Film > The Avengers
Segui la storia  |       
Autore: Ella Rogers    28/06/2023    1 recensioni
"Chi non muore si rivede, eh Rogers?"
Brock Rumlow era lì, con le braccia incrociate dietro la schiena e il portamento fiero. Il volto era sfregiato e deturpato, ma non abbastanza da renderlo irriconoscibile, perché lo sguardo affilato e il ghigno strafottente erano gli stessi, così come non erano affatto cambiati i lineamenti duri e spigolosi.
"Ti credevo sepolto sotto le macerie del Triskelion."
La risata tagliente di Rumlow riempì l'aria per alcuni interminabili secondi, poi si arrestò di colpo. L'uomo assunse un'espressione truce, che le cicatrici trasformarono in una maschera di folle sadismo.
E Steve si rese conto che, per la prima volta da quando l'aveva conosciuto, Brock Rumlow si mostrava a lui per quello che realmente era, privo di qualsiasi velo di finzione.
"Credevi male, Rogers. Credevi male."
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Movieverse | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'The Road of the Hero'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
One level
 
 
 
When I close my eyes, it’s there waiting for me
Finds me every time, will I never be free?
There’s a monster I caged deep behind my eyes
I can never escape, I’ve been running for miles
When the morning comes, I know it will still be there
My never ending nightmare
 
 
 
 
Più in avanti nel tempo
 
 
“Credevo di essere stato chiaro.”
 
“Lo sei stato, ma...”
 
“Hai disobbedito e fatto di testa tua. Di nuovo.”
 
Sono ai lati opposti del tavolo, entrambi in piedi, impegnati a sostenere l’uno lo sguardo dell’altro e nessuno dei due vuole cedere. La tensione è palpabile e continua a crescere.
 
“Ho fatto quello che avresti fatto anche tu” glielo sbatte in faccia senza troppi complimenti, eppure interrompe il contatto visivo per qualche istante, prima di risollevare il capo in modo da poterlo fronteggiare con maggiore sicurezza – una labile sicurezza.
 
“Daniel...”
 
“Lo so. Lo so” ricalca quelle due parole con ferma convinzione “Io non sono te” gli punta il dito contro, sporgendosi in avanti sul tavolo. Poi, di colpo, si tira indietro e gli dà le spalle, pronto ad andare via, perché potrebbe dire cose di cui finirebbe per pentirsi. Peccato che non riesce ad andare lontano. C’è lei appoggiata allo stipite della porta e occlude l’unica via di fuga. Affrontarli entrambi in una sola volta è una sfida persa in partenza.
 
“Questa storia deve finire o mi farete impazzire molto presto” non è arrabbiata, ma rassegnata e stanca di assistere a quei siparietti sempre più frequenti “E sapete bene entrambi che non è conveniente farmi perdere la pazienza” sorride in quel modo spaventoso che riesce a far venire i brividi persino ai più temerari. “Risolvete” ordina – perché è un ordine – e indica il tavolo.
Poi lo sguardo si sposta su Steve e si ammorbidisce impercettibilmente. ‘Per favore’ mima con le labbra.
 
I due richiamati all’ordine decidono saggiamente di non opporsi e si siedono, l’uno di fronte all’altro. È passato un po’ dall’ultima volta che sono stati in grado di avere una conversazione civile, una che non finisca con porte sbattute o toni troppo alti.
 
“Daniel” riprova allora il biondo, con più garbo, anche se la tensione è riflessa nella linea dura della mandibola.
 
“Steve” il tono la dice lunga su come la stia prendendo, ma ha ancora l’adrenalina a mille e i nervi a fior di pelle. Perciò, mantenere la calma gli risulta alquanto complicato.
 
Steve solleva gli occhi al cielo e quando li riabbassa stringe il ponte del naso fra pollice e indice. Sta per perdere quei brandelli di pazienza che aveva appena racimolato. “Potresti almeno provare a…”
 
“Io ci provo. Tu invece non lo fai” Daniel si rialza in piedi e la sedia stride mentre struscia con violenza sul pavimento.
 
“Ti sbagli, io...” Steve è rimasto seduto.
 
Il più giovane scuote il capo. “Tu non ti fidi di me.”
 
“Non è così…” il super soldato ha lo sguardo fisso sulla superficie del tavolo e i gomiti sono appoggiati sulla stessa. Sembra stanco, vulnerabile in un modo che non gli si addice, e forse è la volta buona per vincere contro di lui.
 
Quindi, Daniel attacca. Aggira il tavolo e gli si piazza di fianco, attirando su di sé i familiari occhi azzurri. “Non potrai controllarmi per sempre, fattene una ragione” colpisce ingoiando il senso di colpa.
 
Steve scuote il capo e si alza, costringendo il più giovane ad indietreggiare di qualche passo. “Hai ragione. Non posso” gli dà ragione. Gli dà ragione e poi gli sfila di fianco per dirigersi verso la porta.
 
È una vittoria? Ha davvero vinto?
 
Anthea blocca la strada al compagno. “Steve, per favore.”
 
Lui le poggia una mano sulla spalla e gli basta uno sguardo per farla desistere. Così lei lo lascia passare e, dopo qualche attimo di silenzio, l’oneiriana si rivolge a Daniel. “Andiamo” gli dice solamente.
 
No, non è arrabbiata neppure stavolta. È stranamente calma e… comprensiva.
 
“Dove?” è confuso, non se lo aspettava. Era già pronto ad una seconda ramanzina con i fiocchi.
 
“Seguimi e basta” taglia corto lei e va avanti, precedendolo.
 
Arrivato a quel punto, non ha molta scelta. Mentirebbe se dicesse che non è agitato. Tuttavia, la segue.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
“Al mio tre.”
 
“Tre e via o tre e basta?”
 
“Facciamo tre e basta. Uno. Due. Tre.”
 
I fasci di energia si incontrarono a ridosso della barriera, che fino a quel momento si era mostrata impenetrabile.
 
“Aumenta la potenza.”
 
“È già al massimo.”
 
Tony serrò i denti. Le ossa vibravano, sollecitate dalle impetuose energie prodotte dalla sua stessa tecnologia. Resistette per qualche altro secondo prima di cedere e, con lui, anche Rhodey fu costretto ad arrendersi.
 
“Dannazione, non l’abbiamo nemmeno scalfita.”
Iron Man tornò con i piedi per terra e l’elmetto dell’armatura si dissolse. Ne emerse un’espressione affaticata, quasi affranta, inumidita da una visibile patina di sudore.
 
“Ross sta arrivando” informò War Machine, che stava tenendo sotto controllo i movimenti dell’esercito da quando erano arrivati sul posto.
 
Nonostante Avengers, Governo e SHIELD fossero ai ferri corti da mesi, ritrovarsi sul medesimo terreno e a pochi minuti di distanza, nessuno aveva ancora mostrato la volontà di iniziare uno scontro per imporsi sugli altri e prendere il controllo della situazione. Ed era proprio la situazione la ragione per cui non si erano saltati alla gola – metaforicamente parlando. Erano tutti impotenti di fronte a forza incomprensibili e che minacciavano un numero troppo alto di vite innocenti.
 
“Ottimo. Avevamo pochi problemi in effetti.” Tony passò una mano fra i capelli spettinati e sospirò. Non aveva tempo per gestire anche Ross al momento. Dovevano entrare lì dentro, dovevano trovare un modo per aprire un passaggio attraverso quella maledetta barriera e si sarebbe accontentato anche di un misero spiraglio. Non riuscivano a vedere niente oltre il muro di nebbia, se non qualche sporadico ed indecifrabile movimento. Gli altri Avengers erano ancora impegnati a far allontanare le persone rimaste accalcate vicino la barriera, separate dai loro cari e restie a spostarsi. E perché Thor era irraggiungibile proprio nei momenti in cui fulmini e saette avrebbero fatto loro comodo?
 
“Tony, abbiamo visite” lo richiamò Clint e Stark individuò l’arciere poco lontano, affiancato da una donna dall’aria stravolta e che aveva già visto.
 
“Myers, ricordo bene?” non era una cosa positiva la presenza della donna lì. Affatto positiva. Per quanto ne sapevano, lei era ancora legata all’Hydra e a quel pazzo mentalmente instabile omicida di Brock Rumlow.
 
La Myers annuì, mentre si avvicinava decisa, ogni remora lasciata alle spalle. “Posso esservi d’aiuto. Vengo da lì dentro” indicò la cupola di fumo “O meglio, ne sono uscita prima che comparisse la barriera.”
 
“Quindi tu sai cosa sta succedendo” la incalzò Barton, che era scattato come una molla compressa sino allo sfinimento dinanzi la possibilità di avere finalmente qualche utile informazione.
 
“Cosa esattamente stia succedendo va al di là della mia capacità di comprensione. Ma Adam Lewis è lì dentro e si è portato dietro i suoi spaventosi seguaci. Anche Rumlow, uomini dell’Hydra, alcuni mercenari e Rogers sono dentro.”
 
Tony avanzò con fare greve, un pesante passo dopo l’altro, e si posizionò di fronte alla Myers, che non fece niente per sfuggire allo sguardo tagliente che lui gli stava rivolgendo. “Voi…” la voce di Stark era glaciale.
 
“Abbiamo collaborato” lo precedette Kristen “Pensavamo di riuscire ad arrivare e Lewis. Un fronte comune per un obiettivo comune” serrò le mani in pungi stretti e le unghie si conficcarono nella carne “E in parte ha funzionato. Solo che poi…”
 
“La situazione vi è sfuggita di mano” concluse Barton per lei, come se stesse constatando l’ovvio.
 
E quell’ovvio era una gigantesco campo di forza che isolava una zona che si estendeva per diversi chilometri.
 
La donna si lasciò sfuggire un mezzo sorriso esausto. “Probabilmente non l’abbiamo mai avuta in mano.”
 
“Immagino che tu non sappia come passare dall’altra parte” asserì Tony con una certa sicurezza e la Myers scosse il capo, desolata.
 
“Allora tira fuori qualsiasi informazione che potrebbe esserci utile. E con qualsiasi intendo tutto.”
 
“Sono qui per questo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
C’erano zone in cui la foschia era più fitta e il freddo più pungente. Lo spettro della versione rimpicciolita di Anthea era a pochi passi di distanza, dinanzi a lui, e si girò indietro per rivolgergli uno sguardo che presagiva tempesta. Di nuovo, lei protese il braccio in avanti per indicargli la strada. Dove quella strada l’avrebbe condotto non lo sapeva ancora, tuttavia era consapevole di essere in balia degli eventi e non aveva alternative migliori da seguire. E lo spettro sembrava così reale, così disperatamente in cerca di qualcuno che potesse aiutarla. Non poteva ignorarla, non ci riusciva.
Era talmente concentrato sulla minuta figura eterea che sussultò al contatto improvviso di dita estranee, le quali si aggrapparono alla spalla destra con urgenza. Se i sensi non fossero stati rallentati dalla spossatezza, avrebbe finito per quasi spaccare il naso a Batroc per la terza volta. Steve si appuntò che forse era il caso di prestare maggiore attenzione alle brecce spalancate che consentivano un fin troppo facile accesso al proprio spazio personale. Farsi ammazzare adesso non sarebbe stata una mossa intelligente.
 
“Finalmente ti ho trovato” c’era sollievo nella voce affannata del mercenario “Che cazzo sta succedendo? Che avete combinato? Non era così che sarebbero dovute andare le cose.”
 
Batroc gli si era piazzato davanti e adesso entrambe le mani erano serrate sul girocollo della maglia nera e lo costringevano ad incurvare la schiena. Rogers non oppose resistenza significativa e gli concesse quel breve sfogo dovuto alla tensione accumulata. Su una cosa il mercenario aveva ragione. Non era così che sarebbero dovute andare le cose.
 
“Rumlow ha sparato a Lewis” era la spiegazione più breve e concisa che Rogers poteva dargli.
 
“Lewis è morto?” domanda lecita.
 
“No… non credo” non avevano prove effettive che fosse sopravvissuto, ma Steve aveva la sgradevole certezza che Lewis fosse tutt’altro che morto. Molto probabilmente era la causa di tutto.
 
“Fanculo, me ne tiro fuori. Dimmi come uscire da questo film dell’orrore” quella di Batroc avrebbe dovuto essere una minaccia, ma assunse la forma di una malcelata richiesta di aiuto – suonò simile ad una supplica.
 
Era strano vedere il mercenario privato del solito sangue freddo. Se la situazione non fosse stata tanto disperata, Steve avrebbe rigirato il dito nella piaga con un certo entusiasmo. Invece, si districò dalla presa di Batroc e tornò a rivolgersi in direzione della bambina eterea, ancora ferma dove l’aveva lasciata qualche attimo prima, in attesa che lui la raggiungesse.
 
“Cosa c’è?” gli chiese il mercenario e lo afferrò per un braccio, come se avesse timore che scappasse di colpo lasciandolo lì.
 
Steve allora distolse lo sguardo e riprese possesso del proprio braccio. “Hai incrociato civili?”
 
“Forse… non che si riesca a vedere molto. Ho cercato di raggiungere i parcheggi sotterranei, ma è impossibile orientarsi.” Il nervosismo di Batroc era palpabile e, a quanto pareva, sloggiare da quel posto era la sua priorità assoluta.
 
“Stiamo portando tutti nelle fognature. La barriera non…”
 
“Barriera? Quale barriera?”
 
Rogers sospirò e pensò al modo più rapido per spiegare all’ancora temporaneo alleato la situazione, di cui tuttavia non aveva piena comprensione neppure lui. La verità era che stavano navigando in un mare in tempesta all’interno di una barchetta che colava a picco.
Il super saldato fu liberato dall’onere di dare spiegazioni, perché fu qualcun altro ad intercedere per lui. O meglio, altri. Fra i fumi della foschia si palesarono presenze reali, concrete, non facevano parte delle tremolanti ombre intangibili che fino a quel momento si erano dimostrate innocue – seppur spaventose.
Steve li osservò avanzare e passare di fianco lo spettro della bambina. Non parvero accorgersi di lei e ne ebbe la certezza quando uno di loro la attraversò, facendola sfumare e sparire. Erano ancora distanti e la foschia rendeva impossibile metterne a fuoco i tratti, però il Capitano era certo che non fossero dalla loro parte.
 
Batroc fece un paio di passi indietro. “Nemici?”
 
“Dobbiamo muoverci” era una risposta più che esplicativa.
 
“Fai strada e non azzardarti a lasciarmi indietro.” Di nuovo, minacciare riuscì male al mercenario.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ore fermi davanti ad una dannata cupola di fumo. Non aveva funzionato niente, nessuna arma o energia in loro possesso – fra quelle che non avrebbero causato distruzione di massa. Senza contare che la presenza di Ross sul campo aveva creato maggiore nervosismo.
In quel momento, il Segretario stava raggiungendo gli Avengers, che si trovavano dall’altra parte della cupola. Nemmeno i tanto acclamati eroi avevano avuto successo nel riuscire a scavare un buco nel campo di forza. Come se non bastasse, Nick Fury e il suo SHIELD si erano uniti alla festa, rendendo tutto più complicato e poco gestibile.
Il primo che avrebbe avuto successo nel passare attraverso la barriera, avrebbe ottenuto un grosso vantaggio nella caccia a qualsiasi cosa avesse provocato la nuova – ennesima – emergenza. A suo parere, c’erano state fin troppe emergenze negli ultimi anni.
Il brusio di sottofondo, accompagnato da sequele di ordini impartiti con toni più alti, cessò di colpo. La Stewart imitò i suoi colleghi in mimetica e rivolse l’attenzione alla cupola. In una zona circoscritta, la nebbia si era diradata a seguito di un muto lampo luminoso che l’aveva attraversata e scossa.
 
