui, nonché la temperanza, mentre quei ragazzetti continuavano a sbeffeggiavano con soddisfazione nel rendersi conto del suo momento di fragilità.

“Ahahahaha! Ma che ti credevi, che l’avessimo uccisa noi?! Vivi proprio nel mondo delle favole!!!”

“Frequenti questa valle da anni e ancora non sai cosa può accadere?! Ti credevi in paradiso?!”

“Ahahahaha, guardalo come lo inzuppa nell’acqua, come i biscotti nel latte!!!”

“NO, NON VOGLIO GUARDARE!”

“Come no, ora frigni? Guarda, guarda… ammorbidisce la papera e poi se lo inghiotte in un sol boccone!”

“No, no, no...” continuava a rifiutarsi Marta, nascondendo ancora di più il viso dietro le mani.

“Ora non vuoi accettare la realtà di questo mondo?! Sei ridicola, demonietto! Questo è: gli aironi possono mangiare gli anatroccoli e, all’occorrenza, uccidere anche la papera madre che, essendo sola, è una vittima facile!”

“A proposito, sapevi che la fecondazione nei germani avviene spesso tramite stupro di gruppo?! Proprio così, già già, le bloccano sott’acqua e… ZAC!”

“No, no, basta, non voglio sentire… NON VOGLIO SENTIRE!!!” ululò ancora la piccola, piegandosi in due nel tapparsi le orecchie.

“Piantatela!” una voce si elevò dietro di lei, prendendo posizione, ma Marta era talmente intenta a singhiozzare che quasi non la udì.

E comunque non fu sufficiente per fermare il gruppo di bulletti, che decise di proseguire nell’opera di demolizione.

“Un po’ come tua madre, Demonietto...”

Che cosa?!

“...Deve averti concepito in seguito ad uno stupro, non è forse così?! Ecco perché è da sola ed ecco perché sei uscita con quegli occhi inquietanti che non appartengono a nessuno, oltre che a te! Mio padre dice che solo un demone può avere quel colore!”

Che bastardi! Questo non lo dovevate dire… questo non lo dovevate proprio dire!

Ringhiò Camus a denti stretti, conficcandosi le unghie nei palmi per tentare un ultimo disperato tentativo di autocontrollo che gli risultava sempre più difficile. Gliela avrebbe data volentieri lui stesso una bella lezione, a quel gruppo di bambocci tronfi che credeva di aver scoperto tutto della vita e che invece non conosceva proprio niente! Un bel soggiorno in Siberia e si sarebbe poi visto come si sarebbero ridimensionati in fretta e furia, abbassando istantaneamente la cresta e la strafottenza. Non avevano preso abbastanza botte in vita loro, ma… a tutto c’era rimedio!

Qualcosa mutò nell’aria, una sorta di vento imperioso cominciò a soffiare nei dintorni. Solo Francesca, rimasta un poco più indietro a trattenere Michela, parve rendersene concretamente conto. Non Stefano, e neppure lo stesso Camus, che era ad un passo da utilizzare i suoi poteri su loro, in barba al fatto che fossero dei semplici ragazzini di paese.

Marta, del resto, non diceva più niente, aveva finito perfino di dibattersi, rimanendo invece per terra, le mani ad abbracciarsi il busto, gli occhi nascosti dalla frangetta. Silente, ma di quel silenzio che era pregno di qualcosa di atroce.

Il capo dei bulli, ancora non contento del trattamento che le avevano riservato, si avvicinò trionfante a lei, prendendola per un braccio per poi strattonarla con violenza. Nessuna reazione. La piccina rimaneva lì, passiva, gli occhi svuotati.

“Cos’è, ora sei mogia dopo aver scoperto l’ovvio?! Hai perso ogni vitalità e la parlantina che ti contraddistingueva?! - la tirò e la strattonò ancora e ancora, rischiando di farle male, compiacendosi della sua totale impotenza – Sei davvero patetica...”

A quel punto Camus non ci vide più. Del tutto dimentico del ruolo che ricopriva, di essere un Cavaliere devoto ad Atena e all’umanità, si riscoprì un semplice fratello maggiore che doveva difendere e proteggere la più piccola e al quale era appena stata insultata la madre. Dei cristalli di ghiaccio danzarono sul suo palmo, pronti per essere lanciati, ma qualcun altro si frappose fortunatamente tra le sue intenzioni e l’attuazione del colpo.

Qualcuno aveva preso l’altro braccio del bulletto, facendoglielo ruotare in modo che mollasse la presa su Marta, e ora lo guardava fisso negli occhi, con quella disapprovazione nello sguardo di un chiarissimo color azzurro che a Camus ricordava tanto qualcosa.

Stevin…

I cristalli di ghiaccio si dileguarono nel palmo di Camus che lentamente tornò al controllo, rendendosi appena conto, con un brivido, di ciò che aveva rischiando di perpetrare nei confronti di un paio di ragazzini che, per quanto spregevoli e indecenti, di fatto, non avevano fatto nulla di così grave da decretarne la morte.

La reazione rischiava di essere sproporzionata alla pena… ed era stato proprio lui a rischiare di ergersi ad artefice primo di quella violenza, lui che aveva sempre raccomandato ai suoi allievi l’equilibrio e la temperanza.

