Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Non Molto    15/07/2023    0 recensioni
"Non appena la famiglia si allontana, Lorena mi scruta per qualche secondo. Dopodiché, si fionda tra le mie braccia, stringendomi forte. «Grazie per avermi riportato la mia mamma anche stavolta» sussurra al mio orecchio. «Tu sei il mio eroe, ed io sarei persa senza di te. Ci vediamo, zio Levi», e poi scappa via raggiungendo le sue madri, che la stanno aspettando a braccia aperte.
Io mi rialzo da terra lentamente, sconvolto. Ricambio con un gesto meccanico gli ultimi saluti di Petra ed Ester, e poi riprendo il cammino verso il quartier generale.
Sono senza fiato. Forse, qualcuno che dentro le Mura aspetta il mio ritorno, ce l’ho anch’io".
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Levi Ackerman, Nuovo personaggio, Petra Ral
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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III

L’incontro di Eren

 

Anno 850

 

Sono trascorsi appena due giorni dall’udienza in cui il Comandante Supremo Zackley ha affidato la custodia di Eren al Corpo di Ricerca, e dunque a me e alla mia squadra.

Erwin è stato fermamente convinto che Eren Jaeger sarebbe stato destinato a qualcosa di grande dal momento in cui è venuto a sapere dell’esistenza del ragazzo.

Io all’inizio ero scettico, lo sono sempre. Drizzo subito le orecchie quando mi rendo conto che mi sto illudendo, motivo per cui non mi fido di ciò che non posso toccare con mano. L’esperienza mi ha insegnato che la vita non ci mette niente, a rimetterti al tuo posto con una delicatissima sprangata in pieno volto.

Poi però, mi sono ricordato uno dei motivi per cui ripongo così tanta fiducia nel giudizio di Erwin: neanche a lui piace illudersi. Inoltre, parlando di esperienza, quest’ultima mi ha anche insegnato che, se Erwin crede in qualcosa, è quasi certo che quel qualcosa andrà in porto. Quindi, in linea di massima, diciamo che in Eren ho cominciato a credere anch’io.

Perciò, eccomi qui: è sera, e sto cavalcando al fianco di Eren tra gli alberi di una foresta. Poiché sta piovigginando, entrambi teniamo in testa il cappuccio.

Siamo partiti stamattina all’alba, col resto della mia squadra, in direzione dell’ex quartier generale del Corpo di Ricerca, un sontuoso castello nascosto tra i meandri di una foresta.

È tutto il giorno che c’impegniamo per tirare a lucido quel vecchio rudere, e verso sera ho lasciato ai miei ragazzi un po’ di tempo per riposarsi. Io invece sono partito con Eren verso la città più vicina, che si trova a circa due ore di cavalcata dalla fortezza, per fare rifornimento di quei prodotti per pulire che abbiamo esaurito durante la giornata. 

Non mi spaventa il rimanere solo con Eren: per l’appunto, Erwin ha affidato la sua sorveglianza a me poiché io sono l’unico che sarebbe in grado di neutralizzarlo in caso d’emergenza.

C’è solo un piccolo ma estremamente fastidioso pensiero a tormentarmi, un pensiero con cui, ho già capito, dovrò imparare a convivere: tutte le possibili azioni di Eren, volontarie o involontarie, non avrebbero ripercussioni solo su di me, ma anche su Petra, Oruo, Gunther ed Erd. 

Per quanto io abbia piena fiducia nelle capacità di ognuno dei miei ragazzi, il timore che rimangano feriti o, peggio, uccisi, non smette di tormentarmi. Per me non mi preoccupo chissà quanto, io in qualche modo me la cavo. L’importante è che a loro non accada nulla di grave: è un dispiacere che non sopporterei di arrecare alle loro famiglie. Per non parlare del fatto che il senso di colpa arriverebbe a dilaniarmi.

C’è da tenere in considerazione un altro fatto, però: da quando ho incontrato Erwin, ho cominciato a riflettere un po’ di più. E ho realizzato che è tutta la vita che io mi sento in colpa.