La riconobbe subito. Non ebbe alcun dubbio.
 
Anthea Reyes era arrivata, avvolta da una leggera mantellina nera. Janet non era sorpresa di vederla. Se c’era qualcuno in grado di porre fine all’anomalia, quella era la Reyes e, nonostante non voleva avere niente a che fare con lei, stavolta era quasi sollevata di vederla e forse non avrebbe storto il naso nel sentirle dire “Ci penso io”. Era stanca di dover affrontare mostri ed eventi sovrannaturali e, se l’assurda ragazzina poteva mettere un punto a tutto, sarebbe passata sopra il fatto – non trascurabile – che la ritenesse una minaccia.
Janet sentì addirittura qualcuno affermare “Possiamo anche tornare a casa adesso” e dovette ammettere – solo a se stessa – di trovarsi d’accordo. La giovane non umana si voltò verso di loro, che la stavano osservando in trepidante attesa.
 
Non accadde nulla. Nessuna esplosione di energia. Niente ostentazione di poteri fuori misura.
 
La Reyes le rivolse un cenno del capo, o almeno così le parve. Poi, la nebbia la inghiottì.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ce li abbiamo alle calcagna.”
 
Aveva l’impressione di star correndo da ore, eppure non era ancora riuscito a scaldarsi. I muscoli erano irrigiditi e i movimenti rallentati, fattore rilevante quando era costretto a bruschi cambi di direzione per stare dietro a quel bastardo di Rogers, che sembrava avanzare a caso nella maledetta nebbia in cui avrebbero potuto celarsi mostri di ogni tipo. Senza contare le fottute ombre che spuntavano fuori a tradimento, facendolo sussultare ogni volta.
Il suddetto bastardo frenò di colpo, senza avere la decenza di avvisare, e così andò a sbattergli contro. Avrebbe finito per romperselo il naso, ma sarebbe stata cosa di poco conto se fosse riuscito a venire fuori vivo da quel manicomio.
 
“Dannazione, Rogers. Avvisa prima.”
 
Batroc detestava il fatto di avere bisogno del bastardo per sopravvivere. Poi però li vide anche lui e il respiro gli rimase incastrato in gola. Avevano di fronte un gruppo di individui dai tratti deformi e dal colorito cadaverico. I loro corpi erano sproporzionati e sembravano usciti da un film dell’orrore partorito da una mente poco sana. Solo uno di loro era normale all’apparenza. Era di statura media, i capelli biondo scuro erano tirati all’indietro con cura e indossava una mimetica militare. Fu proprio quest’ultimo a rompere il silenzio.
 
“Finalmente ci conosciamo, Capitano. L’arma che tanti hanno provato a replicare.”
 
“Chi è questo tizio?” si intromise Batroc.
 
“Non lo so” fu la sincera risposta del super soldato.
 
“Bruce Banner non ti ha parlato di me? Il nome Emil Blonsky non ti dice niente?”
 
Il silenzio di Rogers fu una risposta più che eloquente.
 
“Allora forse ti ha parlato di Abominio.”
 
Lo sconosciuto si mostrò deluso quando il super soldato continuò a rimanere in silenzio.
“Non importa” tagliò corto “Spero che Banner si unisca alla festa. Nel frattempo, vediamo quanto vali tu di fronte al potere di un dio.”
 
Sul viso di Rogers si dipinse un limpido sbigottimento quando il corpo di Blonsky iniziò a deformarsi e a crescere. Batroc indietreggiò, ma senza allontanarsi troppo dal biondo.
 
“Da capitano a capitano, voglio darti un consiglio” la voce di Blonsky era adesso più profonda e graffiante “Cerca almeno di guadagnarti una sconfitta onorevole.”
 
Batroc non riusciva a credere ai propri occhi. “Oh porca…”
 
“Corri.”
 
Quella semplice parola uscita dalla bocca di Rogers aveva un suono strano, stonante. Tuttavia, Batroc non se lo fece ripetere due volte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Mentre avanzava nella foschia, le memorie si accalcarono e sgomitarono per tornare in superficie. Anthea si oppose, respingendole in profondità, e superò un’ombra scura passandovi attraverso. Le aveva riconosciute fin da subito, perché quelle oscure energie condensate in qualche modo le appartenevano, erano legate a lei.
Durante lo scontro con Eta, si era generato un denso intreccio di energie che aveva portato alla formazione di nodi. I nodi però non si erano formati con Eta, ma con Lewis, con le cellule oneiriane di cui lui si era appropriato. Infatti, l’energia che impregnava l’aria vibrava con le frequenze del suo stesso potere e lei sperava che quel potere non fosse stato risucchiato da Lewis.
Le cellule oneiriane avevano la capacità di mutare e di adattarsi alle sollecitazioni, ai traumi, e forse l’esplosione di energia avvenuta alla vecchia base in Canada aveva sollecitato le cellule oneiriane rubate da Adam e forse queste avevano finito per assorbire quella stessa energia. L’unica cosa certa era che Anthea sentiva una forte connessione con le energie che la circondavano ed erano quelle stesse energie a guidarla adesso. E forse iniziava a temere cosa avrebbe dovuto affrontare di lì a poco.
 
L’oneiriana arrestò il passo e qualcosa di indecifrabile la scosse dall’interno. Di nuovo, represse ogni scomoda emozione.
“A quanto pare non ti ho sepolta a dovere. Errore mio” disse, mentre osservava il fantasma della versione rimpicciolita di se stessa.
 
Le ombre scure si accalcarono intorno a lei. Erano agitate e fremevano, gorgogliando lamenti sconnessi.
 
“Se solo tu fossi stata più forte, ci avresti risparmiato parecchi problemi” la accusò e accorciò la distanza di qualche passo “Strano che tu non abbia ancora trovato un buco scuro dove nasconderti e piangerti addosso.”
 
Anthea sapeva che quel riflesso del passato non era davvero la bambina che era stata. Doveva essere colpa della foschia e del modo in cui questa riusciva ad alterare la percezione della realtà. Perché non era reale, eppure la rabbia e lo sdegno che le faceva provare lo erano. La foschia amplificava le emozioni negative, alterava la percezione, distorceva tempo e spazio. Da dove o cosa provenisse non era ancora riuscita a capirlo.
Con l’aiuto degli oneiriani e di Damastis, Anthea aveva acquisito consapevolezza delle proprie capacità e l’intervento di Azael l’aveva portata sulla strada dell’accettazione, che l’aveva spinta a voler esplorare possibilità e limiti. Non aveva niente di più di ciò che un oneiriano avrebbe potuto sviluppare. Telecinesi, controllo degli elementi, rigenerazione e quella che veniva definita suggestione, non erano incantesimi esoterici, ma derivavano dalla manipolazione di energie preesistenti. La forza e il modo con cui un oneiriano esercitava tale manipolazione variavano da individuo a individuo ed esistevano naturali predisposizioni a determinate capacità invece che ad altre.
Anthea aveva maggiore affinità con la telecinesi, il controllo del fuoco e la rigenerazione. La manipolazione di altri esseri viventi non era altro che la cooperazione fra telecinesi e una rigenerazione atta a demolire le funzioni vitali. Quindi, tutto ciò che lei riusciva a fare rientrava nelle ordinarie capacità di un oneiriano. Magari sì, poteva definirsi superiore alla media per quanto riguardava la forza con cui manipolava le energie, ma nulla di più. Persino la foschia poteva essere vista come una suggestione attuata su una più larga scala e che portava ad una specie di isteria collettiva. Dopotutto, se ci rifletteva, Antares aveva influenzato tutti ad Oneiro con il suo potere di suggestione, riuscendo persino a far passare inosservata la scomparsa di due giovane oneiriani.
 
“Sai che questa non è tutta la verità. Per quanto tempo continuerai a raccontarti bugie?” fece eco una esile vocina nella sua testa.
 
Perché c’erano alcune cose che lei aveva fatto e che non avevano precedenti. Inoltre, nessun altro oneiriano era riuscito a riprodurle, nonostante ci avessero provato. La foschia era fra queste. E anche il fatto che non riuscisse a guarire altri essere viventi senza intaccare le proprie funzioni vitali era fuori dall’ordinario, considerato che Damastis le aveva raccontato che gli oneiriani erano stati guaritori in origine.
 
Ma voleva davvero avere delle risposte? Voleva davvero sapere? Voleva davvero ascoltare quei sussurri che di tanto in tanto le riempivano la testa?
 
Lo spettro della piccola se stessa si avvicinò e le ombre si strinsero a formare un cerchio quasi perfetto. Erano sempre più vicine e pressanti. I gorgoglii sconnessi si trasformano in lamenti rumorosi.
 
“Vedi?” Anthea si rivolse ancora una volta alla piccola se stessa “Adesso sono io quella costretta a convivere con tutto questo. Ma non mi nasconderò, non sono più una vigliacca.”
 
Le ombre intangibili si deformarono e si contorsero, producendo stridii graffianti, simili a grida acute. La foschia si ingrigì e divenne più simile a fumo scuro. La bambina eterea non si era mossa, né la sua espressione da bambolina di porcellana era stata scalfita. Anthea si chinò sulle ginocchia, in modo che i loro sguardi fossero alla medesima altezza. Riconobbe l’anello ambrato che circondava la pupilla e che, a sua volta, era circondato dal blu profondo dell’iride.
 
“Sarebbe meglio per entrambe che tu sparissi per sempre insieme ai tuoi maledetti demoni” le sussurrò ad un soffio dal viso e, come reazione, vide nascere venature rossastre che incrinarono gli abissi scuri che la fissavano silenti. Anthea piegò le labbra in un sorriso affilato e scosse il capo. Fece forza sulle gambe, pronta a rialzarsi, quando la mano dello spettro le sfiorò la guancia.
 
“Andrà tutto bene” proferì la bambina eterea e, con la mano libera, le indicò la strada da seguire.
 
La giovane oneiriana allora tornò in piedi, rompendo il contatto con lo spettro e arricciò le labbra in una smorfia difficile da interpretare.
 
“Sai che non è così.”
 
Il riflesso inconsistente di ciò che era stata sfumò. Anthea rimase a fissare il vuoto, finché la sua attenzione non fu catturata da movimenti nella nebbia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Era snervante. La strada era bloccata – blindata – e continuava ad esserlo, qualsiasi cosa facessero.
Erano almeno dieci minuti filati che Daniel guardava ossessivamente la barriera, speranzoso di beccare anche un solo minuscolo glitch sulla superficie increspata. Ma niente, non c’era stato alcun tipo di cambiamento. Steve era proprio dall’altra parte di quel dannato muro fumoso. Steve era vivo, o almeno lo era l’ultima volta che Kristen Myers lo aveva visto.
 
Dovevano entrare lì dentro ad ogni costo.
 
Era stata sgombrata la zona, ma tanti avevano rifiutato di muoversi, perché i loro cari erano ancora intrappolati all’interno della cupola. Elicotteri, ambulanze, camionette dei pompieri, auto, trasporti militari, jet, andavano e venivano, creando parecchia confusione. Le strade che affluivano alla zona dell’anomalia erano state chiuse e nessuno poteva entrare o uscire senza passare dai blocchi messi su dalle forze dell’ordine e dall’esercito. Anche lo SHIELD era arrivato sul posto e, in parte, si stava occupando di ripristinare l’ordine, per quanto fosse possibile. Era mattino inoltrato ormai e la barriera era in piedi da quasi dodici ore.
 
“Collins.”
 
La voce di Stark lo fece riscuotere e si mosse immediatamente per raggiungerlo. Gli corse in contro.
 
“Unisciti alle squadre dello SHIELD che scenderanno nelle fogne.”
 
Giusto. La questione delle fogne. Kristen Myers aveva detto loro che quella era la via di fuga che Brock Rumlow aveva previsto in caso di emergenza. C’erano più ingressi e quindi più uscite da controllare.
Daniel annuì e non esitò ad eseguire il compito che gli era stato affidato. La mano metallica di Iron Man si chiuse attorno al suo gomito e lo costrinse a fermarsi.
 
“Ricordi il nostro accordo?” Stark aveva rimosso l’elmetto affinché potesse guardarlo direttamente negli occhi.
 
Dan lo ricordava. Era il motivo per cui aveva avuto il permesso di essere lì, nonostante non si fosse ancora del tutto ripreso dall’ultimo scontro o, meglio, disfatta.
 
“Se la situazione si complica, mi tolgo dai piedi.”
 
Però, in effetti, non avevano definito il grado di complicazione per cui avrebbe dovuto battere in ritirata. Una scappatoia non da poco.
 
“Bravo ragazzo.”
 
Collins fece un segno d’assenso con il capo. Gli faceva un certo effetto dover lavorare di nuovo al fianco di agenti dello SHIELD. Quando li raggiunse, si fece avanti un uomo che gli era già noto. Dan gli tese la mano e lui la afferrò, chiudendola in una stretta decisa.
 
“Daniel Collins. Mi unirò a voi per esplorare le fogne.” Non suonava così bene, ma erano quelli i fatti.
 
“David Grey. Mi ricordo di te. Ci siamo già visti a LA.”
 
“Oh sì, giusto. Sei tu al comando?”
 
David annuì. “Ci muoviamo fra due minuti, tieniti pronto.”
 
Era pronto. Pronto a tutto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Rogers percepiva le vibrazioni del terreno ad ogni passo avanzato da Abominio. Batroc era al suo fianco ed entrambi si trovavano seduti a terra, con la schiena appoggiata contro la ruota di uno di quei furgoncini da street food. Il super soldato ricordava la zona, ne aveva memorizzato i punti di riferimento. Erano nel grande parcheggio che si estendeva sul retro del centro commerciale e file orizzontali di veicoli lo avevano riempito. Uno degli ingressi alle fogne era a meno di dieci passi in avanti, ma anche Abominio era vicino, troppo vicino. Non avevano la forza di affrontarlo e morire prima di arrivare a Lewis non era una prospettiva allettante. Le vibrazioni del suolo si fecero più intense e trattennero il fiato quasi in sincronia.
 
“Andiamo, ragazzo, vieni fuori. Non deludermi così.”
 
Ad un rumoroso schianto ne seguirono altri. Il frastuono di vetri che andavano in frantumi e gli stridii acuti di lamiere che si accartocciavano riempirono il silenzio. Abominio stava facendo a pezzi le auto nel parcheggio e una di queste, accartocciata alla stregua di un foglio di carta, si schiantò vicino al furgone dietro il quale si nascondevano. La nebbia li aveva aiutati a coprire le tracce, ma riuscire ad andare lontano era un’altra storia.
Uno dei cadaverici potenziati deformi si avvicinò al loro provvisorio nascondiglio. Steve fece segno a Georges di muoversi e il mercenario scivolò sotto il veicolo, stendendosi prono. Il super soldato lo imitò subito dopo, affiancandolo. Osservarono i grossi stivali neri del potenziato muoversi ad un tiro di schioppo da loro e si sforzarono di rimanere perfettamente immobili, mentre sudore freddo imperlava loro la schiena. Il nemico passò oltre. Allora il Capitano indicò al mercenario la direzione verso cui avrebbero dovuto muoversi e Batroc decise di andare avanti, strisciando fuori dal nascondiglio ed ignorando il “Aspetta, non ora” che Rogers gli sussurrò a denti stretti.
Tuttavia, Batroc riuscì a raggiungere il tombino e spostò il disco in metallo che lo chiudeva, tutto senza fare troppo rumore. Stava per infilarsi all’interno delle fognature, quando il potenziato che era passato di lì poco prima comparve alle sue spalle. Il nemico lo afferrò da dietro e lo schiacciò schiena a terra, per poi stringergli le mani attorno alla gola.
Rogers imprecò in silenzio e, suo malgrado, rotolò fuori dal riparo offerto dal furgoncino. Scattò in direzione dell’alleato e gli levò di dosso il potenziato, evitando che lo strangolasse.
 
