#Springbingo del gruppo Non solo
Sherlock
Casella n.1: Di notte a Lavandonia
Prompt di Alice Signorina Beazley
«Ken, tesoro, rientra che è tardi, è
pronta la cena!»
«Arrivo, nonna, aspettami!» Il bambino percorse i pochi metri che lo separavano
dalla piccola abitazione saltellando allegro e canticchiando una canzoncina che
aveva imparato dagli amichetti di Lavandonia. Non capiva bene tutte le parole,
nonna Harue gli aveva confidato si trattasse di un
antico dialetto conosciuto soltanto nel paesino, ma a lui piaceva lo stesso:
era orecchiabile, gli piaceva, e se ne avesse conosciuto già il significato,
l’avrebbe definita nostalgica.
A Lavandonia il sole tramontava sempre un po’ prima, il buio arrivava presto e
l’illuminazione fioca della Torre si mischiava alle stelle. Ken
era abituato a vedere al buio in un luogo dove le case potevano contarsi sulla
punta delle dita di una mano, ma gli andava bene così: poca confusione, niente
traffico, poche persone.
Tanto per lui contava ci fossero sempre i suoi due amici, Shin e Satoshi. Parlavano, giocavano, ridevano e scherzavano con
lui ogni giorno, un po’ meno quando c’erano dei turisti in visita al cimitero
della città. Ecco, in quel caso non si presentavano fuori. “Forse non gli piace
la gente”, li giustificava Ken nella sua spontaneità,
“però gli piaccio io, questo va bene.”
Nonna Harue stava preparando la cena, servì in tavola
il pasto e mangiò in religioso silenzio mentre Ken raccontava
ciò che aveva fatto quel giorno, dal sognare a occhi aperti di diventare un
allenatore di Pokémon e poter viaggiare per il mondo, a rincorrere Shin e Satoshi su e giù per i gradoni della Torre. Veniva
apostrofato più volte dalla vecchina che si premurava sempre di ricordargli di
non salire oltre un certo numero di piani, ma Ken non
ricordava mai quanti: sapeva che al piano terra poteva entrare, poi avvertiva
una leggera punta di angoscia all’idea di prendere la prima rampa di scale e sconsolato
se ne usciva nuovamente alla luce del sole, scrollandosi di dosso i piccoli
brividi che gli avevano fatto il solletico. Prometteva di portare rispetto,
così come lei desiderava, e di mantenere le distanze dagli sconosciuti,
affidandosi alla compagnia dei pochi compaesani e dei suoi due coetanei. Così
facendo, poteva essere considerato sempre al sicuro.
«Ehi, ma che ci fate qui? Sapete che nonna non mi fa uscire di notte, non
posso…»
L’espressione di Satoshi alle parole di Ken cambiò: detestava ricevere un “no” come risposta, anche
perché si divertiva parecchio con i compagni di giochi. Serrò i pugni e la
bocca mimando una espressione di sentito disappunto, ma non insistette più di
così: sapeva sarebbe stato inutile, disobbedire ai vecchi era vietato e portava
soltanto guai.
«Solo per oggi, è una giornata speciale.» Gli occhi di Shin invece brillavano
di aspettativa, piccoli puntini luminosi nel buio del retro di casa Nakamura,
dove si affacciava la cameretta di Ken. «Fidati di
me, ti divertirai tanto con noi.»
Ken fu tentato, ma ricordava le parole di Harue: “non uscire di notte a Lavandonia, sta’ dove io
possa proteggerti. Promettimi di non disobbedire.”
E lui non lo avrebbe fatto.
Si scusò con i bambini, chiuse la finestra e tirò le tende scure.
Anche quella sera obbedì. Anche quella sera sua nonna sospirò di sollievo nel
vedere come il nipote non avesse ceduto alle richieste dei due che vagavano tra
una casa e l’altra, bussando, sussurrando, chiamando. Ricevendo sempre risposte
negative.
«Nonna, perché non posso uscire di sera?» Ken
ricordava la cupa rassegnazione di Satoshi e
l’entusiasmo di Shin, voleva unirsi a loro, voleva correre per le strade
deserte di Lavandonia anche di notte, giocare a palla, a rincorrersi,
fantasticare sul futuro, stendersi sull’asfalto e guardare il cielo fino ad
addormentarsi… perché non gli era permesso?
«Sono cose che non ti serve sapere, Ken. Ora va’,
esci a giocare, approfitta di questo bel sole.»
