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Autore: Giandra    30/03/2023    0 recensioni
❧ PatPran
➥ settata in diversi momenti della loro vita; perlopiù missing moments e post-canon; mentions of bullying & implied depression; brief & implied sexual activities; parenting; original characters (i loro figli)
Questa storia partecipa alla "To Be Writing Challenge 2023" indetta da Bellaluna sul forum Ferisce la Penna (trope: domestic fluff).
Gli venne spontaneo sorridere al pensiero di come avrebbe ringraziato Pran se fosse stato lì: con un grosso abbraccio — che l’altro avrebbe tentato di schivare —, cospargendolo di complimenti sul sapore squisito dei suoi manicaretti — che il suo ragazzo avrebbe accettato a malapena, impegnato a nascondere il rossore alle orecchie che gli apprezzamenti di Pat ancora gli causavano —, e scoccandogli un bacio a stampo per dargli ufficialmente il buongiorno.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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A lifetime with you
 

4 anni dopo la laurea
 
            L’ultima cosa che Pat ricordava di aver fatto, prima di assopirsi la notte precedente, era di essersi steso sul petto di Pran, accoccolatosi contro di lui, gambe intrecciate, le dita del suo ragazzo fra i suoi capelli, la maglietta morbida di cotone che indossava contro la guancia, l’odore di bagnoschiuma e quello intrinseco di Pran sotto al suo naso. Quando una volta sveglio si ritrovò a stringere solo Nong Nao e le loro coperte fresche di bucato, si guardò attorno, sbattendo le palpebre un paio di volte, e si accorse di essere solo nella loro camera da letto. Succedeva spesso: Pran era mattiniero, a differenza sua, gli piaceva organizzare le proprie giornate programmandone ogni singolo aspetto, non apprezzava gli imprevisti e ancor meno i ritardi, per cui la routine che aveva mal combaciava con l’abitudine di Pat di svegliarsi venti minuti prima di qualsiasi impegno. Nel corso degli anni, entrambi avevano smussato gli angoli delle loro consuetudini per far sì che potessero combaciare nel migliore dei modi, ma alcune erano semplicemente dure a morire.
            “Pran?” Pat chiamò, con la voce impastata dal sonno. Tossì un paio di volte e deglutì la propria saliva, prima di voltarsi verso il comodino e bere un sorso d’acqua. Pran si premurava sempre di riporre lì una bottiglia ogni sera, da quando si era accorto — tempo e tempo prima — del fatto che Pat spesso si svegliava assetato.
            Non avendo ricevuto risposta, Pat alzò la schiena dal materasso con la lentezza di un bradipo, ancora gli arti indolenziti per la dura giornata appena passata: dopo tre settimane spese nelle Andamane, per concedersi un po’ di meritato riposo dal lavoro, i loro amici e la loro famiglia avevano preteso di rivederli, pertanto si erano incontrati di mattina con Wai e Korn, di pomeriggio con Ink e Pa e avevano poi trascorso la serata a casa dei loro genitori, per terminarla facendo ritorno all’appartamento nel quale convivevano da ormai sette mesi (suo padre e la madre di Pran si erano accorti che la loro relazione fosse tutt’altro che finita già molto tempo prima, per cui non avevano trovato il senso di continuare a fingere, non quando entrambi si erano sentiti più che pronti per quel passo importante nella vita di ogni coppia); in quanto stanchi, avevano deciso di farsi la doccia assieme per velocizzare il tutto, ma mentre si erano insaponati le spalle a vicenda un bacio era diventato una carezza, una carezza un tocco più audace e così avevano finito per andare a dormire ancora più tardi del previsto. 