“Vi ho detto di piantarla, o non mi avete sentito?!” Stefano lo incalzò senza remore, ma il suo sguardo disgustato era anche per gli altri poco più in là che si riparavano vigliaccamente dietro quello più forte.

“S-Ste! - il ragazzaccio sembrò preso in contropiede, poi si accorse di essere trattenuto dall’altro e ritrasse violentemente la mano – Lasciami, mi fa schifo il tuo tocco!”

Stefano non si scompose, evidentemente abituato a quel tipo di reazione. Diede un’occhiata a Marta, ancora per terra, del tutto svuotata, prima di tornare su di lui.

“Non ti toccherò più, se lascerai in pace in lei. Non ha fatto nulla per meritare il vostro spregio e, ancora di più… - ridusse gli occhi a due fessure – Per essere cresciuta senza un padre, è infinitamente migliore di voi!”

“CHE COSA?! Ripetilo, maledetto!” ringhiò l’altro, mentre quelli rigorosamente dietro di lui gli davano manforte.

“Ripetilo! Ripetilo! Se hai il coraggio!”

“Hai sentito ciò che ho detto e, dalla tua reazione, ne deduco che l’affermazione sia vera e che tu ne sia consapevole, altrimenti non ti saresti piccato così!” gli fece osservare Stefano, diplomatico.

Quel modo di fare così garbato e contenuto, anche in situazioni così, quell’esporre il suo pensiero in maniera semplice ma, se necessario, un poco irriverente… A Camus, che si era fermato ad osservare Stevin con attenzione e gratitudine, ricordava tanto qualcuno, ma non sapeva bene chi.

Non sapeva bene a chi accostarlo, nonostante fosse così famigliare.

“STAI ZITTO!”

“Perché?! Perché la verità brucia? Perché avete sfruttato un suo momento di vulnerabilità per infierire?! Oppure perché vi da fastidio che lei sia fatta così? Che sia straordinariamente umana ed empatica, anche con una specie diversa rispetto alla sua, da soffrire perché non riesce ad accettare la morte di un’altra creatura?” continuò Stefano, del tutto intenzionato ad impartirgli una lezione, anche se solo verbale. I suoi occhi brillarono.

“Grr… gelosi di lei? Ma non dire fesserie!” ringhiò l’altro, visibilmente in difficoltà, non riuscendo comunque a ribattere in altra maniera.

“Il dolore è comune a tutte le specie. Godere delle sofferenze degli altri e giocare sulla morte… vi rende solo beceri!”

“Ma chi sei?! Il paladino delle cause perse?!”

“Chissà… anche io devo darvi particolarmente fastidio per qualche ragione a me sconosciuta, no? Ma è da quando avete conosciuto Marta che raddrizzate il tiro da me a lei. Deve indisporvi proprio il suo modo di essere, decisamente migliore del vostro, nonostante l’assenza del padre, come avete voluto sottolineare poco fa nel dire, peraltro, una cattiveria gratuita che neanche sapete se possa corrispondere al vero!”

“Grr, dannato! CI VUOI STARE ZITTO?! O IO… O IO… - si avvicinò prepotentemente a lui, alzandogli la mano a poca distanza dal viso – La vedi, questa?!”

Ma Stevin, a dispetto dell’indole pacifica e solo apparentemente accondiscendente, non aveva paura alcuna di affrontarli, anche solo a parole, anche solo sfidandoli con lo sguardo cristallino. Era coraggioso e Marta -pensò distrattamente Camus nel guardarlo con ammirazione- era stata davvero fortunata ad essere sua amica.

Grazie… per averla sempre protetta e vegliato su di lei quando io non potevo.

“Ci sono molti tipi di relazioni, quelle famigliari ne sono solo una parte. - disse ancora Stefano, deciso, desideroso di proteggere ciò che per lui era più importante – E, in ogni caso, queste ultime, da sole, non significano NIENTE, lo dimostrate ogni giorno voi che, cresciuti con una famiglia tradizionale, padre, madre e fratelli, viziati e stra-viziati da loro, non avete comunque avuto un’educazione adeguata per rispettare gli altri, umani e forme di vita che siano. Mi fate proprio...”

Non ebbe comunque il tempo di finire la frase, perché gli venne assestato un pugno nell’addome, talmente potente da farlo cadere a terra. Qualcuno urlò, Camus si rizzò istantaneamente, non aspettandosi una reazione così violenta, Marta ebbe appena un fremito, che divenne tremore recondito sempre più convulso, quando il bulletto estrasse dalla tasca dei pantaloncini un coltellino svizzero.

Non vorrà..? No, maledizione, devo fermarlo!

“Ora ti chiudo la bocca, frocio di merda, perché, come dice mio padre, sei un invertito del cazzo cresciuto solo con tuo nonno decrepito che, per compensare la mancanza di una figura materna, si circonda di amiche femmine per nascondere la sua condizione di devianza!”

No, non stava né esagerando né scherzando, era serio e aveva tutte le intenzioni di usare l’arma contro l’indifeso Stevin ancora piegato per terra preda di violenti colpi di tosse, le mani che si stringevano convulsamente lo sterno.

