Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Moonlight_Tsukiko    27/04/2023    0 recensioni
Eren Jaeger sogna di vivere in un mondo dove sua sorella è ancora viva e di non dover usare le sue preziose strategie di adattamento per provare qualcosa che non sia dolore. Ma la vita ha il suo modo per distruggere tutto ciò che vi è sul suo cammino, ed Eren si ritrova in una spirale dalla quale non sembra uscirà molto presto.
Come capitano della squadra di football della scuola superiore Shiganshina, Levi Ackerman sembra essere la colonna portante per i suoi compagni di squadra. Ma quando non è in campo e non ha indosso la sua maglia sportiva, diventa semplicemente Levi. Levi Ackerman forse sarà anche in grado di aiutare le altre persone, ma Levi certamente non può difendersi dallo zio alcoldipendente.
Nessun altro ha provato il loro dolore, nessun altro ha vissuto ciò che hanno vissuto loro, e nessun altro potrà mai capirli. Ma tutto cambia una volta che si stabilisce una relazione non convenzionale che li forza a mettere a nudo tutte le loro cicatrici.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Berthold Huber, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Levi Ackerman, Marco Bodt
Note: AU, OOC, Traduzione | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
Capitoli:
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Go Ahead and Cry Little Boy
 
Capitolo 24





 
Levi

Mentre dondolo sui talloni, mi prendo un momento per pensare a come riesco sempre a cacciarmi in situazioni che preferirei evitare. Una voce maligna in fondo alla testa mi ricorda che l’unico motivo per cui sono qui è che non sono riuscito a tenere la bocca chiusa.

Inspirando profondamente, lascio che i miei occhi si fissino su quelli di Marco Bodt. Ha lo stesso aspetto di sempre. L’unica differenza evidente è la quantità di felicità nei suoi occhi. Costringo gli occhi a terra, incapace di continuare a guardarlo. La sua espressione mi ricorda chiaramente che sì, ho fatto una gran cazzata.

“Ehi,” dico, e non appena la parola lascia le mie labbra, vorrei aver pensato a qualcosa di meno stupido.

“Ciao,” dice Marco in modo brusco. Si stropiccia le sopracciglia. “Vuoi sapere del progetto di scienze? L’ho finito e mandato via e-mail alla signora Zoe, quindi...”

“Sai perché sono qui, Marco,” dico, abbastanza piano che persino io faccio fatica a sentirlo, e guardo come la dura facciata di Marco si sgretola.

“Non ho nulla da dirti.”

Non è un tipo vendicativo. Marco non lo sarebbe mai. È un bravo ragazzo, il migliore dei migliori, il sogno di una madre e l’incubo di un figlio ribelle. Nessuno ha mai parlato male di lui. Marco si assicura di fare la cosa giusta, di seguire un percorso che lo porti al successo, a un’immagine pubblica positiva e tutte le altre cose che non mi prendo la briga di pensare. In breve, è quanto di più vicino all’impeccabilità di una persona della nostra età possa esistere.

Credo sia per questo che mi sento una merda. Avevo intenzione di fargliela pagare alla festa di Franz? No, certo che no. Ma c’era stato qualcosa di incredibilmente liberatorio. Forse mi sono comportato da grande idiota, ma dire la verità dopo tanto tempo mi aveva liberato da alcune pesanti catene che mi opprimevano.

“Marco,” lo chiamo. La mia voce ha un tono disperato che ignoro. Il groppo in gola minaccia di soffocarmi. Le mani iniziano a tremare e le infilo nelle tasche, sperando che Marco non veda che sono a pochi secondi dal crollare. “Per favore.”

La sua espressione si addolcisce. Mi conficco le unghie nel palmo della mano, così forte da farmi male, e aspetto che dica qualcosa.

“Non qui,” mormora infine.

I miei occhi si spostano da lui al soggiorno. Il suo fratellino, con i capelli arruffati dal pisolino e l’orsacchiotto infilato sotto il braccio paffuto, mi fissa con curiosità. Sorride, anche se con le gengive, e io mi costringo a ricambiare il sorriso.

“Okay,” dico, contento di star facendo progressi, e faccio un passo indietro. “Andiamo.”

