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Autore: Morgana_82    23/02/2023    1 recensioni
«D'inferno uscito invano/Egli è,» iniziò a recitare Carlisle «l'inferno ha in cor, l'inferno intorno/Pertutto egli ha, nè per cangiar di loco/Al circondante orror più che a sé stesso/Può un sol passo involarsi. Il già sopito/Suo disperar di coscïenza al fero/Grido or si sveglia, e la mordace idea/Di quel ch'ei fu, di quel ch'egli è, di quello/Che in avvenir sarà…» s’interruppe.
«Paradiso perduto» sussurrò Rosalie, senza sollevare la faccia. Carlisle sorrise compiaciuto e la strinse a sé più forte per un momento «esatto… uno dei miei preferiti» .
Rosalie girò la testa leggermente e lo guardò di sottecchi, «Ma come fai ad avere sempre una citazione pronta per tutto?»
Carlisle rise «a che serve vivere seicento anni, se non ad accumulare inutili citazioni letterarie da snocciolare per tediare i propri figli?»
ATTENZIONE: in questa storia vi saranno scene di punizioni corporali.
Genere: Comico, Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Clan Cullen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun libro/film
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Carlisle si chiuse alle spalle la porta dello studio. Si appoggiò per una frazione di secondo allo stipite, prima di marciare con determinazione verso l’imponente scrivania di noce in stile vittoriano. La poltrona di pelle verde petrolio scricchiolò sotto il suo peso e il pistone a cilindro che regolava l’altezza cedette leggermente. Quella poltrona aveva più di cento anni, esattamente come la scrivania dalle pesanti linee regolari e rigide. L’intera stanza aveva l’atmosfera di un ufficio del preside di un college inglese. 
Abbandonò le braccia sui braccioli della poltrona e chiuse gli occhi, concedendosi alcuni momenti di calma. 
Mentalente, ripassò tutto quello che era successo poco più di mezz’ora prima nel salotto, immaginando possibili scenari alternativi, a cosa avrebbe potuto fare o dire, di diverso. 
Di solito, non si faceva trascinare in quel modo dalla rabbia, ma Rosalie aveva il potere di scuotere anche il suo proverbiale autocontrollo. Era quasi stata capace di fargli suonare la sua musica… piccola subdola manipolatrice.  Ma era riuscito in qualche modo a ribaltare le carte in tavola e pregò sinceramente che il suo piano funzionasse, o l’intera famiglia si sarebbe spezzata in due.  
Aprì gli occhi e contemplò le pareti quasi interamente coperte da scaffali ricolmi di libri. Fece scorrere lo sguardo sulle centinaia di volumi di ogni foggia e dimensione. “I manoscritti non bruciano”,  aveva detto Bulgakov. Non seppe esattamente da dove gli fosse scaturito quel pensiero o perché. I libri erano una delle cose cui Carlisle teneva di più, in assoluto. Ognuno di quei volumi aveva una storia ed era per lui un tesoro inestimabile. Era in quelle pagine che cercava le risposte, ogni volta che si sentiva bloccato, senza via d’uscita. “I manoscritti non bruciano”.
In un angolo in alto a sinistra della parete di fronte a lui, si intravedevano alcuni grossi tomi rilegati in pelle, il cui dorso era completamente annerito e carbonizzato. “Già”, si ritrovò a pensare ridacchiando, “i manoscritti non bruciano… a meno che tu non abbia un figlio adolescente per casa, che fa esperimenti con fiammiferi e sigari”. 