Il bambino non rimbeccò, uscì a testa bassa e corse alla ricerca dei suoi
amici. Nonna Harue lo salutò con la mano, chiudendosi
la porta alle spalle e accomodandosi nel piccolo salotto: si lasciò cadere
sulla poltrona e borbottò qualcosa su come fossero particolarmente insistenti loro
quell’anno. Avrebbe dovuto fare qualcosa prima di vedere suo nipote
raggiungerli e lasciarla da sola. Capiva che le raccomandazioni ormai non erano
efficaci, Ken era un bambino esuberante e curioso,
bisognoso di contatto, del prossimo, di altri a tenergli compagnia… da quando i
genitori erano scomparsi lui gli era stato affidato, ancora troppo piccolo per
capire, e mai avrebbe voluto segregarlo in una comunità tanto ristretta e
protettiva, sapendo quanto fosse grande il sogno di Ken
di vivere il mondo e scoprire ogni cosa.
Ma non poteva partire, non poteva lasciarlo andare.
«Ken? Pssss, ehi, Ken!» Il sussurro di Shin entrò dalla finestra della camera
buia, picchiettando nelle orecchie del bambino. «Ken?
Mi senti?»
Lui mugugnò qualcosa stropicciandosi gli occhi, ancora mezzo addormentato:
scese dal letto quasi inciampando sul proprio pigiama, scostò le tende e salutò
l’amico con un cenno della mano.
«Oggi ti va di venire a giocare con noi?»
Ken mugugnò qualcosa di incomprensibile senza dare
importanza a quel “noi” anche se di Satoshi
non c’era traccia.
«Dai, faremo presto, prometto che non sveglieremo tua nonna. Dimmi di sì…!»
Fu tentato, e avrebbe anche ceduto non fosse stato per Harue
che intervenne piazzandosi tra il nipote e la figura fuori dispersa nella notte:
spalancò la finestra recitando le parole della canzoncina che Ken cantava spesso con leggerezza, ripetendole come un
mantra, per poi intimare Shin di allontanarsi e non tornare prima del mattino.
Sigillò la vetrata, accompagnò il nipote a letto e gli intimò ancora una volta
di non cedere mai alla richiesta di giocare dopo il tramonto.
«Anche se insistono, anche se sorridono… Ken, non
dire mai di sì. Possono implorarti, prometterti dei regali, possono dirti di
fare qualcosa di speciale, ma non accettare mai. Promettimelo, ti prego… non
uscire mai al buio…»
«Spiegami, nonna, spiegami perché non posso…»
«Perché altrimenti… lascia stare… torna a dormire.»
Insistette il bambino, ma non ebbe risposta. Ancora una volta si accucciò sotto
la coperta, riaddormentandosi con una strana sensazione a rimescolargli lo
stomaco.
«Satoshi, come mai non c’è Shin oggi con noi?» Ken era preoccupato, non era da loro perdere una giornata
di gioco all’aria aperta. Lavandonia quel giorno era deserta, avevano tutto lo
spazio per giocare, faceva caldo e aveva tanta voglia di correre e sfogarsi.
Satoshi temporeggiò, cambiò più volte argomento,
finse di non ascoltare o di non sapere, ma Ken non si
arrese: lo mise alle strette. «Cosa succede qui di notte? Perché non volete mai
parlarne? È un segreto tra te e lui? Dimmelo…» lo scosse per le spalle,
destabilizzandolo, «dimmelo!»
«Non posso, Ken, non posso parlartene. Abbiamo
promesso, non possiamo dirtelo…»
«Nonna, cosa succede di notte qui? È normale stare chiusi in casa così?»
Harue sospirò amareggiata, le ultime sere Ken parve sempre più agitato, non riusciva a riposare bene
e rumori all’esterno attiravano continuamente la loro attenzione. Il sonno del
bambino era disturbato e scosso da sogni che non riusciva a ricordare, sogni di
voci a lui familiari, di parole che svanivano dalla testa subito dopo essere
state pronunciate. Le occhiaie erano pesanti, il bisogno di dormire ancora di
più.
«Tesoro, i bambini di notte non devono uscire a giocare.»
«Ma non esci nemmeno tu…»
«Certo, io non devo fare niente di sera. I miei doveri li svolgo durante il
giorno, come tutti qui.»
Ken si arrabbiò, scattò dalla sedia della cucina
ribaltandola sul pavimento di legno: «tutti chi? Siamo pochissimi, non ci vive
quasi nessuno, e a parte un paio di persone, vedo soltanto Shin e Satoshi!» si fermò un attimo a riflettere, «anzi, negli
ultimi giorni solo Satoshi… Shin non esce più…»
Harue sapeva. Lo aveva allontanato lei quella sera: Shin
insisteva troppo, voleva Ken tutto per sé anche durante
la notte e non era un bene. Il legame era forte ormai, pericoloso.
Andava reciso.