            Pat si alzò dal letto e si diresse in cucina; avvertiva un leggero languorino e si ritrovò a sperare che Pran gli avesse preparato la colazione, desiderio realizzato dal piatto di pancakes — con ogni probabilità al caramello salato: i suoi preferiti — e da un contenitore pieno di muffin che troneggiavano sul tavolo della loro sala da pranzo. Gli venne spontaneo sorridere al pensiero di come avrebbe ringraziato Pran se fosse stato lì: con un grosso abbraccio — che l’altro avrebbe tentato di schivare —, cospargendolo di complimenti sul sapore squisito dei suoi manicaretti — che il suo ragazzo avrebbe accettato a malapena, impegnato a nascondere il rossore alle orecchie che gli apprezzamenti di Pat ancora gli causavano —, e scoccandogli un bacio a stampo per dargli ufficialmente il buongiorno. Pran gli avrebbe indirizzato una di quelle sue tipiche occhiate a metà tra il divertito e lo spazientito e lo avrebbe sgridato per il modo in cui Pat si sarebbe senz’altro sporcato il mento con il caramello, perché “ormai hai quasi trent’anni ma mangi ancora come un poppante”. A Pat scappò una risatina.
            Si accorse in un secondo momento che accanto al cibo Pran aveva piazzato un post-it giallo con su scritto “Sono andato a fare la spesa. Non finire i dolci: conservane qualcuno anche a Pa (:(”. Giusto, realizzò Pat: sua sorella sarebbe passata più tardi per portare loro il pranzo preparato da lei stessa. Pa aveva infatti iniziato da un paio di mesi a dedicarsi alla cucina e, sebbene avesse ancora bisogno dell’aiuto di Ink e Pran per non causare un incendio, Pat doveva ammettere che stava facendo grossi progressi.
            Sbadigliò, le palpebre ancora pesanti, e si diresse in bagno per sciacquarsi la faccia e darsi una rinfrescata prima di fiondarsi sui pancakes. Erano soffici, dolci ma non stucchevoli, proprio come Pran sapeva gli piacessero; li avvolgeva ancora un tenue tepore, per cui Pat immaginò che Pran fosse uscito da poco. Rimpianse di non essersi svegliato prima: avrebbe potuto dargli uno di quei baci mattutini che il fidanzato fingeva di odiare e che rifiutava sempre intimandogli di andare prima a lavarsi i denti.
            Fece colazione con un bel sorriso stampato in faccia e come sottofondo mise play a un video sul suo cellulare che riprendeva l’ultimo concerto in spiaggia di Pran, durante il quale P’Tong e Junior gli avevano chiesto di cantare Just Friends?. Con la colonna sonora dei loro anni adolescenziali a fare da sottofondo, Pat si gustò i pancakes che il suo faen aveva cucinato per lui.
 