Quella volta Edward lo aveva fatto veramente imbestialire. Ma il ragazzo era così giovane, all’epoca, poco più di un bambino ai suoi occhi. Ricordò il suo sguardo terrorizzato, mentre lo implorava di perdonarlo. Erano passati più di cento anni, da quel giorno. Edward era cresciuto eppure, in un certo senso, era rimasto lo stesso bambino. “Noi siamo come i libri”, pensò, “una volta stampato, il contenuto di un libro non può essere cambiato, rimane immutato e immutabile. Certo, puoi cancellare delle frasi da un libro, strappargli le pagine, aggiungere note e sottolineature, fare pieghe alle pagine e rovinargli la copertina, ma il valore intrinseco di un libro non cambia. Se ben conservati, i libri possono vivere per sempre, sono immortali. Come me… come noi”. Si passò le mani tra i capelli, “immagino che ciò significhi essere condannato ad avere a che fare con dei figli adolescenti per l’eternità. Vampiri adolescenti… Dio, che pessima idea che ho avuto”. Scosse la testa, autocommiserandosi “Beh, chi è causa del suo mal…”
Questi pensieri lo riportarono al difficile compito che si era imposto per quella notte e il suo sguardo calò sui cassetti della scrivania. Si sporse a sinistra oltre il bracciolo, facendo scricchiolare e inclinare la sedia. Aprì il cassetto più in basso. Scostò alcune buste da lettera e vecchi documenti, sotto cui comparve una grossa e anonima scatola di legno chiaro, simile a una cassetta porta liquori . Estrasse la scatola dal cassetto e la poggiò davanti a sé, sul piano rivestito di cuoio verde della scrivania. La contemplò, per lunghi minuti, prima di decidersi a far scattare la chiusura in metallo e sollevare il coperchio. Le vecchie cerniere fecero un po’ di resistenza. Non venivano usate da alcuni decenni.
Il contenuto di quella scatola faceva parte, come molti altri oggetti in quella stanza, di una sorta di collezione di ricordi e souvenir di tutti i posti in cui era stato, in cui aveva vissuto, alcuni erano regali di persone che aveva conosciuto. Quell’oggetto, in particolare, gli era stato donato all’epoca in cui anche aveva vissuto a Volterra. I ricordi dell’Italia gli suscitavano sempre sentimenti contrastanti, ma il ricordo dell’immortale che gli aveva fatto quel dono, era tra i più dolorosi da richiamare. 
Di origine germanica, nato probabilmente tra il 58 e il 53 a.c., all’epoca di Giulio Cesare, Ulrich era una creatura di una bellezza struggente e di una malvagità straziante. Quando Carlisle lo aveva visto per la prima volta, aveva creduto che il David di Michelangelo avesse preso vita lì davanti a lui, o che il dio Apollo fosse sceso dal monte Olimpo, con i capelli color del sole e la pelle scolpita di alabastro. Eppure, se anche il suo aspetto era quello di un angelo, il suo animo era quello di un demone. Carlisle aveva amato Ulrich, e lo aveva odiato. Aveva amato appassionatamente la sua saggezza, la sua infinita conoscenza e la sua devozione alla scienza, ma aveva odiato profondamente la sua totale noncuranza per la vita, la sua mancanza di empatia e le sue pratiche crudeli. Non può esistere una scienza senza etica, senza compassione. 
Eppure. Uno dei prodotti della mente sottile e malata di Ulrich era proprio lì, davanti a lui. 
Estrasse dalla scatola una frusta arrotolata, la poggiò sulla scrivania dopo aver scostato la scatola e la srotolò davanti a sé. La Castigatissima Disciplina. Era lunga circa cinquanta centimetri e spessa cinque, al manico, andando via via assottigliandosi verso la punta. Il primo tratto, partendo dall’impugnatura, era composto da strisce di cuoio intrecciate in maniera molto elaborata, la parte centrale era costituita da una robusta striscia, sempre di cuoio, liscio e sdoppiato. La parte terminale, infine, era uno sverzino di corda e di tendine, lungo tre o quattro centimetri, che consentiva allo strumento di schioccare, all’occorrenza. Qua e là vi era qualche screpolatura nel cuoio, che si era un po’ ingrigito, ma nel complesso aveva resistito bene, per gli anni che aveva. 
Contemplò l’oggetto con espressione grave, le mani conserte in grembo. Era una Hunde-Peitsche, una frusta per cani, oggetti simili erano stati comunemente impiegati, in passato, per l'addestramento e la disciplina dei cani di grossa taglia. Ulrich, però, aveva sempre avuto un umorismo macabro e quella frusta ne era la prova. Infatti, quella particolare Hunde-Peitsche era stata fabbricata con la pelle di un licantropo, con i suoi tendini e i frammenti delle sue ossa.
