Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: EternallyMissed92_    21/06/2023    11 recensioni
«Levi», sussurrò, il viso nascosto nell’incavo del suo collo niveo. «Oh, Levi, non sai quanto io sia felice che tu sia ancora vivo!», rivelò infine, in un singulto che non fu in grado di bloccare, traboccante di sentimenti misti ed indecifrabili. «Non credevo saresti sopravvissuto, non questa volta.»
Il Capitano sbuffò una risata di scherno dal naso.
«Riponi così poca fiducia nei miei confronti da avermi dato subito per spacciato, quattrocchi?», ribatté sardonico, sciogliendo l’abbraccio e rivolgendole uno sguardo insolente, sfrontato. «L’erba grama come me non muore molto facilmente.»
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hanji Zoe, Levi Ackerman
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Disclaimers: niente mi appartiene; Attack on Titan (Shingeki No Kyojin) e tutti i suoi personaggi sono di proprietà di Hajime Isayama.
Titolo della one-shot: Leave Out All The Rest
Personaggi: Levi Ackerman, Hanji Zoë
Timeline: post 4x18
Note dell’autrice: il titolo è tratto da una canzone dei Linkin Park. Nonostante sia una post 4x18, ci tengo a precisare che non tiene conto di alcuni avvenimenti e dialoghi presenti in quell’episodio; nello specifico, Hanji non sa che Levi ha sentito tutto il suo discorso a voce alta mentre “dormiva” e Levi non le dice che fuggendo e nascondendosi non otterranno nulla. Secondariamente, a discapito di ciò che succederà nella storia, Levi ed Hanji non li shippo come coppia.
Spero che la one-shot vi piaccia e le recensioni, così come le critiche costruttive, sono sempre ben accette. -Martina-.

 

 

LEAVE OUT ALL THE REST

 

«Levi?», flebile e bassa, una voce ben conosciuta – stranamente morbida e dolce – lo stava chiamando. «Levi, svegliati», continuò quella voce inconfondibile alle sue orecchie e ad essa si aggiunse una mano a scrollargli leggermente la spalla.

Levi, ancora mezzo intontito, si scosse pian piano dal torpore in cui era caduto da parecchie ore e aprì la palpebra sinistra, unico lembo di pelle scoperto dalle bende. Incontrò lo sguardo di Hanji, che lo stava fissando con la testa inclinata da un lato.

«Finalmente ti sei svegliato», gli disse, sorridendo. «Per un attimo ho creduto avessi tirato le cuoia.»

«Che diavolo vuoi, quattrocchi?», sbottò subito lui, con voce roca, alzandosi leggermente con il busto e reggendosi quindi sui propri gomiti.

«Sei sempre il solito scontroso, vedo», Hanji scosse il capo, ridacchiando. «Devo controllarti le ferite e cambiare le bende», decretò, con tono ora autorevole e serio.

Levi sospirò, quasi scocciato, ma evitò di protestare. Si raddrizzò con la schiena, gemendo sommessamente di dolore; spostò la coperta e incrociò le gambe, rimanendo in vigile attesa. Hanji si sedette accanto a lui e cominciò a togliergli le fasciature dal viso e dall’occhio destro, delicatamente. Gli prese il mento fra due dita e attenta, scrutandolo a fondo, osservò tutti i punti di sutura che lei stessa, con una maestria degna di nota, gli aveva cucito sulla pelle.

«Le ferite stanno guarendo», sentenziò con un sorriso, prendendo le fasce e srotolandole con abilità, pronta ad iniziare col nuovo bendaggio. «La cicatrizzazione procede bene anche se a rilento, ma almeno non c’è alcun segno di infezione.»

Levi la guardò con l’occhio sano, poi lo chiuse. Hanji era veloce ma delicata mentre gli passava le fasciature intorno al volto sfigurato, una delicatezza che mai avrebbe creduto potesse appartenerle.

«Ecco fatto!», esclamò lei non appena ebbe finito, soddisfatta del proprio lavoro, e fece per alzarsi quando Levi la bloccò per un polso. «Cos…?», farfugliò, presa in contropiede, ma lo sguardo che le stava rivolgendo il Capitano era così indecifrabile ed intenso che le parole le morirono il gola.

L’occhio sinistro di Levi – grigio come una giornata di pioggia, ma imperturbabile come una notte serena – era incatenato all’occhio destro color nocciola di Hanji – ora sbarrato, la pupilla dilatata come una crepa nel tempo –, la quale anelava una risposta a quel gesto repentino ed inaspettato.

«Ti ringrazio, quattrocchi», le disse infine lui, la voce calda e profonda di chi non mente. «Mi hai salvato la vita rischiando di perdere la tua e adesso ti stai prendendo cura di me ogni giorno», concluse mentre, non senza fatica, cominciava a rimuoversi le bende con la mano sana, sotto lo sguardo esterrefatto e sbigottito della Comandante, che si vedeva tutto il perfetto lavoro di bendatura andare in completa rovina.

