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Autore: bikerhobbit    11/04/2023    0 recensioni
I pensieri di Luburza, mezzorco inquisitore di Zon Kuthon, dio della perdita e del dolore, mentre torna alla chiesa dopo una missione.
Chissà come ci è finito, a servire un dio - e quel dio -, dopo una vita da mercenario.
Sa soltanto che non vorrebbe essere da nessun'altra parte. Sì, anche contando il dolore.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Poveri bastardi.
Potrebbe essere la frase che Luburza ha detto o pensato più volte nella sua vita, riflette, mentre cavalca lasciandosi alle spalle la caverna dove ha compiuto il suo dovere.
O povero bastardo, o povera bastarda. A seconda del caso.
Gli zoccoli del cavallo rintoccano sull’erbetta nuova e verde, che inesorabilmente, dopo le piogge, si sta mangiando le distese sassose dove fino a un anno prima si combatteva.
Luburza non crede di aver mai visto tanta erba. È di un bel verde intenso, che spicca anche di più con quel cielo lattiginoso.
Verde intenso come la pelle di suo padre.
Fino a un anno prima quella distesa sarebbe stata piena di cadaveri, col cielo annerito da corvi e avvoltoi. Ora, i becchini e i ladri hanno ripulito tutto. Insomma, alle volte si ritrovano ancora pezzi d’armatura, ossa, l’inferno sa cosa, e Luburza tira le redini e il cavallo rallenta.
È bello galoppare. E poi ha fretta di tornare alla chiesa. Ma se per sbaglio becca qualche ordigno inesploso, magico o meno non ha importanza, addio vecchio orco.
Ce l’ha qualcosa a cui tornare, adesso.
Luburza scruta l’erba mentre procede al trotto. Arrivando gli è sembrato tutto sgombro, ma non si sa mai.
Se l’è vista brutta, prima.
Dannato ragazzino. Un serpentello che ben si nascondeva negli anfratti e tra le stalagmiti della grotta.
Luburza stava controllando che non gli fosse sfuggito qualche traditore, col sangue che ancora gli sgocciolava dal falcione, e un sasso gli ha fischiato a un centimetro dal suo orecchio fortunato, il sinistro. E ha visto una faccetta contratta dall’ira.
Non più di otto anni e già la stoffa del guerriero. Un po' più a destra e addio vecchio orco, o quantomeno naso del vecchio orco.
È bastato sollevare il falcione perché il serpentello fuggisse come una lepre, i passi convulsi echeggianti nella grotta. Forse c’era qualche via di fuga, forse andava a schiacciarsi contro una parete come un topo in trappola.
Luburza è rimasto lì.
“Gli ordini sono ordini” ha detto alla caverna, e la sua voce ha rimbombato.
Chissà se il ragazzino ha sentito.
Farebbe meglio a tenerlo a mente, se farà come Luburza e, trovandosi senza nessuno, si rivolgerà a una compagnia di soldati.
Luburza è per metà orco, e sa riconoscere un degno avversario.
È tornato alla camera principale della grotta, con ancora le lampade accese e i sacchi a pelo buttati in giro, imbrattati di sangue. Ha frugato i corpi, c’erano tutti quelli che gli avevano indicato, si è preso oro e altre cose che possono far comodo ed è uscito dalla caverna, nel grigio di questa giornata lattiginosa.
Il tempo di pulire il falcione dal sangue, e via, di nuovo sul cavallo.
Traditori.
Mezze calzette.
Znubasfwashwhazas, sussurra una voce nella testa di Luburza, mentre il cavallo sciaguatta su una pozzanghera. Il mezzorco alza le spalle. Il ragazzino è rientrato nella camera principale, e ora non ha un bello spettacolo davanti agli occhi.
Prima di depredare i corpi, Luburza ha usato una pergamena di un incantesimo di allerta. Mica voleva che la bestiolina lo centrasse con un altro sasso. Non è scemo, il vecchio orco.
Forse qualcuno dei capi si lamenterebbe che lo ha lasciato vivere, se lo sapesse. Alle volte sono troppo fiscali. Ma un ragazzino che danni può fare? Certo, figlio di eretici e traditori finché vuoi, ma Luburza mica è diventato capotribù della tribù di suo padre o di sua madre solo perché è figlio dei figli dei capitribù.