Mi sono sentito in colpa quando mia madre è morta, ed io ero solo un bambino. Mi chiedevo perché non fossi riuscito a trovare la forza, mentre la vedevo morire sotto ai miei occhi, di uscire da quella stanza per andare a cercare aiuto.

Mi sono sentito in colpa quando Kenny se n’è andato, ed io ero a malapena un ragazzino. Mi chiedevo perché non fossi riuscito a dimostrargli quant’ero forte in realtà, perché forse, se mi avesse visto più forte, mi avrebbe apprezzato di più e non mi avrebbe abbandonato a me stesso.

Mi sono sentito in colpa quando Isabel e Farlan sono morti, e io non ero altro che un ragazzino un po’ cresciuto che si credeva un uomo. Mi chiedevo come avessi potuto permettere loro di uscire fuori dalle Mura, e come avessi poi potuto abbandonarli mentre eravamo dispersi nel mondo esterno, in balìa dei giganti.

Poi però ho incontrato Erwin, e da lui ho imparato una grande abilità: analizzare la realtà che mi circonda con un po’ più di logica, e senza farmi travolgere dai sentimenti come il ragazzino troppo impulsivo ed irascibile che ho sempre avuto il vizio di essere.

È stata davvero colpa mia, se mia madre è morta? Di un bambino denutrito a cui era stato detto di non rivelare il proprio cognome per nessuna ragione, perché altrimenti l’avrebbero ammazzato? O forse è stata colpa di una società sbagliata, fondata sui cardini di razzismo e misoginia, per cui se a morire era un membro della famiglia Ackerman tanto meglio, figurarsi poi se quell’Ackerman era una donna, prostituta per di più.

È stata davvero colpa mia, se Kenny se n’è andato? Di un ragazzino neanche adolescente che non esitava a sfoderare il coltello e tagliare gole, rubare e picchiare quando il vecchio Kenny glielo ordinava? Di un ragazzino neanche adolescente a cui non sono mai state concesse delle parole gentili, degli abbracci o del tempo per giocare insieme? O forse è stata colpa di Kenny, un adulto consenziente che dapprima ha deciso di farsi carico di un bambino e poi l’ha gettato via come se fosse immondizia, lasciandolo senza protezione in un mondo fatto di assassini e ladri?

È stata davvero colpa mia, se Isabel e Farlan sono morti? Certo, vederla così mi farebbe passare come l’eroe pentito che non esita a farsi carico delle proprie colpe e che con la sofferenza si flagella per espiarle, ma la verità è che dire che i miei amici sono morti per colpa mia equivarrebbe ad affermare che Isabel e Farlan non erano in grado di prendere decisioni da soli e che sono stato io a manipolare le loro scelte, e vederla così vorrebbe dire fare un enorme torto alla loro memoria. Isabel e Farlan hanno fatto le loro scelte in autonomia, sapendo a ciò che sarebbero andati incontro. Io mi sono fidato di loro e loro si sono fidati di me, e tutti e tre ci siamo fidati del destino, ma quest’ultimo ha deciso di cambiare le carte in tavola, e la verità è che nessuno ne ha colpa.

E la verità è che questo ragionamento resterà valido anche nel caso in cui a morire dovessero essere Petra, Gunther, Erd od Oruo.

Nessuno di noi sa dove le nostre scelte ci porteranno, nemmeno Erwin lo sa con certezza. E se i miei ragazzi dovessero morire, ci saranno state di mezzo non solo le mie scelte, ma anche quelle del Comandante Supremo Zackley, di Erwin, dello stesso Eren e degli stessi Petra, Gunther, Oruo ed Erd. E anche se ci fosse di mezzo solo la mia, di scelta, la colpa non ricadrebbe comunque su di me  — nel caso in cui non sia io a fare intenzionalmente del male ai ragazzi, è chiaro. E questo perché io, così come Zackley, Erwin, Eren e i miei ragazzi, cerco di fare del mio meglio. È possibile però che il destino mi si ritorca contro, e di questo io non ne ho colpa, perché non ho la facoltà di prevedere ciò che accadrà. L’unico obiettivo che ho, è quello di non avere mai rimpianti. Ed è per questo che prendo una decisione solo nel momento in cui ho la certezza che, comunque il destino decida di giocare con me, non gli darò mai la soddisfazione di pentirmi di ciò che ho scelto in passato.

