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Autore: Parmandil    12/07/2023    0 recensioni
È l’ultima speranza di tornare a casa per gli avventurieri della Destiny, smarriti nel Multiverso. E sulle prime sembrano avercela fatta: popoli e pianeti sono quelli noti! Ma qualcosa di diverso aleggia su di loro, un’oscura specularità che trasforma gli amici in nemici, la vittoria in sconfitta.
Ritrovatisi nell’Universo dello Specchio, gli avventurieri affrontano la terribile prospettiva di rimanerci per sempre. Molte cose sono cambiate: l’Impero Terrestre è crollato e dalle sue ceneri è sorta la Confederazione, che promette quella pace e libertà mai viste nello Specchio. Ma i nostri eroi scopriranno che la falsa libertà è peggiore dell’aperta tirannia; specie se a elargirla è un vecchio nemico che si credeva sconfitto.
Ancora una volta è guerra aperta, e una corsa contro il tempo per salvare la Terra; sempre che gli abitanti vogliano essere salvati. Toccherà a Giely, la Vorta che ha sviluppato la propria individualità, affrontare le forze decise a estirparla. Intanto le pareti stesse del Multiverso iniziano a scricchiolare e la misteriosa specularità che lega le due realtà si affievolisce. Vada come vada, lo Specchio è infranto.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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-Capitolo 11: Fortuna favet fortibus
 
   Giely fronteggiò la dittatrice, con la sfrontatezza di chi non ha più nulla da perdere e vuol prendersi l’ultima soddisfazione prima della fine. Dette un’occhiata allo schermo e vide, come sperava, la flotta dei Pacificatori allo sbaraglio e le navi ribelli che si mettevano in salvo. Questo le bastava, come ricompensa.
   «Tu... eri l’ultima che mi aspettavo... il che rende il tuo tradimento ancora più infame...» mormorò Rangda, sputacchiando le parole per la collera.
   «Il tradimento, come la bellezza, è negli occhi di chi guarda» ribatté Giely con aria angelica, levandosi gli occhialini neri. «Dal mio punto di vista, siete voi ad avere tradito tutto il possibile e l’immaginabile. Io vi ho solo impedito di compiere l’ennesima carneficina».
   «Come hai potuto...».
   «Ognuno sfrutta i propri talenti, no? Alcune specie sono forti, altre veloci, altre ancora telepatiche. Noi Vorta siamo astuti e... come dire... infidi!» ridacchiò la dottoressa. «Sarà per questo che non siamo popolari. Non sono una combattente, quindi ho dovuto usare i miei strumenti». Mentre parlava si sfilò i guanti neri, lasciandoli cadere uno dopo l’altro.
   «Ti ho accolta sulla mia nave, ti ho dato la cittadinanza. Ti ho persino offerto d’esaudire il tuo più grande desiderio, un clone tutto tuo! Come puoi voltare le spalle a questo?!» inveì la Zakdorn.
   «Quel desiderio era frutto del condizionamento del Dominio. Mi avevano addestrata a credere che la mia unica prospettiva fosse allevare un clone di me stessa, in una successione infinita, ma non è così. Preferisco vivere una sola vita da individuo che cento, mille vite da ingranaggio senz’anima. Vedete come il vostro potere si dissolve, quando qualcuno rifiuta le vostre offerte?» fece Giely in tono soave.
   L’attimo dopo, tuttavia, la Vorta lasciò trasparire il suo astio. «Se avessi voluto, vi avrei avvelenata fin dal primo giorno. Ma sarebbe stato contrario al mio giuramento medico. Del resto, era più conveniente tenervi in vita. Ormai siete così demente e paranoica che danneggiate la vostra stessa causa. Prendete questa battaglia, ad esempio! Se aveste lasciato l’Ammiraglio Radek al suo posto, se gli aveste permesso di fare il suo lavoro, lui vi avrebbe servito una vittoria perfetta. Ma no, voi dovevate per forza sospettare di lui, interferire con la sua strategia, e rimuoverlo quando ha protestato! E così siete riuscita a perdere la battaglia. Naturalmente ci ho messo del mio, perché ciò accadesse. Il Protocollo Cenere è una mia creazione: ho tratto il DNA di Vash’Tot e ho spiato i suoi codici di sicurezza per impostare una procedura che bloccasse la nave».
   «E così hai fatto ricadere la colpa su di lui. Questo non viola il tuo giuramento medico, dottoressa Eris?» chiese Rangda, accennando al cadavere del dottore.
   «Io non ho ucciso Vash’Tot: siete stata voi» ribatté Giely. «Se aveste seguito la legge, lo avreste fatto arrestare e processare. Così sarebbe emersa la sua innocenza. Ma nella vostra impazienza e nella vostra ferocia lo avete fatto uccidere senza processo. Siete voi, “Eccellenza”, che vi fate il vuoto attorno. Mi è bastato acuire la vostra paranoia con qualche frase qua e là per indurvi a eliminare i vostri più validi collaboratori, quelli che potevano farvi vincere. Sapete, Eris non è solo un nome Vorta: era anche la dea terrestre della Discordia. Ironico, vero? Vi siete presa la Discordia in casa e vi stupite degli effetti».
   «Tu non sei una dea! Non sei nemmeno una persona!» ringhiò la dittatrice, perdendo l’ultimo briciolo d’autocontrollo. «Sei solo un grumo di cellule coltivate in laboratorio, che s’è rivelato difettoso e dev’essere buttato via! Una patetica creatura senza identità, senza famiglia, senza retaggio!» gridò, rivelando cosa pensava realmente dei cloni.
   «Oh, è qui che ti sbagli!» ribatté Giely, con un lampo di fierezza. «Quali che siano le mie origini, io ho avuto un padre. Si chiamava Ome’tikal e gli devo tutto ciò che sono. Gli ho voluto bene quand’era in vita e continuo a onorarlo ora che non lo è più. Tu, invece, hai saputo solo odiare e disprezzare il tuo, trasformando persino il suo funerale in una buffonata narcisista. Perciò chiediti chi fra noi è la persona, e chi è il mostro».