Il bar è rumoroso.

La gente entra ed esce in continuazione, la fila serpeggia intorno ai tavoli ed esce dalla porta, e tutto ciò che riesco a sentire sono ordini urlati di cappuccini e ciambelle glassate. Per un attimo mi chiedo se Marco abbia scelto questo posto solo per non dovermi ascoltare. Decido immediatamente che me lo merito, se è così.

“Allora?”

“Mi dispiace,” dico all’istante. Marco mi fissa in modo uniforme e io lo prendo come spunto per continuare a parlare. “Non volevo che venisse fuori in quel modo. So cosa sembrava, ma...”

“Ma non volevi dire sul serio?” Chiede. Scuoto la testa.

“Non proprio,” ammetto. “In parte sì, ma non... non volevo dire che ti odiavo o qualcosa del genere.”

“Non credo che dovresti scusarti con me.”

Lecco le labbra secche e concentro la mia attenzione su un cumulo di neve sul marciapiede.

“Non volevo...”

“So che Eren è tuo amico,” dice Marco lentamente. “Nessuno sta dicendo che non puoi essere suo amico o altro. Ma non lo è anche Reiner?”

“Non si tratta di Reiner,” ammetto. “Non molto, comunque. Penso che sia un idiota, ma l’ho sopportato abbastanza da non preoccuparmi più di tanto.”

“Allora perché ti sei comportato così?”

Eccolo qui. Il momento che temevo mi sta guardando dritto in faccia. Afferro una cosa a caso sul tavolo. I portatovaglioli, il saliere e il pepiere, le bustine di dolcificante e tutto ciò che posso toccare viene sistemato e spostato senza pensare. Tengo gli occhi bassi e cerco di ripetere le parole come mi sono esercitato.

“È troppo faticoso,” sussurro. Marco stringe le labbra.

“Il football?” Tenta. Faccio spallucce e incrocio titubante il suo sguardo.

“Non in senso fisico,” dico, e le sue sopracciglia si aggrottano.
“In che senso, allora?”

“A livello emotivo. Mentale. Cose del genere,” rispondo. Scivolo un po’ sulla poltrona e mi schiaccio contro la sedia. “Sembra un po’ stupido se lo dico così.”

Marco non dice nulla. Mi passo le dita tra i capelli, tremando.

“Ci sono molte aspettative intorno a me, sai?” Inizio lentamente. Marco si mette a sedere dritto e seguo il movimento con gli occhi. “Sono sempre Levi Ackerman, il capitano dei Titans.”

“La gente ti ammira.”

“Ma non sono qualcosa di più?” Chiedo. La mia voce ha di nuovo quell’orribile vulnerabilità. “A cosa serve se è solo questo che mi definisce?” Mi sporgo in avanti. “Levi Ackerman...”

“Levi Ackerman è molto più che il capitano della squadra di football,” dice Marco con fermezza. Mi sorprende che ora stia rispondendo. “Dio, Levi, perché dovresti pensare diversamente?”

“È frustrante,” continuo. “Mantenere una facciata. Fingere di essere qualcosa che non sono.”

“Di che cosa stai parlando?”

“La gente dice che Levi Ackerman è perfetto,” dico con voce spenta, e Marco alza un sopracciglio. “È un ragazzo fantastico che tutti ammirano perché sta facendo tante cose belle.” Faccio una pausa, raccogliendo le forze, e lo guardo dritto negli occhi. “Non sono io, Marco. Non sono Levi Ackerman. Levi Ackerman è solo una bugia.”

“Di cosa stai parlando?” Marco chiede gentilmente. “Tu sei lui.”

“Non mi sembra,” dico, digrignando i denti. “Vivo due vite diverse, Marco. A scuola è facile essere lui. Devo mantenere un’apparenza. I capitani sono il collante che unisce la squadra. I capitani dovrebbero tenere insieme la squadra quando tutto il resto crolla.”

“E Levi, allora? Che cosa fa?”

“Scappa. Si nasconde. Mente. Finge che tutto vada bene perché ha paura che il suo teatrino crolli.”

“Le persone fanno cose diverse per proteggersi, sai.”