Mentre ero perso tra i miei pensieri, il piovigginare si è tramutato in un vero e proprio acquazzone scrosciante. Ora io ed Eren ci troviamo a metà strada, dovrebbe mancare ancora un’oretta. Il problema è proprio la pioggia: non voglio che Eren si prenda un accidente, mandando così in fumo i piani del Corpo di Ricerca.

Fortunatamente, nelle vicinanze si trova il villaggio in cui vive la famiglia di Petra. Solitamente tendo a non approfittare dell’ospitalità di Ester perché, nonostante io voglia molto bene sia a lei che a Petra ed abbia instaurato, in questi ultimi anni, un rapporto piuttosto confidenziale con i bambini, non voglio superare i limiti: sono pur sempre il superiore di Petra. Stavolta però, è una situazione d’emergenza.

«Eren, facciamo una sosta!» grido, per sovrastare il rumore della pioggia che ci sferza il volto. «Se restiamo sotto quest’acquazzone rischiamo di ammalarci!».

«Agli ordini, signore!» risponde lui. «Ma dove? Siamo nel bel mezzo di una foresta, Capitano!».

«Siamo vicini al villaggio in cui vive la famiglia di Petra. Chiederemo a sua moglie di ospitarci finché sarà passata la tempesta» gli spiego.

«Ah, la signorina Ester! Certamente, la seguo, Capitano!» esclama Eren. Il fatto che Eren si ricordi il nome di Ester pur avendolo sentito per la prima volta solo oggi mi lascia una bella sensazione: durante le pulizie, Petra ha cercato di chiacchierare un po’ con lui per farlo sentire un po’ più a suo agio, e nella conversazione gli ha anche raccontato di Ester e dei bambini. 

Il villaggio dista appena dieci minuti dalla nostra posizione. La casa della famiglia Ral-Malheiro è su due piani: il piano terra è costituito da un locale spazioso che comprende la cucina, la sala da pranzo e un piccolo salotto, mentre al piano superiore si trovano le camere da letto. Sul retro della casa, infine, c’è una piccola stalla che ospita due cavalli, Keira e Jules.

Quando giungiamo davanti alla piccola abitazione, lascio il mio cavallo nelle mani di Eren e vado a dare tre colpi alla porta d’entrata.

«Chi è?» domanda Ester dall’interno, mentre la sento avvicinarsi.

«Capitano Levi, Armata Ricognitiva» rispondo.

La porta si apre ed Ester appare sulla soglia. «Ciao, Capitano» mi saluta, cordiale. «Che ci fai qui?».

«Io ed Eren eravamo in giro e siamo stati sorpresi dall’acquazzone» le spiego, indicando il ragazzo. «Potete ospitarci finché non smette di piovere?».

«Ma certo, ci mancherebbe!» risponde Ester, con prontezza. «Anzi, entrate! Stiamo preparando la cena, siete i benvenuti. Niña, accompagna il ragazzo nella stalla, aiutalo a mettere al riparo i cavalli».

Mentre entro in casa, Niña mi passa davanti per uscire. «Ciao, zio!».

«Ciao, Niña», solitamente quando la saluto le scompiglio affettuosamente i riccioli scuri, ma stavolta non posso farlo perché ho le mani letteralmente fradice.

«Ehi, zio Levi!» mi saluta Tommy, impegnato a mescolare qualcosa che sta bollendo in pentola.

«Ciao, Tommy» ricambio il saluto del bambino, mentre appoggio il mio mantello grondante d’acqua ad una delle due sedie che Ester ha portato davanti al camino. «Come stai?».

«Tutto a posto» risponde lui. «Sei pronto per il tornado?» ghigna poi, alludendo a sua sorella Lorena.