Steve rimise in piedi Batroc. “Vai” gli disse e lo spinse verso il tombino “Uscita ovest. Trova Rumlow” aggiunse alla fine.
 
Batroc esitò. Fu un fugace attimo, ma esitò. Poi scese giù nel tombino che il super soldato fu attento a richiudere sopra di lui.
Solo allora, Steve rivolse l’attenzione al potenziato, che si stava rimettendo in piedi e lo puntava come un predatore fa con la propria preda. Non aveva idea di quanto potesse comprendere, ma non poteva rischiare di attirare il nemico dove si stavano rifugiando i civili. Quindi, l’unica possibilità era liberarsi del potenziato nel modo più rapido e silenzioso possibile. Lo sorprese il pensiero che quella di fronte a lui era stata una persona, con emozioni e con una propria volontà. Lewis aveva tolto loro tutto e Steve si chiese se fosse in qualche modo reversibile, se potessero essere ancora salvati. In quel momento però fu costretto a fare una scelta, così si preparò a combattere.
Il potenziato deforme era forte, veloce e meccanico. Il lavaggio del cervello doveva aver sottratto loro l’estro che li aveva caratterizzati e la capacità di rompere gli schemi. Perciò, con poche e calibrate mosse, il biondo riuscì a bloccare il nemico a terra e gli strinse il collo finché non smise di muoversi, riservandogli il destino che sarebbe toccato a Batroc se non fosse intervenuto a salvargli il sedere.
Steve riprese fiato, sotto lo sguardo di vetro sul volto deforme. Lo sforzo appena compiuto gli aveva sottratto più energie del previsto. Ogni singolo movimento contribuiva a prosciugare le ultime riserve di energia che gli permettano di tirare avanti.
Captò movimenti nei dintorni e si spinse in piedi. Doveva spostarsi da lì e tornare a cercare i civili ancora dispersi. Tuttavia, nonostante l’urgenza, il corpo continuava a rispondere agli stimoli con una lentezza snervante.
 
Non riusciva proprio a recuperare.
 
Quel tipo di stanchezza non l’aveva provata nemmeno settant’anni prima, durante la missione che avrebbe dovuto estirpare l’Hydra per sempre – non era andata come previsto, niente era andato come previsto.
Stava testando i limiti del suo stesso corpo come forse mai aveva fatto prima. Di una cosa aveva al momento la certezza più assoluta. Non poteva farcela da solo ed era proprio per questo che era necessario abbattere la barriera.
 
Era sicuro che i suoi compagni erano già lì fuori, in attesa che lui creasse per loro un accesso.
 
Non fu abbastanza veloce per evitare lo sportello dilaniato che gli arrivò addosso con una violenza mostruosa.
Il super soldato si ritrovò a terra, qualche metro in avanti, steso sul fianco destro. Premette la mano sul lato della testa, schiacciando i capelli bagnati di sangue caldo. Il fischio nelle orecchie e la vista sfocata erano problemi di poco conto rispetto l’aumento delle vibrazioni che correvano sull’asfalto.
 
No. Da solo non poteva farcela.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Due anni prima
Asgard

 
 
C’era una piacevole brezza e la luce era ancora abbastanza pallida da non graffiarle gli occhi sensibili. Si appoggiò al parapetto in candida e liscia pietra e ammirò lo spettacolo che la natura stava offrendo senza chiedere niente in cambio. Una distesa di un verde brillante si dispiegava a perdita d’occhio e un limpido fiume la attraversava, diramandosi in esili ruscelli che sparivano all’interno di foreste rigogliose. Riusciva persino a vedere le zone rocciose più distanti, che si innalzavano in montagne austere, creando zone d’ombra.
L’assenza di confini visibili le toglieva il fiato. Per troppo tempo era stata confinata in spazi angusti, sotterranei, dove la luce del sole non poteva arrivare. Era trascorso quasi un intero anno da quando aveva lasciato la Terra e quasi un anno da quando era stata liberata. Il pallore poco sano della pelle si era colorato di un rosa tenue e i capelli erano diventati più luminosi. Si sentiva forte, nonostante i viaggi interspaziali non fossero una passeggiata e prosciugassero buona parte delle energie.
Si sporse per avere una visuale migliore sul villaggio che stava lentamente prendendo forma ai piedi dell’alto palazzo dove lei risiedeva da qualche mese. Era grazie alle abilità degli oneiriani che possedevano forte sintonia con la terra e con i preziosi minerali che essa custodiva nel proprio grembo, se la costruzione della loro nuova casa procedeva rapidamente. Lei era più brava a distruggerle le cose, quindi aveva preferito farsi da parte e investire tutti i suoi sforzi nella ricerca degli oneiriani.
Pose l’attenzione sulle perle di rugiada che inumidivano la pietra liscia. Si concentrò e le piccole perle si mossero vibrando. Finirono per scontrarsi le une contro le altre e si agglomerarono in un unico corpo. L’ammasso acquoso assunse le sembianze di un gracile e tremolante omino stilizzato. Cercò di farlo muovere, ma era ancora lontana da un controllo tanto fine. Tuttavia la sua instabile creazione non esplose. Divenne una statuina di ghiaccio.
 
“Andras” lo salutò, senza nemmeno avere la necessità di voltarsi per sincerarsi che fosse effettivamente lui “Che succede?”
 
“L’inserimento dei nuovi oneiriani è stato portato a termine” le comunicò lui.
 
“Ottimo.”
 
Anthea poteva vederli da lì sopra, i nuovi arrivati. Erano soprattutto famiglie che erano riuscite a sopravvivere in un territorio ostile. Un gruppetto di piccoli oneiriani scorrazzava lungo la strada principale, mentre i loro genitori li controllavano da lontano.
Un’oneiriana dai lunghissimi capelli bruni teneva fra le braccia un neonato. L’orlo del candido vestito oscillava, mentre lei lo cullava con estrema dolcezza. Il padre la osservava rapito poco distante. Lui faceva parte dei guerrieri che avevano protetto il nuovo gruppo di oneiriani e aveva dimostrato una forza di tutto rispetto. I capelli biondi mossi dalla brezza gli oscillavano davanti gli occhi chiari e le spalle larghe emanavano un rassicurante senso di protezione.
 
La sorprese una strana sensazione allo stomaco.
 
La giovane oneiriana distolse lo sguardo quando Andras la affiancò con garbo, appoggiandosi al parapetto e lasciando fra loro una distanza che si riduceva a poco più di un palmo.
 
“Quando intendi ripartire?” le chiese.
 
“Presto.” Voleva portare a termine la missione per poi ricominciare con una vita diversa.
 
“Stai bene?”
 
Stavolta Anthea lo guardò e sollevò un angolo della bocca dinanzi la sua espressione quasi preoccupata.
“Sto bene” gli assicurò “Sono solo stanca” ed era legittimo considerato che erano tornati ad Asgard da appena una manciata di ore.
 
“Se hai bisogno, i curatori...”
 
“Sto bene, dico davvero.”
 
“Ricorda che loro non subiscono ritorsioni guarendo altri esseri viventi.”
 
“Lo so, lo so. Ma credo di non…”
 
Un grido agghiacciante squarciò la calma placida.
 
Nonostante fosse lontana, Anthea riuscì a vedere il rosso vermiglio del sangue e di riflesso ne sentì l’odore, che conosceva alla perfezione. Percepì sulla propria pelle la paura, la disperazione e la morte.
Ancor prima che Andras riuscisse a pronunciare anche una sola sillaba, Anthea aveva già superato il parapetto con un agile salto e, alle sue spalle, l’esile omino congelato esplose andando in pezzi.
 
I colori vividi si ingrigirono e l’aria divenne fredda.
 
La giovane oneiriana ignorò il gelo che le pungeva la pelle e qualcosa dentro di lei si mosse in modo violento. Era una sensazione che non provava da anni e che aveva finito per dimenticare, finché quel grido stridente, quella richiesta d’aiuto impregnata di disperazione, non l’aveva raggiunta. E l’aveva scossa con la stessa violenza di un terremoto disastroso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
Cinque giorni. Cinque dannatissimi giorni.
 
Aveva fermato l’interferenza, suggestionato Lewis a tal punto da farlo scendere sul campo di battaglia a mostrare la sua – non più sua – faccia. Però avrebbe dovuto esserci lei ad attenderlo, era lei che avrebbe dovuto porre fine a tutto il male che quel maledetto mostro continuava a disseminare. Invece perseverava nel commettere errori, nel fare passi falsi e nel prendere decisioni sbagliate.
Era ancora impegnata a recuperare il fiato e il corpo si stava ribellando con stilettate di dolore che le facevano digrignare i denti. La cosa ironica era che non aveva neppure preso parte ad uno scontro. Ne aveva evitato uno parecchio rischioso e le aveva fatto un certo effetto battere in ritirata, considerato che era più il tipo che si gettava a capofitto in una battaglia, senza pensare troppo a strategia e risvolti.
Anche da seduta, i muscoli delle gambe continuavano a farle un male cane e ringraziava il sostegno della parete alle sue spalle, seppur umida e fredda. Faceva maledettamente freddo a causa di quella maledetta foschia, di cui non aveva il minimo controllo. Ci aveva provato a dissolverla, ma non era riuscita a collegarsi al flusso di energia. Era stato come cercare di afferrare una nuvola di vapore.
Lì sotto, le uniche sporadiche sorgenti di luce erano rappresentate da lampade incastrate sul soffitto del tunnel. Si era fermata in prossimità di una di esse, in modo da non essere al buio. Aveva visto un paio di grossi topi correre sul lato opposto del tunnel e non osava chiedersi cosa avrebbe potuto nuotare nel canale di acqua torbida che scorreva nel centro, a pochi passi da lei. L’odore era quasi nauseante, ma meno pungente della puzza di decomposizione e morte.
Continuò a premere con decisione il palmo della mano destra sulla ferita e morse l’interno della guancia nel percepire ancora gocce di sangue caldo scivolarle fra le dita. Ridusse lo spazio fra le gambe semi piegate, stringendo fra di esse il corpo che gravava contro il proprio, e posò la mano libera sulla spalla sinistra della quale conosceva il profilo alla perfezione. Rimettere a posto quella spalla era stata l’ultima cosa che aveva fatto prima di separarsi da lui, lui che ora sedeva fra le sue gambe, in modo tale che la testa bionda le poggiasse contro il petto.
Anthea scostò la mano sinistra sporca di sangue e controllò il taglio sul lato della suddetta testa bionda. I capelli intorno alla ferita si erano tinti di rosso e parte del sangue gli era colato lungo il collo e sul padiglione dell’orecchio. L’unica cosa positiva era che la ferita aveva smesso di sanguinare copiosamente. Lo sentiva respirare a fatica, la gabbia toracica si alzava e abbassava in modo irregolare e rapido, nonostante fossero fermi già da diversi minuti. Era cosciente, lo era rimasto per tutto il tempo e l’aveva guidata fino a lì.
La giovane non sapeva cosa dire, aveva un groppo incastrato in gola che le impediva di articolare le parole. Aveva provato ad aprire bocca un paio di volte, ma non era venuto fuori alcun suono. Imprecò mentalmente contro se stessa per l’ennesima volta nel giro di pochi minuti, ma stavolta non riuscì a terminare la lista degli insulti, perché lui la tolse dall’impaccio, rompendo il silenzio per primo.
 
“Sei viva.”
Dietro quelle due uniche parole si celava un mondo di implicazioni.
 
Lui non poteva vederla, ma Anthea curvò comunque le labbra in un mezzo sorriso. Il battito del cuore aveva subito un’accelerazione improvvisa.
“Avevi dubbi?” cercò di ironizzare, per far sciogliere il fastidioso nodo alla gola. La voce era venuta fuori rauca, incerta.
 
Steve le strinse il ginocchio sinistro con la mano, strizzandolo appena fra le dita. “No… forse giusto un po’ ad un certo punto” fu la sincera ammissione e non poteva di certo essere biasimato.
 
“Scusami” la voce stavolta le tremò “Sono in ritardo.”
 
Lui le strinse con più forza il ginocchio. “Sei arrivata in tempo.”
 
In tempo per evitare che i mostri di Lewis lo facessero a pezzi. Anthea era riuscita a trascinare il suo compagno giù nelle fogne prima che fosse tardi. Solo che ora non avrebbe potuto tenerlo fuori dai giochi, perché aveva bisogno del suo aiuto e lui era molto lontano dallo stare bene. Aveva tentato di mostrarsi non così ammaccato e pronto a ricominciare, ma la farsa aveva avuto vita breve e Steve Rogers aveva dovuto momentaneamente cedere allo sfinimento. Non era di certo la prima volta che lo vedeva spingersi al limite, tuttavia questa volta era diversa.
 
“Ho perso il controllo” gli confessò di punto in bianco, liberandosi della maschera di sicurezza ormai intessuta di crepe – come lei del resto. “Ho finito per incasinare le cose ed erano già un casino. Avevi ragione tu. Non avrei dovuto…”
 
“No. Qualsiasi cosa tu abbia fatto, ci ha dato un’occasione per fermare Lewis. E devo ringraziarti anche per lei, la stavo cercando.”
Steve indicò un punto alla sua destra, dove giaceva una bimbetta dalla gonnellina a stelle e strisce strappata in più punti. Le ginocchia sbucciate spuntavano da una mantella scura, che la copriva alla stregua di un lenzuolo. Era priva di sensi, stremata dalla paura e dal freddo.
 
“L’ho incrociata per caso. È stata fortunata” spiegò l’oneiriana “Era così spaventata…”
 
Steve fece per muoversi e in risposta Anthea gli circondò il petto con le braccia, stringendolo a sé. “Aspetta, ti prego. Riprendi fiato ancora un altro po’.”
 
“Ce la faccio. Ho solo qualche acciacco qua e là, ma niente di serio” cercò di rassicurala lui, eppure decise di aspettare come lei gli aveva chiesto.
 
“Giusto. Sei ufficialmente più vecchio di un anno adesso…” la voce quasi si spezzò sulle ultime parole e sperò che Steve non l’avesse notato.
 
“Gentile da parte tua definirmi più vecchio.” Il sarcasmo era un buon segno. Decisamente un buon segno.
 
“Tranquillo, non lo dai a vedere. I lividi e il sangue coprono le rughe.” Anthea ebbe la tentazione di mordersi la lingua. Aveva la tendenza a sputare ironia fuori luogo quando le emozioni negative le punzecchiavano lo stomaco. Stava per scusarsi, quando Steve si lasciò andare ad una fievole ma sincera risata. E, suo malgrado, rise anche lei. Non era sicura di poter catalogare anche questo come un buon segno.
 
Anthea tornò seria di colpo “Mi dispiace, Steve” ingoiò il nuovo e fastidioso groppo alla gola “Non sarebbe dovuta andare così.”
 
“Stai bene e sei qui. Il resto non conta” le assicurò il compagno “Adesso posso sapere cosa è successo?”
 
Anthea annuì. Gli doveva almeno una spiegazione decente.
“Ho incontrato l’interferenza. Lei è come me. È stato Antares a consegnarla a Lewis e sempre Antares gli ha fornito il nuovo corpo. Tutto sotto il mio naso” l’amarezza le incrinò la voce.
 