«Levi, brutto nanerottolo che non sei altro!», strillò, piuttosto adirata, le mani chiuse a pugno sui fianchi. «Te le ho appena messe! Non puoi…», tentò di ribattere, ma il Capitano era stato fin troppo svelto e il suo volto sfigurato era tornato libero, illuminato dal fuoco acceso nella penombra della foresta in cui erano nascosti.

Levi le prese la mano e, dolcemente, ne fece appoggiare il palmo aperto sulla propria guancia offesa.

«Queste cicatrici saranno per sempre testimoni di ciò che hai fatto per me», le disse, quasi schernendosi; non era per niente facile per uno come lui – il soldato più forte dell’umanità, l’uomo tutto d’un pezzo che non si faceva piegare da niente e nessuno – lasciarsi andare a quel tipo di dichiarazioni ed emozioni, e ciò gli costò un enorme sacrificio. «Queste cicatrici sono la prova della persona straordinaria che sei, Hanji Zoë.»

Hanji rimase di stucco a quelle parole. Deglutì a vuoto, sentendosi sottosopra; poi, per sbrogliare la tensione che le aveva annodato lo stomaco, si lasciò andare alla sua tipica risata sfrontata, goliardica e a dir poco spaventosa.

«Oh, Levi!», scoppiò, sbellicandosi. «Il tè che tanto adori ti ha dato alla testa?», lo prese in giro, tenendosi la pancia contorta dalle risate. «Per fortuna non hai bevuto il vino di Marley, altrimenti chissà cosa saresti stato capace di inventarti da ubriaco!»

Levi la fulminò con lo sguardo, indignato.

«Tsk, maledetta quattrocchi», sbottò, incrociando le braccia al petto.

«S-scusa», cercò di dire Hanji, mentre le sue risate stridule, a poco a poco, si placavano, fino a cessare del tutto. «Cerca di capirmi, non ho mai avuto il piacere di vederti a cuore così aperto.»

«Sei proprio un’idiota, quattrocchi di merda», la apostrofò, borbottando. «Mi rimangio tutto ciò che ho detto prima.»

L’ultima risatina giocosa della Comandante, allietata dallo scambio di battute con Levi, si librò nell’aria, spandendosi man mano in un’eco sempre più remota. Un refolo di vento leggero ma deciso sopravvenne improvviso, innalzando un sottile strato di polvere dal terreno, e le foglie frusciarono danzanti fra gli alberi alti e fitti, i quali rivelarono il primo timido scorcio argenteo di luna nascente, incastonata in quell’oceano di inchiostro blu che era il cielo.

«La sai una cosa, quattrocchi? Poco prima che mi risvegliassi, durante il dormiveglia, sono riuscito ad ascoltare quel tuo strambo discorso sull’essere costretti a vivere come dei fuggitivi, a ritrovarsi dentro una gabbia nonostante ci si sforzi continuamente di fare la cosa giusta», snocciolò Levi, rompendo bruscamente il silenzio in cui erano entrambi piombati, sdraiandosi su di un fianco e puntellandosi sul gomito, la tempia appoggiata contro il palmo aperto della mano mutilata. «Ma ti ho sentito dire anche un’altra cosa.»

«Quale?», chiese lei, quasi timorosa.

«La proposta di voler vivere qui, insieme a me.»

Hanji lo scrutò un attimo, poi abbassò lo sguardo.

«Parlavo sul serio quando l’ho detto», ammise, tormentandosi le mani. «A te dispiacerebbe?», continuò, prendendo il coraggio necessario per rialzare il viso e tornare a guardarlo. «Non piacerebbe anche a te vivere qui e…»

«Sì», la interruppe subito Levi, una fermezza nella voce che non ammetteva repliche. «Sono stanco, Hanji. Sono stanco di combattere quei Giganti del cazzo, di quel lurido figlio di puttana di Zeke e di quel moccioso presuntuoso di Eren. Sono stanco di tutto il sangue che viene versato, dei nostri compagni che muoiono in battaglia, compagni che io stesso ho visto morire e che sono stato persino costretto ad uccidere», confessò tutto d’un fiato, in un tumulto misto di rabbia, rancore, dolore e frustrazione. «Sono stanco di questa vita schifosa in cui non c’è un solo fottuto attimo di pace», batté un pugno a terra, serrando le mascelle, e fissò Hanji. «Ho visto solo morte e distruzione per troppo tempo, sin da quando ero un bambino. Quindi sì, quattrocchi: io vivrei qui, lontano da tutta la merda che c’è là fuori, insieme a te.»