Camus si morse il labbro inferiore, rimproverandosi di aver relegato le affermazioni del bulletto a semplice ragazzate che, con l’avanzare della crescita, lo avrebbero fatto riflettere e ragionare su quanto stronzo fosse stato in quell’occasione. E invece quello, almeno quello, il capo della teppa, aveva tutte le carte in regola per diventare perfino peggiore da grande, bastava vedere come impugnava l’arma, la vena folle nel suo sguardo, l’impeto con il quale voleva pugnalare Stevin con quel coltellino. Camus non attese più, doveva fermarlo ad ogni costo, doveva intervenire, doveva proteggerli. Preparò nuovamente i cristalli congelanti sul palmo della mano…

Tuttavia, ancora prima di dare direttive al colpo di partire, vide che la mano del bulletto si era già bloccata a mezz’aria, del tutto impossibilitata ad ultimare le sue intenzioni. Affinò quindi lo sguardo in là, rendendosi conto che un più che consistente strato di ghiaccio, parzialmente incrinato da insenature rosso cremisi, gli aveva già avvolto la mano, stringendola nella morsa di un gelo penetrante. Il bulletto cacciò un urlo, capendo, o forse più probabilmente NON capendo cosa gli stesse succedendo. Provò ad indietreggiare ma qualcosa fu, ancora una volta, più veloce di lui, troncandogli di netto il respiro.

Mar-ta?!

Sussurrò tra sé e sé Camus, trasalendo nel vedere l’impeto con cui la sorellina si era fiondata contro il ragazzo con una testata talmente potente da fargli sputare saliva. Il tempo sembrò arrestarsi, caddero e rimbalzarono alcuni metri più in là, lui semi-svenuto sotto, la bava la bocca, lei sopra, con quella forza immane che rendeva il suo cosmo ghiacciato, visibile solo al fratello, contaminato da striature rosse che non potevano -o non avrebbero dovuto!- avere nulla da spartire con la sua aura tendenzialmente limpida e solenne come i ghiacci della Siberia.

Camus ne ebbe istantaneamente una paura atroce. Boccheggiò più volte, prima di scattare verso di lei per fermarla. C’era qualcosa che non andava, il cosmo non era il suo, era impuro, selvaggio e infinitamente potente ma, proprio per questo, irriconoscibile. Mulinava intorno al suo corpicino con l’intensità di un vortice e più trascorrevano i secondi più quel rosso sembrava prenderne possesso.

No, non poteva essere assolutamente lei!

Marta, d’altro canto, non diceva niente, i suoi movimenti erano stati troppo veloci per essere percepiti da occhi umani e comunque l’assalto era stato talmente rapido violento da aver già danneggiato sufficientemente il bulletto, che ora stava lì, una smorfia di terrore sul viso, ad ansimare disperatamente. La piccola si ritrovò a sorridere sinistramente tra sé e sé. Sarebbe bastato quello, in teoria, la lezione era stata impartita. Quell’essere, dopo quell’esperienza recepita tramite il dolore, ci avrebbe pensato non una, ma due volte, prima di far del male a Stevin o ad altri esseri viventi.

Poteva fermarsi, ma non si fermò, del tutto intenta a proseguire nel suo operato.

No, Marta, fermati! FERMATI!!!

Lo prese malamente per il collo, sebbene come dimensioni fosse ben più piccola di lui, strinse la presa, occludendogli le vie respiratorie; levò l’altra mano sopra la testa e una sfera di energia congelante di color azzurrino, sempre imbrattata da venature rosse, prese a vorticare nel suo palmo con moto antiorario.

Martaaaaaaaa!!!

Sì, avrebbe finito di far soffrire gli altri, lo avrebbe fatto finire lei, perché un essere così spregevole che non sapeva rispettare la vita non meritava neanche di esistere. L’avrebbe fatta finire lei, quell’esistenza effimera…

Marta, per Atena, NO!

E il braccio della piccola calò, implacabile, con tutte le intenzioni di disintegrargli i polmoni, di scomporre il suo colpo al livello atomico, non sia mai che qualcosa di buono, di migliore, sarebbe riemerso dalle sue cellule putride. Distruggere era il suo obbiettivo. Distruggere… una volta per tutte!

“Marta!!! Non sei tu, questa, io lo so, LO SO! Fermati, ti prego, FERMATI!”

Tutto si cristallizzò in un istante, il colpo venne trattenuto tra le sue dita nell’udire concretamente dietro di sé quella voce quasi disperata che la richiamava. Marta tremò con più forza a quella sensazione. Era un timbro vocale maschile, nuovo, mai udito, eppure… tremendamente famigliare! Voltò la testa dietro di sé, il cuore le si accelerò nel petto nello scorgerlo. Tutt’intorno sensazioni strane, mai provate, un insieme di colori e cori convergeva in lei, mentre l’ambiente andava diradandosi per poi sfumarsi a seconda dei giochi di luce. Eppure lui, l’immagine del fratello tanto cercato nel mondo… era ora nitido più che mai!

A Camus scappò un singulto nell’accorgersi, in un primo momento, che la sorellina aveva risposto proprio a lui, voltandosi proprio nella sua direzione nel guardarlo come se fosse concreto davanti a lei, non più una presenza invisibile. Tuttavia, in un secondo tempo, fu altro a sconvolgerlo nel profondo, lasciandolo attonito e tremante: il colore dei suoi occhi!