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            Pat non aveva mai sofferto di problemi di autostima. Fin da quando era bambino, si era sentito un vincente qualsiasi fosse l’attività nella quale si destreggiava; era stata la competizione con Pran a spingerlo a voler essere il più forte, il più capace, il più bello, in altre parole il migliore. Competere con Pran significava arrivare primo o, al massimo, secondo; significava correre così veloce da far mangiare la polvere a chiunque altro provasse a stargli dietro e contendersi il primo posto sempre con lo stesso rivale. Pat non si era accorto di quanto avesse modellato se stesso attorno alla figura di Pran prima del suo trasferimento. Non averlo avuto più nella sua esistenza lo aveva destabilizzato così in profondità che per un periodo si era posto, per la prima volta da quando era nato, domande a dir poco esistenziali, quali E io adesso che cosa dovrei fare? Chi dovrei essere?
            Pat aveva sentito nascere dentro di sé una furia immensa: verso Pran, per essergli entrato sotto pelle, per essere stato il punto fermo della sua vita e poi per esserne uscito all’improvviso; verso la madre di Pran, che non era stata in grado di sopportare nemmeno la vista di loro due che condividevano lo stesso dannato palcoscenico senza portarselo via, forse per sempre; verso se stesso, per averglielo permesso, per non aver neanche provato a opporsi a quella decisione assurda.
            Aveva sfogato la rabbia facendo a botte con chiunque gli desse sui nervi. Aveva terminato il liceo con due note e una sospensione, da che prima a stento era mai stato ripreso dagli insegnanti e solo per aver fatto tardi a lezione. Giunto all’università, aveva dato corda alla ridicola rivalità tra la sua facoltà e quella di Architettura, giacché non aveva nessun senso logico ma gli forniva la scusa perfetta per prendere a pugni qualcuno.
            Pa se ne era accorta, neanche a dirlo; e pure sua madre. Pat non avrebbe saputo dire se suo padre avesse collegato quel suo repentino cambiamento al fatto che il figlio degli odiati vicini fosse andato a studiare fuori zona, ma se sì non lo aveva dato a vedere. Quelle volte in cui qualcuno a scuola aveva avuto il coraggio di lamentarsi con i professori del suo atteggiamento, e suo padre era stato convocato dal preside, si era sempre limitato a scusarsi e a dire che erano cose da ragazzi, che era mortificato ed era certo che di lì a poco Pat avrebbe superato quella fase da ribelle.
            Nel sentire quelle parole, a Pat era venuta voglia di sbattere le nocche contro il muro così forte da farsi uscire il sangue.
            Fase da ribelle? La vera ribellione sarebbe stata opporsi con platealità al divieto di frequentare Pran, di essergli amico. Se non avessero dovuto mentire, Pran non avrebbe avuto bisogno di nascondere ai genitori il fatto che la professoressa li aveva inseriti nella stessa band — non erano neanche stati loro a sceglierlo! —, che avrebbero suonato assieme una canzone che Pat lo aveva aiutato a scrivere; avrebbero potuto invitarli al concerto, mostrare loro quanto erano bravi, lui a suonare la batteria, Pran a cantare, con quella voce melodica che si ritrovava e che a volte ancora gli infestava sogni e incubi, nonostante non l’avesse ascoltata per mesi e mesi.