La Comandante non disse niente; qualsiasi parola sarebbe risultata superflua, inutile. Si limitò quindi ad assorbire lo sfogo di Levi, portando le ginocchia al petto ed appoggiandovi sopra il mento.

“Io vivrei qui, insieme a te.”

Sorrise e lasciò che quelle parole risuonassero nella sua testa, cullandola come la più dolce delle ninne nanne, portandola via, almeno per un po’, dai suoi stessi tormenti.

 
 

****
 

Quando si accorse che l’aria era diventata più fredda, Hanji dovette scuotersi dal torpore che l’aveva sovrastata. Si alzò per ravvivare il fuoco aiutandosi con qualche rametto secco, si scaldò le mani davanti ad esso per qualche minuto, poi si voltò verso il proprio compagno d’armi, ancora steso sul lato destro, la palpebra chiusa nonostante fosse sveglio e la fronte aggrottata, perso in chissà quale pensiero.

«Dovresti coprirti», gli suggerì, premurosa. «A breve farà buio e la temperatura si abbasserà… rischi di prenderti un malanno.»

«Sto bene così», tagliò corto lui, senza nemmeno aprire l’occhio. «E tu dovresti imparare a farti gli affari tuoi, quattrocchi

La Comandante alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, esasperata.

«Nanerottolo impertinente», lo rimproverò, beffarda.

«Quattrocchi di merda», replicò subito lui, ma l’angolo della sua bocca era piegato in un sorriso piuttosto divertito.

Hanji si stiracchiò la schiena, portando in alto le braccia, e tornò a sedersi vicino al suo compagno. Rimase a guardare come le fiamme crepitanti e vivaci del fuoco creavano uno strano gioco di luci ed ombre sui suoi capelli corvini dal taglio militare e sul suo viso deturpato, rendendo la sua peculiare espressione – glaciale, seriosa, impenetrabile – inspiegabilmente dolce.

«Levi?», lo chiamò piano.

«Che c’è ancora?»

«Niente, volevo solo…», si bloccò, mordendosi il labbro inferiore con i denti. «Volevo solo fare questo», mormorò infine, circondandogli un fianco discinto con il braccio e tirandoselo piano addosso, con estrema delicatezza, attenta a non far male al suo corpo già molto provato.

Levi sgranò l’occhio, colto alla sprovvista, ma non fece niente per opporsi, anzi, ricambiò quella stretta disordinata, quasi goffa, e vi annegò dentro con tutto il suo essere, sospirando rilassato.

Hanji gli passò le dita fra i capelli, sorreggendogli la testa, e lo strinse un po’ più forte a sé, petto contro petto, cuore contro cuore, anima contro anima. Quell’abbraccio le ricordò il terribile momento in cui lo aveva cinto per proteggerlo quando lo rinvenne esanime, con la carne del volto scheggiata dall’esplosione della lancia fulmine, imbrattato del suo stesso sangue e due dita strappate via, ancora incastrate nel grilletto dell’impugnatura del movimento tridimensionale. Le lacrime salirono e lei strizzò l’occhio per contrastarle, un nodo alla gola a mozzarle il respiro.

«Levi», sussurrò, il viso nascosto nell’incavo del suo collo niveo. «Oh, Levi, non sai quanto io sia felice che tu sia ancora vivo!», rivelò infine, in un singulto che non fu in grado di bloccare, traboccante di sentimenti misti ed indecifrabili. «Non credevo saresti sopravvissuto, non questa volta.»

Il Capitano sbuffò una risata di scherno dal naso.

«Riponi così poca fiducia nei miei confronti da avermi dato subito per spacciato, quattrocchi?», ribatté sardonico, sciogliendo l’abbraccio e rivolgendole uno sguardo insolente, sfrontato. «L’erba grama come me non muore molto facilmente.»

Hanji si asciugò in fretta e furia una lacrima che era sfuggita al proprio controllo, sentendosi un’emerita sciocca.

«Perdonami, sono la solita cretina che ha reazioni sconclusionate.»

Levi ridacchiò di gusto – cosa che non faceva mai – e improvvisamente, mosso da una volontà più grande di lui, allungò il braccio per accarezzarle una gota con i polpastrelli. Vide Hanji avvampare subito sotto il suo tocco, la pelle bollente come un tizzone ardente. Senza interrompere il contatto visivo, fece scivolare il pollice sinistro sulla sua bocca dischiusa, lambendone il labbro inferiore come ipnotizzato. Non seppe come successe, tantomeno perché, ma si sporse in avanti e, delicatamente, poggiò la propria bocca contro quella di lei.