“Sì, lo so,” mormoro, pensando a Eren e a tutti i suoi meccanismi di difesa. “Non voglio essere Levi Ackerman. Ma... a essere sincero, ho troppa paura di essere semplicemente Levi.”

“Va bene, però,” sussurra Marco. “Essere solo Levi, intendo. Nessuno... nessuno ti odierebbe per questo.”

Non rispondo; non subito, perché la mia mente è confusa. Rilascio un sospiro sommesso e mi metto a sedere dritto, tamburellando con le dita contro la superficie fredda del tavolo.

“Non ti ho mai raccontato cosa mi ha detto Bertholdt, vero?” Comincio. “Il giorno in cui sono andato a parlargli. Subito dopo che ha lasciato la squadra.”

“No,” dice Marco, tirando un po’ per le lunghe la parola. “Hai solo detto che se ne andava.”

“Mi ha detto che il football non era una cosa di cui aveva bisogno,” dico, sentendo la voce di Bertholdt nella mia testa mentre parlo, e qualcosa di gelido e freddo mi stringe il cuore. “Disse che stava smettendo perché non lo faceva nemmeno per sé stesso. Giocava perché Reiner lo voleva, e ha finito per odiarlo perché era una cosa di cui non gli fregava un cazzo.”

“E tu cosa gli hai risposto?”

“All’inizio mi sono incazzato,” dico. “Gli ho detto che la squadra non era usa e getta. Una stronzata del genere. Volevo che mi dicesse che non avrebbe mollato. Mi sono detto che non capivo perché lo facesse per qualcun altro. Mi sono detto che mi ero unito alla squadra perché sapevo fosse il posto a cui appartenevo.”

“Allora qual è la verità?” Chiede Marco. Io rido amaramente.

“La verità è che il fatto che Bertholdt abbia mollato, mi ha ricordato che non avevo le palle per fare lo stesso. Non volevo buttare via l’unica cosa che sembrava soffocarmi solo perché mi dava qualcosa dietro cui nascondermi. Bertholdt... ha molto più coraggio di quanto ne avrò mai io. Ma non gliel’ho mai detto. Cazzo, non gli ho nemmeno parlato da allora. Mi ricorda solo chi dovrei essere, ma non ci riesco perché... perché ho paura.”

Le mie parole rimangono sospese nell’aria. Il cuore mi batte forte, i palmi delle mani umidi di sudore e, con riluttanza, incontro lo sguardo penetrante di Marco. La sua bocca è aperta per lo shock, i suoi occhi si spalancano e mi chiedo se dovrei dire qualcosa.

Parlare con Marco non è come parlare con Eren. Eren non si aspetta nulla. Non mi ha mai conosciuto come Levi Ackerman. Forse all’inizio sì, ma ho cercato di mostrargli solo Levi. E forse all’inizio lo conoscevo solo come Eren Jaeger. Era il ragazzo a cui nessuno prestava attenzione, a meno che non fosse mezzanotte e fossero ubriachi fradici. Era il tipo di ragazzo che nessuno considerava perché la gente non voleva essere vista con lui. Ma poi è diventato Eren per me. È diventato qualcuno con cui potevo relazionarmi perché capivo il suo dolore. Provavo lo stesso dolore, cercavo di evitarlo e a volte vivevo in quel dolore.

Marco, invece… Non ha mai visto Levi. Gli ho mostrato Levi Ackerman perché è quello che ho fatto credere di essere. Sono sicuro di me, sono forte e nessuno penserebbe mai il contrario. Non ho mai dato loro motivo di farlo. Ma ora? Ora è tutto diverso. La precaria linea di demarcazione che ho tracciato tra i due lati di me si è offuscata. Ora non so come distinguere tra i due lati. Non so quale dovrei essere e quale sono in realtà.

“Mi dispiace,” dice finalmente Marco, ma il modo in cui lo dice mi fa chiedere se le scuse siano più mie. “Cristo, Levi. Mi dispiace.”

Ho un sapore amaro in bocca e improvvisamente mi vergogno. Sento le orecchie che si scaldano, le mani che si stringono in pugni stretti che fanno male più di ogni altra cosa. Marco mi osserva come se stesse guardando un uccello con un’ala spezzata, e mi viene quasi da ridere.