            Al ritorno di Pran, quando si erano incontrati di nuovo, dopo tre anni che non si erano né visti, né parlati, Pat si era sentito come un palloncino infilzato da uno spillo che, semplicemente, si sgonfia. La perforazione non era stata indolore: all’inizio, aveva provato incredulità e soprattuto collera, collera perché guardarlo negli occhi gli aveva dato conferma di un presentimento terrificante, ovvero che non lo aveva mai davvero superato, dimenticato, che non aveva mai smesso di chiedersi se stesse bene, o cosa stesse facendo, che non aveva mai cessato di tenere a lui. Una volta sgonfiatosi, però, libero da quell’accumulo tossico di ira e rancore, era anche tornato a godersi la compagnia di Pran: aveva ripreso a essere felice, a provare quell’adrenalina che si impossessava sempre di lui ogni volta che gareggiavano per qualcosa, non aveva più avvertito il bisogno di sfogare la propria rabbia su nessuno; non si era mai sentito più calmo e appagato in tutta la sua vita.
 
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5 anni dopo la laurea
 
            Pa sbuffò per quella che doveva essere la millesima volta. «Hia, stai rasentando il ridicolo.»
            Pat le spedì un’occhiataccia. «Se ben ricordo, quando tu hai deciso di fare la proposta a Ink, ci hai messo quattro ore e mezza per decidere quale anello comprare.»
            Sua sorella alzò un sopracciglio, niente affatto colpita. «Forse non te ne sei accorto, ma sono le sette e mezzo. Ti sei fatto accompagnare in questo negozio alle due. Ergo, mi hai superata da un pezzo.»
            Pat sospirò sonoramente. La sua macchina aveva deciso di mal funzionare proprio quella mattina, quindi — essendo il suo giorno libero da lavoro e non volendo rimandare la scelta dell’anello perfetto, per chiedere a Pran l’onore di sposarlo, alla settimana successiva — aveva domandato a Pa di dargli un passaggio e aiutarlo nell’impresa. Quest’ultima lo aveva assistito durante le prime ore, acconsentendo perfino a simulare con lui la proposta, per dargli un’idea di come sarebbe stato infilare l’anello all’anulare del suo ragazzo, ma poi aveva sventolato bandiera bianca e dichiarato che sarebbe andata a farsi un giro nelle boutique circostanti, mentre lui avrebbe dovuto decidersi una volta e per tutte. Quando però era tornata, alle sei e mezzo, convinta che Pat la stesse ormai aspettando in automobile, lo aveva trovato ancora lì a rovistare ogni singolo angolo del negozio, gli aveva chiesto se credesse che, premendo da qualche parte, si sarebbe aperta una porta segreta, con dentro precisamente ciò che lui stava cercando.
            «Giuro che mi sbrigo, okay? Dammi ancora un attimo.»
            Pa sbuffò di nuovo. «Ma cos’è che vorresti trovare, di preciso? Li avrai visti tutti, ormai, gli anelli di ‘sto posto, Hia
            «E infatti sono indeciso. Tra... parecchi. E non riesco a scegliere.» Quale sarebbe stato meglio sulla bella mano di Pran? Quale sarebbe stato in pendant con i vestiti che avrebbe indossato la sera della proposta? Quale modello avrebbe scelto, lui, se fosse stato lì al posto suo? Se Pran avesse mai immaginato di disegnare le loro dita intrecciate una volta sposati, che forma avrebbe dato ai loro anelli? Quale colore avrebbe preferito? Quale...?
            «... Hia! Mi ascolti, o no?»
            Le parole di Pa lo riportarono sul pianeta Terra. «Oh, scusa, Pa. Cosa? Che c’è?»
            «Ti ho detto di farmi vedere quelli che ti sono piaciuti di più.»
            Pat le fece segno di avvicinarsi e li posizionò con cura uno dopo l’altro su uno dei banconi in vetro del negozio, ormai tutti vuoti perché l’orario di chiusura si stava avvicinando. Lì contò e scoprì che fossero otto.
            «Considerando quanti ne hai guardati, otto non sono poi tantissimi. Vuoi di nuovo inscenare la proposta? Possiamo farlo, se sono solo questi qui. Poi però devi scegliere.»
            Pat si sentì grato di averla per sorella.
 