Hanji si sentì spiazzata, disorientata, la testa che le vorticava e il cuore che, galoppante, le batteva talmente forte che credette volesse spaccarle la cassa toracica ed uscirne fuori. Ci fu un attimo – un brevissimo attimo – in cui ebbe l’istinto di toglierselo di dosso, magari schioccandogli anche un sonoro schiaffo, ma le labbra di Levi erano così morbide e calde, così accoglienti ed invitanti da mandarle in arresto immediato il cervello, spegnendo ogni suo più piccolo barlume di razionalità. Gli cinse il collo con le braccia, completamente rapita, dominata da un’emozione mai provata prima di allora, un’emozione che le donò un brivido lungo la schiena ed una scossa di piacere lì – proprio lì – nel basso ventre, nel più profondo recesso di sé stessa.

Fu in quel momento che Levi, sentendola ormai così lasciva, si fece più audace: la costrinse ad aprire la bocca, spingendo la lingua ed incontrando la sua, divorandola affamato e bramoso, saziandosi di lei, beandosi dei suoi gemiti sommessi.

Hanji fece scorrere la punta delle dita sul torace nudo del Capitano e ne saggiò i muscoli massicci e forti, la carne tesa, la pelle rovente; infine, premendo i palmi delle mani sui suoi pettorali, lo spinse dolcemente per allontanarlo.

 «Piano, Levi», mormorò, il respiro affannato, le bocche gonfie e tumide che ancora si sfioravano. «Non voglio che la cicatrice sul labbro si riapra e…»

«Non m’importa», decretò Levi, afferrandola per la nuca e facendo collidere di nuovo le loro labbra in un bacio feroce, fatto di denti che si scontravano, di lingue che lottavano, di salive che si mischiavano.

Non erano baci d’amore quelli che si stavano scambiando, lo sapevano entrambi. Erano baci per non sentirsi più calpestati ed annullati dalla solitudine di quel mondo che li aveva resi infelici e miserabili, per tenersi ancorati a quella esistenza tanto odiata quanto preziosa. Erano baci per aggrapparsi alla speranza che, in quella realtà crudele e disumana, ci potesse essere ancora qualcosa – qualcuno – di buono per cui valeva la pena combattere.

 

****

 

La notte calò e con essa anche il buio. Hanji, non senza guerreggiare contro repliche e proteste di vario genere, convinse Levi a sistemarsi sotto la coperta.

«Devo rimetterti le bende che hai tolto», sancì lei, categorica. «Se si infettano…»

«Più tardi», la bloccò Levi, con voce roca. «Più tardi mi rifarai il bendaggio, ma adesso vieni qui», e la prese delicatamente per un polso, trascinandola verso di sé. «Dormi con me, stanotte.»

Hanji, ritrovatasi in ginocchio, arrossì candidamente, spiazzata da quella richiesta. Lo scrutò in volto e non le ci volle poi molto per capire che non stava affatto scherzando.

«Va bene», acconsentì, stendendosi accanto a lui e sorridendo, prima di puntargli addosso un indice. «Però ti avverto: io russo.»

«Oh, questo lo so fin troppo bene, quattrocchi», ghignò Levi, ormai forgiato da tutte le memorabili russate cui la Comandante, ogni qualvolta erano costretti a dormire all’addiaccio, sottoponeva le povere orecchie di chiunque, fossero essi semplici sottoposti o valorosi soldati.

Hanji gli diede un colpetto divertito sulla spalla nuda e la mano sinistra di Levi corse a spostarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Abbozzò un sorriso e, prendendole il mento fra le dita, si sporse per baciarla di nuovo, ancora una volta, grato di avergli donato – anche se solo per pochi giorni – la parvenza di una normalità a lui sconosciuta.

Fu un bacio delicato, tenero. Un bacio che volle dire tutto e niente, pieno di giuramenti e menzogne, gioia e dolore, paradiso ed inferno.

In quel bacio, però, Levi riversò anche tutta la propria sofferenza, una sofferenza che Hanji, meglio di chiunque altro al mondo, aveva provato sulla sua pelle. Si aggrappò a lei, a quel bacio disperato, e gli vennero in mente Furlan ed Isabel, Petra ed Erwin, Varys e tutti i suoi soldati caduti; pensò a quanto era stato straziante dover dire addio alle persone a lui più care, uno strazio che non riusciva più a sopportare, come un dannato macigno che gli schiacciava continuamente il cuore e le viscere.

Con quel bacio Levi si ritrovò a pregare. Pregò pur non credendo in niente e in nessuno. Pregò nonostante fosse consapevole di quanto la vita è bastarda e li avrebbe rincorsi col suo carico di merda fino a quando non gliel’avesse sbattuta in piena faccia, impedendo loro di poter essere finalmente liberi, di poter restare lì, insieme, senza il costante fetore della morte insidiato fin dentro le narici.

Con quel bacio, Levi pregò affinché Hanji potesse trovare la felicità, affinché la stessa sorte toccata ai suoi vecchi compagni non toccasse anche a lei.

 

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