È questo che sono diventato, non è vero? Ho ceduto alle mie emozioni, ho lasciato che mi travolgessero fino a quando ho iniziato ad affogarci. Cerco di individuare il momento esatto, quello in cui ho perso il controllo e ho lasciato che tutto si accumulasse su di me, ma non ci riesco.

“Non dispiacerti per me,” dico, e Marco mi guarda colpevolmente.

Mi strofino la nuca e trasalisco alla sensazione di freddo delle mie mani. È come una scossa elettrica alla spina dorsale. All’improvviso mi sento come se fossi un estraneo che occupa il corpo di un’altra persona, come se non fossi me stesso. Come se vedessi il mondo attraverso gli occhi di un altro e non posso fare a meno di pensare che questa persona non può essere normale. Mi sento incasinato, imbarazzato ed esausto.

“Non l’ho mai saputo,” dice Marco. “Ti ho sempre ammirato, in realtà.” Le parole mi fanno trasalire, ma Marco continua a parlare. Mi sembra una tortura lenta, e chiudo gli occhi come se questo potesse in qualche modo bloccare tutto. “Ho sempre pensato che fossi forte. Ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto essere come te. Molti ragazzi della squadra la pensano così. Anche Reiner, sai. Eri come un fratello per noi. Una specie di eroe o qualcosa del genere.”

“Marco...”

“Se l’avessi saputo,” continua, interrompendomi, “Ti avrei aiutato. Mi sarei accollato un po’ di quel peso.”

“Non sei obbligato a farlo.”

“Sei mio amico,” dice Marco, quasi con severità, e io mi sento vagamente come un bambino che viene rimproverato dal genitore. “Se posso fare qualcosa per aiutarti, lo farò. Non mi interessa se pensi di essere debole. Essere vulnerabili non è sempre una cosa negativa. A volte abbiamo bisogno di essere vulnerabili. Se cerchiamo sempre di essere forti, è solo questione di tempo prima di crollare.”

Sbuffo dolcemente.

“Grazie, Socrate,” dico dolcemente, cercando di scherzare sulla situazione, ma la verità è che Marco sta solo dicendo cose che ho bisogno di sentire. La pesantezza che prima si era posata su di me in modo così forte sembra che si stia sollevando. È solo a piccoli passi, naturalmente, ma è un inizio.

Marco sorride.

“Non ringraziarmi,” dice, e mi chiedo come ho fatto a essere così idiota con lui. “Considera conclusa la prima tappa del tuo tour di scuse.”

“Eh?” Chiedo, confuso, e Marco sorride tristemente.

“Parla con Bertholdt,” dice a bassa voce. “Ha chiesto di te dopo aver deciso di smettere. Non ha voluto parlare nemmeno con Reiner. Si fida molto di te.”

Annuisco e abbasso lo sguardo sulle mie mani. Era da un po’ che volevo scusarmi con Bertholdt, ma mi ero sempre detto che dovevo trovare il momento giusto per farlo. Non è che volessi procrastinare la cosa. È solo che non volevo dire nulla finché non lo avessi capito.

E ora lo capisco.

“Lo farò,” dico, e il sorriso sul volto di Marco si allarga e si trasforma in qualcosa che mi avvolge di calore.

 
***

Con gli occhi puntati sulla porta e le mani nelle tasche del cappotto, penso a tutti i possibili esiti di questa conversazione. Fisso l’elaborato pomello di bronzo della porta, la fontana spenta per l’inverno e ascolto il minaccioso starnazzare dei corvi che volteggiano sopra di me.

Tiro fuori una mano dalla tasca e busso con forza contro la porta. Aspetto appena un minuto prima che una donna dai capelli castani perfettamente arricciati e dai teneri occhi verdi la apra. La riconosco quasi subito come la madre di Bertholdt. Il mio corpo si irrigidisce alla vista.

“Oh,” dice lei, chiaramente sorpresa, e le sue labbra rosse si schiudono in un sorriso geniale. “Sei uno degli amici di Bertholdt?”

“Sì, signora,” rispondo. Mi chiedo se ho il privilegio di definirmi così.