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ultimo anno delle medie
 
            Pat notò subito che ci fosse qualcosa che non andava con Pran quel giorno, dal primo momento in cui mise piede in classe e il ragazzo lo ignorò senza pietà: avevano l’abitudine di scambiarsi occhiate e gesti in gran segreto nel corso della giornata scolastica, mentre i loro amici non li guardavano, o di spedirsi a vicenda frecciatine pungenti, alle quali rispondevano sempre con una più insolente di quella ricevuta; quel mercoledì, invece, Pran stava fingendo che lui non esistesse.
            Quell’atteggiamento strano e scostante era, in realtà, cominciato la sera prima, ma Pat aveva sperato che dopo una nottata di sonno la loro dinamica sarebbe tornata quella di sempre; a quanto pareva, sia era sbagliato.

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14 ore prima
            
Pat si intrufolò nella sua stanza, come di consueto, attorno alle sei e mezzo e l’altro lo salutò con uno dei suoi soliti cipigli falsamente irritati. Pat notò le sue fossette e sgamò il sorriso che il ragazzo stava tentando di celare, mordendosi l’interno della guancia, e ciò fu abbastanza per convincerlo che la sua visita fosse in realtà apprezzata.
            Si misero a parlare del più del meno; Pat gli chiese se avesse finito i compiti — domanda alla quale Pran rispose con un’occhiata supponente, che Pat tradusse come un “Per chi mi hai preso?’ —, poi il suo amico/nemico uscì dalla propria stanza, si diresse al piano di sotto e vi ritornò una manciata di minuti dopo con in mano una ciotola di pop-corn; gli spiegò: “I miei sono andati al cinema. Non torneranno prima di due ore, almeno. Se vuoi, possiamo guardare anche noi qualcosa.”
            Quando era Pran a proporre un qualsiasi passatempo a cui dedicarsi assieme, Pat si sentiva doppiamente felice, perché — per quanto lui si ostinasse a negarlo — gli dimostrava in quel modo di tenere al loro rapporto. Annuì con foga e Pran scosse la testa con uno sbuffo divertito di fronte al suo entusiasmo.
            “Scelgo io”, gli disse. Pat non protestò, per evitare di fargli cambiare idea.
            Nel bel mezzo del film, durante una scena romantica tra i due protagonisti, in cui lui stava per confessare a lei i suoi sentimenti, a Pat venne in mente di confidarsi con Pran e di parlargli della cotta che aveva sviluppato nelle ultime settimane per Nan, una cheerleader della loro scuola, carina oltre ogni dire e con un sorriso che la faceva sembrare un angelo. Non si era aperto con nessuno degli altri suoi amici a riguardo, per paura che qualcuno di loro avrebbe potuto trovare divertente andare dalla ragazza e rivelarle ciò che Pat provava per lei. Pran però non lo avrebbe mai fatto, di questo Pat era sicuro. “Pran?” Richiamò la sua attenzione durante un primo piano sul co-protagonista maschile, un momento in cui nessuno dei personaggi stava parlando, consapevole di quanto Pran odiasse chi copriva i dialoghi di un film, mettendosi a chiacchierare o commentandolo prima che fosse finito.
            “Uhm?” Pran non distolse lo sguardo dalla televisione e continuò a sgranocchiare pop-corn.
            “Ti posso chiedere un consiglio?”
            “Riguardo a cosa?”
            “Mh... riguardo a una ragazza che mi piace.”
            L’indice e il pollice di Pran che stavano stringendo un pop-corn si fermarono all’altezza della sua bocca, che rimase serrata, e Pat riuscì quasi a toccare con mano il disagio e l’imbarazzo che presto avrebbero riempito la stanza rendendo difficile persino respirare. Pran non gli rispose nulla per almeno dieci minuti, durante i quali Pat tornò a guardare il film, pur senza seguire per davvero gli eventi sullo schermo, troppo preso dai suoi pensieri e dalla confusione dovuta allo strano mutismo dell’amico; tutt’un tratto, nel bel mezzo del silenzio più totale, Pran gli domandò: “Chi?”