“Non è colpa tua.”
 
“Opinabile, ma quello che è fatto è fatto, giusto?” non era possibile cambiare il passato.
 
“Giusto” Steve non insistette e finì per concordare con lei almeno sul fatto che non potevano cambiare ciò che era già accaduto. “Il corpo di Lewis quindi…”
 
“Sì, un altro oneiriano” un’altra vittima “Ho cercato di fare ciò che credevo giusto ma la situazione mi è sfuggita di mano. L’interfe… la bambina si è dimostrata davvero forte” Anthea si fermò per un istante “Aveva bisogno di aiuto ed era mio dovere… volevo salvarla.”
 
Fu allora che Steve si staccò da lei, drizzando la schiena, e stavolta non trovò resistenza. Anthea lo osservò tornare in piedi, soffermando lo sguardo sulla schiena contratta sotto la maglietta nera. Le porse la mano e la giovane la afferrò, lasciando che fosse lui a riportarla in piedi. Non le sfuggì lo sforzo che gli costò quel compito così semplice.
 
“Deve essere stato un inferno per te” Steve non le aveva ancora lasciato la mano. “Come è andata?”
 
“È una storia abbastanza complicata” cercò di sviare lei, perché non era il momento e non era ancora riuscita a rimettere insieme tutti i pezzi dell’accaduto.
 
“Abbiamo tempo. C’è da camminare parecchio” insistette il biondo.
 
“Dove andiamo?”
 
Steve piegò le labbra in un mezzo sorriso stanco. “Anche questa è una storia complicata, ma ti basti sapere che abbiamo degli alleati.”
 
“E gli altri?” gli chiese l’oneiriana a quel punto. Era entrata direttamente all’interno della barriera, senza preoccuparsi di capire cosa stesse accadendo al di fuori.
 
“Non lo so con certezza… speravo potessi dirmelo tu. Ma scommetto che sono fuori dalla barriera ed è per questo che dobbiamo distruggerla” Steve fece una breve pausa “Tu come sei entrata? Sul serio, cosa è successo?”
 
Si mossero. Il Capitano recuperò la bambina e quando la tirò su, la piccola cominciò a riprendere coscienza e gli allacciò d’istinto le braccia attorno al collo.
L’oneiriana attese che il compagno facesse strada lungo il tunnel e lo affiancò, mentre collezionava le idee per spigare in modo coerente cosa l’avesse tenuta lontana dalla Terra per cinque lunghi giorni. Gli raccontò a grandi linee ciò che era accaduto dal momento in cui aveva lasciato gli appartamenti di Washington, l’incontro con Benson e la suggestione che aveva usato per spingerlo a contattare Lewis.
 
“Benson è morto” la informò Steve con tono piatto e non aggiunse altro.
 
Così Anthea proseguì con i fatti avvenuti nella base in Canada e con lo scontro con l’interferenza, Eta.
“Ha un potere psichico straordinario e capacità simili a quelle di Antares. Mi ha messa a dura prova e sono stata costretta a ricorrere al nostro legame per evitare di affondare.”
 
“Ti ho sentita. Quindi la bambina che ho visto…”
 
“È lei.”
 
“Se ne stai parlando al presente, suppongo sia viva.”
 
“Lo è” confermò Anthea “Adesso è al sicuro ad Asgard, vicino a chi può aiutarla” sorrise tristemente “Sono stata lì anche io…” in una specie di coma da cui sono uscita per miracolo “…e mi hanno aiutata a rimettermi in sesto” a rimettere insieme i pezzi.
 
“Ho visto cosa è successo in Canada. Lo hanno trasmesso.”
 
“Già… abbiamo distrutto la base e fatto un bel buco nel terreno.”
 
“E anche polverizzato una zona che si estende per circa un chilometro.”
 
Anthea rallentò il passo e abbassò il capo.
 
“Tutto okay?” le chiese subito Steve, preoccupato.
 
“Sì, io… secondo Andras deve essere successo qualcosa che ha fatto intrecciare le nostre energie e le cellule oneiriane del nuovo corpo di Lewis devono aver reagito.”
 
“E tu sei d’accordo con Andras?”
 
“Hai detto il suo nome senza storcere il naso. È un grande passo avanti.”
 
“Lui riesce a dire il mio senza sembrare nauseato?” ribatté il Capitano, punto sul vivo.
 
“Adesso sembra solo infastidito. Un po’ come quando un moscerino ti ronza intorno. Prima sembrava che il moscerino gli finisse dritto in gola.”
 
“Sono quasi commosso.”
 
“Fai uno sforzo. Non è così male, potrebbe perfino piacerti. Avete solo iniziato con il piede sbagliato.”
 
“Ci tieni.” Non era una domanda.
 
“A suo modo mi è stato accanto in momenti difficili e ha dimostrato che posso contare su di lui.”
 
“Mi sforzerò.” Steve era sincero.
 
Anthea fece scorrere lo sguardo sul corpicino della bambina che il compagno teneva in braccio. Le dita stringevano il tessuto della maglia nera del super soldato, all’altezza della parte anteriore delle spalle tonde. La piccola era tornata vigile e manteneva strenuamente lo sguardo sul profilo rassicurante del Capitano. Poteva capirla.
 
“C’è una cosa che devi sapere. I miei poteri hanno smesso di funzionare e… non sembri sorpreso.”
 
“Non ti ho mai vista fuggire da uno scontro e non hai ancora messo sotto sopra questo posto. All’inizio ho pensato che tutto questo fosse opera tua. Credo di averti vista…” Steve scosse il capo “non proprio tu, ma…”
 
“La me di tanti anni fa” lo anticipò.
 
“È un ricordo di Lewis? Come funziona?”
 
“Non lo so. Non lo so più.”
 
Anthea arrestò il passo. Si strinse nella candida maglia a maniche lunghe che la fasciava fino all’altezza dei fianchi e metteva in risalto l’ossatura del bacino, circondato dalla fascia aderente dei panatoli verde scuro, i quali scendevano morbidamente lungo le gambe, fino a stringersi attorno le caviglie sottili lasciate in parte scoperte. Rimase a fissare per qualche attimo i piedi, infilati in stivaletti grigiastri piatti e dall’orlo cadente. Faceva un certo effetto vestire panni oneiriani dopo mesi di permanenza terrestre. Stranamente, avevano qualcosa di confortevole.
Risollevò gli occhi e li fissò in quelli di Steve, che si era fermato a sua volta.
 
“Quando ero agli inizi della missione per riunire gli oneiriani, uno di loro mi disse che dentro di me c’era caos e che avrei dovuto lasciarli andare.”
 
“Cosa significa?”
 
“Non ne ho la più pallida idea” morsicò l’interno della guancia “È morto prima che riuscissi a chiederglielo.”
 
“Mi dispiace” Steve cercò gli occhi della compagna senza trovarli.
 
“Ogni volta che arrivo a credere di capire come funziono, succede qualcosa che demolisce ogni mia certezza. Ma sono sicura di non aver perduto il contatto con la realtà usando la suggestione e di aver ottenuto quello che volevo. Sapevo ciò che stavo facendo. Però mentre cercavo di liberare Eta, ho sentito qualcosa venire fuori da me.”
 
“E pensi che quel qualcosa si sia attaccata a Lewis?”
 
“Una cosa del genere, sì. Andras invece pensa che io sia andata oltre e che abbia danneggiato le mie connessioni neurali e quindi ora non posso usare i miei poteri finché non saranno risanate e questo richiede tempo. Ma così non sono d’aiuto e…”
 
“Mi hai appena salvato. Senza a di te sarei morto” le ricordò Steve.
 
“Stai indorando la pillola” Anthea lo urtò con una spallata leggera. “E poi prima che arrivassi, i potenziati hanno avuto tutto il tempo per fare quel bel lavoro con il tuo viso” commentò alla fine, mentre lo guardava con più attenzione.
 
“Non sono stati loro.”
 
“Ci sono altri nemici?” era confusa. Non era la risposta che si aspettava.
 
“Non proprio… sono sceso a compromessi… di nuovo” Steve scosse il capo ed evitò di guardarla per qualche attimo.
 
“Non biasimarti. Abbiamo dovuto fare delle scelte difficili in una situazione difficile.”
 
Ripresero a camminare. Sul fondo del canale che stavano percorrendo riconobbero un numeroso gruppo di persone in lontananza. C’erano quasi ormai.
 
“Anthea” la richiamò Steve “Lewis non ha il tuo potere, vero?”
 
L’oneiriana esitò.
“No, non credo… ma in qualche modo adesso sono legata a lui e se arrivassi abbastanza vicino, potrei annullare il suo influsso, dissolvere la foschia e far crollare la barriera. E c’è una buona probabilità che sciogliendo i nodi, io possa sbloccare il mio potere” era una teoria azzardata, derivante per maggior parte da sensazioni che stava provando da quando aveva messo piede lì, ma Anthea voleva crederci. Non aveva altra scelta.
 
“Ma se Andras avesse ragione, tu non recupereresti i tuoi poteri arrivando a Lewis e se lui al contrario avesse acquisito capacità simili alle tue, tu…”
 
“Non abbiamo alternative, Steve.” E questa era la più seccante ed incontestabile verità.
 
“Ma…”
 
“La mia bambina!”
 
Furono interrotti da un uomo che corse loro incontro rischiando quasi di inciampare nei propri passi malfermi. Il ricongiungimento fra padre e figlia fece sentire Anthea a disagio e distolse lo sguardo dalla commovente scena. Rimase ferma alle spalle di Steve, fuori dalla portata visiva di chiunque.
C’erano davvero troppe persone che riempivano un lungo tratto del condotto fognario, sostando su entrambi i lati del flusso di acqua torbida. La barriera di energia impediva loro di avanzare. Non c’era foschia, tuttavia il freddo era pungente e spingeva gli sfortunati malcapitati a rimanere vicini fra loro.
Si volse indietro e contemplò l’oscurità che si erano lasciati alle spalle. Una serie di sussulti accompagnati da versi sorpresi richiamò però la sua attenzione. Un uomo arrivò ad un passo da Steve e, senza troppi complimenti, lo afferrò per il collo della maglia, per poi spingerlo con poca grazia contro una delle pareti umide, strappandogli un gemito sofferente.
 
“Basta raccattare civili. Abbiamo fatto abbastanza. Adesso dobbiamo superare la fottuta barriera prima che ci trovino.”
 
“Ti conviene lasciarlo andare o tu sicuramente non la supererai.”
 
Si ritrovò gli occhi dell’uomo addosso e Anthea lo riconobbe. Non aveva mai avuto l’occasione di fare una chiacchierata con lui, a tu per tu.
Dovette riconoscerla anche lui, perché mollò la presa su Steve e gli aggiustò perfino il collo della maglia.
 
“Benson si sbagliava. Non sei morta.”
 
“Nemmeno tu. Non ancora.”
 
Brock Rumlow sollevò entrambe le mani in segno di resa. “Siamo dalla stessa parte, Rogers può confermare. E giusto perché tu lo tenga a mente, sarebbe morto lui se non fosse stato per me.”
                                   
Anthea cercò conferma direttamente da Steve, che annuì per farle capire che andava tutto bene. Quindi erano questi gli alleati. L’Hydra. Ma che diavolo era successo? Era stata via solo cinque maledettissimi giorni.
 
“Sei la strega” un tipo dall’accento strano e gli occhi chiari le aveva puntato il dito contro. Aveva il naso parecchio livido.
Notò Steve tendersi e dovette notarlo anche il suddetto tipo, perché abbassò il dito e sembrò volersi rimangiare l’appellativo usato.
 
“Preferisco Anthea, ma comunque strega è meglio di mostro” rispose la giovane per smorzare la tensione. Dopotutto, era solo l’ennesima etichetta.
 
“Georges Batroc” si presentò l’uomo, rimanendo però a debita distanza.
 
“Questo cambia tutto. Lewis ha i minuti contati e non morirò nelle fottute fogne.”
Rumlow non riuscì ad eclissare del tutto il sollievo che scaturì dalla realizzazione a cui aveva appena dato voce.
Anche Batroc fu contagiato da tale sollievo e, come lui, tutti quelli che sapevano di cosa Anthea Reyes, la strega, era in grado di fare.
 
“Mi dispiace smontare il tuo entusiasmo, ma non posso usare i miei poteri al momento.”
 
La delusione fu solo un breve intermezzo che tese i tratti del volto di Rumlow e, in un battito di ciglia, venne sostituita da un perfetto sorriso da squalo. Quell’uomo era proprio fuori di testa.
“Sei vulnerabile” le disse e serrò le dita sulla spalla sinistra di Rogers, lo fece solo per metterla alla prova “Quindi è vero che tutto questo non è opera tua.”
 
“Non lo è” la situazione non le piaceva affatto. Forse non avrebbe dovuto ammettere di essere priva del potere per cui era temuta. Era vulnerabile, Rumlow aveva ragione, ma la cosa che più temeva era che non sarebbe stata in grado di proteggere le persone che amava.
Tuttavia, Steve non sembrava preoccupato dall’approccio minaccioso di Rumlow e questo aiutò Anthea a mantenere il sangue freddo. Non voleva mostrarsi spaventata.
 
“Puoi almeno farci attraversare la barriera?” fu Batroc a chiedere.
 
Anthea scosse il capo. “Per demolire la barriera devo arrivare a Lewis e devo farlo prima che la situazione peggiori.”
 
“Può andare peggio di così?” la incalzò Brock e il silenzio di Anthea fu più che eloquente.
 
“Hai idea di dove possa essere adesso?” stavolta era stato Steve a chiedere.
 
Rumlow dedicò tutta l’attenzione al super soldato e ne studiò l’espressione. Le dita ruvide premettero con più forza sulla spalla del biondo, fino a formare dei solchi sulla pelle. Poi l’ex agente dello SHIELD scoppiò a ridere e una vena isterica rese la risata più tagliente.
“Volete tornare lassù? Siete pazzi. Vi faranno a pezzi.”
 
“Non abbiamo alternative” gli fece notare il super soldato.
 
“Finirete ammazzati, Rogers” ribatté Rumlow.
 
“Se non saremo noi ad andare da Lewis, verrà lui da noi. È solo questione di tempo.” Anthea richiamò su di sé l’attenzione e avanzò fino a fermarsi ad un passo da Rumlow. Lo guardò dritto negli occhi. “Avevo capito che non volessi morire nelle fottute fogne.”
 
“Non voglio nemmeno essere una vittima sacrificale. Ho già interpretato a lungo quel ruolo.” Rumlow ruppe il contatto con Rogers e puntò il dito contro l’oneiriana. “Quindi, ragazzina, trovati qualcun altro che abbia voglia di essere fatto a pezzi lì fuori.”
 
“Verrai comunque fatto a pezzi qui sotto” obiettò Anthea, sostenendo lo sguardo dell’uomo.
 
“State dicendo che se rimaniamo qui finiremo per morire?” intervenne un civile e la semplice domanda non fece altro che creare agitazione, intessuta di “Vi prego, fate qualcosa”, “Non voglio morire”, “Non potete lasciare che ci uccidano tutti”, “Salvate almeno i bambini” e altre suppliche che chiedevano un altruistico sacrificio.
 
“Silenzio” ruggì Rumlow “Il prossimo che fiata, giuro che lo ammazzo con le mie stesse mani” minacciò, ottenendo il silenzio richiesto nel giro di pochi secondi.
 