Di per sé, la frusta era molto scenografica, e incuteva una certa soggezione ma, pur se fatta di cuoio di licantropo, non avrebbe potuto causare alcun danno alla pelle adamantina di un vampiro. Per attivarla e renderla efficace, infatti, c’era bisogno di un altro ingrediente. Quanti anni aveva impiegato Ulrich per perfezionare uno strumento così sadico?  
Carlisle riprese tra le mani la frusta, esaminò da vicino il manico, per individuare il punto giusto, e poi lo morse. Lasciò che il proprio veleno si infondesse nel cuoio, osservò l’oggetto mentre si impregnava e gli sembrò quasi che si rianimasse, tornando di un colore bruno e lucente. Quando ebbe iniettato una dose di veleno che gli sembrava soddisfacente, staccò la bocca dallo strumento e si asciugò le labbra. Saggiò di nuovo la frusta, piegandola tra le mani e si rese conto che non era stata un’impressione: la frusta era tornata come nuova. Ulrich era un genio, oltre che un sadico bastardo. 
Adesso, la frusta avrebbe fatto il suo lavoro. Ma doveva accertarsi di aver iniettato la giusta dose di veleno. Troppo poco, non avrebbe sortito l’effetto sperato,  troppo invece… Aveva assistito più volte a fustigazioni pubbliche, mentre era tra i Volturi, e aveva visto i danni che si potevano arrecare fruste come quella. Doveva essere molto cauto. Voleva infliggere un castigo, non una tortura. Credo che dovrò fungere da cavia, per sapere quello che sto facendo.
Si alzò in piedi e si portò al centro della stanza, con due dita della mano destra, sollevò la morbida manica sinistra del dolcevita, fino al bicipite, scoprendo il bianco avorio del proprio avambraccio. Impugnò la frusta con la mano destra, piantò le gambe a terra e distese l'avambraccio sinistro davanti a sé. Con decisione, vi assestò una scudisciata. Non dovette aspettare molto, in poche frazioni di secondo un intenso bruciore si propagò dal punto un cui la frusta aveva impattato sul braccio. Una smorfia gli contrasse il viso. Aprì e chiuse il pugno diverse volte, per valutare l’effetto complessivo sul proprio fisico. Con occhio clinico, osservò da vicino il punto in cui la frusta lo aveva colpito. Non vide segni, ma aveva sentito il colpo, eccome! Il bruciore perdurava, ma non era insopportabile. Pensò che forse qualche goccia di veleno in più non avrebbe guastato. Doveva mettere un bel po’ di fuoco nelle terga di quei tre.  
Il pensiero di quello che stava per fare, nonostante la sua determinazione, improvvisamente, lo sopraffece. Si vide con quella cosa tra le mani, da solo nel proprio studio a frustarsi il braccio ed ebbe… paura. Lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi la frusta scivolò per terra. Andò ad appoggiarsi alla scrivania, i palmi delle mani aperti sulla superficie di legno e la testa infossata tra le spalle. Dio, perdonami, che cosa sto facendo? 
“Spare the rod, spoil the child”. Un lampo di luce nella sua memoria arcana illuminò queste parole. Le udì distintamente, pronunciate come le avrebbe pronunciate suo padre, con la voce di suo padre, il reverendo Cullen. Lui, di certo, la frusta non l’aveva mai risparmiata, semmai il contrario. Più di trecentosessanta anni non erano bastati a dimenticare quelle parole, la sua voce, il dolore... 
«Posso entrare?» 
La voce di Jasper proveniente da dietro la porta lo riportò al presente. Si raddrizzò, si passò la mano tra i capelli biondi e si voltò verso la porta «vieni pure» disse. Sorrise a suo figlio, quando varcò la soglia. La presenza fisica di Jasper era notevole. Anche se non era nerboruto come Emmett, era comunque prestante, alto un metro e novantacinque e dalle spalle ampie. La postura eretta, tipica del soldato, lo faceva sembrare ancora più alto. Ma non era mai minaccioso, tutt’altro. Sembrava sempre pronto a difenderti. 