            Pat quasi sobbalzò, e fu sul punto di chiedergli a cosa si stesse riferendo, ma nel giro di qualche secondo arrivò a capirlo da solo. “Nan. Il capo delle cheerleader della scuola.”
            Pran deglutì, si prese qualche altro minuto di silenzio, e poi gli disse (con un tono che Pat non gli aveva mai sentito usare): “Che consiglio vuoi da me?”
            Pran si era sempre comportato con lui come se anche solo la sua vicinanza fosse fonte di fastidio, ma Pat sapeva leggere tra le righe dei suoi comportamenti ed era certo che fosse tutta una recita, la stessa della quale i loro genitori li avevano resi campioni; la grevità della sua voce, però, così come la freddezza con la quale gli aveva rivolto quelle parole, in quella circostanza gli diedero tutt’altra impressione. “Non saprei.” Non aveva un’idea concreta di cosa gli sarebbe piaciuto sentirsi dire, in quel momento. Aveva solo desiderato poterne parlare con qualcuno, qualcuno che magari lo avrebbe preso in giro per un po’, ma che lo avrebbe anche ascoltato e gli sarebbe stato vicino in caso di un rifiuto.
            “Vuoi dirglielo?” gli chiese Pran, parlando da sopra al tizio nella televisione che ormai né lui né Pat stavano più ascoltando.
            “Beh, sì. Prima o poi.”
            “Capisco.”
            Pat non si spiegò per nulla quello strano e repentino cambio d’umore. Non fu in grado di immaginare cosa delle sue parole avesse potuto infastidirlo fino a quel punto. “Comunque-”
            “Magari ti conviene far finire l’anno, prima” gli suggerì all’improvviso Pran, spezzando la frase che Pat stava per formulare. “Così, se ti dice di no, non dovrai vederla ogni giorno a scuola. Sarebbe... poco piacevole, credo.”
            Era, in effetti, un ottimo consiglio. “Penso che tu abbia ragione. Ma... allo stesso tempo, se aspetto così tanto, lei potrebbe mettersi con qualcun altro. Mancano ancora due mesi alle vacanze estive e molti ragazzi hanno una cotta per lei.”
            “Se lei si fidanzasse con qualcun altro, ti darebbe in modo indiretto una risposta, no? Se le piacessi, non si metterebbe con un’altra persona.” Qualcosa del modo in cui Pran espose quella che, a giudicare dal tono, per lui era una constatazione, rifiutandosi di guardarlo negli occhi, fissi su quel film che era impossibile stesse ancora seguendo, diede a Pat l’impressione che gli avesse appena rivelato un segreto infelice su se stesso, che non aveva mai confidato ad anima viva; gli aveva parlato con una tale sicurezza, e allo stesso tempo con un distacco così gelido, che Pat si ritrovò a chiedersi se fosse mai stato nella sua stessa situazione.
            “Non è detto”, ribatté, “perché se neanche le dico che mi piace, lei non si potrà mai accorgere di me. Non mi vedrà mai sotto quella luce. Se glielo dico, potrebbe comunque rispondermi di no, ma almeno ci avrei provato.”
            Per la prima volta, da quando quella bizzarra conversazione era cominciata, Pran si decise a rivolgergli lo sguardo. Aveva le labbra premute l’una contro l’altra e una strana tristezza negli occhi. “Okay. Ma fallo solo se pensi che sopporteresti sul serio il sentirti dire di no.”
            Non gli rivolse altra parola fino alla fine del film, che continuarono a guardare in un silenzio stagnante; una volta terminato, Pran gli disse che avrebbe fatto meglio ad andarsene, in quanto i suoi genitori sarebbero tornati da un momento all’altro. Pat avrebbe preferito rimanere e parlare di quanto era appena successo, chiedergli come mai aveva reagito così di fronte alla sua domanda, rimuovere quella tensione spiacevole che adesso vigeva tra di loro; non era però riuscito a farlo, non di fronte allo sguardo così distante che Pran gli aveva rivolto quando gli aveva suggerito di tornarsene a casa sua.