Anthea, in fondo, capiva. Non erano molti gli individui disposti a sacrificare la propria vita per salvare quella di altri, soprattutto se si trattava di sconosciuti. Si era detta che voleva fermare Lewis per evitare che lui continuasse a fare del male, ma questo era vero solo in parte. Voleva fermare Lewis perché si era convinta che fosse una sua responsabilità e il senso di colpa per ogni vittima mietuta non faceva altro che crescere e torturarla. Inoltre, voleva fermare Lewis perché il bastardo manipolatore aveva intenzione di fare del male alle persone che amava.
Anthea non si considerava un’eroina ed era per questo che non riusciva a giudicare Rumlow da quel punto di vista. Aveva cercato di convincerlo facendo leva sul fatto che lui stesso sarebbe stato ridotto in pezzi se non avesse agito, ma non aveva sortito l’effetto sperato.
 
“Nessuno sarà costretto a tornare lì sopra per affrontare Lewis” fu Steve a rompere il silenzio teso “Ma da solo ho poche possibilità di farcela e non c’è altro modo per uscire da qui. E vorrei davvero che ci fosse un altro modo.”
Il super soldato fece una pausa e incrociò lo sguardo di Brock, che stranamente era rimasto in silenzio e non sembrava sul punto di saltargli alla gola.
“Hai ragione, Rumlow. La probabilità di finire ammazzati è alta. Sarebbe da ipocrita affermare il contrario e non è mia intenzione sacrificare nessuno. Sono già morti in troppi a causa delle azioni di Lewis.”
 
Il prezzo della libertà è alto. Lo è sempre stato. Dico bene?” Brock incrociò le braccia al petto.
 
Ed è un prezzo che io sono disposto a pagare. E se sarò il solo, allora così sia” concluse Steve e stirò la bocca in un mezzo sorriso di intesa, nonostante Rumlow non avesse nascosto il sarcasmo nel ripetere quelle famose parole.
 
Ma scommetto che non lo sarò.
 
“Hai almeno un piano per affrontare i potenziati? Senza contare quel mostro enorme” intervenne Batroc, totalmente ignaro del significato di ciò che i suoi due temporanei alleati avevano detto. Sembrava rassegnato e al tempo stesso pronto ad affrontare qualsiasi cosa gli avrebbe permesso di uscire da lì.
 
Rumlow precedette Rogers, prendendo quest’ultimo in contropiede. “Non li affrontiamo. Evitiamo lo scontro diretto finché è possibile evitarlo.”
 
“Potremmo attirare parte dei nemici lontano da voi.” Un uomo dell’Hydra si era fatto avanti.
Anthea notò una brutta cicatrice che gli spuntava dal collo della maglia e che probabilmente andava a solcare la clavicola. Doveva aver rischiato un taglio netto sulla giugulare.
 
“Dividendoci in più gruppi potremmo riuscire a disperderli e a guadagnare tempo utile” stavolta era stata una donna a prendere la parola. Gli occhi allungati avevano un taglio deciso, seppur ammorbidito dai segni della stanchezza.
 
Adesso Anthea era confusa. Stavano offrendo loro aiuto? Cosa era cambiato così di colpo?
 
“Si potrebbe fare, ma non dovrete ingaggiare e dovrete evitare in tutti i modi di attirarli qui sotto” Steve si mosse e superò Rumlow “E chiunque di voi sia ferito o senta di essere al limite, rimarrà qui con i civili. Niente rischi inutili.”
 
“Tu sai dov’è Lewis, giusto?” domandò Batroc ad una Anthea ancora parecchio confusa.
 
“Non precisamente, ma la sorgente dell’energia è all’interno del grosso edificio che…”
 
“Il centro commerciale. Ci sono degli ingressi fognari lì vicino. Possiamo usare quelli” Rumlow si era rivolto a Rogers, che assunse quell’aria riflessiva in grado di spingere chi gli stava intorno a rimanere in silenzio, in attesa.
 
“Se ce la giochiamo bene, possiamo arrivare dentro il centro commerciale senza troppe difficoltà. Ma è difficile prevedere cosa troveremo una volta entrati.”
Rogers spostò lo sguardo da Rumlow ad Anthea e lei si sforzò di mostrargli un mezzo sorriso, accompagnato da un cenno del capo.
 
“Vorrà dire che improvviseremo. È il tuo forte, no?” Brock lasciò una pacca decisa sulla schiena di Steve e passò oltre. “Diamoci una mossa prima che mi si congeli il culo” concluse poco elegantemente.
 
Suo malgrado, Anthea si trovò d’accordo con Rumlow. Faceva freddo e avrebbe fatto sempre più freddo.
La giovane portò il palmo della mano destra sull’addome e mentre la sensazione di andare in pezzi iniziava a riemergere dall’assopimento, si armò della migliore falsa espressione del proprio repertorio e raccolse a piene mani una sicurezza talmente effimera da sembrare inesistente. Ma era tutto ciò che aveva e doveva farselo bastare.
E li ignorò, quei sussurri ancora lontani che sibilavano parole che non voleva comprendere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Due anni prima
Asgard

 
 
“È fuori controllo e questo la rende pericolosa.”
 
“Il seme non è caduto lontano dall’albero.”
 
“Deve essere fermata.”
 
“Lei ci ha aiutati, Antares, e può proteggerci. Dobbiamo solo guidarla affinché possa diventare ciò di cui questo popolo ha bisogno.”
 
“Ma lei non vuole essere guidata. È una mina vagante.”
 
“È giovane e nessuno le ha mai insegnato.”
 
“Porterà distruzione, proprio come suo padre.”
 
Stanco di sentire litigare gli anziani del Consiglio, Andras abbandonò la grande e sontuosa sala, inoltrandosi nei corridoi del palazzo. Raggiunse la sala della meditazione, dove il soggetto della discussione si era rifugiato, lontano da qualsiasi stimolo che avrebbe potuto ledere il labile equilibrio di cui disponeva. Davanti alle porte ancora serrate trovò Damastis, in silenziosa attesa.
 
“Non ha ancora recuperato il controllo?”
 
L’anziano scosse il capo “Ha bisogno di tempo” le iridi brillavano d’oro, segno che stava ancora impedendo a forze pericolose di oltrepassare le porte chiuse.
 
Lei aveva perso il controllo. Dei mutaforma si erano infiltrati fra gli oneiriani recuperati su un pianeta ostile e avevano tentato di impadronirsi del villaggio in crescita. Se ne erano accorti troppo tardi, la situazione era degenerata troppo in fretta e la reazione della giovane oneiriana era stata estrema, tanto che lui era rimasto a guardare incredulo, incapace di intervenire. I mutaforma erano stati fatti a pezzi con una violenza che lo aveva quasi spaventato. Fiamme innaturali ne avevano divorato i pezzi e non si erano fermate. Se Damastis non fosse intervenuto in tempo, il villaggio sarebbe stato ridotto ad un cumulo di cenere. Non ricordava di aver mai assistito ad un fenomeno del genere e persino Damastis aveva faticato a reagire con la prontezza che lo contraddistingueva, nonostante l’età.
Di colpo, le iridi di Damastis smisero di brillare e le porte della sala di meditazione si aprirono lentamente, mostrando il profilo della fatiscente figura dell’oneiriana. Andras rabbrividì, pizzicato da un gelido soffio sulla pelle. Cercò lo sguardo della giovane e le iridi ingrigite gli sfuggirono. La squadrò con più attenzione. La maglia aderente, costituita da piccole squame nere, la cui forma ricordava lacrime rovesciate, metteva in risalto le ossa del costato e del bacino. Sembrava essere stata prosciugata dal suo stesso potere. Non aveva mai visto un oneiriano subire tante ripercussioni a causa dell’utilizzo del proprio potere. Forse la parte umana aveva intaccato la capacità di armonizzare il fisico con il potere e il potere di Anthea era strano, fuori dalle righe.
 
“Che cos’era quello?” Andras non fu in grado di trattenersi, perché davvero non riusciva a capire – non riusciva a capirla. E ciò che non si comprende, spesso è temuto, per questo gli anziani del Consiglio stavano già correndo ai ripari.
 
“Loro sono…” fu poco più di un sussurro quello che venne fuori dalle labbra screpolate della giovane.
 
“Sotto le migliori cure” si intromise Damastis, mentre si avvicinava a lei senza timore.
 
“Voglio vederli. Se posso aiutare…”
 
“Lascia che siano i curatori ad occuparsene” cercò di convincerla l’anziano. Una battaglia persa in partenza.
 
“Portami da loro” lei fu categorica.
 
Così Damastis le fece strada e Andras decise di unirsi a loro senza un perché preciso. Sapeva solo di essere preoccupato, ma non sapeva ancora per cosa – o per chi.
Quando raggiunsero la grande sala vuota che era stata adibita ad una specie di infermeria, la situazione che si presentò loro non aiutò a far calare la tensione. La madre dai capelli bruni teneva in braccio il suo neonato singhiozzante e il cui viso era arrossato e rigato di lacrime. Era stravolta e sussurrava preghiere dolenti. Il suo amato compagno, il guerriero biondo che l’aveva protetta dai mutaforma, giaceva disteso a terra, circondato da quattro curatori esperti, i più potenti di cui disponevano. Uno squarcio profondo gli aveva aperto il petto e si intravedevano le ossa della gabbia toracica. Era cosciente e i suoi lamenti di dolore erano strazianti.
Uno dei curatori, un’oneiriana dall’innegabile bellezza, sembrava aver preso in mano le redini della situazione e il suo potere – così caldo e denso – stava ricostruendo tessuti, riparando organi e strappando alla morte un’anima che ancora non era pronta a lasciare il mondo dei vivi e che stava lottando per rimanerci.
Poco lontano dal guerriero ferito, giaceva disteso un oneiriano più anziano, che stava coprendo con la mano il buco che gli trapassava il petto ossuto. Nessuno gli stava prestando aiuto e Anthea corse da lui. La giovane si inginocchiò al suo fianco e Andras si chiese se fosse una buona idea lasciarla fare.
 
“Aiuta lui” sussurrò l’anziano “Io sono alla fine del viaggio.”
 
“No, nessuno morirà oggi” Anthea posò entrambe le mani su quella dell’anziano e Andras riuscì a percepire il suo potere vibrare con discontinuità. Era completamente diverso dal potere emanato dalla potente curatrice.
 
“C’è così tanto caos dentro di te, giovane guerriera” l’anziano riprese fiato con estrema fatica “Devi lasciarli andare o ti consumeranno.”
 
“Io sto bene e starai bene anche tu” insistette Anthea e intensificò il flusso di energia che la abbandonava, in modo da pervadere l’anziano.
 
“Non puoi ricominciare, né cambiare ciò che è stato. Puoi solo andare avanti” le sussurrò l’oneiriano con un filo di voce tremula. “Prenditi cura di loro” furono le ultime parole che pronunciò, prima di lasciarsi andare.
 
“No… no…” Anthea sembrava disperata e diventava sempre più pallida e debole. Fini rivoli di sangue le stavano colando dagli occhi, dal naso e dalle orecchie.
 
“Anthea, fermati. Lui…”
 
“Posso farcela.”
 
L’anziano aveva chiuso gli occhi e non c’era sofferenza nella sua espressione. Era in pace.
Andras poggiò la mano sulla spalla della giovane. “È andato. Fermati” le chiese ancora, con più convinzione.
 
“Posso farcela” ripeté lei, alla stregua di un automa.
 
Allora Andras la afferrò per un braccio e la tirò su con forza, evitando di pensare alla violenta reazione che lei avrebbe potuto avere – e che per sua fortuna non ebbe. La giovane non reagì, né oppose alcun tipo di resistenza.
Le prese il viso fra le mani e si ritrovò a fissare le iridi ingrigite. “Devi lasciarlo andare” le disse.
 
“Così sarà solo un altro dei tanti…”
 
Andras aggrottò la fronte. Stava per chiederle spiegazioni, ma la giovane sfuggì alla sua presa e indietreggiò per ripristinare le distanze. La loro attenzione fu poi richiamata altrove.
 
“Non vi fermate, ci siamo quasi” la guaritrice stava facendo ricorso a tutto il suo potere ed era straordinario il modo in cui riusciva a rigenerare ciò che era stato distrutto. La ferita del giovane padre era stata ridotta ormai ad un taglio superficiale e lui aveva ripreso colore. Ce l’avrebbe fatta.
 
Andras voltò il capo per cercare lo sguardo di Anthea. Solo che lei non c’era più.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
Mantenere il passo. Doveva mantenere il passo. Era così freddo e buio lì sotto, così claustrofobico. Una parte di lei non vedeva l’ora di tornare in superficie, nonostante la consapevolezza di ciò che li aspettava.
Steve era davanti a lei, camminava a passo spedito e non aveva idea di come riuscisse ad orientarsi in quei cunicoli che erano praticamente tutti uguali. Anthea bloccò il passo e si voltò indietro, richiamata da un sussurro stridente e incomprensibile. O forse era tutto nella sua testa.
 
“Qualcosa non va?”
 
Rumlow, subito dietro di lei, la affiancò. Anche Rogers e Batroc si fermarono. L’oneiriana scosse il capo, lo sguardo fermo su un punto indefinito nel buio. Riprese a muoversi per rompere l’impasse che lei stessa aveva creato e le dita di Steve le circondarono il braccio destro, senza però fermarla. Per lui fu un tentativo di richiamare la sua attenzione e comunicarle vicinanza.
 
“Non manca molto” il super soldato mantenne la voce ferma, ma Anthea vide chiaramente la preoccupazione tendergli i tratti del viso.
 
Non poteva tirarlo fuori da lì, non senza prima mettere a repentaglio la sua vita, di nuovo. Se solo fosse riuscita a sbloccare il suo potere, avrebbe spazzato via Lewis senza nemmeno concedergli il tempo di rendersene conto.
Non poteva proteggere il suo compagno e lui sarebbe stato costretto a proteggere lei. Questo pensiero le rendeva difficile respirare.
 
“Ci siamo” riferì il Capitano.
 
Maniglie metalliche erano incastrate nella parete del tunnel a formare una rozza scala che portava ad una delle uscite fognarie.
Steve si arrampicò fino in cima e sfruttò l’udito fine per accertarsi – con buona probabilità – che fuori non ci fossero nemici ad attenderli. Si voltò indietro e Anthea vide Rumlow fare un cenno di assenso con il capo per poi avvicinarsi anche lui alla scala. L’uomo salì alcuni gradini, finché non riuscì ad afferrare Rogers per la cintura dei cargo, mentre con l’altra mano si teneva saldamente alla scala. In questo modo, il Capitano fu in grado di utilizzare entrambe le mani per forzare il tombino e spostarlo con cautela, senza farlo strisciare rumorosamente sull’asfalto. Rumlow mollò la presa e Rogers si spinse all’esterno.
 
“Via libera” riferì poco dopo il super soldato.
 
Anche Rumlow e Batroc raggiunsero l’esterno. Anthea li seguì a ruota e trovò la mano tesa di Steve ad attenderla, così la afferrò per permettergli di tirarla su.
 
“Adesso aspettiamo” decretò Batroc, acquattato vicino al tombino, pronto a rinfilarsi dentro al minimo accenno di seria minaccia.
 
Avevano raggiunto il retro del centro commerciale ed erano nuovamente immersi nella foschia più densa. Suoni, movimenti, sensi, persino i loro respiri, tutto era ovattato, come se fossero sott’acqua, schiacciati da una pressione soffocante. Il freddo persistente graffiava la pelle e pizzicava il naso.
Anthea si costrinse a ripristinare la concentrazione. Ora sentiva la connessione, quel subdolo nodo che si era formato cinque giorni prima.
 