Alzo giocosamente gli occhi al cielo. «Sì, va’ pure a chiamarla. È di sopra?».

«Sì» dice Tommy, recandosi verso le scale. «Sta provando alle sue bambole i nuovi vestitini che le ho cucito».

«Alle mie bambole» lo corregge Katharina, entrando in casa. «I cavalli sono a posto» mi dice poi, con un sorriso.

«Grazie mille, Niña» rispondo, stavolta scompigliandole affettuosamente i riccioli scuri.

«E tu sei Eren, giusto?» gli domanda Ester. «Il nuovo membro della Squadra Levi».

Dal modo in cui glielo chiede, comprendo che Ester ha ben in chiaro che il ragazzo che le ho portato in casa non è altri che il giovane cadetto che ha preso le sembianze di un gigante appena qualche giorno prima, e di cui ancora non si sa se sia opportuno fidarsi oppure no. Questo però non sembra turbarla: si fida di me, e sta cercando di non far pesare ad Eren la strana posizione in cui il ragazzo si trova al momento.

«Esatto! E Lei invece è la signorina Ester, moglie della signorina Petra, dico bene?» risponde il ragazzo.

Ester arrossisce appena. «Petra ti ha già raccontato di noi, eh? Comunque sì, sono proprio io. E loro sono i nostri figli, Katharina detta “Niña”, Thomas detto “Tommy”, e infine c’è-».

«Zio Levi!», la vocina stridula di Lorena, che è appena comparsa in cima alle scale, inonda la stanza.

«La piccola Lorena» termina sua madre, mentre la bambina si lancia giù dai gradini per corrermi incontro.

«Piano, piano!» le dico, mentre mi preparo per afferrarla al volo. Lorena atterra tra le mie braccia e mi stringe forte, come fa sempre. «Oh, zio Levi! Che meravigliosa sorpresa! Che bello, vederti!».

«Sì, sì, anche per me» le dico, lasciandole un bacio tra le ciocche color del grano. «Ma tu strilli sempre?» le chiedo retoricamente, poggiandola a terra.

«Ragazzi, lui è Eren» spiega poi Ester ai propri figli «nuovo componente della Squadra Levi, nonché nuovo commilitone di vostra madre».

«Io lo so, chi sei!» grida Lorena, puntandogli un dito contro. «Tu sei il ragazzo-gigante!».

«Lorena!» la riprende sua sorella maggiore. «Cerca di non mettere in imbarazzo le persone, se ti riesce» aggiunge poi, sarcastica.

Eren arrossisce. «Oh, non c’è-».

«Scusami, Eren!» riprende Lorena. «È che per noi è un onore stratosferico, fare la tua conoscenza! Voglio dire, ci hai salvato dai giganti! Probabilmente ora noi non saremmo qui, se non ci fossi stato tu».

«Oh» risponde il ragazzo, visibilmente colpito dalle parole di Lorena. «Anche per me è un piacere incontrarvi, e sono davvero felice che stiate tutti bene. Ah, e grazie mille per l’ospitalità, ovviamente».

«Di nulla, Eren!» esclama Tommy, che è tornato a mescolare in pentola ciò che immagino sia una zuppa di verdure. «Comunque, è quasi pronto. Cominciate ad apparecchiare».

«Eren non può apparecchiare, è l’ospite!» obietta Lorena. «E io, da brava padrona di casa, devo tenergli compagnia. Vieni, Eren, ti insegno qualche trucco di magia!» squittisce poi emozionata, trascinando il ragazzo verso il piccolo divano che si trova sul lato sinistro della stanza, proprio sotto alla finestra.

«Capito?» sussurro sarcasticamente ad Ester, mentre mi avvicino alla credenza per prendere alcune stoviglie. «È Eren l’ospite, non io».

Ester ridacchia. «Certo, tu ormai sei parte della famiglia, zio Levi. Niña» si rivolge poi a sua figlia «aiuta tuo zio ad apparecchiare, ché io devo aiutare Tommy con la zuppa».