Già, forse quel tappetto gli ricordava troppo lui alla sua età, e per questo lo ha lasciato andare.
Un giorno forse lo ringrazierà.
Forse anche il Signore della Mezzanotte ha gradito l’azione – o meglio, l’inazione. Insomma, guarda com’è finito Luburza. Quel ragazzino ha tutte le probabilità di finire com’è finito il mezzorco, e fare tanti bei casini graditi a Zon Kuthon.
Nemmeno serve che scoppi un’altra guerra di settant’anni.
L’inquisitore tira uno strattone alle redini fermando il cavallo. Ah, no, è solo un sasso. Un colpo di speroni, e prosegue senza saltare in aria.
A Luburza fa ancora strano che sia finita. Non ha visto altro da quando è venuto al mondo. Si sente nudo, solo e ben visibile in quella distesa. Come se da un momento all’altro lo centrasse una freccia o una palla di fuoco, di nuovo. Come se da un momento all’altro riecheggiassero le urla e lo sbattere metallico di due eserciti che si caricano.
Un sacco di mercenari, magari gente che ha conosciuto, saranno rimasti senza lavoro. Poveri bastardi. Meno male che lui si è sistemato.
Ce l’ha, qualcuno a cui tornare.
Magari altri non ce l’hanno più.
La distesa finisce, e Luburza guida il cavallo nel bosco. La luce si fa ancora più tenue, ma non è un problema per l’inquisitore che continua a cercare ordigni e trappole. Ci vedrebbe anche se fosse notte.
Ma guarda. Fino a quattro anni fa era lui il povero bastardo che quando finivano gli ingaggi non aveva un accidente da fare se non trovarsene un altro – magari dalla parte opposta. Ed era pure mezzorco, quindi con tutta probabilità bastardo nel vero senso della parola – Luburza non aveva voglia di raccontare ogni volta che ma’ e pa’ si erano scelti, l’unico problemino era che le rispettive tribù avrebbero preferito morire sotto una valanga di sassi che dare il beneplacito a quell’unione, e quei due giovinastri si erano fatti cacciare piuttosto che rinunciare l’uno all’altra, condannandosi a vagare per il vasto mondo cercando di sostentare sé stessi e, quando era spuntato, quel mezzorco del loro figliolo.
Sarebbe una storia maledettamente romantica. Di quelle che senti nelle taverne quando c’è un bardo un po' decente. Di quelle che se le racconti a una donna mettendoci un minimo di pathos, quella si innamora di te, povera bastarda.
Già, peccato che a un certo punto, dopo mesi, forse anni di stomaco brontolante, dove ma’ era sempre più magra e pa’ sempre più ingrugnito, un giorno si è svegliato da solo.
Per questo quando ha avuto bisogno di un cognome si è chiamato Sanguesporco. Così sembra un normale mezzorco figlio di qualche solito brutto guaio e la gente pensa di saperlo e non fa domande.
Andate a farvi friggere, ma’ e pa’. Voi e la vostra storia strappalacrime.
E guarda dov’è finito.
Prima di trovare la sua nuova casa – qualcosa di tiepido si accende nell’inquisitore quando pensa questa parola, e spalanca gli occhi – Luburza credeva che l’amore fosse abbastanza inutile. Forse qualcuno lo provava veramente. Ma non era bastato a convincere quei due giovinastri a tenere con loro il figlio che avevano fatto perché a detta loro si volevano così bene da andarsene disonorati dalle tribù che un giorno avrebbero dovuto comandare.
E invece – un pensiero che forse gli aveva dormito dentro da allora – forse tutto ha senso. L’amore, o quel che dannazione è, è dolore.
Luburza non avrebbe mai pensato che un giorno si sarebbe unito a una chiesa. Di qualsiasi dio. Erano semplicemente cose fuori dal suo interesse e dalla sua portata.
E invece.
Dannazione se ha fatto male.
Luburza sbircia le protesi all’anulare e mignolo della mano sinistra. Appuntite. Non si sa mai quando può servire un po' di potenziale distruttivo in più.
Dannazione se ha fatto male. Luburza è stato in guerra. Aveva creduto di poter stringere i denti e non urlare, giusto per impressionare ancora un po' i chierici che si sono occupati della sua iniziazione – è un guerriero figlio di guerrieri! È un mezzorco! È forte! –, e tutti i suoi buoni propositi se ne sono andati a farsi friggere.