Che ti sta succedendo, piccola? Cosa è quel fascio di luce cremisi che ha sbalzato via il blu delle tue iridi?! Quasi non ti riconosco più, Marta, è difficile distinguerti là in mezzo. Sei tu che mi stai osservando o… qualcun altro?!

Marta lo fissava sorpresa. All’ultimo era riuscita a trattenersi e la sfera di energia congelante si era spenta nella sua mano, ma continuava a osservarlo con espressione ferina, quasi bestiale, con quel rosso scarlatto che metteva paura al solo incrociare gli sguardi. Camus decise di rimanere a distanza, non sapendo bene come la sorellina avrebbe potuto reagire ad un suo eventuale avvicinamento. Inghiottì saliva a vuota. Era spaventato quanto lei, forse più di lei, il cuore gremito di pena nella paura che potesse perderla. Per sempre! Perché colui che si era impossessato di Marta, chiunque egli fosse, avrebbe anche potuto strappargliela con la forza.

“So che sei arrabbiata, è tuo diritto esserlo. – iniziò Camus, imprimendo i suoi occhi nei suoi – Hai reagito così perché hai visto il tuo amico Stevin in pericolo, vero? Sei sempre stata una piccolina coraggiosa e protettiva fin da bambina...” le sorrise, accennando un passo, cercando di farle percepire più calore possibile.

Marta, o chi per lei, ricambiò lo sguardo un poco sorpreso. Aveva mutato la sua espressione, non era più feroce, ma le iridi permanevano a rimanere scarlatte e… facevano paura!

“Però… non a questo costo, piccola mia! - indurì appena la voce, mentre la osservava più intensamente di prima in un misto di preoccupazione e timore – Non diventare un mostro per noi, per salvare le persone che ami, non occorre. N-non occorrere perdere la tua umanità per salvarci! I-io...”

Esitò. Sulla punta della lingua apparì un nome, il solo rammentarlo gli procurò una fitta al cuore. Socchiuse gli occhi, prese un profondo respiro, prima di riaprirli.

“Sei davvero così simile ad Isaac… rivedo lui in te, la sua forte volontà di proteggermi, di proteggere anche suo fratello Hyoga. Per farlo, non avrebbe esitato un attimo a gettarsi nel buio per noi, a sprofondare nelle tenebre per la nostra salvezza, ad accettare il Kraken dentro di sé… lo ha fatto, Marta, e lo abbiamo perso per questo, L’HO perso! - prese una breve pausa, esporsi così con lei, nonostante tutto ciò che avevano attraversato insieme, gli costava ancora dolore e fatica, gli si spezzava il respiro al solo nominarlo – Non seguire la sua via, non… smarrirti per noi. So che puoi riuscire a controllarlo, qualsiasi cosa sia, perché sei una guerriera!”

Camus non seppe, con distinzione, se furono le sue parole a riscuoterla, a ricolorare le sue iridi di quel blu del tutto affine al suo; perché, nello stesso istante, una sagoma balzò tra lui e a sorellina, bloccandole di fatto il braccio per poi circondarle il busto con azione decisa atta a impedirle qualsiasi altro movimento.

Marta urlò, strizzando irrequieta le palpebre; per Camus fu invece come essere sbalzato indietro, mentre i colori e le forme dell’ambiente circostante tornavano nitidi accesi. Percepì un violento strappo all’ombelico, come se gli venisse aperto da un bisturi, ciò lo costrinse a cadere bocconi per terra, ansante, portandolo immediatamente a stringersi convulsamente il ventre che, di nuovo, dava violente fitte intermittenti sempre più forti. Tossì per lo sforzo fisico e la sofferenza, mentre, coniugando tutte le sue forze si costringeva comunque ad alzare il viso nella loro direzione.

“F-Fra!” chiamò a fatica la più grande delle sue allieve che era intervenuta tempestivamente per fermare la più piccola.

La giovane dea si scosse un poco a quel richiamo, come se anche lei avesse potuto udirlo in qualche modo. Si guardò spaesata intorno ma, a giudicare dai suoi occhi smarriti che navigarono nei dintorni senza sostare in nessun punto, non era in grado di distinguerlo visivamente. Ben presto, comunque, fu costretta a tornare a concentrarsi sull’amica che, quasi arpionandole le braccia, cercava in ogni modo di divincolarsi dalla sua morsa.

“Marta, calmati! CALMAT… argh!” provò a placarla, prima di essere colpita da una testata sotto il mento perché non c’era verso di tranquillizzare la bambina.

“Fra, lasciami! Lasciami, PER FAVORE! - Marta era tornata in sé, ma urlava e piangeva insieme, sconvolta – Sigh, la germanotta… la germanotta!!! Buuuuuaaaaa!!!”

“Non finché non ti sarai chetata! Devi calmarti, Marta, devi controllare questa cosa!” esclamò anche lei, cercando di sovrastare la sua voce.

Controllare quella cosa… quindi, da dea, probabilmente aveva percepito che c’era stato qualcosa di diverso dal solito in Marta, incontrollabile, ma -si chiese Camus- almeno lei, era poi stata in grado di catalogarlo, oppure...