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            Durante la pausa pranzo, Pat seguì Pran fino all’angolino nel quale il ragazzo era solito rintanarsi per mangiare in santa pace; lo guardò imbambolato mentre si sedeva con le gambe incrociate su una delle panchine di ferro adiacenti l’ingresso posteriore della loro scuola, mentre vi poggiava con cautela il contenitore con la yum nua, che probabilmente si era preparato da solo, mentre impugnava le bacchette e controllava che fossero della stessa misura (gesto che portò Pat a sorridere, perché — per quanto il suo atteggiamento di fresca data fosse insolito — era sicuro che certe cose di lui non sarebbero mai cambiate). Prima che potesse afferrare una porzione di cibo con le bacchette, Pat si avvicinò a lui di soppiatto, attento a non farsi vedere, e quando fu a meno di un metro dalle sue spalle richiamò la sua attenzione cogliendolo di sorpresa, con un saluto a squarciagola rivoltogli dritto dritto nell’orecchio.
            Pran trasalì e urlò un breve shia!, che fece venire in mente a Pat la prima volta che si era intrufolato nella sua stanza senza il suo permesso, quando erano bambini. Lo guardò come se avesse voluto incenerirlo sul posto e Pat fu contento che un semplice sguardo non fosse abbastanza per uccidere un uomo. “Ma ti ha dato di volta il cervello?!”
            Pat gli rispose con un ghigno, di quelli che era ben consapevole lo facessero infuriare. “Oh, adesso mi parli?”
            Il viso del ragazzo fece qualcosa di molto interessante a quelle parole, passando da una smorfia infastidita, di chi sapeva di essere appena stato incalzato, a un’espressione fredda e impassibile. Pran tornò a dargli le spalle e si preoccupò solo di mangiare il suo pranzo, riprendendo a ignorarlo.
            “Ai’Pran!” esclamò Pat, stufo marcio di quella situazione. Pran fece finta di niente. Pat allora gli diede un leggero pugno sul braccio; di nuovo, non ricevette risposta. Continuò a farlo, spingendo le nocche sulla sua maglietta a mezza manica con delicatezza ma senza sosta, determinato ad attirare la sua attenzione. Dopo meno di un minuto passato in quel modo, Pran portò gli occhi al cielo e si alzò in piedi, per distanziarsi da lui, il contenitore con la yum nua ancora in mano, e lo guardò con un’aria... stanca; non arrabbiata, neanche stizzita, solo frustrata, come se la presenza di Pat in quel momento lo stesse davvero turbando oltre ogni dire. Doveva ammettere che il pensiero che Pran si stesse sentendo sul serio in quel modo a causa sua lo faceva star male. “Puoi semplicemente parlarmi” gli disse, “è chiaro che c’è qualcosa che non va, che ce l’hai con me, ma non so il perché!”
            Pran emise un sospiro rumoroso e abbozzò un mezzo sorriso che di divertito o felice non aveva niente. “Non ce l’ho con te” gli rispose solo.
            Pat sbuffò e incrociò le braccia. “Non mi pare.”
            “Questo non è un problema mio.”
            “Pran!” Sapeva di suonare lamentoso e infantile quando usava quel tono, ma non poteva farne a meno, specie di fronte a tanta testardaggine. “Dimmi cosa ho sbagliato e andiamo avanti. Non portiamola per le lunghe.”
            Pran alzò un sopracciglio con fare indisponente e non lo degnò di una risposta. Pat continuò a supplicarlo di dirgli quale fosse stato il suo errore, fino a che la sua insistenza non ottenne come reazione un mezzo sorriso giulivo con tanto di fossette, segno che Pran si stesse godendo parecchio i suoi tentativi disperati di venire a capo di quella situazione. Non gli sfuggì il fatto che Pran si stesse mordendo l’interno delle guance per non palesare il proprio divertimento, quindi Pat considerò un suo dovere farglielo notare, nel modo più saccente che riuscì a concepire; prese a pizzicargli i fianchi per fargli il solletico e ben presto il sorriso dell’amico divenne una risata incontenibile; Pran provò a schiaffeggiarli le mani per tenerlo a debita distanza, ma Pat era più forte e più veloce e riuscì ad avere la meglio. Alla fine, visto che mancavano meno di venti minuti prima dell’inizio delle lezioni, Pat concesse a Pran di riprendere a mangiare, standogli seduto vicino in un silenzio rilassato.
            “Allora, è tutto apposto adesso?”
            Pran sbuffò con aria spazientita, poi mosse il capo su e giù in segno di assenso, senza guardarlo negli occhi, guance paffute e piene per il pezzetto di carne che stava masticando. Pat pensò che qualcuno che non lo conosceva poteva persino ritenere adorabile quella vista – non di certo lui che sapeva benissimo quanta malizia e perfidia fossero sepolte da qualche parte nella sua testolina furba.
            Con il solo scopo di irritarlo, agguantò sotto al suo naso una porzione di bistecca di lombo e se la ficcò in bocca, spedendogli una linguaccia, ma nell’istante in cui lo fece se ne pentì amaramente: come aveva potuto dimenticare che alla famiglia di Pran piaceva cucinare con spezie e peperoncino? Prese a emettere tanti piccoli sospiri nella speranza che il bruciore alla lingua e al palato passasse presto, sventolandosi con la mano per far entrare aria fresca, il tutto sotto lo sguardo compiaciuto di Pran, che rise di gusto e si rifiutò con estrema crudeltà di passargli la sua bottiglia d’acqua.
 