 
   Ci fu un lungo silenzio, mentre le luci d’emergenza del Moloch lampeggiavano e gli schermi sfrigolavano per il virus che aveva infettato il computer. Rangda non capì perché Giely avesse tirato in ballo suo padre; non che pensasse spesso a lui. Erano passati più di ottant’anni da quando aveva affrettato la sua morte col veleno, per ereditarne il patrimonio e finanziare la sua ascesa politica. Da quell’esperienza aveva imparato che nessuno, nemmeno le persone a lei più vicine, potevano impedirle di liberare la Galassia. Fortificata da quel pensiero, la Zakdorn riprese la parola: «Ti credi furba, ma il tuo misero piano s’è rivoltato contro di te. Per impedirci di riavviare il computer ti sei dovuta esporre, e così eccoti qui. Ora sconterai il prezzo delle tue malefatte».
   «Vuoi uccidermi? Accomodati. Tanto fra poco moriremo tutti» disse Giely, accennando allo schermo. La battaglia era quasi finita. Tutte le navi-drone dei Pacificatori erano state disintegrate, senza aver sparato un colpo. Anche i vascelli con equipaggio erano ormai distrutti, tranne una decina che si era assiepata attorno al Moloch, in un’estrema difesa. Quanto ai ribelli, le loro astronavi superstiti si erano messe in salvo. Restavano solo la Destiny e la Scorpion, che si avvicinavano per chiudere i conti.
   «Il Moloch è corazzato in neutronio, non lo distruggeranno facilmente» avvertì la Zakdorn, stringendosi nelle braccia. «Se sopravviviamo, non ti condannerò a morte. No, la tua punizione dev’essere più severa. Sai che ti farò?». Si avvicinò a Giely, parlando con voce strascicata e fissandola con gli occhi iniettati di sangue. «Ti farò amputare chirurgicamente braccia e gambe, tenendoti in vita. Poi ti farò asportare gli occhi, i timpani e la lingua. Ti farò completamente immobilizzare in una capsula medica, dove sarai alimentata per via endovenosa. Tutti i tuoi sensi saranno bloccati, i tuoi movimenti impediti. L’unica cosa che potrai fare sarà riflettere sul tuo tradimento, e su come si sia ritorto contro di te. Questa condizione durerà per il resto della tua miserabile vita; allora capirai quanto sei stata folle a cercare d’ostacolarmi.
   Molti mi hanno creato fastidi, ma nessuno può realmente sconfiggermi, e sai perché? Perché io dono la speranza di un futuro migliore, un futuro libero dall’oppressione umana, e la speranza non può mai essere soffocata. Se anche morissi oggi, un’intera generazione è stata educata a condividere i miei valori e a portare avanti il mio lavoro. Ecco perché, a ben vedere, io ho vinto ancor prima che tu nascessi. Addio e buona agonia».
   Ciò detto, la dittatrice voltò le spalle a Giely e si allontanò, completamente soddisfatta e in pace con se stessa. «Liberate l’Ammiraglio Radek e conducetelo qui, così che possa reintegrarlo nelle sue funzioni. E qualcuno mi levi questa roba dai piedi!» ordinò, inciampando nel cadavere di Vash’Tot.
   Alle sue spalle Giely rimase immobile, ancora sulla pedana di teletrasporto, tenuta sotto tiro dalle guardie. Se anche si fosse gettata contro di loro l’avrebbero stordita, anziché ucciderla, così da soddisfare i sadici piani di Rangda nei suoi confronti. Poteva solo sperare che la Destiny distruggesse il Moloch, prima che gli ordini della dittatrice fossero eseguiti dai suoi zeloti. Una singola lacrima scivolò sul viso d’alabastro della Vorta, al pensiero di ciò che l’attendeva. Ma Giely non chiese pietà a coloro che non ne avevano.
 
   Dopo due giorni di viaggio a cavitazione quantica, il Centurion era prossimo a Dytallix. Il Capitano Rivera avrebbe dovuto essere soddisfatto del successo, invece sentiva crescere l’inquietudine. Aveva lasciato la Destiny in una situazione difficile, a vigilare una base che forse non era più segreta. E se nel frattempo i Pacificatori avessero attaccato in forze? Se al suo ritorno avesse trovato la base distrutta, i relitti in orbita e nessun segno della sua nave?
   «Siamo quasi a Dytallix» avvertì Shati. Alla timoniera erano serviti due giorni di cure per riprendersi dalla lotta animalesca con la sua alter-ego, e ancora non si era ristabilita del tutto.
   «Bene, chiamami quando saremo lì» raccomandò il Capitano. Lasciò la cabina per recarsi nel comparto centrale del Centurion, occupato dalla camera di risonanza armonica. La luce azzurra si era affievolita in quei due giorni, man mano che le Molecole Omega venivano neutralizzate; ma era ancora lungi dall’estinguersi. «Ehilà, Irvik. Come va qui?» volle sapere.
   «Insomma... a rilento» mugugnò il Voth, chino sulla consolle. «Speravo di smaltire Omega prima che tornassimo, ma il processo è stato più lento del previsto. Ci sono ancora un centinaio di Molecole, abbastanza da lacerare il subspazio nel raggio di un anno luce. E l’esplosione in sé distruggerebbe qualunque astronave, quindi raccomando di tenerle qui, finché non le avrò neutralizzate tutte».
   «Certo, non avrei rischiato la Destiny in nessun caso» annuì Rivera. «Spero solo che gli altri stiano bene...» mormorò.
   «Oh, i nostri compagni sanno badare a se stessi» commentò Irvik. «È per Giely che ti preoccupi, non è così?».
   «Ha passato un anno sulla Terra, aspettando invano che tornassi a prenderla. E ora è sul Moloch, irraggiungibile. Certo che sono preoccupato!» ammise il Capitano. «Ormai avrà smesso di sperare in un salvataggio... crederà che l’ho abbandonata».
   «Ma non è così. E ora che sappiamo dov’è...» lo incoraggiò l’Ingegnere Capo.
   «Ma noi non sappiamo dov’è!» si disperò Rivera. «Il Moloch è sempre in movimento, per evitare agguati. Non abbiamo la minima idea di dove si trovi, di quale sia la sua rotta. In questo momento potrebbe essere all’altro capo della Confederazione. Potremmo passare anni a cercarlo, senza...».
   «Shati a Rivera, siamo arrivati a destinazione» lo interruppe la chiamata.