“E’ morta! E’ mortaaaaa!!! Bua! Sigh! Sob!!!”

“Lo so, ma non ci possiamo fare più niente, NIENTE, lo capisci?! - gli occhi di Francesca erano appena lucidi nell’esprimerlo – E’ finito il ciclo della sua vita, è tornata al Tutto!”

A quelle parole, anche le palpebre di Marta si aprirono. La piccola era in un fiume di lacrime, continuava a singhiozzare senza dare cenno di calmarsi, ma almeno aveva smesso di scalciare e dimenarsi come un’ossessa e gli occhi… erano tornati i suoi!

Camus ebbe l’istinto di alzarsi, a fatica lo fece, zoppicando in direzione delle sue allieve. Non si sentiva bene, quell’esperienza, quell’interferenza -stentava ancora a crederci che era riuscito a interagire con la sorellina!- lo avevano minato ancor più in profondità. Respirava male, a scatti, la vista gli si era fatta nebulosa, ma le sue mani riuscirono in qualche modo a raggiungere e posarsi sulla testa di entrambe le allieve.

Ha ragione Francesca… è finito il ciclo della sua vita, per lei e per i suoi piccoli. So che ti può sembrare spietato e ingiusto, Marta, però la Natura è proprio questo, è nell’ordine delle cose che possono accadere. A volte il percorso è più lungo, a volte più corto… noi esseri finiti possiamo solo imparare ad accettarlo.

Marta aveva smesso completamente di porre resistenza, stava lì, gli occhioni spaventati, le guance rigate di pianto, le labbra ancora tremanti alla ricerca di parole o risposte che tuttavia non potevano arrivare. Francesca appariva frastornata, a tratti smarrita, alla fine interpretò l’improvvisa immobilità della più piccola come presa di coscienza. Decise quindi di lasciare libera l’amica, mentre, con un sospiro, la riaccompagnava a terra, rimanendo comunque vicino a lei per precauzione.

“E’ stata una brava mamma. Avete detto che non è la prima cova che ha fatto, giusto?” chiese poi alla più piccola.

“S-sì.”

“Le altre di questi anni le avete viste crescere, vero?”

“Sì...”

“Avete fatto un ottimo lavoro anche voi, gli altri piccoli saranno ormai grandi, si saranno riprodotti a loro volta, trasmettendo anche i suoi geni. La germanotta non sarà mai del tutto...”

“MA CHE IMPORTA DEI FIGLI, SE TANTO LEI E’ MORTA E NON PERCEPISCE PIU’ IL CALORE DEL SOLE O IL SUONO DEL VENTO?! LA VITA NON PUO’ RIDURSI SOLO A QUESTO!!!” urlò Marta, irriducibilmente arrabbiata, prendendo a piangere ancora più forte, preda di singhiozzi sempre più spietati.

Francesca tacque. Per la prima volta nella sua vita non sapeva davvero cosa rispondere. La sua natura divina non glielo consentiva.

“ANDREA! Andrea, cosa ti succede?!”

Gli improvvisi schiamazzi del gruppo avversario che, nel frattempo, era corso a soccorrere il leader per portarlo più in là, attirò l’attenzione sia di Francesca che di Camus. Entrambi alzarono lo sguardo nella loro direzione, rabbrividendo nel comprendere il motivo di tanta agitazione: Andrea, il capo dei teppisti, giaceva in mezzo a loro incosciente, pallido come un cencio, il respiro accelerato e l’espressione spezzata dalla sofferenza per un motivo che, agli occhi dei ragazzini, risultava incomprensibile, ma che, dalla parte del custode dell’undicesima casa, prima, e della giovane dea, dopo, era invece lampante.

Trasalì, trasalirono entrambi nello scorgere la mano del bulletto, quella che stava per affondare il coltellino svizzero nel corpo di Stevin, essere cosparsa di una sostanza bianca, cerea, che l’aveva resa un tutt’uno con l’arma medesima, quasi fosse…

Saponificazione? Oppure… oppure… NO, maledizione, che razza di reazione chimica ha avuto luogo?!

Si chiese con orrore Camus, mentre Francesca, cercando di mantenere una flemma che tuttavia le mancava, tentava di raccapezzarsi su quanto fosse successo.

“Cosa è accaduto?! Cosa GLI è accaduto?!” domandò uno del gruppo, terrorizzato.

“N-non lo so io… IO NON HO VISTO NIENTE!” esclamò l’altro, quasi febbricitante.

“Dobbiamo portarlo via, non sta bene!”

“No, no, no… come diavolo è possibile?! Un sortilegio, un..?!”

“La sua mano! Guardategli la mano!” fece notare di nuovo il primo, sempre più sconvolto.

“No, c’è qualcosa che non va qui, NON E’ NORMALE! P-portiamolo via!”

“Via! Via! Via!”

E, preda del panico, si volatilizzarono all’istante per chiedere aiuto, portandosi dietro il ragazzino incosciente con la mano penzoloni cosparsa di quella sostanza untuosa del tutto simile alla cera o al sapone.