Mentre stendo la tovaglia sul tavolo, sento che Lorena sta raccontando ad Eren di quando io ho aiutato sua madre e sua sorella a scappare dal villaggio in cui vivevano i bisnonni, il giorno in cui è caduto il Wall Maria.

«Hai perso il primato, eh?» sogghigna Ester al mio orecchio, riferendosi al fatto che Lorena stia preferendo parlare con Eren anziché con me.

«Capisci, Eren? Mio zio Levi è un eroe» sta spiegando in quel momento Lorena. «Io ora non sarei qui, se non ci fosse stato lui».

Mi avvicino ad Ester, ghignando appena. «No, mi sa che il primato non me lo toglie nessuno».

Ester scoppia genuinamente a ridere. «È pronto!» annuncia suo figlio, mentre porge a me e ad Ester le scodelle che andranno poi riempite di zuppa.

I ragazzi si accomodano a tavola, e io ed Ester li imitiamo una volta finito di servire la cena. Ognuno di noi si gusta la propria minestra calda senza proferire alcunché, finché Tommy non rompe il silenzio. «Allora, Eren, come ti è sembrata nostra madre Petra? Si è comportata bene?» scherza poi.

Eren fa sì con la testa mentre termina d’inghiottire, e si porta poi il tovagliolo alle labbra per pulirsi. «Molto» dice. «Ha chiacchierato un po’ con me raccontandomi di voi e questo, devo dire, mi ha decisamente aiutato a scaricare la tensione», ridacchia infine.

«Tu invece da dove vieni, Eren?» domanda Ester.

«Dal distretto di Shiganshina» risponde lui.

«Ah, sì, Shiganshina. Abbiamo studiato la suddivisione delle Mura e dei distretti proprio questa settimana, a scuola» dice Lorena. «Io non ci sono mai stata, a Shiganshina. E neanche nel Wall Maria. È caduto prima che io nascessi».

«Be’, non era molto diversa da Trost, a dirla tutta» spiega Eren, prendendo un’altra cucchiaiata di zuppa. «Forse Trost è lievemente più industrializzata e “signorile”, ma per il resto non vedo grandi differenze».

«Sì, è vero» concorda Ester. «Io non sono mai stata a Shiganshina, ma i miei nonni abitavano in un villaggio all’interno del Wall Maria che era molto vicino al cancello del distretto, quindi lo stile era più o meno quello».

«Sì, esatto» risponde il ragazzo.

Dopo qualche minuto di silenzio, arriva un’altra domanda da parte di Thomas. «Ti stai trovando bene nel Corpo di Ricerca, Eren?».

«Molto» risponde lui. «Inoltre, non vedo l’ora di scoprire qualcosa in più riguardo questa mia “abilità”, e di capire soprattutto come utilizzarla per aiutare il genere umano».

«E bravo Eren, così si fa!» squittisce Lorena. «Mia sorella è rimasta molto affascinata dalla tua trasformazione. Non è vero, Niña?».

Il volto di Katharina si imporpora appena. «Ehm, sì» aggiunge. «Studiare le dinamiche della tua trasformazione sarebbe molto interessante».

«Non preoccuparti» intervengo io, rivolgendomi a Niña. «Hanji freme dalla voglia di dare il via agli esperimenti su Eren quindi, se c’è qualcosa da scoprire, otterremo tali informazioni molto presto. Per ora sappiamo solo che la sua struttura sembra essere apparsa dal nulla e che, quando Eren è stato separato dal corpo del gigante, questo è evaporato».

«Proprio come accade ai giganti normali» completa Katharina. «Eren, scusami se te lo chiedo, e ovviamente puoi non rispondermi se l’argomento ti infastidisce, ma tu davvero non hai idea di come tu abbia fatto a diventare un gigante?».

«Oh, figurati, per me non è un problema parlarne» le risponde Eren, gentilmente. «Comunque, no. Io non sapevo neanche di poter diventare un gigante, è stato tutto completamente inaspettato».

