IL
CAVALLO DI FUOCO.
Mi pungeva addosso il pesante
tabarro di lana che mi era stato gettato sulle spalle, prima che mia madre mi
prendesse la spalla con la sua mano nodosa come il tronco di un ulivo, e mi
portasse fuori dalla capanna.
Tutti gli animali erano stati portati fuori
dai recinti ed erano stati legati insieme, uno dietro all’altro.
Compimmo un lungo tragitto lungo il sentiero sterrato che
attraversava i campi di grano, fili d’oro già alti che ondeggiavano leggermente
nella brezza d’aprile. Alle spalle avevamo colline, colline
e colline, e, fra quelle colline, si alzavano al cielo dei palazzi simili a
grosse scatole, che nella notte sembravano azzurrognoli e avvolti dalla nebbia,
ma non perdevano la loro rozza solidità. Lo scalpiccio stanco degli animali
accompagnava i nostri passi svelti. Mamma mi tirava ancora per la spalla, e mi
ripeteva di affrettarmi. Passammo attraverso i campi con le
fiaccole strette nelle mani, e lontano, fra gli altri seni della terra coperti
dai fili di grano, si muovevano ondeggiando tante altre piccole
fiammelle.
Sapevo cosa stava per succedere, perché ogni ventuno
d’aprile succedeva.
Avevo ben riconosciuto il rituale. Avevo visto mamma, papà
e i miei fratelli ripulire a fondo le stalle e adornarle con tante corone.
Avevano raccolto della legna sul nostro carretto e ci avevano attaccato il
nostro nero stallone dalla lunghissima criniera. Lui mi stava dietro, ora,
tirato per le briglie da papà. Il suo incedere furioso e nobile, sempre eretto
e coi muscoli che si flettevano con possanza, era
molto diverso da quello di tutti gli altri cavalli che si vedevano per le
nostre campagne; somigliava di più a quei cavalli che galoppavano per le grandi
strade più a occidente, percorrendole in un istante e portando sulla groppa cavalieri
scintillanti con bandiere e mantelli rossi che sbattevano nel vento, le teste
rinchiuse nei loro elmi di fuoco.
Il fiato dello stallone era tanto possente che me lo
sentivo arrivare sulla schiena attraverso
Arrancammo con gli animali e il carretto cigolante su per un ultima salita, e infine, quando fummo sulla sommità della
collina, il grande tronco d’ulivo che mi aveva ostruito la visuale
sull’avvallamento sottostante sembrò farsi da parte come una tenda, e mi rivelò
tante altre torce accese e tante cataste di legna ammucchiate per terra e
infiammate. Intorno ai falò c’erano altri contadini con carri e animali. La
valle era molto grande, di quelle dove venivano
portate al pascolo parecchie greggi di pecore.
Scendemmo dalla collina sdrucciolando sui sassolini che
rotolavano giù. A questo punto il sentiero spariva fra l’erba alta, e bisognava
stare attenti a dove si metteva i piedi perché
potevano esserci delle buche e il carretto avrebbe potuto incastrarsi da
qualche parte.
Radunammo gli animali ed aggiungemmo anche noi il nostro
falò. Le fiammelle che avevo visto in lontananza si
stavano avvicinando e cominciavo a distinguere le figure degli altri contadini
con le loro mogli, i loro figli e i loro animali. Ben presto calò il silenzio;
guardandomi intorno vidi che un contadino avvolto in un bel mantello di lana
grezza era salito sopra un tumulo di terra che era stato fatto apposta, molti
anni prima, proprio per questo scopo, e si mise ad annunciare il rituale che
stava per svolgersi.
- Ringraziamo la Dea caritatevole che protegge le nostre
greggi, - iniziò il contadino imponente, e con questa frase concluse anche il
suo discorso. Ci furono delle grida, poi il contadino dal suo tumulo alzò le
braccia, ed esclamò: - E adesso purifichiamoci per renderle onore! -
Fu come se avesse dato a tutti il
permesso di aprire delle casse contenenti tutti i venti del mondo. La
gente cominciò a vociare e a sciamare e turbinare intorno come un mucchio d’api
o uno stormo di cavallette.
I miei genitori mi obbligarono a dare una mano, ma io ero
distratta, perché tenevo sempre gli occhi fissi su ciò che stava succedendo.
Noi facevamo le stesse cose che facevano gli altri
pastori e contadini, ogni ventuno aprile, in onore della dea Pale.