Ma adesso, quando sarà tornato, i superiori alzeranno le sopracciglia, annuiranno, diranno ben fatto, notevole, in così poco tempo, senza sbottonarsi troppo perché quelli sono così: seriosi e spesso troppo in preda al dolore per mollargli pacche sulle spalle e andarsi a bere una pinta o due per festeggiare il successo. Ma gli diranno che ha servito bene la chiesa, che può prendersi una pausa, e allora lui dirà no, datemi qualcos’altro da fare.
Anche perché quando è in missione, lo dispensano dall’autoflagellarsi, in quanto un guerriero che si torce dal dolore è poco efficiente. Ma anche perché poi se le guadagnerà di nuovo, quelle lodi austere.
Ha affrontato cinque persone da solo e ha vinto. Certo, non erano guerrieri, ma quelli erano comunque ex seguaci di Zon Kuthon. Ne sapevano qualcosa, di come far male.
Qualcuno qui è capace di apprezzare la bravura, dannazione.
Quell’ammirazione contenuta per la dedizione dell’ultimo inquisitore che ha raggiunto il grado, che appena tornato da una missione, ne chiede subito un’altra. Non c’è da stupirsi che abbia scalato i ranghi così in fretta.
Già. Quattro anni fa era solo un mercenario ingaggiato per proteggere dei chierici durante un viaggio, con la guerra che infuriava ancora, e le pratiche che li aveva visti fare all’epoca lo avevano repulso, ma non aveva potuto negare una morbosa fascinazione. Era bastato domandare al chierico che gli era parso più chiacchierone che senso avesse tutto quello. E da lì, lentamente, è parso che i pezzi della sua vita scivolassero insieme. Non crede di essersi mai tanto stupito di qualcosa. Ne è stupito tuttora.
Anche quella volta i chierici avevano ammirato la sua bravura, e fedeltà. Luburza non è uno di quei senza spina dorsale che mollano a metà perché si sono annoiati e tanto sono mercenari. Lui gli ordini li esegue, anche se deve buttare il sangue. A parte quando lascia andare piccoli serpenti con la mira ancora un po' da affinare, ma non contano.
Magari lui non era abbastanza perché quei due giovinastri non si pentissero di averlo fatto. Ma è abbastanza per questo.
Se Luburza ha dovuto farsi così male per arrivare dov’è arrivato, se ogni tanto non può proprio scamparsi i rituali e allora lo fanno gridare – e gridare lodi al Signore di Mezzanotte – come mai ogni volta pensa che lo faranno gridare, anche se è un guerriero, figlio di due guerrieri, e per metà orco quindi già di per sé non ha paura di soffrire, se è vero che l’amore e il dolore sono la stessa cosa, allora quella è la strada.
Dannazione se ha fatto male, e se continua a far male, ma finché continua a far male avrà dei fratelli. Fratelli che gli fanno male, certo, ma almeno glielo fanno per quel motivo. Non può dirlo di nessun altro.
Almeno lo hanno capito che amore e dolore sono la stessa cosa, e tanto vale celebrarlo. Il Signore di Mezzanotte lo ha capito.
E Luburza è contento anche di non essere solo uno dei tanti, innumerevoli poveri bastardi che hanno campato ingaggio per ingaggio, e ora che la guerra è finita tanto vale che si buttino da un ponte. Né uno che ora passerà la vita a disperarsi senza trovarci un senso perché la guerra – o uno dei tanti idioti che campano di coltellate che girano, come Luburza è stato – gli ha portato via i suoi cari.
L’inquisitore scorge il relitto di strada da cui si è distaccato per raggiungere la caverna, e guida il cavallo sulla striscia sterrata con qualche pietra di selciato superstite, piena di pozze di fango.
I poveri bastardi che ha appena ammazzato non lo avevano capito. Luburza non lo sa, se meritassero di morire. Lui meritava di morire quando non lo sapeva ancora? Immagina che meritasse di morire tanto quanto chiunque altro.
Ma lui non deve pensare, e comunque non ha voglia di farlo. Lui fa quello che gli viene detto. Lui esegue gli ordini, e i capi sono contenti.
Tanto gli basta.
Il cielo brontola, e una lieve pioggerella comincia a cadere, e se fosse più forte il fango poi inghiottirebbe la strada.
   
 
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