“È nella sua stanza,” m’informa. Solo allora mi accorgo della pila di buste che ha in mano. Spalanca la porta, invitandomi a entrare, e io mi attardo goffamente accanto alla porta.

La signora Hoover prende il cappotto dalla rastrelliera dietro la porta e continua a sorridermi. Guardo ovunque tranne che sul suo viso perché non so cos’altro fare.

“Beh, spero che vi divertiate. Vorrei restare a chiacchierare, ma ho degli affari da sbrigare. Se hai bisogno di qualcosa, non esitare a dirlo a Bertholdt. Una delle cameriere sarà in grado di procurarvelo.”

Una delle cameriere.

Ripeto la frase nella mia mente più volte. Qualunque cosa faccia, non mi toglie la stranezza della frase. Scuotendo la testa per schiarirla, rivolgo alla signora Hoover un sorriso teso e forzato.

“Certo, grazie,” mormoro, avviandomi già verso le scale.

“Buona serata!” Dice la signora Hoover. Mi aggiro per il corridoio, facendo capolino di tanto in tanto, ed è per pura fortuna che mi imbatto nella stanza di Bertholdt. Le porte che danno sul suo balcone sono spalancate. Osservo le sottili tende che lo coprono agitate dalla brezza. Bertholdt è fuori, appoggiato alla ringhiera, e io mi ritrovo a mordicchiare l’interno della guancia.

I miei passi sono silenziosi quando mi avvicino a Bertholdt. Mi soffermo sull’uscio, cercando di pensare a qualcosa da dire, ma è come se tutta la mia pratica davanti allo specchio fosse stata inutile. Non so cosa dire. Tutto sembra stupido e per una volta vorrei fingere che le conversazioni naturali mi vengano facili.

“Non hai freddo?”

Bertholdt si gira verso di me. Ha un aspetto... diverso. C’è un’aria solenne che lo circonda. È sempre stato silenzioso, ma ora sembra avere qualcosa di diverso. È il tipo di quiete che deriva dal fatto che qualcosa ti schiaccia da tutte le parti, il tipo di quiete che è il risultato del tentativo di cavarsela senza che nessuno dica nulla, e il pensiero che lui abbia vissuto questa esperienza mi fa rimanere senza fiato nel modo peggiore.

“Levi?”

“Ehm... ehi,” dico, goffamente, e le mie dita si ritrovano sull’orlo del cappotto. Strattono un filo allentato e cerco di pensare a qualcos’altro per riempire il silenzio che si estende tra noi.

“Cosa ci fai qui?” Chiede Bertholdt. Sembra confuso, e non posso biasimarlo.

“Dobbiamo parlare,” rispondo. Bertholdt si alza completamente e mi guarda con curiosità. Ignoro le domande che nuotano nei suoi occhi e mi mordo il labbro. “So che è un po’ improvviso, ma...”

Sperando che Bertholdt capisca, annuisce.

“In realtà volevo parlarti,” dice. Fa un respiro profondo e lo rilascia lentamente. “Ti devo una spiegazione.”

“Una spiegazione?” Gli faccio eco; posso solo chiedermi di cosa possa trattarsi.

Bertholdt sorride con forza e mi passa davanti per tornare nella sua stanza. Lo seguo, chiudendomi la porta del balcone alle spalle, e lascio che mi conduca in cucina. Gli guardo le spalle mentre si prepara una tazza di caffè. Strofinandomi goffamente le braccia, mi sistemo in uno degli sgabelli del bar e aspetto che finisca.

“Vuoi qualcosa da bere? Da mangiare?”

“No,” dico. “Sono a posto così.”

Bertholdt alza un po’ le spalle e si sistema davanti a me. Lo guardo, chiedendomi se devo dire qualcosa prima, e lui sembra pensare la stessa cosa.

“Mi dispiace,” dico subito. “Non te l’ho mai detto quando mi hai detto di smettere. Ho lasciato che tu ti scusassi con me, ma avrebbe dovuto essere il contrario. Mi dispiace di essere stato un tale stronzo. Mi dispiace di essermi comportato come se non riuscissi a capire. Mi dispiace di non averti più parlato da allora.”