Lewis non era lontano.
 
Rimasero in attesa, finché gli allarmi squillanti di molteplici auto ruppero il silenzio. La nebbia si tinse di rosso, quando segnalatori di posizione si innalzarono verso l’alto, accompagnati da scie luminose.
 
“Adesso o mai più. Muoviamoci.” L’esortazione di Rumlow spinse gli altri a muoversi.
 
 
Il centro commerciale era un grande edificio moderno e luminoso, con pareti in vetro che riflettevano la luce del sole. L’ingresso principale era un atrio spazioso e accogliente, con pavimenti in marmo e piante verdi in vaso. Era costituito da tre piani. Al piano terra c’era una grande area food court, con una vasta scelta di ristoranti e fast food di ogni tipo. C’era un’ampia varietà di cucine, come l’asiatica, l’amata cucina italiana, la tipica americana, quella messicana e non solo. I clienti potevano prendere posto ai tavoli sistemati all’interno e appena fuori dai locali, oppure potevano prendere il cibo da asporto e gustarlo mentre camminavano tra i negozi. Al primo piano c’erano principalmente negozi di abbigliamento, accessori e profumerie, oltre che alcuni negozi dedicati all’arredamento. Qui si potevano trovare le ultime tendenze della moda, da marchi di lusso a brand più accessibili, adatti ad ogni tipo di budget. Infine, al secondo piano c’era una vasta area dedicata ai servizi e si potevano trovare banche, uffici postali, agenzie di viaggio e persino servizi medici. C’era anche una grande sala giochi che accoglieva i bambini, mentre i genitori svolgevano le loro commissioni. Inoltre, nel centro commerciale c’erano anche librerie e negozi di elettronica, di articoli sportivi e di giocattoli. Ogni negozio aveva un’illuminazione calda e accogliente, con scaffali ben organizzati e vetrine colorate, che attiravano gli sguardi dei passanti e invitavano ad entrare.
Il centro commerciale era molto frequentato, specialmente nei weekend, quando famiglie e gruppi di amici lo riempivano di vita e allegria. Era un posto perfetto per fare shopping, mangiare e trascorrere del tempo in compagnia. Tuttavia, una tale descrizione era molto lontana dalla realtà attuale, una realtà grigia e fredda, spaventosa. Era l’ultimo posto che una famiglia avrebbe frequentato, dato che aveva assunto le fattezze di un rudere abbandonato e abitato da mostri.
Raggiungere l’ingresso del centro commerciale non fu difficile e non incontrarono ostacoli. All’interno, la foschia era più rada, ma la penombra intaccava comunque la visibilità e dovettero far ricorso alle torce.
 
“E adesso?” Rumlow arrestò il passo.
 
Anthea puntò l’indice destro verso l’alto “Saliamo.”
 
A causa del blackout totale che c’era stato nell’area sotto la cupola, la scala mobile non era in funzione. Allora, la risalirono in silenzio, attenti a captare qualsiasi rumore o movimento. Una volta in cima, Anthea ebbe la sensazione che i polmoni si fossero inspessiti e respirare divenne più complicato di quanto già non lo fosse. Le faceva male il petto – bruciava – e ce la mise tutta per mantenere il controllo del suo stesso corpo.
Le intangibili ombre scure iniziarono a materializzarsi, una dopo l’altra. Erano squarci nella nebbia, macchie nere che tremolavano come vecchi fotogrammi sul vaporoso manto.
 
“Dobbiamo preoccuparci?” Batroc si accostò al gruppo in modo del tutto istintivo.
 
“Di quelli sì” Steve aveva rivolto l’attenzione a figure dai contorni definiti, comparse in prossimità dell’ingresso del piano terra. Quelli erano nemici reali e pericolosi. Potenziati pronti a farli a pezzi.
 
“Cazzo” esalò Batroc “Giusto in caso… qual è la nostra strategia d’uscita?”
 
“Avevamo a malapena una strategia di ingresso” Steve lanciò al mercenario un’occhiata desolata.
 
“Moriremo tutti.”
 
“Da quando sei così pessimista, Batroc?” Rumlow si affacciò dal parapetto del primo piano “Non sono molti. Forse quattro o cinque al massimo.”
 
Batroc si lasciò scappare una mezza risata tesa. “Non sono pessimista, solo realista” indicò il parapetto circolare del secondo piano. “Ce ne sono altri che scendono.”
 
I potenziati in questione avevano volti grigi e apatici, che li facevano assomigliare a cadaveri ben conservati. Erano diversi da quelli che finivano per esplodere e molto diversi da quelli che conservavano tratti più umani. Non erano affatto una bella visione e la sola emozione conservata era l’esigenza di soddisfare i desideri di colui che li aveva creati – o distrutti, a seconda del punto di vista.
 
“Possiamo aggirarli?” Rumlow si guardò intorno, in cerca di una strada alternativa allo scontro frontale.
 
“Via le torce. Facciamo perdere le nostre tracce” Rogers memorizzò la posizione dei nemici e poi afferrò il polso sinistro di Anthea. “Stammi vicino” le disse e riprese fiato, nonostante fosse fermo, non avesse corso né tantomeno lottato.
 
“Quindi ci nascondiamo?” Batroc era sorpreso, anche se la proposta non gli dispiaceva. Nonostante il temperamento mostrato per la maggior parte del tempo, l’idea di gettarsi in una lotta contro mostri dalla forza sovraumana e con lo svantaggio di essere in minoranza numerica non lo faceva impazzire di gioia.
 
“Se hai un’idea migliore…” lo incalzò Steve.
 
“No” il mercenario spense la torcia e Brock lo imitò.
 
Si mossero tutti insieme, rimanendo abbastanza vicini da potersi sfiorare. Potevano sentire i passi dei nemici che si avvicinavano, ma stavolta per vincere non avrebbero dovuto lottare. Avrebbero solo dovuto essere maledettamente bravi a giocare a nascondino.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Che diavolo è? Lo avete visto?”
 
“Eccone un altro!”
 
All’interno della cupola stava accadendo qualcosa. In diversi punti, la foschia si era tinta di un rosso luminoso. Il fenomeno andò avanti per qualche minuto, prima di cessare. Poi, tutto tornò silente e grigio.
 
“Dici che è un buon segno?”
 
“Non ne ho idea, Wilson. Però forse riusciremo a scoprirlo” fu la risposta di Stark, che aveva trafficato con Jarvis dal momento in cui aveva capito che penetrare la barriera poteva essere considerata – per ora – una sfida persa.
 
“Che intendi dire?” Barnes si era quasi illuminato e aveva rubato a Sam le parole di bocca.
 
“Se va come dico io” c’era una certa sicurezza nella premessa che Tony aveva fatto “Riuscirò a ripristinare l’energia all’interno della cupola e quindi anche le comunicazioni, così…”
 
“Sapremo finalmente cosa sta accadendo” concluse Sam.
 
“E spero vorrete condividerlo con me.”
 
In quel momento, Tony indossava l’elmetto. Tuttavia, non fu affatto difficile immaginare l’ampia rotazione degli occhi che precedette il fintamente cordiale “Segretario, aspettavamo proprio lei” che gli propinò senza troppi complimenti.
 
“È lì dentro che si nasconde Rogers? Tutto questo è opera della Reyes?” attaccò Ross, ignorando le vibrazioni poco rassicurati provenienti dagli Avengers nei paraggi.
 
Certo. Sicuramente hanno eretto questa cosa per non dare nell’occhio e nascondersi da lei” Stark non gli dedicò nemmeno mezzo sguardo mentre gli sputava addosso sarcasmo pungente. “Non ci intralci, Ross” e il sarcasmo fu surclassato da una serietà minacciosa.
 
“Non vi intralcerò se collaborerete e mi terrete aggiornato. Questa emergenza è sotto la mia giurisdizione e non siete autorizzati a…”
 
“Non ci intralci, Ross” ripeté Stark per la seconda e ultima volta, prima di spiccare il volo.
 
E Ross non poté fare altro che ingoiare il rospo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Si stavano muovendo fra alti scaffali pieni zeppi di prodotti d’arredo. Si erano allontanati parecchio dalle scale mobili. Rumlow era in testa al gruppo e avanzava con cautela. I nemici non erano lontani, potevano ancora sentirne i movimenti provenienti da più direzioni.
Brock provò ad avanzare ancora, ma una stretta decisa sul braccio lo bloccò suo posto. Storse il naso, senza però dire o fare niente che li avrebbe compromessi tutti. Attese che le dita di Rogers lo lasciassero andare e questo accadde poco dopo che uno dei potenziati transitò davanti al negozio in cui si erano rifugiati. Allora procedettero, un passo alla volta, controllando persino il respiro.
Anthea teneva fra le dita un pezzo di tessuto della maglia di Steve, che camminava davanti a lei. Le vibrazioni che scuotevano l’aria erano più forti, stordenti, tanto da darle la sensazione che tutto attorno a lei girasse. Aveva bisogno di un punto fermo che le permettesse di rimanere lucida e vigile. Un tocco fortuito sulla schiena la fece tendere, ricordandole la presenza di Batroc proprio dietro di lei. La situazione in cui erano finiti faceva talmente schifo che persino il problema della fiducia era stato messo da parte. Avrebbero potuto ritrovarsi un pugnale infilato fra le scapole in qualunque momento, eppure non se ne preoccupavano.
 
Aveva un grande potere la disperazione.
 
Uscirono dal negozio e il salone del secondo piano apparve loro come un’area di guerra priva di difese, nella quale erano maggiormente scoperti.
Dopo quello che parve un tempo infinito, Brock si infilò all’interno di un altro negozio e l’odore di cioccolato gli solleticò le narici. Scivolarono dietro il bancone e si sedettero a terra, con le spalle appoggiate ad esso. Rimasero in silenzio, immobili, attenti a captare il minimo segno di pericolo. Rumlow diede di gomito a Rogers, due colpi netti, e da seduto si spinse carponi. Steve fece lo stesso e allora anche Anthea e Batroc li imitarono. Il super soldato allungò un braccio e toccò la spalla di Brock, che attivò un piccolo dispositivo stretto nella mano destra. L’istante dopo, un suono simile ad un allarme antincendio ruppe il silenzio spettrale e seguirono movimenti concitati, passi rapidi che impattavano sul pavimento piastrellato.
 
“Cinque secondi” avvisò Rogers.
 
Il tempo che in modo approssimato avrebbero impiegato la maggior parte dei potenziati a raggiungere il punto in cui avevano piazzato quella specie di allarme, un diversivo semplice ma efficace. E il punto scelto era il più lontano possibile dalle scale mobili che li avrebbero condotti al piano superiore.
Cinque secondi e scattarono. Corsero senza preoccuparsi di nascondere la loro presenza, sperando che l’espediente avesse portato tutti i nemici lontano da loro e che il buio e la foschia continuassero a rendere più difficile la possibilità di essere individuati. Solo che furono bombardati da flash luminosi che li accecarono per qualche istante, tanto che finirono per rallentare il passo.
 
“Stiamo scherzando? Proprio adesso doveva finire il blackout?” sbottò Rumlow.
 
Il centro commerciale si era letteralmente illuminato a giorno e perfino la fontana al centro del piano terra aveva iniziato a zampillare acqua con entusiasmo.
 
“Continuate a correre, ci siamo quasi” li esortò Rogers.
 
Erano vicini, pochi metri li separavano dalla scala mobile tornata in funzione e che esplose prima che potessero salirvi, finendo in mille pezzi giù al piano terra, sotto le loro espressioni sbigottite.
 
“Secondo round, Captain America?”
 
Una scarica elettrica risalì l’intera colonna spinale di Steve. Alla loro destra si stava avvicinando un gruppo di soli cinque individui umani.
 
“Sono loro quelli che ti hanno fatto il culo?” fu Rumlow a chiedere.
 
“Non mi hanno fatto il culo” dissentì Rogers, con una nota alquanto risentita nella voce.
 
Alle loro spalle si stavano intanto avvicinando i potenziati. Si erano accorti del sotterfugio con cui erano riusciti ad allontanarli, solo che a quel punto loro avrebbero già dovuto essere al piano di sopra.
 
“Non ce la faremo, Rogers.” Lo sconforto era un altro sentimento che su Rumlow stonava parecchio e Steve, suo malgrado, non fu in grado di replicare.
 
“Un piano. Manca solo un piano” Anthea attirò su di sé l’attenzione “Se dissolviamo la barriera, apriremo la strada ai rinforzi. Solo un piano.”
 
Se quello era il capolinea, almeno avrebbero fatto in modo di vendere cara la pelle.
 
“Solo un piano” ripeté Steve e osservò la distanza che li separava dal parapetto del secondo piano.
Afferrò Anthea per un braccio e la tirò a sé nel momento in cui i nemici presero ad avvicinarsi a passo di carica. “Seguimi. Ti spingo sopra.”
 
“Cosa… come? Aspetta!”
 
Anthea si ritrovò a seguire Steve in una corsa che si allontanava dalle scale mobili ormai distrutte. Un’esplosione alle loro spalle la fece voltare indietro per un attimo e vide il gruppo di mostri sprofondare in un buco aperto nel pavimento, giù al piano terra. Rumlow teneva ancora in mano la chiave della bomba a mano e aveva appena fatto guadagnare loro tempo.
Steve lasciò indietro Anthea di diversi metri, solo per potersi fermare di colpo e voltarsi verso di lei. Le fece un cenno del capo e, a quel punto, l’oneiriana capì. Lui voleva spingerla – spingerla letteralmente – oltre il parapetto del secondo piano.
La giovane si concentrò sulle mani che il compagno aveva posizionato a coppa dinanzi a lui e dove lei avrebbe dovuto mettere il piede d’appoggio per il salto – sarebbe stato un bel salto. Il campo visivo periferico registrò l’ingresso rapido di una presenza proveniente dalla sua destra e questo la fece esitare.
 
“Attento!” l’avvertimento arrivò tardi.
 
Fu un placcaggio violento quello che Markov riuscì ad eseguire su Rogers. I loro corpi si schiantarono sul pavimento e vi scivolarono per diversi metri, mentre tentavano di prendere il sopravvento l’uno sull’altro.
Anthea fece per raggiungerli, ma il suo l’intervento fu bloccato da Schneider. La giovane provò a scartarlo e il colosso si dimostrò più veloce del previsto. Con un calcio frontale contro il petto, la spedì all’interno di un negozio pieno di abiti bianchi, facendola passare direttamente dalla vetrinetta, la quale finì in mille pezzi. Anthea si rialzò in piedi ed estrasse qualche scheggia di vetro dai palmi delle mani e dalle braccia. Chiazze vermiglie si stavano allargando sul tessuto candido della maglia. Una scarica elettrica le percorse la spina dorsale e le pizzicò la base della nuca. Il colosso stava arrivando e il ghigno affilato che le stava rivolgendo non sembrava affatto un buon presagio e in quel momento lei faticava persino a pensare.
 
“Devono essere disperati se hanno chiesto aiuto persino ad una ragazzina così gracilina.”
 
Il commento poco lusinghiero la fece scattare. Odiava sentirsi debole e fragile.
La giovane si abbassò per evitare il gancio sinistro dell’uomo e si lanciò letteralmente contro di lui, con l’intenzione di spingerlo a terra. Solo che Schneider non si spostò di un centimetro e, in un battito di ciglia, Anthea finì aggrovigliata fra stoffe candide e veli semitrasparenti. Il soldato non le concesse pause ed era già pronto ad infierire di nuovo su di lei. D’istinto, l’oneiriana sollevò il braccio, mentre richiamava la concentrazione.
 