   «Sì, arrivo» rispose l’Umano, premendosi il comunicatore. Guardò fuori dall’oblò, dove il tunnel di cavitazione aveva lasciato il posto allo spazio normale. Quel che vide gli mozzò il fiato. Lo spazio attorno a Dytallix era ingombro di detriti d’astronavi, come nei suoi incubi. C’era stata davvero una battaglia... anzi, era ancora in corso! Aguzzando la vista, il Capitano notò un gruppetto di vascelli ancora impegnati in una lotta accanita. Strano che fossero così pochi: la flotta ribelle era fuggita, o tutti quei detriti erano ciò che ne rimaneva?
   «Oh, mio Dio» mormorò Rivera, temendo il peggio.
   Lui e Irvik si precipitarono in cabina. Vi trovarono Shati e il copilota che avevano già inserito l’Allarme Rosso, attivando armi e scudi. «Rapporto! Che navi sono quelle?!» chiese il Capitano. Sedette alla postazione tattica, mentre Irvik occupava quella sensori e comunicazioni.
   «Ci sono la Destiny e la Scorpion, che affrontano dieci navi dei Pacificatori» rispose Shati, concentrata sulla guida. Per avvicinarsi, il Centurion doveva zigzagare tra una quantità impressionante di relitti e detriti spaziali. Per quanto la timoniera fosse abile, ogni pochi attimi qualche frammento colpiva gli scudi, facendo sussultare la navicella. D’un tratto videro la bionave che apriva il fuoco, disintegrando un altro vascello confederale.
   «Nessuna traccia delle navi ribelli?» chiese Rivera.
   «Niente, ma... i relitti sembrano quasi tutti dei Pacificatori» notò Irvik, consultando i sensori.
   «Speriamo davvero. Avviciniamoci, dobbiamo aiutare i nostri» ordinò il Capitano. Sondò le rimanenti navi confederali, per decidere quale attaccare. Difficilmente l’avrebbe distrutta col Centurion, ma almeno poteva distrarla, attirandone il fuoco. In quella notò che al centro della flottiglia confederale c’era un vascello molto più grosso degli altri e stranamente inerte. Oltre a non sparare, non sembrava avere nemmeno gli scudi attivi. Procedeva per inerzia, lasciandosi centrare dagli occasionali colpi della Destiny. La sua forma compatta e squadrata, il colore scuro, erano stranamente familiari. Possibile che...
   Preso dal sospetto, Rivera lo esaminò ancora più a fondo, cercando di leggerne il nome dipinto sullo scafo. E finalmente lo trovò: CSS Moloch. La nave che si proponeva di cercare in tutta la Confederazione era lì, con gli scudi abbassati!
   «Ehi, quello non è...» notò anche Shati.
   «Caramba, se lo è! Portati nel raggio del teletrasporto!» ordinò il Capitano. «Appena saremo a distanza abbasserò gli scudi» disse, sapendo che doveva essere rapido a riattivarli. «Irvik, cerca segni vitali Vorta a bordo» aggiunse, sperando che non fosse troppo tardi.
   «Ce n’è uno in plancia» rilevò il Voth.
   Rivera sentì il cuore battergli forte. Doveva essere lei. «Sta’ pronto a trasferirla» ordinò. «Ah, un’altra cosa... apri un canale con la Destiny. Ho un’idea per smaltire le Molecole Omega».
 
   Sulla plancia della Destiny c’era concitazione. Contro ogni pronostico, le navi-drone erano distrutte e la flotta ribelle era perlopiù in salvo. Ma le ultime navi dei Pacificatori erano un osso duro, specialmente ora che la Destiny aveva accumulato danni.
   «Breccia sul ponte 9, phaser laterali fuori uso!» riferì l’ufficiale tattico. Era solo l’ultima di una lunga lista di danni.
   «Cough, c’è qualche buona notizia?!» chiese Losira, tossendo per l’odore acre delle consolle esplose e dei circuiti bruciati.
   «Gli Exocomp hanno riparato il nucleo. Adesso, volendo, possiamo aprire un passaggio interdimensionale» riferì Talyn.
   «Già, proprio adesso che non ci serve più a niente!» commentò la Risiana, reggendosi ai braccioli della poltroncina mentre la nave sussultava per un’altra bordata. Da quand’erano nello Specchio, non avevano mai subito così tanti danni. L’infermeria era ingombra di feriti e c’erano almeno tre morti accertati. Ma dovevano trattenere i Pacificatori, mentre i ribelli fuggivano. E il Moloch disabilitato era un bersaglio troppo ghiotto, anche se finora gli avevano assestato solo pochi colpi di phaser, che non avevano intaccato la sua corazza in neutronio.
   «Sta arrivando una navicella... è il Centurion!» riconobbe Talyn, levandosi il sudore dalla fronte. «Ci stanno chiamando».
   «Apri un canale» disse Losira, ansiosa di aggiornamenti.
   «Grazie a Dio siete salvi!» disse il Capitano, apparendo sullo schermo. «Non c’è tempo per raccontare, quindi ascoltatemi bene. Ho un centinaio di Molecole Omega a bordo e una mezza idea su come smaltirle. State pronti ad aprire un passaggio interdimensionale, alle coordinate che vi trasmetto...».
 
   L’appena reintegrato Ammiraglio Radek uscì dal turboascensore, entrando a passo svelto nella plancia del Moloch. Dette una rapida occhiata allo schermo, una ancor più rapida a Giely, e poi si concentrò sulla Presidente. «Mi hanno aggiornato sulla situazione. Quante navi ci restano?» chiese, con un’espressione da «te l’avevo detto che senza di me avresti combinato un casino».
   «Dieci» rispose Rangda a malincuore. Fu in quell’attimo che la Scorpion aprì il fuoco, disintegrando l’ennesimo vascello. «Nove» si corresse la Zakdorn, livida in volto.
   «L’unico modo di salvarci è ripristinare i sistemi tattici, o almeno la propulsione. C’è modo di riparare il computer?» chiese il Rigeliano.
   «I tecnici dicono che...» cominciò un ufficiale.
   «Non m’interessano i tecnici. Che ne pensa la sabotatrice?» chiese l’Ammiraglio, dirigendosi verso Giely. «Allora, dottoressa Eris, ha un antivirus?».
   «No, e anche se l’avessi non ve lo darei» rispose la Vorta. «Comunque il mio vero nome è Giely».
   «Bene, dottoressa Giely, adesso le spiego come funziona. Se rifiuta di collaborare, la frusteremo finché non cambierà idea» minacciò l’Ammiraglio, impugnando una frusta neurale. Anche le Guardie Presidenziali impugnarono quegli strumenti di tortura.