«Porti sempre un po’ di conforto, con te, quando entri in una stanza» gli disse, «è un dono prezioso».
Jasper fece qualche passo avanti e chiuse la porta alle sue spalle «scusami se mi sono intromesso nella tua… beh, ho sentito il colpo» disse. Il suo sguardo saettò alla frusta che giaceva a terra come un serpente morto «poi il tuo dolore mi ha investito» continuò «ma non era dolore fisico e… ho sentito il bisogno di venire a controllare».
“La mia dolce guardia del corpo”, pensò dolcemente Carlisle. «Ti ringrazio, sei sempre molto premuroso, figlio mio» si sentì orgoglioso di poter chiamare Jasper figlio, pur non avendolo creato egli stesso «ma è tutto a posto. Stavo solo… beh, mi stavo preparando a fare quello che devo».
Jasper si chinò e raccolse la frusta dal pavimento, «non vorrei essere al loro posto» commentò. Si avvicinò a Carlisle e gli porse lo strumento «e nemmeno al posto tuo».
Carlisle sorrise amaramente, prese la frusta dalle mani di Jasper e la arrotolò «nemmeno io vorrei essere al posto mio, credimi» disse.
«Grazie» disse Jasper, con una inflessione molto grave.
Carlisle lo guardò sorpreso «Per cosa?»
«Per fare quello che serve per tenere unita la nostra famiglia.» Spiegò Jasper tranquillamente.
«Non devi ringraziarmi per questo. È il mio lavoro, come vostro leader.»
Jasper lo guardò intensamente «ma so quanto dolore ti costa. E voglio ricordarti che tu non sei solo il nostro leader, ma un simbolo. Sei la nostra bandiera Carlisle. Noi affrontiamo il mondo che ci teme, sotto il tuo vessillo. Tu ci ricordi che non siamo mostri o bestie... se scegliamo di non esserlo. Che una vita umana è ancora possibile, per noi. Eravamo perduti, ma tu ci hai trovato. Non eravamo redimibili, ma ci hai perdonato. Eravamo soli, ma ti sei preso cura di noi e ci ami, nonostante i nostri errori. Per me, questi sono valori che vanno difesi con ogni mezzo possibile. E voglio che tu sappia che sono incredibilmente orgoglioso di poterti chiamare padre.»
Carlisle sentì il petto gonfiarsi d’amore. Cinse le spalle di Jasper con un braccio e lo strinse a se per qualche secondo, in un abbraccio silenzioso. «Per ogni ostacolo da superare, la mia ricompensa siete voi, la mia famiglia e le scelte che fate ogni giorno. Voi siete la mia redenzione da ogni peccato».
Padre e figlio si staccarono delicatamente dell’abbraccio e Jasper sorrise, poi guardò il soffitto «credo che di sopra siano pronti, per te. Stanno diventando un po’ ansiosi, a dire il vero. Vuoi tenerli ancora sulle spine?»
«No, meglio strappare il cerotto in un solo colpo» disse Carlisle, con ritrovata determinazione «potresti andarmeli a chiamare?»
«Sissignore» rispose Jasper «tutti e tre insieme?»
«Sì, insieme» confermò Carlisle «ah, e Jasper… potresti fare in modo che tua madre si allontani? Credo che, per lei, restare qui sarebbe oltremodo difficile». 
Jasper fece un cenno con il capo «dirò a Alice di portarla a fare una passeggiata, molto lontano. Io resterò nei paraggi, se aveste bisogno di me».
Carlisle seguì suo figlio mentre usciva dalla porta. La mia redenzione da ogni peccato, pensò di nuovo. Afferrò la frusta, la srotolò e la fece schioccare nell’aria un paio di volte. Il rumore fu simile a dei piccoli spari. Ti devo ringraziare, ora, Ulrich, per avermi insegnato questi giochetti. E devo ringraziare anche mio padre, per avermi insegnato il dolore. Sarà una lunga notte, ragazzi miei.
 
  
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