“Anch’io mi sarei arrabbiato,” dice Bertholdt, tracciando con il dito il manico della sua tazza. “Avrei dovuto sopportare la situazione. Un anno in più non mi avrebbe ucciso.”

“La tua felicità è più importante di una stupida squadra,” dico. “Non lasciare che nessuno ti faccia pensare diversamente.”

Bertholdt mi guarda scioccato. Deglutisco con forza. Le sue scarpe battono rumorosamente sul pavimento. Ascolto lo sbattere della porta prima di aggrapparmi con esitazione alla ringhiera della scala.

“Ti tieni in contatto con qualcuno della squadra?” Chiedo.

Bertholdt si schermisce dolcemente.

“No,” dice scuotendo la testa. “Non ero davvero uno di voi. Ho pensato che sarebbe stato meglio non farlo. Nessuno mi ha contattato, quindi credo che il sentimento fosse reciproco.”

“Avrei voluto,” dico, e Bertholdt mi lancia un’occhiata che grida che non l’hai fatto. “Giuro su Dio, non ho mai avuto intenzione di lasciarti da solo in quel modo.”

Bertholdt si sposta goffamente e fissa la sua tazza. Mi passo le dita tra i capelli e appoggio i gomiti sul bancone.

“Non c’è problema. È tutto passato.”

“Non è vero!” Dico, alzando involontariamente la voce, e Bertholdt mi guarda velocemente. “Senti, Bertholdt. Io... ho capito quello che dicevi quel giorno. Sul fatto che non hai bisogno della squadra e tutto il resto. Ma non volevo ammetterlo. Sei riuscito a fare qualcosa per renderti felice. Io potevo solo sognare di farlo. Mi hai ricordato di star mentendo a me stesso e a tutti quelli che mi circondavano.”


Bertholdt mi guarda con interesse. Deglutisco a fatica e continuo a parlare.
“Ho risposto male a Marco a una festa,” dico. “Reiner si è comportato da Reiner e io gli ho praticamente detto di andare a fanculo. Ma... non si tratta di Reiner. Non lo è mai stato. È solo che non riuscivo a sopportare lo stress di dover mettere in piedi un teatrino.”

Bertholdt sembra rimpicciolirsi su sé stesso.

“Nemmeno io ci riuscivo,” borbotta. “Per questo ho mollato.”

“Lo so,” dico con dolcezza. “E lo capisco. Credo che quello che sto cercando di dire è che non siamo così diversi. Per me era così facile fingere di fare football perché lo volevo. Ma in realtà volevo solo qualcosa dietro cui nascondermi.”

Bertholdt rimane in silenzio per un po’. Deglutisco bruscamente e, quando si schiarisce la gola, lo guardo.

“Sono andato a letto con Reiner,” dice Bertholdt, così velocemente che quasi mi sfugge, e soffoco nella mia stessa saliva.

“È...” Faccio fatica a trovare le parole giuste. “È per questo che hai smesso?”

“Lui era ubriaco e io no,” dice Bertholdt, fissando qualcosa sul bancone, e il mio stomaco si contorce in nodi così stretti da farmi male fisicamente. “Al secondo anno, dopo la partita contro Trost.”

Ricordo quella partita. Erano tutti così emozionati, così carichi di adrenalina. C’era stata una festa dopo la partita a casa di Reiner, ma io l’avevo saltata perché sapevo che Kenny avrebbe dato di matto se non fossi tornato a casa in tempo.

“È stata una bella partita,” dico a bassa voce. Bertholdt scuote la testa.

“Non saprei,” dice, sorridendo seccamente. “Ero uno scaldapanchina, ricordi?”

“Cosa è successo quella sera?” Chiedo. Il sorriso di Bertholdt si spegne.

“Reiner e Franz avevano litigato. Franz gli aveva dato un pugno e se ne andò infuriato. Reiner... era molto agitato. Ho dovuto far andare via la gente perché ha iniziato a essere violento.”

“Bertholdt...”

“L’ho baciato per farlo tacere.” Bertholdt espira tremante e abbassa la testa. Mi sento incredibilmente nauseato. Il rumore bianco mi riempie le orecchie e sento il mio corpo appesantirsi. “Ho semplicemente... accettato. Non ho mai detto di no e non ho mai detto di sì.”