   «Crede di spaventarmi? Se sopravviviamo, Rangda mi ha già promesso una sorte peggiore della morte» rivelò Giely.
   «Ha fatto questo?!» gridò Radek, rivolgendosi alla dittatrice. «Lei è davvero una vecchia rimbambita! Adesso la Vorta non parlerà più, neanche sotto tortura!».
   «Tenga a freno la lingua, se non vuole che la rispedisca in cella!» berciò la Zakdorn. «Pensi a farla parlare, piuttosto! La scortichi viva, se necessario!» lo incitò.
   Fremente di rabbia, l’Ammiraglio si rivolse nuovamente a Giely. «Non avrei mai voluto arrivare a questo punto, dottoressa, ma lei non mi lascia altra scelta» disse, preparandosi a frustarla.
   «Davvero non voleva? Lei ha preso migliaia di decisioni in vita sua, Ammiraglio, e tutte l’hanno condotta qui» ritorse Giely. «Ogni volta che ha dovuto fare una scelta, lei ha fatto quella più spietata. Quindi non mi venga a dire che “non voleva”. S’è messo al servizio di un mostro, sapendo che genere di ordini le avrebbe dato» disse, accennando a Rangda. «E sa qual è l’unica cosa peggiore di un mostro? I mostriciattoli zelanti che fanno il lavoro sporco per lui. Siete voi che date il potere alla dittatrice!» esclamò, rivolta a tutti i Pacificatori.
   «Non ascoltatela! È una manipolatrice piena d’odio, che vuole renderci tutti schiavi degli Umani!» ululò Rangda, dal fondo della plancia. «La dovete punire! Fatemi sentire le sue urla!» ordinò con la bava alla bocca, puntando il dito simile a un artiglio.
   L’Ammiraglio e le guardie attivarono le fruste neurali e le fecero schioccare, pronti a colpire. Ma Giely fissava lo schermo alle loro spalle, su cui vedeva avvicinarsi il Centurion. E quando sentì il formicolio del teletrasporto, seppe d’essere salva. «Addio e buona dannazione» disse, mentre il bagliore azzurro l’avvolgeva, traendola dalla nave condannata.
 
   La dottoressa si ritrovò nel comparto mediano del Centurion, che stranamente era vuoto. Il tavolo da pranzo e le sedie erano stati rimossi, come per fare spazio a qualcosa di voluminoso. Ma al momento c’era solo lei. Fece qualche passo, guardandosi attorno. Stentava a credere che il suo esilio fosse terminato.
   «Giely?» chiese una voce familiare alle sue spalle.
   La Vorta si girò di scatto e vide Rivera sulla soglia; doveva essere appena giunto dalla cabina. Aveva i capelli più corti di come lo ricordava, gli occhi cerchiati dalla stanchezza e dai dolori, ma era lui. «Ti aspettavo» disse Giely con voce tremante; la sua vista si appannò di lacrime.
   «Non sapevo che tu fossi ancora... voglio dire, ho saputo di te solo pochi giorni fa» mormorò il Capitano, avvicinandosi cautamente. «Ti ho pianta per un anno, senza sapere che dovevo cercarti. Perdonami se non l’ho capito prima. Ti amo più che mai, querida, e vorrei che tornassimo insieme... se sei d’accordo».
   Giely avrebbe voluto rispondere, ma aveva un groppo in gola per l’emozione. Così si limitò ad annuire, mentre calde lacrime le bagnavano il volto. L’attimo dopo erano l’una nelle braccia dell’altro, a stringersi forte, a baciarsi, a mischiare le loro lacrime di gioia.
 
   Nello spazio, la Destiny si disimpegnò dal combattimento, allontanandosi da Dytallix. Agli occhi dei Pacificatori sembrava una ritirata. Ma quando fu a una certa distanza, la nave federale fece dietrofront e si fermò. Invece di usare le armi, attivò il deflettore. Un raggio gravitonico balenò nello spazio, superando il Moloch e aprendo una fenditura interdimensionale poco più avanti. Il vortice dorato si aprì come un imbuto, formando il passaggio verso un’altra realtà. La destinazione era quel cosmo nero, privo di stelle e pianeti, che gli avventurieri avevano battezzato il Vuoto.
   Se il Moloch avesse avuto ancora il controllo della propulsione, avrebbe deviato la sua traiettoria, schivando facilmente il passaggio. Ma era ancora paralizzato dal sabotaggio di Giely. Il suo unico moto era in linea retta, trascinato dall’inerzia. Una delle altre astronavi abbassò gli scudi, per teletrasportare in salvo la Presidente e il suo Stato Maggiore. Prima che potesse farlo, fu disintegrata dalla Scorpion. Allora gli ultimi sette vascelli confederali fuggirono, abbandonando i propri leader al loro destino.
   Il Moloch proseguì la sua corsa, attraversando la soglia tra le realtà. Prima la prua, poi le fiancate massicce, infine la poppa dai propulsori scarlatti scomparvero nel vortice dorato. Era la prima nave confederale ad aver mai raggiunto il Vuoto. Pochi attimi dopo la Destiny lanciò un secondo impulso gravimetrico, di frequenza speculare al primo. Colpì il varco e lo destabilizzò a livello subatomico. Il vortice pulsò, si restrinse, infine collassò in un lampo. Il Moloch era svanito e solo gli avventurieri ne conoscevano la sorte. I loro tre vascelli – la Destiny, il Centurion e la Scorpion – si allontanarono a massima velocità da Dytallix, lasciandosi dietro i resti contorti della battaglia.
 
   Vedendo Giely che svaniva nel teletrasporto, Radek e le guardie gettarono le fruste neurali e impugnarono i phaser. Non fecero in tempo ad aprire il fuoco. Dietro di loro, Rangda lanciò un grido animalesco di collera. Ma le sorprese erano appena iniziate. Il trasferimento della Vorta, infatti, era stato bidirezionale: una funzione che i teletrasporti confederali non possedevano. Vale a dire che Giely era stata scambiata di posto con qualcos’altro. Sembrava una camera di contenimento, posta su una base a otto raggi che occupava tutta la pedana. La camera in sé era una bolla semitrasparente, attraverso cui filtrava un’intensa luce bianco-azzurra.
