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Autore: Rumyantsev    09/08/2023    3 recensioni
Aziraphale e Crowley fanno cose, aiutano persone e, soprattutto, discettano sull'anatomia umana.
[Established relationship / Commedia / Romantico / Non tiene particolarmente conto degli eventi della S2]
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando tutto sarà (im)perfetto
 

Dormire non faceva parte delle cose umane che Aziraphale aveva imparato ad amare. Non ne capiva l’attrattiva. Certo, sognare poteva essere piacevole, ma la verità era che c’erano troppe cose da fare – libri da leggere, musica da ascoltare, persone da aiutare – perché potesse godersi ore di incoscienza e inattività.
Non aveva perciò mai sentito il bisogno di attrezzare una camera da letto nella casa sopra la libreria. Tutte le stanze erano sempre state piene di libri, impilati più o meno precariamente su mobili di varia natura, e Aziraphale era sempre stato soddisfatto così.
Da quando Crowley era venuto a vivere con lui, quella organizzazione non andava più bene.
Crowley amava dormire tanto quanto Aziraphale amava mangiare, e dunque aveva avuto bisogno di un bel letto comodo.
Aziraphale aveva scelto una stanza, la più grande, quella in cui teneva un pianoforte seppellito sotto ad un migliaio di libri, e l’aveva trasformata nella loro stanza da letto. Ovviamente le pareti erano interamente coperte da scaffali pieni di libri, ma, giusto al centro della stanza, il vero protagonista era il lettone matrimoniale, più ampio dei soliti due piazze. Crowley insisteva per avere lenzuola, cuscini e piumoni di seta nera, scelta che Aziraphale trovava pacchiana, ma avevano trovato un compromesso quando gli aveva permesso di usare un copriletto interamente realizzato all’uncinetto dallo stesso Aziraphale. Era bianco, un evidente contrasto con il nero sottostante, e rappresentava una scena idilliaca con tre putti che svolazzavano attorno ad una fontana zampillante, circondati da arbusti e sovrastati da qualche nuvoletta. Un lavoro di cui Aziraphale andava particolarmente orgoglioso.
Aziraphale non amava dormire, come già detto, ma amava passare il tempo con Crowley, dunque aveva preso l’abitudine di passare la notte a leggere accanto alla sua figura addormentata. Sul comodino dalla sua parte di letto aveva piazzato un lume con un abat-jour beige che effondeva una luce morbida su tutta la stanza. Ora era lì, sdraiato sotto al piumone con una copia de Le anime morte, a leggere in attesa.
Crowley fece il suo ingresso nella stanza con la sua camminata molleggiata. Aveva appena terminato la consueta sessione serale di insulti ed intimidazioni alle piante ed era pronto per riposare. Indossava il pigiama nero a strisce rosse verticali, le sue ciabatte aperte sulle dita nude, la cuffietta in seta per proteggere i capelli dagli sfregamenti notturni contro il cuscino, gli occhiali da sole e la solita espressione noncurante. Aziraphale alzò lo sguardo su di lui e gli salì alle labbra un sorriso estasiato, il solito che aveva quando guardava Crowley, come se non avesse mai visto nella sua vita qualcosa di più stupendo.
Crowley si fermò davanti al suo lato di letto e fece un grande starnuto esibizionista. «I tuoi maledetti libri sono pieni di polvere», borbottò.
«Potresti anche non respirare, caro», rispose candidamente Aziraphale, il cui sorriso si allargò. A Crowley non sfuggì il brillio ammirato nei suoi occhi e trattenne un piccolo brivido di gioia. Non si era ancora abituato a sentirsi così amato, soprattutto quando non stava facendo proprio niente per meritarselo.
Si sdraiò accanto a lui, si tolse gli occhiali e aprì il cassetto del proprio comodino. Ne estrasse la mascherina per occhi che lo schermava dal maledetto lume di Aziraphale, acceso tutta la notte. Non l’avrebbe mai ammesso, neanche sotto tortura, ma non gli dava tanto fastidio quanto mostrava. Per fortuna Aziraphale l’aveva capito senza bisogno che dicesse nulla.
«Mi addormento», gli annunciò, tenendo la mascherina in una mano. Con la mano libera raggiunse quella che Aziraphale teneva inerte a palmo in su sopra alle coperte e intrecciò le loro dita, per poi portarsela alla bocca e lasciare un piccolo bacio sul dorso della mano dell’altro. Era un gesto che lo faceva sentire ancora atterrito e quasi isterico dalla felicità, nonostante fosse ormai quotidiano, ma pensava di riuscire a dissimulare abbastanza bene il turbamento.