Francesca realizzò, con una punta di estremo terrore, che molto probabilmente quell’arto, con tanto che il processo si era fermato alla base del polso senza intaccare l’avambraccio, non sarebbero riusciti a salvarglielo. Sarebbe quindi rimasto con il moncherino a vita e assolutamente non in grado di capire quanto effettivamente fosse successo. Si voltò quindi verso l’amica, un’espressione indicibile sul volto, a metà strada tra lo sconvolgimento interiore e il biasimo più atroce.

“Marta… che cosa hai fatto?!” le chiese in un sussurro, non trovandola tuttavia più vicino a sé. Una nuova ondata di paura la avvolse, si guardò intorno, scorgendola un poco più in là, china sul cadavere della paperotta come se nulla fosse successo.

Forse -pensò ancora, freneticamente- per lei davvero non era successo nulla. Che… che non si fosse resa conto del suo operato? Del resto, perfino lei, una dea, non si spiegava minimamente come ci fosse riuscita, come avesse potuto utilizzare in un battibaleno un potere tale da ridurre una mano umana in quello stato. Rabbrividì istantaneamente.

Che le sue amiche fossero speciali lo sapeva, che, proprio per questo, lei doveva controllarle anche, tuttavia… chi mai si sarebbe aspettata una roba simile?!

“Marta...” la provò ancora a chiamare, accennando un passo nella sua direzione, ma un altro urlo, stavolta dietro di lei, la fece sussultare.

“Nooooooooo, la p-paperotta… è m-mortaaaaaaaa!!!”

Ah, Michela, giusto!

Francesca si sbatté una mano in faccia nel ricordarsi che, per fermare Marta, era stata costretta a lasciare momentaneamente Michela, permettendole così di riaprire gli occhi che, fino a quel momento, lei aveva cercato di farle rimanere chiusi per risparmiarle un simile spettacolo.

“Buuuuuuuuuaaa!!! Sigh! Sigh! No, perché è morta? Perché???” gridò ancora più forte la più piccola, disperatamente, strillando come solo lei sapeva fare.

Francesca si massaggiò le tempie nel tentare di capire bene il modo migliore per agire. Guardò Stefano a poca distanza da lei, ancora bocconi a terra, con una mano sulla pancia e l’espressione stralunata, di chi aveva centro domande per la testa e non ne veniva a capo di mezza.

“Riesci ad aiutarmi con Marta e Michela, Stevin?” chiese la dea, implorante, cercando almeno il suo sostegno.

“I-io credo di sì, ma… cosa è successo a quell’Andrea?” chiese lui, alzandosi faticosamente in piedi continuando a guardarla.

“Non lo so, io…” si ammutolì lei, lugubre, limitandosi ad osservare l’amica, ancora intenta ad accarezzare le piume di quel corpicino martoriato.

“E’ stata… Marta, a farlo?” domandò Stefano, fremendo notevolmente, tanto che Francesca, a quel punto, si costrinse a mentire.

“Certo che no, come… come potrebbe?!” gli fece notare, con un sorriso forzato che tuttavia non lasciava trapelare nulla di buono. Tornò quindi sulla piccina.

Davvero Marta non si era resa conto di niente, l’espressione era tornata quella di una bambina di fronte al suo primo lutto e alla consapevolezza, nera, che nascere in quel mondo, vivere e respirare, gioire e rattristarsi, conduceva inevitabilmente, in un tempo indefinito, anche alla morte.

“Vado a recuperare quel gruppo. - decretò infine, riscoprendosi spaventata dagli ultimi avvenimenti – Quella pezza da piede di un Andrea, per quanto non se lo meriti, rischia veramente la vita, bisogna chiamare i soccorsi.”

“F-Fra...- gracchiò Stefano, impallidendo di netto – Che significa questo? Che cosa è..?”

“Non lo so. - rispose lei, al limite dell’autocontrollo che le si stava incrinando – Scusami, davvero non lo so.”

Stefano parve comprendere il sottaciuto, annuì, cupo: “Ho capito. Ci penso io, qui, tu vai!”

“Grazie, torno il prima possibile!” gli sorrise lei, ancora tesa, prima di seguire gli altri nella direzione che avevano preso.

Stefano andò quindi da Michela, le permise di salire sulla sua schiena lasciando che lei si arpionasse al suo collo, sebbene il contatto fisico non lo entusiasmasse affatto. Sospirò tetro, prima di tornare, con lo sguardo, sull’amica ancora a terra.

“Ora è tutto finito… è tutto finito! Non soffrirai più, vai, sei libera!” ripeteva intanto la piccola Marta, in un tono basso e sommesso, quasi la volesse accompagnare per l’ultimo viaggio.

Lacrimoni le rigavano le guance e ogni tanto un singhiozzo più forte degli altri trapelava qua e là, sconquassandole il petto.

“Marta, è.. è finita, non… non possiamo fare più nulla.” le disse Stefano, un po’ per rinfrancarla, un po’ perché voleva farle percepire la sua vicinanza.

“L-lo so. N-non doveva finire così, sigh!”

“Non è colpa nostra. Le cose brutte accadono...”

“Era una nostra responsabilità!”

“...”

Cadde il silenzio per una serie di secondi, nessuno dei due sembrava riuscire a esprimersi di più, al riguardo, mentre Michela, ancora con le guance rigate dal pianto, stava lentamente cedendo al sonno.