   «E questo cos’è?!» chiese l’Ammiraglio, avvicinandosi cautamente. Alle sue parole alcuni tecnici e ufficiali si accostarono, esaminandolo per cercare la risposta. Prima che potessero scoprirlo, furono distratti da un allarme del timoniere: «Davanti a noi!».
   I Pacificatori si girarono verso lo schermo principale e videro avvicinarsi un vortice dorato, attraverso cui spiccava una chiazza nero pece, senza nemmeno una stella. «Ditemi che non è vero...» mormorò Radek, sentendosi le gambe molli.
   «La Destiny lo ha aperto un attimo fa, con un raggio gravimetrico» riferì l’addetto ai sensori, mentre lo analizzava. «È confermato, si tratta di un varco interdimensionale. Lo attraverseremo fra trenta secondi».
   «Cambiate traiettoria!» gridò Rangda.
   «Eccellenza, non si può. Siamo sempre senza propulsione».
   «Beh, allora... abbandoniamo la nave!».
   «Non c’è tempo, e comunque gli hangar sono ancora sigillati».
   La Zakdorn fissò l’Ammiraglio, come aspettandosi che lui trovasse magicamente la soluzione. Questi rifletté brevemente, poi dette un ordine: «Decomprimere la stiva di carico 1. La spinta dell’aria ci farà deviare».
   Gli ufficiali eseguirono, ma quando iniziarono la decompressione il Moloch stava già attraversando il varco. La spinta inoltre fu risibile, data l’enorme massa dell’astronave. Così il vascello corazzato attraversò la soglia tra le realtà, ritrovandosi dall’altra parte. I Pacificatori fissarono lo schermo, intimoriti. Davanti a loro si stendeva un’oscurità infinita e terribile.
   «E adesso dove siamo finiti?!» chiese Rangda.
   «Dove ha scelto il nemico» borbottò Radek.
   «Ammiraglio, il varco... s’è chiuso dietro di noi» disse l’addetto ai sensori.
   «Come, chiuso?!» ripeté stupidamente la Zakdorn.
   «S’è chiuso, per le stelle! È il contrario di aperto!» tuonò il Rigeliano, esasperato. «Ora siamo esiliati in questo cosmo sconosciuto, senza alcuna possibilità di tornare! Questa nave sarà pure all’avanguardia, ma non può viaggiare tra le realtà!».
   «Vuol dire che non torneremo mai più alla Confederazione? No, mi rifiuto d’accettarlo. Ho troppe cose da fare, non posso arrendermi così» disse Rangda. «Dopo aver ripulito il computer, modificheremo il nucleo e il deflettore. Abbiamo in memoria i progetti della nostra Destiny, prima che andasse smarrita. Li useremo per adattare il Moloch. Non mi credete?!» chiese, rivolgendosi a tutti i presenti. «Eppure dovreste sapere che è il destino a volermi in sella alla Confederazione. Quest’esperienza non farà che renderci più uniti. Torneremo indietro, più forti di prima, e allora...».
   Il suo monologo fu interrotto dal ronzio, sempre più insistente, della camera di contenimento. I Pacificatori se n’erano quasi dimenticati, ma quel suono preoccupante richiamò la loro attenzione. Corsero alla camera armonica, splendente d’azzurro, e la esaminarono.
   «Allora, di che si tratta?» chiese Rangda, accostandosi a sua volta.
   L’Ammiraglio le indicò una piccola consolle collegata alla camera, su cui spiccava una lettera omega azzurra. «È la Molecola Omega, Eccellenza. E qualcosa mi dice che sono proprio quelle che abbiamo prodotto sulla Terra» disse cupo.
   «Non è possibile!» ansimò la Zakdorn, chinandosi a leggere. «Come ce le hanno portate?!».
   «Ha importanza? Ci sono ancora un centinaio di molecole, qui dentro. Abbastanza da vaporizzare questa nave. E si stanno destabilizzando» rivelò il Rigeliano.
   «Beh, stabilizzatele, idioti! Non state lì impalati!» gridò la dittatrice.
   In realtà i Pacificatori erano già al lavoro, ma la camera armonica aveva una sequenza di spegnimento impostata e non sapevano come fermarla. Il ronzio divenne sempre più forte, l’agitazione crebbe.
   «Quanto tempo abbiamo?» chiese Rangda, tremando come una vecchia foglia secca, sul punto di cadere.
   Senza dire nulla, Radek le indicò un piccolo contatore. Nei suoi occhi balenava una muta accusa.
   La Zakdorn si accostò per leggere e si sentì mancare. Mancavano dieci secondi al cedimento dei campi armonici. Il tempo, il predatore contro cui aveva lottato per tanti anni, l’aveva finalmente agguantata. Nove... otto... sette...
   «Sa, l’importante non è trionfare sul campo di battaglia» mormorò la dittatrice, osservando i numeri che correvano verso lo zero. Sei... cinque... quattro... «Ciò che conta è la vittoria morale, e quella è certamente nostra» concluse. Tre... due... uno...
   «Vorrei crederci» bisbigliò l’Ammiraglio, sapendo in cuor suo che non era così. Chinò il capo e chiuse gli occhi, accettando la sconfitta.
   Zero.
 
   Cinque giorni dopo la Destiny orbitava attorno a Rator III, nella Repubblica Romulana. La flotta ribelle si era radunata lì, dopo l’evacuazione di Dytallix. Il bilancio della battaglia era pesante: su settanta navi della Catena Cremisi, trenta erano state distrutte. Le rimanenti, come anche la Destiny, avevano sbarcato i civili salvati dalle persecuzioni confederali. I Figli della Cura avrebbero potuto crescere, sia pure esiliati dai loro mondi. Ora le astronavi indugiavano nell’orbita, poiché necessitavano di riparazioni.
   La Destiny aveva subito danni considerevoli, tanto che sarebbero servite due settimane per rimetterla in sesto, nonostante l’opera infaticabile degli ingegneri e degli Exocomp. Anche la Scorpion aveva riportato danni, ma si stava riparando da sola, grazie alla sua tecnologia organica. Bastava esporla alla luce solare e fornirle alcuni supplementi organici affinché i tessuti lesionati si rigenerassero. Solo il Centurion era intatto; l’unica incombenza fu risistemare il tavolo e le sedie nella sezione mediana.