Con passi pesanti, salgo le scale. Non so bene dove sto andando. Ogni volta che Bertholdt dava una festa, io rimanevo al piano di sotto. La gente saliva solo per scopare, e non è mai stata una cosa che volessi fare davvero. Gli incontri casuali non mi hanno mai intrigato.

“Cazzo,” sussurro, la testa mi gira e la bile mi sale in gola. Il sapore acido mi inonda la bocca e mi inarco sulla sedia. “Cazzo.”

Non so cosa dire. Non sono nemmeno sicuro di riuscire a elaborare quello che mi sta dicendo. Le parole mi fluttuano in testa, ancora e ancora, come una canzone in un loop infinito.

“Non riuscivo a stargli vicino,” continua Bertholdt con dolcezza. “Me ne stavo lì, facendo finta che andasse tutto bene. Mi ero convinto che fosse solo un errore da ubriachi, niente di più. Ma più a lungo lo nascondevo, più cresceva il mio risentimento. Ho smesso prima di esplodere.”

“Mi dispiace,” dico, e lo ripeto un paio di volte. Gli occhi mi bruciano e tutto il mio corpo si sente come se fosse stato investito da un camion.

“Pensavo di amarlo, ma in realtà non l’ho mai fatto. Cercavo solo di convincere me stesso che andava tutto bene.”

“Avrei dovuto saperlo,” dico, con la voce che si incrina. “Avrei dovuto cercare di aiutarti. Avrei dovuto... avrei dovuto fare qualcosa!”

“Non stavo cercando di renderlo ovvio,” risponde Bertholdt con dolcezza. “Levi... non darti la colpa. Io l’ho fatto per un po’ e fa schifo. Incolpa la persona responsabile.”

Penso a Reiner. La mia mente non si riempie di feroci minacce di morte e promesse di fargli male come lui ha fatto a Bertholdt. Vedo il suo volto negli occhi della mia mente e sono pervaso da un’opprimente sensazione di intorpidimento.

“Eren è stata la prima persona a cui l’ho detto,” dice Bertholdt, con voce flebile, e io deglutisco a fatica. “Sono crollato e gli ho raccontato tutto. Mi ha aiutato. Ora lo sto affrontando.”

Bertholdt si strofina la nuca.

“Non te lo dico perché voglio che tu stia male per me o cose del genere. Te lo dico perché ti rispetto e penso che tu meriti di sapere la verità.”

Il mio corpo è ricoperto di pelle d’oca. Mi sembra di non riuscire a respirare. La pesantezza che pensavo fosse stata sollevata torna a schiantarsi con una forza tale da farmi chiedere se sarò schiacciata sotto di essa.

“Non mi dovevi niente,” sussurro. “Avrei dovuto essere un amico migliore. Avrei dovuto...”

Bertholdt scuote la testa.

“Sto bene. Le cose... stanno migliorando. Non ci sono ancora riuscito del tutto. Ma sto facendo progressi.”

“Bertholdt,” dico, con voce sottile, e lui mi guarda dritto negli occhi. “Grazie.”

All’inizio sembra un po’ confuso, ma poi annuisce lentamente.

“Non c'è di che,” dice lentamente, e mi chiedo se ora sto facendo un buon lavoro di finzione.

 
***

“Stai bene?”

Guardo Eren. Sono seduto sul suo letto, con la schiena appoggiata al muro, e mi guardo le ginocchia. Eren sta facendo qualcosa alla sua scrivania, ma io sono troppo distratto per prestare davvero attenzione. Il torpore di prima è tornato prepotente. Ripercorro più volte la conversazione con Bertholdt.

Reiner ha violentato Bertholdt.

Reiner ha violentato Bertholdt.

Mi sento di nuovo male. Il mio stomaco si agita quasi all’infinito. Ascolto Eren che si allontana dalla scrivania e viene a sedersi sul letto di fronte a me.

“Levi?”

“Bertholdt me lo ha detto,” sussurro. “Di Reiner.”

Gli occhi di Eren si allargano.