E così lei tentò, ottenendo un allontanamento provvisorio.
«Per favore, nonna. Prometto che non lo dirò a nessuno, va bene? Sarà il mio
segreto, anzi, il nostro! Come una squadra, come una famiglia, perché noi siamo
una famiglia, giusto?»
«Fidati, per il tuo bene e di questa città, fidati…»
Ken aveva smesso di uscire. La febbre era salita un
pomeriggio, lasciandolo stanco, a letto da solo, chiuso nella sua camera. Nonna
Harue aveva vincolato parte delle sue energie per
prendersi cura di Ken, tralasciando alcuni dei doveri
giornalieri. La Torre era scura quella sera, le luci erano spente.
«Strano…»
Il bambino si portò alla finestra, Lavandonia non era mai stata così buia. Dove
prima c’era luce, anche se flebile, ora il nero.
E nel buio Ken vedeva le cose muoversi.
Quali cose? Non poteva saperlo, sua nonna non voleva rispondere nemmeno a
questo.
Sentì sussurrare voci conosciute là fuori, le stesse dei suoi sogni, le stesse
dei suoi amici. Si avvolse nella coperta sfoderata dal letto, si trascinò con
fatica alla finestra della stanza e assottigliò lo sguardo: gli scuri non erano
chiusi, nonna doveva averli dimenticati, e un nero così nero non l’aveva mai
visto prima. Spostò le pupille a destra e a sinistra, alla ricerca della fonte
di quei suoni.
Era sicuro fossero Shin e Satoshi, era così felice!
Erano passati a trovarlo, sapevano che stava male… loro non volevano lasciarlo
da solo, non come Harue che aveva raggiunto la Torre
tutta trafelata, abbandonandolo malato in casa. Spalancò la finestra e
rabbrividì: faceva freddo per la stagione, anche troppo, ma tanto lui era
coperto.
Scavalcò il davanzale, poggiò i piedi nudi a terra e corse verso gli amici. Satoshi tentò di dissuaderlo, gli disse che avrebbe dovuto
ascoltare le raccomandazioni della nonna, ma Ken non
ascoltò. Li raggiunse, li abbracciò e in cambio ricevette il migliore dei
sorrisi da parte di Shin, mentre l’altro piangeva.
«Ora sei davvero uno dei nostri, adesso non potrai andartene via mai più. I
fantasmi della Torre non possono scappare da Lavandonia, e tu hai scelto di
diventare un fantasma della Torre.»
Harue correva, correva quel tanto che il corpo
acciaccato permetteva. Aveva udito fruscii lievi, lugubri, ascoltato piccole
voci dai toni diversi.
Sussurri.
Passi.
Dove l’occhio non vedeva.
Le finestre della Torre ora nuovamente riflettevano sul terreno.
Lei aveva fatto più in fretta possibile: pregò con tutta se
stessa di tornare a casa e ritrovare Ken steso a
dormire, così come lo aveva lasciato, sentendosi sfuggire le ore del giorno
dalle dita nodose. «Manca poco, manca poco.»
«Nonna?»
Si sentì chiamare dall’esterno.
Si voltò, e dove prima non c’era nessuno, ora tre bambini la stavano guardando:
Shin sorrideva tenendo per mano Ken, in modo
protettivo, Satoshi non riusciva nemmeno a guardarla
negli occhi. Suo nipote invece si dondolava sui talloni, salutandola con la
mano e sorridendo: «visto? Non è successo niente, stiamo giocando ai fantasmi
della Torre!»
«Ken…»
L’ironia di Shin arrivò pungente. «Abbiamo vinto noi, vecchia.»
Strattonò l’amico nella direzione dell’alta costruzione adibita a cimitero; «andiamo,
andiamo nella Torre a giocare.»
«Ma io non posso…» Ken si sentì trascinare con una
forza tale da farlo sollevare dal terreno. «Ho promesso…» Si voltò in direzione
della vecchia, allungando il braccio verso di lei, ma era troppo lontana,
sfinita. Era inginocchiata a terra, le mani tremanti a coprire un volto sfatto.
Il bambino sentì il peso della colpa addosso, tentò invano di opporre
resistenza e di raggiungere l’unica familiare che ancora aveva.
«Dove pensi di andare? È presto, andiamo a giocare nella Torre.» Shin strinse
di più, strattonò e lo trascinò sul pavimento senza il minimo sforzo,
allontanandolo dalla propria casa, da Harue.
Satoshi mimò un inchino profondo in direzione
opposta, sussurrando un “mi dispiace”. Sapeva lei avrebbe sentito, e gli
dispiaceva davvero, perché Ken non sarebbe più
appartenuto a lei.