   Le vittime della battaglia, escludendo il traditore Atrevius, erano salite a cinque. Sommando i caduti nella missione sulla Terra, diventavano sedici. Si trattava della più grave perdita che avesse mai colpito l’equipaggio, da quand’era iniziata la loro odissea nel Multiverso. All’atto pratico non sorgevano problemi a governare la nave, poiché nell’ultimo anno parecchi avventurieri dello Specchio si erano uniti alla Destiny, rinsanguandone l’equipaggio. Ma era un duro colpo per il morale di bordo.
   Particolarmente cocente fu la morte di Svetlana, la Consigliera che per prima li aveva aiutati a comprendere quella realtà, guidandoli nei momenti più difficili. A Rivera dispiaceva non poterla seppellire sulla Terra, sapendo quanto lei vi tenesse. Dovette invece lasciarla su quella colonia aliena, con una lapide su cui incise il suo motto preferito: Fortuna favet fortibus, la sorte aiuta gli audaci. Al funerale partecipò una folla imponente, poiché oltre ai compagni della Destiny c’erano Wolff e altri ribelli, e persino alcuni ufficiali Romulani in borghese. Nel suo discorso, il Capitano cercò di spiegare quanto fosse stato cruciale il ruolo della Consigliera, dai suoi primi giorni sulla Destiny fino all’ultima missione. Tuttavia ricordò qualcosa che Svetlana stessa gli aveva detto: «È inutile contare sulla memoria dei posteri, giacché gli uomini non conoscono nemmeno se stessi; come potrebbero conoscere chi è già morto?».
   Al termine della cerimonia, Rivera e Giely si trattennero presso la tomba. Il Capitano aveva raccontato alla compagna le circostanze della morte di Svetlana, per quanto gli dolesse ricordare quei momenti. «Che ne è stato di Aspen?» chiese a un tratto la Vorta, rompendo il silenzio.
   «È stata cremata, le sue ceneri disperse. Qualcuno aveva suggerito di seppellirla accanto alla madre, ma...».
   «No, meglio così. Qualunque cosa fosse diventata Aspen, non era più sua figlia» disse Giely tristemente, ricordando l’odio implacabile dell’Umana per la sua stessa specie.
   «Mi dispiace che Svetta non possa riposare sulla Terra» mormorò Rivera, osservando la semplice lapide grigia su cui aveva inciso con le sue mani il motto latino.
   «Non dolerti per i morti» consigliò la Vorta, rivolgendo un caro pensiero a Ome’tikal. «Semmai fallo per i vivi che soffrono. Tu sei stato due volte sulla Terra, ma io ci ho trascorso un anno intero. Se avessi visto in che condizioni miserevoli vivono i Terrani... al buio e al gelo... nutrendosi d’insetti... contaminati dalle polveri tossiche... indottrinati a odiare se stessi. Forse è un bene che Svetta riposi qui».
   «Eppure dev’esserci un modo per aiutare la Terra!» disse il Capitano, dandosi un pugno sul palmo. «Forse possiamo fare qualcosa per il cielo coperto, da cui derivano gli altri problemi ambientali. E se i Terrani potranno rivedere le stelle, chissà che non ritrovino un briciolo d’audacia e di speranza...» rimuginò.
 
   Quattordici giorni dopo, la Destiny giunse occultata nel sistema solare. I sensori indicarono che i Pacificatori non erano ancora tornati, dopo l’evacuazione di tre settimane prima, quando avevano cercato di distruggere l’umanità con le Particelle Omega. Non c’era un solo vascello militare in tutto il sistema e anche il presidio sull’Himalaya era pressoché abbandonato.
   «Questo è strano» commentò Losira. «Non vorrei che fossero occultati, pronti a tenderci un agguato».
   «Le scansioni anti-occultamento danno esito negativo» notò Talyn. L’esperienza dell’ultimo anno aveva insegnato che, nello Specchio, i dispositivi d’occultamento erano meno avanzati, tanto che i sensori della Destiny riuscivano a penetrarli.
   «La morte di Rangda ha scatenato la lotta per la successione. È probabile che i Pacificatori siano troppo occupati a combattersi per mandare navi e truppe a rioccupare il sistema solare» disse Naskeel.
   «Dobbiamo correre il rischio. Avviciniamoci alla Terra» decise il Capitano.
   Giunta nell’orbita terrestre, la Destiny uscì dall’occultamento. Il Centurion e la Scorpion lasciarono gli hangar, per offrire copertura in caso di attacco. Ma non ce ne fu bisogno. La Destiny aveva ormai una tale fama che, in mancanza dei Pacificatori, ci fu un fuggi-fuggi di navi mercantili. Shati orientò la nave in modo che il deflettore puntasse direttamente contro il polo nord, dove c’era il massimo addensamento di ceneri. Vista da lì, la Terra era una palla grigia e smorta; si stentava a credere che sotto quella cappa tossica vivessero delle persone. Ma tutto questo stava per cambiare.
   «Lanciare l’impulso ionico» ordinò Rivera.
   «Bene, Capitano» disse Irvik, avviando la procedura dalla sua postazione di plancia.
   Il deflettore della Destiny brillò, emettendo una scarica ionizzante che andò a colpire lo strato di polveri. Dall’area colpita si allargarono dei bagliori azzurri. Erano tempeste di fulmini, dovute all’accumulo di carica statica tra le polveri. Gradualmente le nubi assunsero tonalità più calde, fra il giallo e l’arancio. Era un buon segno: le particelle volatili stavano formando plasma. Ben presto la Terra parve un globo incandescente.
   «È sicuro tutto questo?» chiese Giely, che assisteva dalla poltrona del Consigliere.
   «Sicurissimo. Il plasma si trova solo negli strati atmosferici più alti; la superficie è intatta» la rassicurò Irvik. Di lì a poco riprese la parola: «È quasi il momento. Avviciniamoci per assorbire la scarica di plasma».
   «Mettiamo il dito nella presa, così non andrà in corto circuito!» borbottò Shati, ma fece quanto richiesto. Raddrizzò la Destiny, in modo da rivolgere il ventre della nave alla superficie terrestre, e poi la calò nell’atmosfera, fermandosi a un’altitudine di 40 km.
   «A momenti il plasma ci verrà contro, attirato dagli scudi. Reggetevi, dobbiamo assorbire tutta l’energia atmosferica» avvertì l’Ingegnere Capo.