Aziraphale, di contro, si accorgeva di ogni cosa ma taceva perché le emozioni di Crowley erano le stesse sue. Strinse per qualche secondo le loro dita assieme, senza riuscire a trattenere un piccolo verso di gioia che gli risalì dal centro della pancia, come una bollicina d’aria in una bottiglia d’acqua.
«Oh aspetta un minuto caro, volevo parlarti di una cosa», disse.
Crowley si tirò su a sedere e lo guardò con i suoi occhi gialli da rettile. Si erano entrambi dimenticati di lasciarsi le mani.
«Mi piacerebbe provare a fare con te del tipico sesso umano», continuò Aziraphale, senza mutare la sua espressione di gioia.
Crowley rimase immobile. Emise uno sbuffo dal naso, come se qualcosa gli avesse compresso i polmoni in modo da fare schizzare via l’aria. Alzò le sopracciglia e gli occhi si aprirono sembrando più grandi, e arricciò le labbra facendole sporgere leggermente all’infuori. «Pardon?», domandò.
«Qualcosa, sai, di caratteristico. Il cibo e l’alcol sono stati una meravigliosa scoperta, e il sesso mi sembra la terza cosa più popolare tra gli umani. Non pensi valga la pena di provarci?».
Crowley non pensava in quel momento: l’ingranaggio che faceva funzionare il suo cervello si era fermato.
«Sicuramente ne sai più di me», proseguì Aziraphale, ignorando la non-reazione dell’altro, «Voglio dire, un’idea generale ce l’ho di cosa deve andare dove, ma non ho abbastanza dati a disposizione per determinare le caratteristiche di un comune rapporto sessuale».
«Tu vuoi…», riuscì finalmente a gracchiare Crowley. Lasciò andare la mano di Aziraphale e la mascherina per infilarsi i mignoli nelle orecchie, ruotandoli in senso orario per ripulirle per bene, poi domandò: «Potresti ripetere, angelo?».
«Crowley», l’espressione di Aziraphale si addolcì, il suo tono si fece più basso, morbido, si avvicinò a una spanna dal suo viso mettendo da parte il libro, «Voglio fare sesso con te».
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Tra le cose umane che aveva imparato ad amare, la più recente erano senz’altro i baci. Ovviamente l’aveva imparata assieme a Crowley.
La prima volta erano seduti nella Bentley, parcheggiati davanti al negozio di Aziraphale che era diventato la loro casa. Avevano cenato in un ristorante di lusso: Aziraphale aveva mangiato una serie di piatti semplicemente deliziosi e Crowley l’aveva guardato per tutto il tempo, da dietro agli occhiali scuri, sorseggiando un bicchiere di vino dopo l’altro. Come se Aziraphale fosse la stella più brillante del firmamento.
Fuori dai finestrini, le luci dei lampioni e dei negozi si mangiavano le luci del cielo e il bailamme di persone e auto che passavano riempiva l’aria di chiacchiericci, scalpiccio di piedi, rombi di motori e clacson. Nel centro di Londra non importava se fosse notte o giorno, c’era movimento sempre.
Aziraphale stava terminando il suo monologo sulla rappresentazione di demoni e angeli in Goethe, argomento che aveva impegnato tutto il viaggio di ritorno a casa. Crowley fino ad allora era intervenuto solo per rilasciare qualche grugnito qua e là, non chiaro se di approvazione oppure no. Aveva spento l’auto, si era voltato verso di lui e, interrompendo a metà una frase di Aziraphale, aveva sfiorato con le sue labbra quelle dell’altro.
Nessuno dei due l’aveva mai fatto prima. Da fuori, ai passanti, senza dubbio sarebbe parso sciocco: due signori di mezza età intenti a strusciare insieme le facce, scoordinati, goffi… ma, dentro di loro, l’unica cosa importante era quella sensazione di euforia che gonfiava i loro petti e li faceva sentire cose potessero spiegare le ali e volare, su su, sulla folla e sul traffico, alzarsi fino a lasciare l’orbita terrestre, tra le galassie. Solo loro due.
Da allora l’avevano fatto spesso. Passavano lunghi minuti seduti vicini, o sdraiati, bocca su bocca, naso contro naso, a passarsi le mani sulle spalle, sulla nuca, sulle braccia, tra i capelli. Ogni volta era esaltante come la prima. Crowley non aveva mai immaginato che Aziraphale potesse desiderare di più, né aveva mai pensato lui stesso di chiedere di più.
Non provava alcun tipo di avversione per l’idea del sesso, semplicemente non era nella natura del suo corpo quel genere di desiderio. Non aveva bisogno di cibo o di acqua, per esempio, e non provava eccitazione sessuale, mai. Le cose umane che faceva le faceva perché gli andava, non spinto da un imperativo biologico. Sapeva che la stessa cosa valeva per Aziraphale. Comunque, dal momento che Aziraphale gli aveva chiesto di farlo, aveva cominciato a sentirne l’appeal. Quantomeno in via teorica.