“Quando?”

“Oggi,” dico. “Prima di venir qui.”

“È per questo che sei venuto?”

Annuisco rigidamente.

“Non lo sapevo.” La mia voce si spezza sull’ultima parola. “Non ne avevo idea. Non ho mai percepito nulla. Pensavo che fosse tutto a posto e io...”

Mi interrompo, un singhiozzo mi si conficca a metà gola. Non mi rendo conto che le lacrime mi stanno scorrendo sul viso finché Eren non si china su di me e le asciuga con le mani.

“Ehi,” dice dolcemente. “Levi?”

Sento la sua voce, ma non riesco a metterla a fuoco. Lui mi scavalca con una gamba e si sistema in grembo, prendendomi il viso tra le mani e costringendomi a guardarlo. Mi aggrappo alla sua vita per radicarmi e lui preme le nostre fronti insieme.

“Concentrati su di me,” sussurra. “Continua a guardarmi.”

Affondo le dita nella sua pelle come se cercassi di fondermi con lui. Il mio corpo trema per lo sforzo di trattenere i singhiozzi. Avvolgo le braccia intorno a lui e mi stringo, premendo il viso contro la base della sua gola.

Le sue mani si spostano dal mio viso ai miei capelli. Passa le dita tra le ciocche e preme il viso contro la mia testa. Lascio che le mie lacrime bagnino la sua camicia e ascolto mentre mi tranquillizza.

“Va tutto bene. Sfogati. Stai bene. Andrà tutto bene.”

“Non ho potuto aiutarlo,” dico, aprendo finalmente gli occhi, e tutto il mio corpo si sente pesante. “Ho avuto il coraggio di pensare di poter sostenere la mia squadra. Ma onestamente? Non ci sono mai riuscito.”

“Levi, dice Eren dolcemente, spostandosi per guardarmi. Si muove per staccarsi da me, ma io mi aggrappo a lui per farlo restare. “Ti prego, non darti la colpa. So che Reiner è uno stronzo, ma Bertholdt ora sta bene. Ci sta lavorando. Starà benissimo.”

“Ha dovuto mentire,” sussurro. “Si vergognava. L’ho costretto io a farlo. Avrebbe dovuto sentirsi come se potesse venire da me. Non che dovesse rimanere in un ambiente tossico per il bene della stupida squadra. Non riesco nemmeno a proteggere me stesso. Cosa mi ha fatto pensare di poterlo fare per qualcun altro?”

“Non devi essere un eroe,” mi dice Eren. “Non puoi salvare sempre tutti.”

“Era proprio davanti a me e io ero cieco al suo dolore,” mormoro. Stringo la presa su Eren e lo faccio scivolare ulteriormente sulle mie ginocchia. “Non ti farò questo. Giuro su Dio, Eren, che ci sarò quando avrai bisogno di me.”

Gli occhi di Eren si addolciscono.

“So badare a me stesso,” risponde con voce sommessa, e si attorciglia una ciocca di capelli intorno al dito.

“Non dovresti farlo,” gli dico. “Non dovresti affrontare nulla da solo.”

Ci fissiamo per un po’, ascoltando il suono dei nostri respiri combinati, e mi ritrovo a deglutire faticosamente per evitare il nodo che mi ostruisce la gola.

“Promettimi che me lo dirai,” borbotto. “Promettimi che mi dirai se qualcosa ti fa male. Non devi mentirmi su nulla. Io sarò sempre qui per te.”

“Lo so,” sussurra Eren, avvolgendomi le braccia intorno al collo. “Ti dirò tutto. Te lo prometto.”

“Va bene,” sussurro, premendo un bacio all’interno del suo braccio ed Eren mi fa un piccolo mezzo sorriso in risposta.



Note:
Ehilà, ma chi si ricorda questa storia? Probabilmente in pochi, ma sono determinata a portarla a termine e ho già tradotto tutti i capitoli. Per chi non la conosce, spero di far scoprire un
’altra storia meravigliosa. 
Gli aggiornamenti d’ora in poi arriveranno ogni settimana, di giovedì. Fatemi sapere cosa ne pensate!

Alla prossima settimana!
Mooney

 
   
 
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