Di nuovo il vento soffiò più forte, una delle piume della germanotta si staccò dal corpicino straziato, prendendo a roteare leggiadro mentre la brezza la portava via. Marta la seguì con lo sguardo, il viso ancora umido, ma gli occhi ricolmi di una nuova, atroce, consapevolezza.

“Se tanto questa è la meta ultima del nostro viaggio… perché siamo venuti al mondo? - si chiese, incassando la testa tra le spalle – Per cosa… siamo nati?” biascicò ancora, prima di piegarsi su sé stessa e scoppiare nuovamente in lacrime.

E Camus… Camus poteva solo guardarla da distanza, mentre qualcosa vibrava e si dibatteva anche dentro di lui, rendendogli difficoltoso il respiro. Avrebbe voluto rassicurarla, avrebbe voluto avvicinarsi a lei e spiegarle, con pazienza, che quello era il ciclo della vita e che bisognava farsi forza e accettarlo ma, nei fatti, aveva i piedi inchiodati a terra, perché altrimenti, lo percepiva fin troppo chiaramente, essi sarebbero potuti scattare verso di lei per… colpirla!

Colpire la sua sorellina.

Una spiacevole sensazione di attanagliamento si accentuò nell’addome rigido e sempre più pulsante. Qualcosa scalciava, irriducibile. Era foga, rabbia, desiderio di distruggere… e convergeva sempre di più proprio verso di lei. Difficile, se non impossibile, tenerlo a freno.

La consapevolezza lo sconvolse: il profondo amore fraterno che nutriva per Marta gli rimarcava il senso di colpa per non esserci stato, il desiderio di proteggerla e il bisogno di stringerla a sé, sussurrandole che non era mai stata realmente sola in quel mondo crudele e meraviglioso al tempo stesso; l’istinto più abissale, invece, gli imponeva di ucciderla e annientarla prima che fosse troppo tardi per tutti. Un solo colpo diretto al suo petto. In quel preciso momento. Prima che lui fosse in grado di risvegliarsi completamente. Fine.

L’equilibrio sarebbe stato raggiunto solo con la morte della ragazzina.

Camus inorridì a quell’ultimo pensiero, recuperando finalmente il pieno impulso a contrastarla. Non avrebbe mai permesso a quella… cosa… di fare del male alla persona per lui più importante! MAI!

“Urgh!” si conficcò le unghie a sangue nel ventre per opporsi a quell’orrore. Il dolore fu tale che, dopo un ultimo sussulto, quel coacervo di umori molesti lentamente si acquietò.

Anche Camus tornò a respirare con più calma, il cuore ancora impazzito nel petto. Prese profonde boccate d’aria, le condusse verso il diaframma e ancora più giù, prima di riaprire gli occhi e guardarsi intorno.

Non vi erano più i bambini davanti a lui, si trovava nuovamente circondato dal buio più completo. L’istinto immondo di prima momentaneamente placato.

Abbassò il capo per poi alzarsi ulteriormente la maglietta e constatare i danni: cinque piccoli taglietti, dai quali uscivano rivoli di sangue, intorno all’ombelico. Solo quelli erano bastati per fermare quell’impulso violento che lo aveva atterrito così tanto. Cinque piccoli taglietti...

Che cosa sarebbe successo, tuttavia, se non fossero bastati?!

Per la prima volta nella sua vita, Camus realizzò, in un ulteriore fremito di paura, che quel Principio Primo dentro di lui, intessuto in lui dalla Notte dei Tempi poteva divergere interamente dal suo volere. Si sentì smarrito.

Pensavo di esserci arrivato io con le mie forze, qui, ma, quanto pare, non è così...

Razionalizzò in un sussurro, prima di farsi livido di rabbia nel ricordarsi di tutto ciò che aveva subito prima di perdere coscienza, nonché del nome della cosa custodita nel suo grembo contro la sua stessa volontà. Strinse i pugni con foga.

Cosa vuoi da mia sorella, TIAMAT?! Perché mi hai condotto qui?! Cosa volevi farle???

Non ci fu alcuna risposta, un nuovo ricordo stava prendendo forma proprio davanti a lui.

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

E finalmente, dopo tempo immemore, sono riuscita ad aggiornare il capitolo che, di per sé, non mi convince ancora al 100%. Non so se sono riuscita a rendere bene il crocevia dei ricordi, ed è la ragione per cui ho impiegato così tanto per la correzione.

Stavolta ho molto da spiegare, per cui mettetevi pure comodi. :)

Allora, intanto vi devo dire che sto procedendo all’ennesima correzione e ampliamento della “Guerra per il Dominio del Mondo” alla quale seguirà quella di “Sentimenti che Attraversano il Tempo” e, più lentamente, anche tutte le altre storie più recenti. Non sono più soddisfatta di come sono rese, so che posso fare di meglio e quindi sto restaurando quanto mi è possibile; a questo ci aggiungiamo che sto cercando di togliermi la “malattia dei puntini di sospensione” perché, come sapete, li inserisco a iosa. Il risultato? Allo stato attuale, visto che sto già correggendo la prima storia, mi piace molto di più della seconda e delle altre, che sono state scritte più recentemente, quindi è un po’ un dramma XD

Venendo invece al capitolo vero e proprio dei 5 Pilastri, necessito di darvi qualche spiegazione più approfondita su quanto sta succedendo, perché non so se sono riuscita a renderlo sufficientemente chiaro.