   Le nubi incandescenti si sollevarono, formando un immenso cono la cui estremità si mosse come un serpente nell’atmosfera, cercando una via per scaricarsi. Trovò la Destiny e la colpì con una scarica da milioni di terajoule. L’astronave vibrò mentre gli scudi assorbivano l’energia.
   «Non c’è pericolo per noi, vero?» chiese Losira.
   «Tsk, questa nave ne ha viste di peggio» la rassicurò Irvik. «Dobbiamo solo lasciare che il plasma si scarichi. Guardate, cominciano già a vedersi gli effetti!» disse, indicando lo schermo con la mano tridattila.
   Effettivamente nel manto nuvoloso si stavano aprendo delle chiazze, per la prima volta da trent’anni. Le schiarite divennero sempre più ampie, unendosi progressivamente tra loro. Quanti vivevano a terra alzarono gli occhi con stupore e meraviglia, proteggendosi dal sole a cui non erano più abituati. Alcuni furono presi dal panico e fuggirono in casa, o in qualunque altro luogo chiuso, come Morlock timorosi della luce. Chi aveva meno di trent’anni, ed era sempre vissuto sulla Terra, non aveva mai visto il cielo sgombro. Non conosceva il fulgore del sole, né il chiarore di luna e stelle. Ma per tanti che fuggivano dalla luce, altri – che la ricordavano o ne avevano udito parlare – uscirono ad ammirarla, gettando i pesanti cappotti. Presto il calore cominciò a sciogliere la neve e i ghiacci che imprigionavano il pianeta. Per la prima volta da trent’anni era primavera. Qua e là spuntarono le prime timide gemme, i primi germogli verdi.
   «È fatta, l’atmosfera boreale è ripulita!» esultò Irvik. «Ora dobbiamo fare lo stesso con quella australe».
   Shati riprese quota, riportando la Destiny in un’orbita stabile. Dopo un rapido controllo, che non evidenziò guasti, l’intera operazione fu ripetuta con l’altro emisfero. Solo allora l’atmosfera fu schiarita a sufficienza. In realtà c’era ancora molto da fare, poiché gran parte del suolo era avvelenato da decenni di piogge acide e dalla caduta di polveri contaminate. Ma questo era un compito di cui solo i Terrani potevano occuparsi, nei tempi a venire.
   Risalita ancora una volta nell’orbita, la Destiny stazionò a una distanza tale da consentire agli avventurieri di osservare il risultato delle loro fatiche. «Beh, ora somiglia un po’ di più alla nostra Terra» disse Rivera, commosso.
   «Ma gli abitanti faranno il resto del lavoro?» si chiese Irvik, dubbioso.
   «Speriamo. Talyn, trasmetti su tutte le frequenze» ordinò il Capitano. Fatto un profondo respiro, pronunciò il breve discorso che aveva preparato. «Salve, abitanti della Terra. Sono il Capitano Rivera della Destiny, e vi parlo a nome di tutto l’equipaggio. Non dubito che molti di voi, forse la maggior parte, ci detestano dopo ciò che la Confederazione vi ha detto sul nostro conto. Ma la verità è che, se non fosse per il sacrificio di molti dei nostri – tra cui voglio citare la dottoressa Svetlana Smirnova – la Terra sarebbe stata devastata da un disastro ecologico ordito dai Pacificatori. Se non ci credete, chiedetevi perché abbiano abbandonato il pianeta in massa, subito prima che il Centro Ricerche di Curvatura esplodesse. Abbiamo evitato le conseguenze peggiori, ma non basta.
   Siamo tornati per esaudire l’ultimo desiderio della nostra amica Svetta: offrirvi la possibilità di ricominciare. Come vedete, abbiamo ripulito l’atmosfera terrestre dalla cappa tossica che la copriva da trent’anni, e che i Pacificatori si sono sempre rifiutati di rimuovere. Ma c’è ancora tanto, tantissimo da fare prima che il vostro pianeta possa realmente rifiorire. Gli unici a potersene occupare siete voi, se decidete di rimboccarvi le maniche, anziché piangervi addosso. E ora lascio la parola alla dottoressa Giely, più nota come Eris, che ha vissuto sulla Terra e ha curato molti di voi».
   «Salve, concittadini; vi chiamo così perché anch’io sono cittadina della Confederazione» esordì la Vorta, emozionata. «Voglio dirvi solo una cosa. Ai tempi dell’Impero Terrestre, gli Umani erano orgogliosi del loro predominio e le altre specie vivevano nella vergogna della sconfitta e dell’asservimento. Ora i ruoli si sono invertiti: gli alieni sono orgogliosi e gli Umani si vergognano di se stessi. Come vedete, nessuno ha imparato niente. Se le cose continuano così, il pendolo della Storia tornerà a oscillare, finché una delle parti annienterà del tutto l’altra.
   Vi esorto quindi a rompere questo circolo vizioso, cercando la via della conciliazione. Vedete, l’orgoglio e la vergogna sono due facce dello stesso errore: l’incapacità di rapportarsi con gli altri. L’unico antidoto è una sana umiltà. Smettetela coi rancori, le vendette, le punizioni auto-inflitte, perché queste cose non hanno mai prodotto nulla di buono. Cominciate invece ad ascoltarvi, a perdonarvi, ad aiutarvi l’un l’altro. Siete gli unici che possano risanare la Terra, quindi cominciate oggi stesso, un passo alla volta. Addio, e buona fortuna!».
 
   Una volta che il Centurion e la Scorpion furono rientrati negli hangar, la Destiny lasciò l’orbita terrestre, puntando verso lo spazio aperto. Ma l’attendeva un’ultima sorpresa. Prima che potesse balzare a cavitazione, infatti, si trovò di fronte una flotta in assetto di guerra, appena arrivata.
   «Sono vascelli dei Pacificatori!» avvertì Talyn. «Quarantasette, tutti con equipaggio».
   «Allarme Rosso! Manovre evasive, andiamocene di qui!» ordinò Rivera.
   «Un momento, ci chiamano» disse l’El-Auriano. «Le navi mantengono la posizione, con le armi disattivate».
   «È un trucco, filiamo!» esclamò Losira.
   «No, un momento» fece Rivera, alzando la mano verso Shati per indicarle di aspettare. «Sentiamo che hanno da dire. Al primo cenno ostile balziamo a cavitazione».