Facevamo salire gli animali, prima le pecore, su delle
strutture che anche i miei fratelli erano andati a costruire quel pomeriggio:
si trattava di solido legname legato insieme fino a formare una specie di
griglia, sostenuta da quattro grossi tronchi sopra i falò che ogni famiglia di
contadini aveva acceso. Il fuoco veniva lasciato
bruciare e poi veniva coperto di frasche odorose, così che il fuoco non si
avvicinasse ai tronchi che sorreggevano il pianale e si dipanasse invece da
esso una grande quantità di fumo. In questo modo, mi disse mia madre quando, tramite un ponte di legno, avemmo fatto salire
sulla griglia il primo gruppo di pecore, che belavano impaurite e tentavano
inutilmente di scendere, i fumi del fuoco sacro di Pale purificavano gli
animali che sarebbero vissuti a lungo e avrebbero dato prodotti abbondanti da
portare a Roma e da tenere per noi.
Un gruppo per volta, purificammo tutte le pecore, che
tornavano giù annerite e belanti, lasciando in giro un sacco di
escrementi. Mio padre teneva il fuoco vivo mentre
facevamo salire ora le giumente. La struttura di legno cigolò come una grande ossatura che sta per rompersi, ma le corde erano
solide e anche
Mamma si mise a ridere contenta, perché stava andando
tutto bene. Intorno esplodevano grida, grida, grida, esclamazioni,
imprecazioni, risate, lamenti, le giumente e i tori muggivano come il possente
vento che d’inverno spirava fra i colli, le pecore belavano come piangendo, i
cavalli nitrivano come due pezzi di ferro che strusciano l’uno contro l’altro,
e si impennavano.
Mi voltai a guardare lo stallone, ancora legato al
carretto. In cinque avevano provato a tenerlo fermo, e c’erano riusciti: adesso
il dolce demonio nero si era calmato, ma stava lì a sospirare profondamente a
fremere, con gli occhi inferociti coperti da ciuffi della sua lunghissima
criniera. I legamenti che lo
tenevano al carretto sembravano molto deboli.
Finirono anche le mucche, e toccò ai polli, ai galli, ai
tacchini e alle oche, che portavamo su chiusi in gabbie perché non si
disperdessero o volassero via. C’era tutto un esplodere di nubi di penne, dei
pennuti che si agitavano, compressi nelle piccole gabbiette sopra al falò che
sembrava un po’ come un Sole precipitato a terra, e conficcatosi fra l’erba,
dove bruciava inviperito e mandava su per vendicarsi nuvole di fumo nerissimo.
Adesso si era diffuso nell’aria un odore acre. Mi accorsi guardandomi intorno
che nel pascolo tutti stavano ballando, e praticamente
nello stesso momento uno dei miei fratelli mi prese le mani e mi portò in giro
volteggiando. Ballando mi venne da ridere e ridemmo tutti e
due. Ci scontrammo diverse volte con le spalle e coi
fianchi di altri contadini che stavano ballando, con un gran sollevamento di
gonne e di capelli e un volare di cappelli.
Nel cielo sembravano ballare anche le nuvole; la luna si
vedeva un attimo sì e un attimo no e nel mio giramento
di capo le stelle sembravano girare di qua e di là fino a precipitare a terra.
C’era un frastuono che sembrava come un terremoto o un’altra terribile
maledizione che emergeva dalla terra. Il pascolo si era trasformato in una
strada di Roma, che non avevo mai visto ma che mi era stata descritta, e io la
immaginavo proprio così.
Un liquido forte e delizioso mi colava giù per la gola e
continuarono a porgermene fin quando non mi trovai
come le stelle, che dal cielo ballando precipitavano in terra, e non
distinguevo più bene l’uno dall’altra.
Mi sembrò che tutti fossero nello stesso stato, incerto
fra felicità e angoscia, in cui
Andai a sbattere per conto mio contro il tumulo di terra
che era stata per il re dei pastori, mentre sentivo
confusamente o mi pareva di sentire la voce di mia madre che mi chiamava. Senza
pensarci alzai lo sguardo e vidi un grande svolazzare di abiti
da pastore, anzi da donna pastore. Mi trovavo esattamente sotto di lei e mentre
le sue gonne si sollevavano vidi i sandali allacciati alle sue caviglie, e l’interno
delle sue cosce illuminato dalla luce arancione dei
fuochi. Reggeva un grosso bastone in mano, e vista dal basso mi sembrava ancora
più impettita e il suo volto rotondo mi sembrava ancora più severo, proprio
come quello di un pastore che sorveglia con attenzione
che le sue greggi non si disperdano.
L’avrei ammirata per ore.
Tutto d’un tratto però, come un
ruggito dai campi, sentii un’esplosione. Per un momento tutti si zittirono, poi
scoppiò di nuovo il pandemonio, ma in un altro senso, cioè
che tutti gridavano dalla paura.