«Quindi non ti sei trasformato volontariamente?» domanda Tommy.

«No» risponde Eren «l’ho fatto in maniera del tutto istintiva. Motivo per il quale, ad essere sincero, ho un po’ paura che non sarò in grado di padroneggiare quest’abilità come si deve».

Un commento sprezzante sta per lasciare le mie labbra, ma fortunatamente la gentilezza di Katharina mi precede. «Dal punto di vista logico dovrebbe accadere il contrario, Eren. Pensaci bene: quando impari ad andare a cavallo, per esempio, all’inizio ti senti sbilanciare ogni due per tre. Poi però, dopo aver fatto un po’ di pratica, tu e il cavallo imparate a collaborare e diventate un tutt’uno, e cavalcare si rivela facile come respirare. Col tuo gigante accadrà la stessa cosa, ne sono certa».

Le guance di Eren si arrossano appena, ma lui sembra non farci caso. «Grazie, Niña» le dice poi, rivolgendole un sorriso sincero.

Continuiamo a cenare in tranquillità. Ogni tanto Ester mi fa qualche domanda su Erwin, Hanji e sui miei ragazzi, vuole sapere come stiano. Anch’io chiedo ai bambini come stiano andando le loro giornate, e Tommy mi racconta che sta realizzando alcuni costumi per uno spettacolo che si terrà a fine stagione, durante la fiera del villaggio.

«Ben fatto!» lo rinforzo. «Se potrò prendermi dei giorni di riposo, verrò sicuramente a vederli».

«Grazie, zio Levi» mi sorride il bambino.

«Ah, tu sei lo “stilista” di famiglia, dico bene? La signorina Petra mi ha detto che sei davvero bravo» commenta Eren.

«E ha detto bene!» interviene Lorena. «Pensa che per il mio compleanno mi ha regalato un mantello identico a quello di voi soldati dell’Armata Ricognitiva! Ci ha cucito sopra lo stemma del Corpo di Ricerca, ed è praticamente uguale!».

«E tu sei la “soldatessa” invece, giusto, Lorena?» ridacchia Eren.

«Puoi dirlo forte! Purtroppo però, sono ancora troppo piccola per arruolarmi. Ma con il mantello che mi ha fatto mio fratello non devo aspettare per avere una vera e propria divisa!» squittisce, contenta.

«Ma che meraviglia» commenta Eren. «Hai voglia di mostrarmelo?».

«Certo!» esclama. «Mamma, posso alzarmi da tavola?».

«Vai e torna, tornado» risponde Ester, e Lorena scatta in piedi per poi precipitarsi al piano di sopra.

«Lorena, aspetta!» la richiama Tommy. «Eren, perdonami ma non ho potuto fare a meno di notare che lo stemma sul taschino della tua divisa si è un po’ scucito. Se mi dai la giacca te lo ricucio in dieci minuti».

Eren porta lo sguardo ad analizzare il taschino, che prende tra le dita. «Oh, cavolo, non l’avevo notato. Grazie mille Tommy, ma non voglio approfittarmi della tua-».

«Oh, no, no, non preoccuparti, davvero. Lorena, porta giù anche ago e filo, per favore» la istruisce Thomas.

«Agli ordini!» squittisce la piccola, per poi correre via.

«Sei sicuro che non sia un problema?» domanda Eren, togliendosi la giacca e porgendogliela.

«Ma figurati!» risponde Tommy, alzandosi appena per allungarsi verso l’indumento. «Mh, sì, due colpetti di filo e dovrebbe tornare come nuova» proferisce infine, dopo aver analizzato il danno.

«Be’, allora grazie mille, Tommy, davvero».

Pochi istanti dopo, Lorena piomba giù dalle scale con indosso il suo mantello. Appoggia velocemente il set da cucito accanto a suo fratello e poi sfreccia davanti a Eren. «Eren, guarda! Non è bellissimo?!» strilla, emozionata.