“Cos’è? Mi stai chiedendo una pausa, ragazzina?”
 
Anthea abbassò il braccio e sospirò in modo dolente. “Ritieniti fortunato. Non è un buon momento per me.”
 
“No, di certo non è un buon momento per te” rincarò Schneider e si sporse verso di lei.
 
L’oneiriana fece un paio di passi indietro e finì per scontrarsi con un manichino vestito di tutto punto e che pensò di usare come arma improvvisata. Glielo lanciò contro, come escamotage per distrarlo abbastanza da potergli scivolare fra le gambe, tornare in piedi e correre fuori dal negozio. Tuttavia, la strada le fu sbarrata per la seconda volta da un’alta donna bionda, il cui sguardo tagliente la trapassò alla stregua di una lama.
 
La situazione non faceva che complicarsi.
 
La Smirnova fece roteare un pugnale nella mano destra. Allora, Anthea gettò un’occhiata alle proprie spalle e registrò la presenza di Schneider già fin troppo vicino. Sudore freddo le imperlò la schiena e il battito del cuore subì una brusca impennata. Odiava davvero sentirsi così debole e spacciata. Era come tornare rinchiusa in una stretta gabbia dalle sbarre spesse, incatenata al pavimento duro e freddo.
Improvvisi colpi di arma da fuoco costrinsero i due super soldati ad abbandonare la posizione di attacco e a rifugiarsi all’interno del negozio. L’oneiriana invece non si era mossa.
 
“Trova il modo di salire lassù, strega” le gridò Rumlow, impegnato a tenere a bada Abell, non senza una evidente difficoltà.
 
Brock si era beccato una ginocchiata nello stomaco per aiutarla e perciò Anthea sorvolò sull’appellativo che le aveva affibbiato. Poco distante, Batroc era alle prese con Jian e anche il mercenario era in seria difficoltà. Erano tutti troppo stanchi per affrontare uno scontro che sarebbe stato duro pur avendo a disposizione piena forza.
L’oneiriana cercò Steve e lo trovò coinvolto in un violento scontro con Markov e no, non stava andando bene nemmeno su quel fronte. Forse c’era un ascensore funzionante ora che il blackout era terminato. Si guardò intorno e individuò quella che avrebbe potuto essere la porta per accedere alla cabina. Valeva la pena tentare. Se fosse riuscita ad arrivare a Lewis e a recuperare i suoi poteri, allora…
 
“Dove scappi, ragazzina?”
 
Un altro manichino vestito di bianco stava volando verso di lei a gran velocità, come una lancia. Fu ancora una volta l’istinto a prevalere e Anthea sollevò una mano per bloccarlo, ma quello gli arrivò comunque addosso e la spinse con il sedere per terra.
 
“Dannazione, devo smetterla” la giovane si tolse di dosso il manichino, scalciando via il pesante tessuto della lunga e ampia gonna che componeva il vestito sontuoso.
 
“Aspetta, ti do una mano” si offrì Schneider e le afferrò il polso destro per tirarla su e sfilarla dal groviglio di stoffa.
 
Anthea tentò di colpirlo con la mano libera, ma anche questa finì intrappolata nella presa ferrea del colosso. Allora saltò, richiamando le ginocchia al petto, e piazzò le suole delle scarpe suo petto del nemico, che sembrò non accusare il colpo e di risposta le strinse con maggiore forza i polsi. Le sfuggì un grido addolorato quando l’osso del polso destro scricchiolò in modo preoccupante e si preparò a sentirlo spezzarsi come un ramoscello secco, ma Schneider mollò di colpo la presa. Non fu un gesto di pietà, lo fece solo per poterle afferrare la gola. La sollevò da terra e le tolse il respiro, premendo con più forza le ruvide dita ai lati della trachea.
 
Debole.
 
Quando l’aria tornò a riempirle i polmoni con violenza, Anthea era sul punto di perdere conoscenza. Riuscì a vedere Steve avventarsi su Schneider e piazzargli in faccia due diretti rapidissimi, seguiti da un gancio sulla mascella che fece barcollare il colosso. Con un calcio girato, il biondo lo atterrò, costringendolo sulle ginocchia.
Di risposta, Schneider sfilò dalla tasca un pugnale e glielo lanciò contro, ma Steve lo intercettò e lo rispedì al mittente con una rapidità ed una precisione eccelsa. La lama si conficcò nell’occhio destro e scavò in profondità, fratturando persino le ossa. Il soldato d’inverno collassò a terra con un tonfo secco e fu scosso da violente convulsioni, prima che ogni segno di vita si estinguesse.
Steve distolse lo sguardo e raggiunse Anthea, che aveva assistito alla scena senza essere in grado di muovere anche un solo muscolo. Lui aveva il viso imbrattato dal sangue che colava da una ferita riapertasi sulla tempia e la maglia si era sfilata dai cargo. C’era parecchio sangue anche in corrispondenza del fianco sinistro. Da dove avesse tirato fuori tutta quella forza era un mistero.
 
“Dietro di te” Anthea lo strattonò verso di sé.
 
Il calcio di Markov mancò di un soffio la nuca di Steve. Tuttavia, il soldato d’inverno riuscì comunque ad afferrare il biondo da dietro, finendo per bloccargli entrambe le braccia lungo i fianchi.
 
“Vai” le ordinò Rogers “Ora” aggiunse a denti stretti, mentre si dimenava per scrollarsi di dosso Markov.
 
Anthea si mosse sulle gambe molli e poco responsive. Un piano. Solo un piano e avrebbero ricevuto aiuto. E se lei avesse recuperato i poteri…
Cercò di non guardare indietro. Doveva reprimere le emozioni, cosa che le risultò alquanto impossibile quando intercettò la Smirnova estrarre il pugnale dall’occhio del corpo senza vita di Schneider e dirigersi verso Markov e il suo compagno. L’oneiriana si fermò e guardò indietro.
 
“Occhio per occhio” annunciò Darya, che nel frattempo aveva raggiunto Steve, ancora bloccato da Josef. Afferrò i capelli biondi del Capitano e lo costrinse a sollevare il mento con uno strattone secco.
 
Secco fu anche l’impatto del manichino in bianco contro la testa della Smirnova. Anthea spinse via la donna, approfittando del momentaneo stordimento. Lei però reagì troppo rapidamente e il coltello trovò carne in cui affondare. L’oneiriana fissò la punta della lama che fuoriusciva dal retro della spalla destra di Steve, in piedi davanti a lei. Con un calcio frontale, il Capitano spinse indietro Darya e sfilò il coltello dalla spalla.
Markov sopraggiunse alle spalle della donna e dallo spacco aperto sulla fronte stava uscendo parecchio sangue. Era parecchio incazzato.
 
“Arrivano!”
 
Batroc annunciò l’arrivo dei mostruosi potenziati. Erano risaliti dal piano terra e si sarebbero presto avventati su di loro alla stregua di bestie feroci. Un piano. Solo un piano. Eppure sembrava irraggiungibile.
 
“Steve” la voce dell’oneiriana tremava e il cuore martellava con una prepotenza tale da stordirla.
 
“Andrà tutto bene. Possiamo farcela.”
 
Sai che non è così. Sai che non è così. Sai che non è così.
 
E Anthea la vide. La se stessa di una vita prima, dall’altra parte del salone. Aveva ricordato com’era sentirsi persa e indifesa. Completamente persa ed indifesa. E la disperazione scottante che ne derivava riusciva ad annientarla. Aveva odiato e odiava la debole e passata versione di se stessa, tuttavia adesso iniziava a comprenderla, a sentirsi più vicina a lei.
 
“Devi andare. E non voltarti indietro stavolta. Ti copro le spalle.”
 
Steve la guardò un’ultima volta. Le sorrise e lei riconobbe nelle iridi azzurre quella scintilla in grado di farla bruciare dall’interno. Diversamente dalla se stessa del passato, non era sola e per questo non sarebbe scappata in cerca di un angolo scuro dove potersi nascondere.
 
Un piano. Un solo piano.
 
Anthea corse. Corse, ignorando la cacofonia della battaglia che si stava lasciando alle spalle, ignorando la possibilità che il nemico potesse raggiungerla, perché avrebbe significato che il suo compagno non ce l’aveva fatta. La cabina dell’ascensore era a pochi metri di distanza ormai e ci tenne attaccato lo sguardo finché non ci fu di fronte. Premette il pulsante ripetutamente e poi, non ricevendo alcun segno, forzò le porte a scorrere con tutta la forza che aveva in corpo. Della cabina non c’era traccia. Saltò all’interno della tromba e si aggrappò ad uno dei cavi d’acciaio. Fu tentata di guardare indietro, ma si costrinse ancora una volta a non farlo. Iniziò a tirarsi su, le braccia tremanti, il respiro corto e la sensazione che il cuore sarebbe esploso.
 
 
Un piano. Solo un altro piano.
 
 
Il rumore assordante di uno scoppio improvviso precedette il crollo del primo piano.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Erano al confine e ciò che c’era dall’altra parte non era bello. No, era un casino, ma Daniel era convinto che quella fosse solo la punta dell’iceberg.
 
“Vi prego, tirateci fuori da qui” era stata la preghiera della donna che per prima li aveva visti arrivare. Pallida come un cencio, si era addossata contro la barriera e altri l’avevano imitata.
 
I civili erano esausti, avevano freddo e gli abiti estivi non aiutavano a trattenere il calore. Le labbra bluastre la dicevano lunga sulla loro condizione. Gli adulti si erano riuniti in gruppi e stavano cercando di tenere al caldo i bambini tremanti.
 
“Qualcuno è in grado di dirci cosa sta succedendo?” chiese Grey.
 
L’assenza della foschia lì sotto permetteva di vedere al di là della barriera e anche i suoni riuscivano ad attraversarla.
Venne avanti un uomo che sfoggiava una vistosa cicatrice in prossimità della carotide. “SHIELD, dico bene?”
 
La scritta sulle uniformi scure era un biglietto da visita. In ogni caso, Grey annuì. “Fuori dalla barriera ci sono l’esercito e gli Avengers. Possiamo aiutarvi se ci dite cosa sta succedendo” spiegò, con calma, in modo da non creare agitazioni e dispute deleterie.
Perché avevano di fronte soldati dell’Hydra, il cui simbolo era impresso sulla spalla destra delle loro uniformi. E ce n’erano fin troppi di soldati dell’Hydra assieme a civili innocenti.
 
“Si stanno occupando della barriera. Noi abbiamo già fatto la nostra parte” fu la vaga risposta che ottenne dall’uomo.
 
“Chi se ne sta occupando?” insistette Gray. Avevano bisogno di informazioni.
 
“Steve Rogers. Ha convinto il nostro capo e Batroc a seguirlo.”
 
Steve era ancora vivo. Daniel si trattene a stento dall’esultare.
 
“Chi è il vostro capo?” continuò David, concentrato e apparentemente calmo.
 
“Brock Rumlow. Non ci ho capito molto, ma devono portare la strega da Lewis per far crollare la barriera” ammise l’uomo e il fatto che stava collaborando senza fare storie era quasi surreale. Dovevano essere disperati, era l’unica spiegazione plausibile.
 
“La strega?”
 
“La spaventosa ragazzina che sta con gli Avengers.”
 
“La Reyes è dentro” disse Grey, più a se stesso che a chi lo circondava.
 
C’era anche Anthea. Dan iniziò a recuperare la speranza che tutto sarebbe andato bene alla fine. Peccato che quella speranza fu calpestata nell’immediato, quando rumori poco rassicuranti rimbombarono all’interno del tunnel. Qualcuno si stava avvicinando e l’agitazione crebbe velocemente fra i civili.
Fu allora che Daniel assistette a qualcosa di incredibile. I soldati dell’Hydra imbracciarono le armi e si portarono davanti ai civili.
 
“Sapete cosa fare” l’uomo che aveva parlato con loro iniziò ad avanzare lungo il condotto e altri lo seguirono.
 
Stavano davvero cercando di proteggere i civili?
 
Dan era incredulo, eppure sembrava proprio che le cose stessero andando così. Si chiese cosa cavolo doveva essere successo negli ultimi cinque giorni, perché adesso la cupola di fumo appariva meno assurda. Si appoggiò ad essa con entrambe le mani e aguzzò la vista, nella speranza di vedere che tipo di pericolo fosse in avvicinamento. Perse l’appoggio e sarebbe caduto faccia a terra se non avesse avuto buoni riflessi. Si raddrizzò e si accorse di avere addosso un elevato numero di sguardi increduli.
 
“Collins” lo chiamò Grey.
 
Dan eseguì un mezzo giro e rivolse l’attenzione all’agente dello SHIELD. David lo stava fissando con una espressione sbigottita dall’altra parte della barriera.
 
“Come hai fatto?”
 
“Io non ho fatto niente, lo giuro.”
 
I civili si accalcarono a ridosso della barriera nella speranza di poterla oltrepassare, ma quella era tornata ad essere impenetrabile. Dan si trovò schiacciato fra persone spaventate ed esauste. Faceva freddo e si faceva più fatica a respirare all’interno della cupola.
 
“Si avvicinano” avvisò uno dei soldati dell’Hydra.
 
Daniel avanzò a tentoni, facendosi largo fra i civili, fino a raggiungere la prima linea di difesa formata dai soldati dell’Hydra.
 
“Se li aspettiamo qui, sarà peggio. Andiamo loro incontro e cerchiamo di portarli lontano da qui.” Dan non attese una risposta e procedette in avanti.
 
“Collins, torna indietro!” cercò di richiamarlo Grey.
 
“Avvisa gli Avengers!” gli gridò di risposta Daniel. “Io starò bene.”
 
 
 
 
“Ricordi il nostro accordo?”
 
“Se la situazione si complica, mi tolgo dai piedi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Steve riuscì a vedere Anthea arrivare all’ascensore e sperò di poterla raggiungere il prima possibile. Solo che il prima possibile non sarebbe stato presto. Doveva evitare che i nemici potessero intralciare la sua compagna, mentre lei sarebbe stata impegnata ad affrontare Lewis. Era necessario guadagnare altro tempo e creare altri diversivi.
 
E un diversivo era già pronto per essere attuato.
 
Durante la partita a nascondino, Rumlow aveva deciso di piazzare in giro per il primo piano una serie di cariche esplosive ad elevato impatto. L’idea iniziale era stata quella di fare crollare il piano una volta raggiunto il secondo. Le cose però non erano andate esattamente come previsto. C’erano davvero poche cose andate come previsto nell’ultimo lungo periodo.
 
“Rumlow!” lo chiamò a pieni polmoni, mentre schivava il diretto destro di Markov, e ottenne la sua attenzione.
 
Rumlow batté in ritirata, dirigendosi verso Batroc. C’erano dei punti che teoricamente non sarebbero venuti giù e, mentre i suoi temporanei alleati li avrebbero raggiunti, Steve avrebbe fatto in modo di attrarre quanti più nemici dove invece il collasso ci sarebbe stato.
 
Niente pedine sacrificabili. Aveva dato la sua parola.
 
Gli esplosovi si attivarono in perfetta sincronia. Il pavimento del primo piano si sgretolò sotto i suoi piedi e, nonostante tutto, Rogers sorrise a denti stretti davanti l’espressione sorpresa di Markov. Era già la seconda volta che lo trascinava a fondo con sé.
Steve non riuscì ad attutire l’impatto della rovinosa caduta, ma fu in grado di rimettersi in piedi velocemente e di evitare di finire schiacciato dai blocchi di cemento che stavano venendo giù. Nella polvere, riconobbe la nota figura di Rumlow, che si stava trascinando a gattoni. Poco vicino c’era un potenziato finito sotto le macerie. Qualcosa doveva essere andato storto. Il Capitano accelerò e spinse su entrambe le gambe per gettarsi sul suo ex supervisore, in modo da scansarlo dalla traiettoria di un grosso pezzo di pavimento seguito da un paio di scaffali. Rotolarono per qualche metro, mentre gli arti si aggrovigliavano fra loro e i capelli venivano imbiancati dalla calce.
 