   Sullo schermo apparve un’Elaysiana dai corti capelli grigi, con qualche traccia di biondo. «Salve, Capitano Rivera. Non mi aspettavo di trovarvi qui, ma... tanto meglio. Sono il Ministro degli Interni Hod, ora presidente ad interim della Confederazione» esordì.
   «Congratulazioni per la sua nomina» ironizzò Rivera. «Vuol ringraziarci per averle spianato la strada?».
   «In verità, devo ringraziarvi per avermi salvato la vita» rivelò l’Elaysiana. «Vedete, negli ultimi tempi ero entrata in contrasto con Rangda. Così, quando ha deciso di fare... quello che sapete alla Terra, ha fatto in modo che io mi trovassi lì sul pianeta. Se non vi foste occupati di Omega, sarei certamente morta. Stando così le cose, invece, la mia lontananza dal Moloch è stata la mia salvezza. Essendo la più alta carica dello Stato ancora in vita, ho assunto la presidenza in attesa delle prossime elezioni».
   «Il destino gioca strani scherzi. E ora che ha avuto quest’opportunità, come intende usarla?» chiese il Capitano, ancora cauto.
   «Ebbene, il maggior punto di dissenso tra me e Rangda era dato dalla Petizione dei Diecimila e dalla conseguente eliminazione dei Figli della Cura» rivelò Hod. «A mio giudizio, la Petizione manca di scientificità, per cui gli aborti forzati e la soppressione dei neonati sono un’ingiustificata barbarie. Del resto i recenti esami condotti sui neonati hanno confermato senza ombra di dubbio che sono sani. Alla luce di questi fatti, ho emanato un decreto legislativo che annulla il precedente. D’ora in poi il siero anti-sterilità sarà legale, sulla Terra e in tutta la Confederazione. Chi vuole avere figli potrà farlo in piena sicurezza, senza timore di persecuzioni. I responsabili della Petizione saranno espulsi dall’Ordine dei Medici e andranno incontro a severe sanzioni. Stiamo anche lavorando a qualche forma di risarcimento per chi è stato colpito da questa tragica vicenda, compresi quelli che hanno dovuto fuggire oltreconfine, e che ora possono rimpatriare».
   «Questa è la più bella notizia che sento dal nostro arrivo» disse Rivera. «Porterà consensi a voi, e pace alla Confederazione».
   «Naturalmente sarà difficile rilanciare l’economia, dopo tutti i sabotaggi che ci avete inflitto» aggiunse Hod, facendosi severa. «Omega si è rivelata troppo pericolosa, quindi dovremo guardare in altre direzioni. Tanto per cominciare, eliminerò quelle assurde limitazioni alla velocità di curvatura. Già questo dovrebbe sollevare l’economia d’interi settori. Sono anche pronta a intavolare trattative con la Catena Cremisi, per porre fine a questo conflitto dispendioso e togliere le limitazioni lavorative agli Umani. In sostanza voglio abolire lo stato d’emergenza e tornare alla Costituzione originale, modellata su quella della vostra Federazione».
   «Sarebbe la cosa migliore per tutti» convenne il Capitano. «Se le trattative con la Catena andranno a buon fine, posso sperare che anche noi della Destiny saremo graziati?».
   A questa domanda l’Elaysiana si rabbuiò. «Ahimè, temo che ciò non sia possibile. I vostri continui attacchi alle infrastrutture confederali vi hanno resi il Nemico Pubblico Numero Uno. E Rangda, in una registrazione diffusa dopo la sua morte, ha ordinato ai Pacificatori di braccarvi senza tregua. Già il fatto di legalizzare il siero anti-sterilità mi ha procurato dei nemici, e le trattative con la Catena me ne daranno altri. Non posso trasgredire all’ultimo ordine di Rangda, o la mia posizione si farà insostenibile. Se vincerò le prossime elezioni, forse un giorno sarò abbastanza salda da potervi graziare. Ma di certo non adesso» spiegò.
   «Beh, grazie per la franchezza» commentò Rivera. «Quindi adesso è qui per arrestarci? In tal caso, la avverto che opporremo resistenza».
   «Una nave contro quarantasette? Ma sì, credo che sareste capaci di darci battaglia» ammise Hod, con un misto di rispetto ed esasperazione. «Comunque non sarà necessario. Come ringraziamento personale per avermi salvato la vita, vi lascerò andare... per stavolta».
   «C’è un’altra strada, sa. Se ci desse le coordinate di ritorno per il nostro Universo, noi leveremmo il disturbo. Le posso garantire che non torneremo mai più a darvi fastidi» propose il Capitano.
   «Ah, poveri voi! Credete che non ci avessi già pensato?» fece Hod. «Una delle prime cose che ho fatto, una volta nominata Presidente, è stato cercare quelle coordinate per rispedirvi a casa. Purtroppo non le ho trovate».
   «Come sarebbe?! Lei può accedere alle informazioni più riservate!» s’indignò Rivera. «E sappiamo per certo che l’Impero Terrestre conosceva le coordinate della nostra realtà».
   «L’Impero le conosceva, sì. E ho ragione di credere che anche la Confederazione le sapesse, fino a poco tempo fa» convenne l’Elaysiana. «Ma adesso quell’informazione è sparita. Cancellata da tutti i database, anche i più segreti. Non posso esserne certa, ma... la mia ipotesi è che Rangda l’abbia fatta cancellare, al solo scopo d’intrappolarvi qui. È una cosa di cui sarebbe stata capace, nei suoi ultimi giorni di demenza e d’ossessione».
   «Groan... sì, è nel suo stile» convenne il Capitano, massaggiandosi le tempie. Anche da morta, la dittatrice riusciva a intrappolarli e a perseguitarli. «Allora non c’è altro da dire».
   «Temo di no, per il momento» disse Hod con tristezza. «Forse siete gli eroi che la Confederazione merita, ma non quelli di cui ha bisogno al momento. Perciò dovremo darvi la caccia, o almeno fingere di farlo. Andate, adesso. Vi darò... diciamo un’ora di vantaggio, prima di cominciare l’inseguimento».
   «Addio, allora. O forse arrivederci» concluse Rivera.
   «Arrivederci, spero, a un giorno in cui potremo incontrarci senza che uno di noi debba fuggire dall’altro» augurò la nuova Presidente della Confederazione. 
 
   
 
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