«Ricapitoliamo», stava dicendo Aziraphale, «Hai assistito a diversi parti, ma non hai mai guardato nessun umano concepire?». Aveva le sopracciglia aggrottare e le braccia incrociate, contrariato.
«Ѐ così anche per te, no, angelo?», rispose Crowley.
Aziraphale batté velocemente le palpebre, «Sì ma credevo che tu…», protestò.
«Sono un demone, non un maniaco!», sbottò Crowley.
Aziraphale fece una faccia che sembrava voler sottintendere come non vedesse la differenza tra le due cose, poi si strinse nelle spalle. «Non importa, basterà fare delle ricerche».
Crowley alzò un sopracciglio, «Ricerche?».
«Esatto, caro», decretò, «Sarà il più accurato possibile».
 
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Jackson era stato assunto come addetto alle consegne per Amazon solo un mese prima. Aveva finito la scuola da poco e, nonostante tutti gli sforzi di sua mamma per convincerlo ad iscriversi all’università, non aveva voluto continuare gli studi. Non ci si sentiva portato. Aveva boccheggiato per prendere il diploma e non aveva alcuna intenzione di continuare a penare sui libri per un altro numero imprecisato di anni nella speranza di prendere una laurea che non sarebbe servita a nulla. Credeva che lavorare sarebbe stato più semplice. Soprattutto fare un lavoro affatto intellettuale come il commesso, per esempio.
Era stato fortunato a trovarne uno così presto. Non era il massimo come paga ma se l’era fatto andare bene, visto che per adesso poteva continuare a stare a casa di suo padre. Miranda, la sua fidanzata, si era iscritta a giurisprudenza. Lei sì che era brava con lo studio! Era in lei che Jackson riponeva le speranze per il loro futuro. Sarebbe diventata un’avvocatessa di successo e avrebbe comprato una bella villa con piscina in qualche città della California, Jackson ne era certo.
Nel frattempo, lavorava per mettere da parte un gruzzoletto per entrambi.
Da quando aveva cominciato a recapitare le consegne si era reso conto di quanta gente matta c’era in giro. In un solo mese gli erano capitati: una vecchietta che voleva lasciargli una mancia se si fosse tolto la maglietta, un uomo che, sulla porta di casa, gli aveva afferrato la mano ed era scoppiato in lacrime quando gli aveva chiesto di lasciarla, una signora che l’aveva ricorso cercando di picchiarlo con una paperella di gomma urlandogli di rispettare la proprietà privata… Non esattamente il genere di esperienze che si sarebbe aspettato quando aveva pensato di fare un colloquio per quel lavoro. Guardando al lato positivo, aveva sempre qualcosa di divertente da raccontare a Miranda per tirarle su il morale quando era stressata per lo studio.
Quella mattina Danny, suo collega più anziano, l’aveva aiutato a riempire il camion di scatoloni. Qualunque cosa ci fosse dentro, pesavano almeno un quintale per ciascuno.
«Non ci crederai», aveva detto Danny, «Ma questa roba l’ha ordinata tutta lo stesso tizio. Guarda qua», gli aveva indicato il cartellino con le informazioni sul destinatario applicato a uno dei pacchi, «Mr A. Z. Fell».
L’indirizzo del signor Fell indicava un posto al centro di Londra. Jackson ci mise un po’ ad arrivarci: le strade erano congestionate da auto e pedoni, come al solito. Alla fine parcheggiò poco lontano dalla sua destinazione: un negozio di libri. L’insegna recava: A. Z. Fell and Co, libri antichi e inusuali. Che questo Fell avesse acquistato dei libri da Amazon per rivenderli? Avrebbe dovuto chiedere a Miranda se era legale. Bussò dopo aver constato che non c’era un campanello. I vetri della porta che davano sul negozio erano schermati da delle tendine marroni, perciò non gli fu possibile rendersi conto se qualcuno c’era e l’aveva sentito finché la porta non si aprì. Spuntò un tondo omino di mezza età, con il capelli completamente bianchi e la faccia rubiconda aperta in un sorriso simpatico. Era abbigliato con un completo da uomo vintage, di varie sfumature di bianco panna, con tanto di panciotto decorato con piccole foglie in filo dorato, intrecciate all’abbottonatura, giacca in tweed e un papillon.
«Oh, i miei libri!», esclamò, prima che Jackson potesse dire qualsiasi cosa.
«Il signor Fell?», gli chiese.
«Proprio lui», trillò l’uomo.
«Ho, ehm, dei pacchi per lei».
«Ma certo caro, hai parcheggiato lontano?», nel mentre si sporgeva in avanti per scrutare la strada dietro alle spalle di Jackson, cercando con i suoi occhietti frenetici il furgone.