Eren si porta le mani alla bocca, ostentando quella finta meraviglia che si usa con i bambini. «Ma è stupendo!» esclama. Poi, quando dà un’occhiata più dedicata al lavoro di Tommy, sfiorando con le dita lo stemma dell’Armata Ricognitiva che mio nipote ha cucito a mano su quel mantello, un’espressione genuinamente impressionata appare sul suo volto. «Hai fatto davvero un ottimo lavoro, Tommy» commenta poi, e ha ragione: Tommy è bravissimo, disegna degli abiti sensazionali ed è anche molto bravo a cucirli.

Dopo poco meno di cinque minuti, Tommy ha terminato di riparare lo stemma sul taschino di Eren. Noi abbiamo ormai finito di cenare, e fuori ha smesso di piovere.

«Bene» dico, alzandomi. «Sarà meglio iniziare ad andare. Eren, preparati».

«Signorsì!» risponde il ragazzo, mentre sia lui che la famiglia Ral-Malheiro si alzano da tavola.

Mentre Eren ringrazia Ester per la cena, io lascio un bacio sui capelli di Niña e di Tommy. Con Lorena non lo faccio, perché io e lei abbiamo una tradizione: ogni volta in cui vado a trovarli, quando poi me ne vado, lei mi accompagna sempre in stalla a recuperare il mio cavallo.

Ester ci accompagna alla porta, mentre Eren saluta i ragazzi e questi ultimi ricambiano, chiedendo di portare i loro saluti anche a Petra.

Mentre Eren esce guidato da Lorena verso la stalla, Ester mi saluta poggiandomi una mano sulla spalla, che io stringo. «Prenditi cura della mia famiglia» mi raccomanda, guardandomi negli occhi.

«Anche tu» mormoro io, non avendo ben in chiaro se le sto chiedendo di prendersi cura della sua, di famiglia, o della nostra.

In ogni caso, Ester annuisce. «Tornate a casa vivi» aggiunge poi. «E ricordatevi, quando siete là fuori, che noi quattro siamo sempre qui ad aspettarvi».

Stringo un po’ più forte la mano di Ester e poi ci lasciamo. Do un ultimo saluto, e mi accorgo poi che Lorena mi sta aspettando.

«Eren è già in stalla?» le chiedo.

«Sì» dice lei, prendendomi per mano con naturalezza. «Secondo me i miei fratelli si sono presi una bella cotta per lui» borbotta poi.

Io ridacchio. «Tu no?».

«Ma no, zio! Io devo già sposare il Comandante Erwin, lo sai».

«E il Comandante Erwin lo sa?».

«No» brontola Lorena. «Ma tu non dirglielo! Devo essere io a propormi, quando vinceremo la guerra».

«Ah, be’, se la metti così non dirò niente, allora».

«Ma non preoccuparti, zio!» strilla, mentre entriamo nella stalla. «Il mio preferito rimani sempre tu» cinguetta, mentre la prendo in braccio per metterla in groppa al mio cavallo.

«Menomale» mormoro, conducendo il mio morello fuori dalla stalla, mentre Eren e il suo baio ci stanno già aspettando fuori.

«Vieni al quartier generale con noi, Lorena?» scherza Eren.

«Magari!» risponde la bambina. «Aspetta qualche anno, Eren Jaeger, e ti prometto che saremo compagni d’armi».

«Non vedo l’ora» risponde Eren, montando in sella.

Passiamo di nuovo davanti all’entrata, ed io tiro giù Lorena da cavallo per rimandarla da sua madre che la sta aspettando sull’uscio. La bambina mi abbraccia forte, e poi corre verso Ester.

Monto a cavallo, e vedo che l’intera famiglia Ral-Malheiro si è radunata sull’uscio per salutarci. Io ed Eren sventoliamo le mani in risposta e riprendiamo la marcia.

Per il resto del tragitto Eren rimane silenzioso, e una parte di me non può che sperare che il ragazzo abbia capito che i miei ragazzi hanno famiglie meravigliose, che non meritano di soffrire. E che, dunque, si metta bene in testa d’impegnarsi al meglio affinché a nessuno dei miei sottoposti accada nulla.

   
 
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