Tutto il capitolo, dall’inizio alla fine, vuole essere una presa d’atto e di consapevolezza da parte di Camus circa le reali possibilità del suo potere che, come sapete, è la Creazione e gli deriva direttamente da Tiamat.

Ora, il suo corpo è solo metà divino e la dea si è risvegliata solo recentemente (e già fa casini, vabbé) in maniera voluta, sì (il Mago stesso lo desiderava) ma accidentale perché Utopo ha agito di sua iniziativa. Ne consegue che, da questo momento in avanti, le cose cambieranno.

Camus ha il Potere della Creazione, d’accordo, ma come può attingerlo? Come funziona? E’ ciò che cercherò di spiegarvi in questi due capitoli.

Che il Cavaliere dell’Acquario potesse vedere la sorellina nei sogni (e viceversa) non è una novità, ma le dinamiche stesse dei sogni mutano.

Prima di tutto, come forse ricorderete, le visioni possono essere o in terza persona, con Camus (o Marta) presenti fisicamente ad osservare la scena come se fossero spettatori partecipi; o direttamente in prima persona, con Camus (o Marta) che reagiscono come se fossero un’unica essenza. In questo specchio le avete ambedue, come si può notare dai cambi di scrittura presenti soprattutto all’inizio del capitolo. Tuttavia, da questo punto in avanti (spero di averlo reso, ditemelo se così non fosse!) Camus comincia a capire che, dentro queste visioni, può fare ben di più che stare semplicemente ad assistere, può… effettivamente agire!

Ed è così che all’inizio lui stesso è Marta. Poi prende coscienza di sé, si ritrova sotto il Grande Tiglio con i due bambini e riesce perfino a toccare la piccola. Ciò lo strema, lo fa addormentare ed è di nuovo Marta. Poi ancora è di nuovo in sé, può muoversi fattivamente, però farlo richiede un notevole dispendio di energia e crolla ancora, trovandosi nuovamente di fronte al Mago. Qui è Milo (da fuori!) a salvarlo inconsapevolmente, a dargli le energie per lottare. Ancora. Di nuovo. Più di prima. Per le persone che ama. Recupera così il controllo e sembra finalmente padrone del suo potere, e tuttavia la parte finale lascia un nuovo, amaro, dubbio: è stato lui a volerlo, o Tiamat dentro di lui?

Ora, cosa sta accadendo al Camus ancora incosciente sul letto lo saprete meglio nel prossimo capitolo, concentriamoci su un altro fattore non meno importante: Marta.

Che cosa è serbato dentro di lei? Forse qualcuno di voi ha già una sua teoria…

Che cosa sono quegli occhi rossi? Cosa ha fatto, senza accorgersene, al bulletto di nome Andrea?

Ebbene, vi dicevo all’inizio che sono tornata a modificare la prima storia, ovviamente ho aggiunto dei particolari per rendere più completo e sensato il tutto. Nella nuova versione, non è la prima volta che i suoi occhi si colorano di rosso, è già successo, specificatamente proprio nel capitolo 9 della Guerra per il Dominio del Mondo, quando Camus, per proteggerla, rimane ferito gravemente, e anche un po’ prima “dell’incidente”, quando litigano brutalmente (è questa la ragione del “come quella volta...” di Camus, perché, appunto, gli è già parso di scorgere dello scarlatto nelle sue iridi ma si è auto-convinto fosse frutto di un abbaglio).

Allo stesso modo in cui questo capitolo (e il prossimo) sarà la presa d’atto di Camus circa l’utilizzo dei suoi reali poteri, sarà anche, per Marta, specchio del cammino che ha avuto dall’innocenza e spensieratezza dei primi anni di vita alla consapevolezza che l’esistenza è, di per sé, anche sofferenza e condanna: nascere porta inevitabilmente alla morte; la creazione reca sempre in sé il gene della distruzione...

Capite bene che non sono argomenti facili da rendere. Sono domande che ci poniamo, almeno una volta nella vita, tutti noi, proprio per questo, descriverli, non è affatto semplice.

Ovviamente il quadro di Camus sui ricordi della sorellina è molto più ampio di così -vi rammento che lui aveva già visto Stevin nella one shot “Epilogo della fine e dell’inizio”- qui ho semplicemente voluto fare una cernita di ricordi essenzialmente legati ad un criterio temporale (si parte dal più remoto verso quello più recente, così anche nel prossimo capitolo), ovviamente ne metterò altri anche più avanti, nonché in altre storie, perché ci tengo particolarmente a delineare il vissuto di tutti i miei personaggi.

Boof, forse, e dico forse, ho finito, dovrei avervi detto tutto ciò che volevo dirvi e aver posto l’attenzione sui fatti salienti, ma per le domande, le curiosità e i dubbi sono sempre a vostra disposizione completa, anzi, non sia mai che qualcosa mi è sfuggito e, proprio grazie a voi, ne vengo a capo.

Come sempre ringrazio chi segue, chiedendo scusa per la lentezza con cui ultimamente aggiorno, spero che questo periodo infausto migliorerà.

Alla prossima! :)

 

  
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