Non vedevo bene, perciò non riuscii a capire subito quale fosse la causa di quello sconvolgimento. Fin
quando non vidi il nostro crudelissimo e dolcissimo demone nero che impennava
liberandosi del carretto, che rotolò giù e si sfasciò. Lo stallone era
imbestialito, e sembrava che ruggisse e muggisse più che nitrire, come se di
colpo avesse raccolto in sé tutto lo spavento e il furore degli altri animali e
l’avesse mescolato in sé in un unico grido doloroso e
un unico impeto con il quale flettendo i muscoli possenti avanzava a balzi
galoppando per tutta la vallata.
Calpestò uomini, donne, bambini e animali, girando intorno
fin quando non si sentì appagato dalla sua vendetta, e poi infuocato corse via, per le colline, tentando di fuggire. Feci aderire
la schiena con tutte le mie forze al tumulo alle mie
spalle, come cercando di sparirci dentro. Alzai di nuovo lo sguardo e vidi che
ora anche la donna turbinava: seguiva con tutto il corpo il
percorso del cavallo. E infine, quando lo stallone prese a
galoppare in linea retta lontano oltre le colline, la donna battè
il bastone per terra.
Sembrò come se da lei fosse partito un fulmine che in
pochi secondi raggiunse lo stallone. Era lontano, ma lo vidi come se fossi
stata lì, a un passo, o lo immaginai, forse. I suoi
occhi dolci si ribaltarono e all’istante la sue bella
criniera prese fuoco, si infuocarono le zampe, la coda, la schiena, il
muso. Le fiamme lo avvolsero per eroderlo e cancellarlo, ma lui continuò a
correre verso il fiume, come se avesse fiutato l’acqua. Non era
così lontana, avrebbe potuto raggiungere la palude vicino al mare.
Giunse sulla sommità di una collina, correndo
all’impazzata sui fianchi della terra. La sagoma nera che sembrava quella di
una donna addormentata coperta d’erba lunga, vista dal nostro avvallamento sembrava imponente ma piatta. Lo stallone si trasformò in
una palla di fuoco e la sua fuga scellerata ebbe fine: esplose, con un boato e
uno schianto di luce che tutta Roma doveva aver visto.
Ma il fuoco, come non lo aveva
fatto prima, non toccò le colline e non appiccò il fuoco ai campi. Si estinse
col dolce fuggiasco.
I miei occhi incontrarono per un attimo quelli luminosi
della dea che stava sul tumulo. Era stata lei a bruciare il
cavallo, di questo ero sicura. Ma dopo quell’istante
di certezza e di smarrimento insieme, dovetti cadere all’indietro perché un
momento vidi le stelle che avevano smesso di girare ma
brillavano di tutti i colori dell’arcobaleno, un momento sentii il dolore
urlante, e poi con un tonfo caddi fra gli echi nel silenzio della perdita dei
sensi.
Arrancai come una giovenca stanca portando sulle spalle un
grosso secchio contenente il pastone per i maiali. Arrivai alla mangiatoia con
un grosso sospiro e lì rovesciai il contenuto del secchio, liberando le mie
spalle spellate da quel pesante supplizio.
Era la quinta o sesta volta che facevo avanti e indietro
con un secchio colmo di qualcosa, che fosse acqua, cibo per maiali, poi di nuovo acqua, poi di nuovo cibo per maiali, o escrementi
animali da usare come concime per gli alberi.
Corsi alle stalle per strigliare l’unico cavallo che
adesso avevamo, un piccolo maschio dal pelo castano e la criniera quasi nera. Mi
guardava col suo musetto secco, tenero ma inespressivo. Finito di strigliarlo,
pulii la stalla con una secchiata d’acqua e uno straccio ruvido, poi ispezionai lo stato degli zoccoli. La bruciatura che aveva
rimediato il puledro durante la cerimonia dello scorso ventuno
aprile era guarita completamente, rimaneva soltanto una chiazza più chiara sul
pelo. Guardai sconsolatamente le sue gambe esili e le sue spalle deboli,
pensando a quanto fosse ancora giovane e a quanto si
sarebbe rovinato trascinando carretti pieni di paglia o di legna o di merce da
portare in città. Non era forte come lo era stato lo stallone, ma era inutile
piangere sul latte versato. Così dissi ma non ci credetti veramente. Avevo però un mucchio di lavori da fare
prima che calasse il sole, o non avrei visto più in là
del mio naso.
Sospirai e scrollai le spalle, come a liberarle da un
grosso peso, e tornai con un indefinito senso di frustrazione alla vita di tutti
i giorni.