“Spostati” ringhiò Rumlow, che si ritrovò con Rogers addosso, che gli respirava a pochi centimetri dalla faccia.
 
Il super soldato si spostò senza dire una parola ed entrambi si rialzarono goffamente nel modo più rapido concesso dai loro corpi ammaccati. Si diressero verso l’esterno del centro commerciale, nella speranza che il crollo avesse ridotto il numero di nemici che avrebbero dovuto tenere a bada. Tuttavia, rimpiansero presto quegli stessi nemici, perché ciò che trovarono ad attenderli era di gran lunga peggiore.
 
“Finalmente ti ho trovato.”
 
“Vattene da qui” ordinò Steve a Brock, mentre fissava l’immensa figura di Abominio, senza neppure sforzarsi di nascondere la preoccupazione.
 
“E tu cosa farai?”
 
Non c’era una effettiva possibilità di scelta. Steve non poteva permettere ai nemici di raggiungere Lewis e Anthea. Finché non avrebbe potuto raggiungerla, avrebbe almeno cercato di evitare che altri potessero arrivare a lei per fermarla.
 
“Mi guadagnerò una sconfitta onorevole” fu la sola risposta che Rogers diede a Rumlow.
 
“Così mi piaci, ragazzo” Abominio mostrò i denti affilati.
 
Il Capitano allora agì in fretta, confidando nell’effetto sorpresa. Sfilò dalla cintura di Rumlow un pugnale e si scagliò contro il gigante. Fu abbastanza rapido da evitare un manrovescio che lo avrebbe spazzato via e riuscì a saltargli sulle spalle. Si aggrappò alle strana cresta del mostro e, con un movimento che gli costò parecchio sforzo, gli infilò la lama nell’orecchio destro, strappandogli un ruggito addolorato.
Subito dopo, provò l’ebrezza di un volo che si concluse con l’impatto contro il parabrezza di una delle auto posteggiate nel parcheggio esterno del centro commerciale.
Il super soldato non fu in grado di rialzarsi subito e attese almeno di riacquistare la capacità di respirare. Il terreno vibrava, segno che le conseguenze dell’atto appena compiuto stavano arrivando e si sarebbero abbattute su di lui con immane violenza. Vide uno dei potenziali avvicinarsi ma non riuscì a raggiungerlo, perché Abominio lo prese per la testa e gliela fracassò come fosse una noce, accecato dalla rabbia. Una fine raccapricciante e c’era una elevata probabilità che fosse lui il prossimo. Steve scivolò giù dal parabrezza e tornò con i piedi per terra. Le gambe però cedettero e si accasciò sulle ginocchia.
 
Sarebbe stato doloroso farsi spappolare il cranio.
 
Una sfera metallica rotolò sotto i piedi di Abomino ed esplose, prendendolo alla sprovvista. Rogers riconobbe la figura sfocata di Rumlow saltare sulle spalle del mostro e prenderlo a gomitate direttamente sulla testa. Allora, il biondo reagì in modo automatico. Tirò su il disco metallico che chiudeva un tombino ed eseguì il movimento che ogni fibra del corpo conosceva alla perfezione. Il disco si schiantò sul ginocchio destro di Abominio e tornò indietro con una traiettoria imprecisa – non poteva di certo aspettarsi le stesse performance del suo scudo in vibranio. Steve riuscì comunque a recuperarlo e stavolta mirò al ginocchio sinistro. Ripeté più volte l’attacco da più angolazioni, mentre Rumlow cercava di non essere disarcionato.
Il ginocchio sinistro di Abominio fu il primo a cedere e il destro lo seguì a ruota. Il mostro si tolse Brock di dosso e lo utilizzò come proiettile umano contro Steve, che ne fu travolto ed entrambi finirono contro uno stand di caramelle e dolciumi portatori di carie.
 
“Cazzo” imprecò Rumlow, mentre si rialzava usando il ginocchio destro di Rogers come appoggio. “Nuova strategia?”
 
L’assenza di risposta fece voltare Brock indietro, nonostante il pericolo rappresentato da Abominio incombesse su di loro. Il Captano era ancora a terra.
 
“In piedi” Brock afferrò il braccio destro del biondo e lo tirò su. Steve aveva il fiato corto e faticava a stare sulle proprie gambe. “Datti una mossa, Steve. O finiremo male.”
 
“Attacchiamo da… entrambi i lati… mira alle gambe” gli disse il biondo, fra un respiro e l’altro.
 
“Ricevuto” Rumlow si rese conto di avere ancora le dita strette attorno al braccio del super soldato e mollò la presa, tornando a concentrarsi sullo scontro.
 
Ci provarono. Ci provarono con tutte le forze che ancora avevano in corpo. In lontananza, i mostruosi potenziati si stavano trascinando fuori dalle macerie e sarebbero tornati presto a caccia. La loro unica via di salvezza era che la barriera venisse smantellata. Persino Rumlow aveva iniziato a sperare di veder arrivare gli Avengers con uno dei loro ingressi ad effetto.
 
Al momento, l’unico obiettivo era sopravvivere mentre intrattenevano il circo degli orrori di Lewis.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le mani le facevano male. Gocce di sangue scivolavano dal palmo al polso, finché non finivano per imbrattare la manica della maglia.
 
Andrà tutto bene.
 
Continuò a tirarsi su, lungo il cavo metallico, un po’ alla volta, sempre più in alto. Un solo piano, giusto?
 
Andrà tutto bene.
 
Una volta fuori dalla tromba dell’ascensore, non perse tempo e si fece guidare dalle vibrazioni che scuotevano l’aria. Lewis era vicino, poteva sentirlo. Faceva tremendamente freddo e c’era troppo silenzio. La foschia si diradava al suo passaggio e le ombre nascoste in essa sbiadivano.
 
Andrà tutto bene.
 
Adam era in piedi, immobile nel centro del salone. Le dava le spalle e Anthea poteva vedere i capillari sul cranio pulsare. Sembrava non essersi accorto di lei. Allora, avanzò ancora e qualcosa iniziò ad agitarsi nello stomaco. Doveva far crollare la maledetta barriera. Non era il momento di essere debole. Resta concentrata. Era ormai vicina, c’era solo una manciata di passi a separarli.
 
“Lewis.”
 
Lui si voltò di scatto e le iridi scarlatte le trapassarono l’anima. Trattenne il respiro e avanzò ancora, di un solo altro passo.
 
“Tu non puoi essere qui. Tu…” era confuso e sorpreso.
 
“Sono sopravvissuta. E…” Anthea morsicò l’interno della guancia e assaporò il sangue che fuoriuscì dalla sottile carne “Avevi ragione. Sono diventata debole e non voglio esserlo più.” Mosse un altro passo verso di lui, i cui occhi infuocati non la abbandonavano neppure per un istante. “Voglio che tu mi renda forte di nuovo.”
 
“Guardare la morte in faccia deve averti scossa, bambina.”
 
“Ho sbagliato. Non avrei mai dovuto scappare da te.” Ancora un passo e Anthea si ritrovò a fronteggiare il corpo slanciato e imponente del suo ex aguzzino.
 
Lewis sollevò un braccio e poggiò la mano dalle lunghe dita sulla guancia della giovane. “Sei sempre stata una bambina difficile. Così combattiva e testarda.”
 
“Io… io non ero in grado di comprendere. Tutto quel dolore…” Anthea abbassò lo sguardo.
 
“Non si raggiunge la perfezione senza sofferenza, bambina mia. Il dolore è potere.”
Le dita di Lewis scivolarono sotto il mento dell’oneiriana e la costrinsero a sollevare il capo, in modo che i loro occhi tornassero a specchiarsi gli uni negli altri.
 
Se la memoria fosse un intricato labirinto di corridoi con porte che si susseguono passo dopo passo, si potrebbero immaginare le porte come chiuse per la maggior parte del tempo, finché uno stimolo esterno non le apre, consentendo di accedere al ricordo conservato al suo interno. C’erano corridoi che Anthea aveva smesso di attraversare da tempo, che si rifiutava di attraversare, nonostante alcune volte si sentisse risucchiata da essi. E c’erano porte che aveva sigillato, in modo che, pur attraversando il corridoio, non sarebbe riuscita ad aprirle. Tuttavia, se si avvicinava abbastanza poteva udire lo stridio di unghie che ne grattavano la superficie. C’erano più di semplici ricordi dietro quelle porte. Lì, in piedi di fronte a Lewis, tutte le porte si spalancarono con una violenza tale da rischiare di essere scardinate e ciò che da tempo vi era richiuso venne fuori. Anthea provò le sensazioni di annegare e bruciare e finire in pezzi tutte in una sola volta.
Davanti a lei c’era Adam Lewis, il suo zelante torturatore, e aveva fottutamente paura di lui. L’aveva violentata nel corpo e nella mente. L’aveva manipolata, sfruttando ogni debolezza scovata. Era questa la verità. Aveva paura di lui, una paura che forse non aveva provato nei confronti di nessun altro. E di colpo, tornò ad essere la bambina incapace di lottare, la mocciosa che aveva preferito rifugiarsi nelle bugie che lui le aveva raccontato per anni, in modo da poterla manovrare a suo piacimento.
Per ironia della sorte, adesso lei stava cercando di manipolarlo a sua volta, mostrandosi per quella che non era e pronunciando parole in cui non credeva. Eppure, qualcosa non andava. Doveva agire ora e riprendersi ciò che le apparteneva. Così Anthea tentò di richiamare a sé il potere che Lewis aveva assorbito. Riusciva a percepirlo ed era intenso, soffocante, le apparteneva.
 
“Sono felice che tu sia qui, bambina. Io ti ho creata ed è giusto che sia io a distruggerti” le dita di Lewis si strinsero attorno la gola della giovane e strinsero. “Non ti lascerò intaccare la mia evoluzione.”
 
Adam se ne era accorto. Aveva consapevolezza del potere che gli scorreva dentro. Ed era un male.
Anthea perse il contatto con il pavimento, nel momento in cui Lewis la sollevò senza alcuno sforzo e lei si aggrappò al braccio che la teneva sospesa. Boccheggiò in cerca d’aria, ma la pressione sulla carotide era troppo forte. Anthea aveva contribuito a creare un mostro e questo sarebbe stato il suo errore più grande, forse l’ultimo che avrebbe potuto commettere.
 
“Ne è valsa la pena?” le domandò Lewis a bruciapelo “Soffrire per individui che non potranno mai capirti, che ti guarderanno sempre con diffidenza per paura. Ne è valsa la pena?”
Non voleva davvero una risposta. Quella di Lewis era una domanda retorica e la risposta era una e una soltanto. No.
“Dove sono adesso i tuoi compagni? Dov’è il tuo amato soldato?” la incalzò ancora con domande a cui lei non avrebbe risposto, così lo fece lui al suo posto. “Ti hanno usata e poi abbandonata una volta che sei diventata debole e inutile.”
 
Andrà tutto bene. Sai che non è così. Andrà tutto bene. Sai che non è così. Sai che non è così. Non è così.
 
La giovane lasciò la presa sul polso di Lewis ed entrambe le braccia finirono abbandonate lungo i fianchi, prive di forza. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalle iridi vermiglie del mostro. Anche lei aveva terrorizzato tanto le sue vittime?
Di colpo, Adam mollò la presa e Anthea crollò sul pavimento. Non sarebbe stata in grado di rialzarsi, eppure si ritrovò in piedi, sostenuta da fili invisibili che la trasformarono in una marionetta.
 
“Che effetto fa essere dall’altra parte, bambina?”
 
I muscoli si contrassero contro la sua volontà e Anthea si lasciò sfuggire un gemito tremolante. “Basta” lo pregò suo malgrado, perché anche lei aveva un limite per il dolore che poteva sopportare. Era umana.
 
Basta. Fa’ che finisca. Ti prego. Basta. Dissolvi tutto. Voglio che tutto svanisca. Perché non finisce?
 
Anthea la vide alle spalle di Lewis. La se stessa del passato, la se stessa che aveva permesso a Lewis di fare del male a tante, troppe persone. Era alla se stessa del passato che apparteneva la voce della preghiera che aveva iniziato a fare eco nella sua testa. Ma Anthea non era più quella bambina, era più forte e non aveva più paura. Non poteva più avere paura, giusto?
 
“Ormai dovresti sapere che le suppliche non funzionano con me” le ricordò Adam e tese in avanti una mano.
 
I fili si trasformarono in catene invisibili. Tornò a sentirne il tintinnio nelle orecchie e il peso che le impediva di muoversi. In pochi attimi, era tornata al punto di partenza.
Il braccio sinistro si torse con uno scatto secco e le ossa cedettero. Le mancò il fiato, tanto che il grido di dolore le rimase incastrato in gola. Le ossa del braccio destro vibrarono e Anthea cercò lo sguardo del fantasma della piccola se stessa, i cui tratti del viso erano tesi in una smorfia difficile da interpretare. Solo allora l’oneiriana notò una figura ai piedi del fantasma. Un uomo era riversato a terra, steso sul fianco destro, in una pozza di sangue colato da uno squarcio aperto nello stomaco. Il braccio sinistro era steso in avanti e le dita rigide sfioravano la pallida guancia di un bimbo, il cui viso era imbrattato di sangue rappreso e negli occhi spalancati era rimasta impressa la più pura e viscerale paura. C’erano vite spezzate disseminate per l’intero piano.
La foschia si infittì di colpo. Le ombre scure che la abitavano assunsero consistenza e divennero sempre più numerose. Iniziarono ad emettere gorgoglii indefiniti e poi sempre più stridenti.
 
“Smettila con questo teatrino, bambina. I tuoi giochetti mentali non hanno più effetto su di me.”
 
Il braccio destro di Anthea scricchiolò ancora e le ombre gridarono all’unisono, scuotendo l’aria. L’influsso di Adam si spezzò di netto e la giovane riacquistò possesso del proprio corpo malconcio. Le figure fumose nella nebbia assunsero tratti definiti.
 
 
 
“Devi lasciarli andare.”
 
“Così sarà solo uno dei tanti…”
 
“Mentre cercavo di liberare Eta, ho sentito qualcosa venire fuori da me.”
 
 
 
“Cosa è questo?” c’era allarme nella voce di Lewis e l’istinto lo portò ad indietreggiare di qualche passo.
 
Anthea arricciò le labbra in una smorfia difficile da interpretare. Si lasciò cadere in ginocchio e la mano destra premette contro l’addome, mentre il braccio sinistro penzolava rotto contro il fianco. Scoppiò a ridere e lacrime salate scivolarono dagli occhi, rigandole le guance pallide.
 
“Mi arrendo” sussurrò la giovane oneiriana e le ombre ammutolirono di colpo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Note
 
Ringrazio tutti coloro che sono arrivati alla fine di questo ennesimo capitolo scritto in tempi biblici 😊
Ormai si va verso la fine e spero davvero di riuscire a unire tutti i puntini nel modo giusto. I versi in inglese a inizio capitolo sono tratti dal testo della canzone “My never ending nightmare” dei Citizen Soldier.
 
Un sentito abbraccio❤️
 
Ella
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: Ella Rogers