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15 anni dopo il matrimonio
           
            Pat si avvicinò ad Anurak con un grosso sorriso a incorniciargli il volto e gli arruffò i capelli scuri e lisci in un gesto automatico d’affetto. Suo figlio si voltò verso di lui con una smorfia estasiata, la quale metteva in bella mostra l’incisivo mancante che gli stava piano piano ricrescendo.
            “Papà!” esclamò, pieno d’entusiasmo, “Guarda!”
            Il meraviglioso bambino di cinque anni di fronte a lui gli stava indicando una lunga pila di Lego che andava dal bianco al rosa passando per tutte le possibili sfumature che i due colori erano in grado di formare se combinati. Pat ricordava con estrema chiarezza come Anurak, un paio di giorni prima, mentre a tavola ogni membro della famiglia stava raccontando la propria giornata, si fosse lamentato del fatto che il pacco di Lego che gli avevano comprato avesse pochi colori e di come questa cosa lo rendesse triste; Pat aveva un ricordo ancora più vivido di Pran che, quella sera stessa, mentre Anurak e Isra erano già a letto, aveva preso in mano tempere e pennelli, per la prima volta dopo mesi a causa degli impegni lavorativi, e aveva creato tante tonalità di rosa (unendolo al bianco e al rosso), il colore preferito del loro bellissimo bambino, con le quali aveva pitturato una trentina di pezzi; poi aveva compiuto la stessa operazione con gli altri colori che aveva a disposizione, trasformando un noioso set di Lego neri, rossi e verdi in un caleidoscopio di tinte che il mattino dopo avevano lasciato Anurak senza parole.
            Pat sorrise nel constatare che suo figlio avesse impilato i mattoncini dal più chiaro al più scuro, con una meticolosità di cui Pran sarebbe stato fiero. “Ma che meraviglia”, gli disse, accovacciandosi accanto a lui, “sei stato bravissimo.” Gli accarezzò di nuovo i capelli e quel batuffolo che aveva per prole gli si accoccolò contro, facendo quasi le fusa. Pat rise, intenerito.
            “È rilassante quando li metto per colore, dal più chiaro al più scuro” gli spiegò e Pat annuì, pensando di nuovo che Pran sarebbe stato d’accordo con quell’affermazione. “Ti piace?”
            “Un sacco. Ora ti faccio una bella foto vicino alla tua costruzione e la mando a papy. Che ne pensi?”
            Anurak annuì veementemente, saltellando su e giù con entusiasmo. Pat attese che si mettesse in posa vicino alla sua torre di Lego, ma prima che potesse scattare il piccolo perse l’equilibrio e cadde per terra, schiantandosi contro la sua creazione e piombandoci sopra.
            I loro pavimenti erano a prova di bebè: Anurak era scivolato su un tappeto morbido e soffice, pertanto Pat era sicuro che non si fosse fatto nulla. Si fiondò comunque al suo fianco alla velocità della luce, preannunciando il pianto prorompente che sarebbe arrivato di lì a poco.
            Non arrivò. Il bambino stette lì a guardare i Lego sparsi per terra con gli occhi lucidi e lo sguardo perso, mentre le sue dita stritolavano il lembo inferiore della sua maglietta a righe. C’era rimasto troppo male persino per scoppiare a piangere.
            Pat sorrise, si sedette con le gambe incrociate e lo prese in braccio, ponendolo nello spazio che si era formato tra di esse. “È tutto okay” gli disse, ma Anurak aveva gli occhi puntati sul pavimento. “Ehi, amore mio, è tutto okay, davvero. Ti posso aiutare a ricostruirla? La facciamo venire più bella di prima.”
            Lo sguardo del bimbo tornò a focalizzarsi sul viso del padre, che gli stava sorridendo con gentilezza e affezione. “Davvero?” gli chiese, con il tono di chi voleva credere in qualcosa che non riteneva fosse possibile.
            “Ma certo. Dubiti del tuo super-papà? Faremo una torre così bella che in confronto gli edifici che progetta papy sembreranno giocattoli per poppanti.”
            Anurak rise, con quella risata incontrollata tipica dei bambini, senza freni e senza forzature. Pat la ricambiò. Con nuovo entusiasmo, suo figlio raccolse tutti i pezzi caduti e li catalogò di nuovo per colore e sfumatura, poi ne passò a Pat una manciata e gli disse di creare una prima torre, partendo dai pezzetti bianchi per poi arrivare al rosa chiaro; in un secondo momento avrebbero unito la torre di Pat alla sua, impiegandoci così la metà tempo. Pat era innamorato del modo in cui arrivava con una tale rapidità a soluzioni utili e organizzate, unendo la creatività di Pran al suo pragmatismo.
            Quando ebbero terminato, Pat poté finalmente scattare quella foto e mandarla a suo marito, che la visualizzò nel giro di un paio di minuti. Prima gli scrisse che aveva appena finito di lavorare e che sarebbe tornato nel giro di un’ora, poi aggiunse la reaction del cuore rosa alla foto di Anurak e della torre di Lego. Di lì a una manciata di secondi, a Pat arrivò una richiesta di videochiamata da Pran; rispose subito.
            “Ehi.” L’uomo che amava più di se stesso gli stava sfoggiando un sorriso tutto fossette che portò Pat a rispondergli solo con uno sguardo, occhi splendenti e labbra all’insù. “Ma che bravi che siete stati” aggiunse Pran, non appena Anarak si intrufolò sotto al braccio di Pat per comparire anche lui nello schermo.
            “Grazie, papy! Papà ha detto che la nostra torre è così bella che in confronto le cose che fai tu sembrano giochi per poppanti.”
            Di fronte al bambino, Pran si limitò ad alzare le sopracciglia e a mordersi il labbro. Le fossette che ancora comparivano ai lati della bocca tradivano il suo divertimento. “Ah, ha detto così?”
            “Sì!” confermò Anarak, annuendo soddisfatto e ignaro delle occhiate che i suoi genitori si stavano scambiando.
            Pat strizzò gli occhi e si spalmò una mano sulla fronte, consapevole che non appena suo marito sarebbe rientrato a casa avrebbe pagato cara quell’affermazione: Pran avrebbe senz’altro voluto punirlo e lui, per carità, consapevole di meritarlo, non si sarebbe certo opposto.


 
   
 
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