«No, ehm, dovrebbe firmare qui». Il signor Fell prese delicatamente la penna che Jackson gli porgeva e firmò con un gesto fiorito. Jackson gettò un’occhiata al foglio trovando la grafia più curata che avesse visto. Quella firma sembrava scritta al computer.
«Aiutami a portarli dentro, giovanotto».
Così si trovò a scaricare il camion degli scatoloni pesantissimi, ma qualcosa di davvero strano accadde. Quando li aveva caricati al mattino assieme a Danny avevano fatto una fatica immensa - ancora gli doleva la schiena! - ma ora riusciva a tirarli su senza sforzo. Persino Fell, che non sembrava proprio un forzuto, li portava tra le mani come se non pesassero niente. Se non fosse stata un’idea folle, avrebbe pensato che qualcuno li aveva svuotati nel tragitto dal magazzino a lì.
Dopo aver posato l’ultimo al centro del negozio di Fell, sentì addirittura che il mal di schiena gli era passato.
«Grazie caro, sei stato un gioiello», gli disse Fell. Poi in un battito di ciglia, senza che Jackson riuscisse a rendersi conto di quando, come e da dove li avesse tirati fuori, Fell gli spinse tra le mani un muffin e una tazza piena di liquido scuro.
«Ecco, bevi un po’ di tè, te lo sei meritato», con un gesto delle mani lo giudò verso una poltrona e Jackson, senza sapere perché, ci si accomodò.
«Sai non mi capita spesso di fare acquisti da voi», raccontò Fell, mentre con un tagliacarte fendeva lo scotch giallo che chiudeva uno dei pacchi, «Un’azienda poco ecologica, con ben poco rispetto per i lavoratori… ma era davvero urgente. Ah be’, compenserò con un bel po’ di buone azioni». Aveva tirato fuori un volume e se lo rigirava tra le mani. Jackson, morsicato il muffin, lo mandò giù con un’annaffiata di tè.
«Come pensavo, copertine poco dignitose. Speriamo bene per i contenuti», sospirò. Posò il libro su una pila di altri volumi, nei pressi di dove Jackson sedeva placidamente. Gli occhi allora gli caddero sulla copertina.
Una donna avvolta in un peplo, pettinata come un’attrice anni sessanta, stava abbarbicata agli addominali di un tizio in gonnella, grosso il doppio di lei, con una scintillante chioma bionda sopra una mascella così squadrata che non poteva sembrare vera neanche a occhi chiusi. Il titolo era La schiava di Poseidone. Quello, pensò Jackson perplesso, era un romanzo erotico per signore, non esattamente il prodotto che si aspettasse di trovare in un negozio di libri antichi e inusuali.
«Oh questi sono per consultazione personale», Fell rispose distrattamente, ma Jackson era sicuro di non aver fatto alcun commento ad alta voce… «Erano nella sezione più venduti, qualcosa di tipico ci sarà».
«Tipico, signore?», azzardò timidamente Jackson, dando l’ultimo morso al muffin.
Fell gli gettò un’occhiata breve, aveva cominciato ad aprire un altro pacco. «Non preoccuparti, caro. Piaciuto il tè?».
«Era, ehm, tutto ottimo, grazie signore», balbettò, alzandosi. Posò la tazza vuota accanto a una pila di libri.
Fell gli si avvicinò con il suo passo trotterellante. Infilò la mano nel panciotto e ne estrasse quattro banconote da cinquanta sterline, porgendole a Jackson. «Per il disturbo», spiegò, accompagnandolo alla porta. «Ah, dimenticavo», allungò una mano portandola a pochi centimetri dalla fronte di Jackson, «Una benedizione per te e la tua Miranda. Sono certo che avrete una lunga e ricca vita felice assieme», e chiosò con un occhiolino e un sorriso furbo.
«Ehm, grazie», rispose Jackson stupidamente. Tornò al furgone e ci si infilò come se il suo corpo avesse attivato il pilota automatico. Solo una volta lontano dal negozio di Fell, ormai di nuovo incuneato nel traffico alla volta del magazzino, sentì come se la nebbia si fosse diradata dal suo cervello e gli piombò addosso la stranezza di quell’esperienza. Come risvegliarsi da un incantesimo. Il cellulare squillò sul sedile passeggero. Sul display era scritto: Miranda.
«Pronto, tesoro, non puoi capire cos’è appena successo…»
«Oh, Jackson, i risultati dell’esame sono appena usciti. Passato con il massimo dei voti, ci credi?!»
Il ricordo di Fell aveva già cominciato a svanire, soffiato via dalla voce squillante di gioia di lei.
 
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Crowley rincasò a sera inoltrata. Entrò nel negozio, più baldanzoso del solito, e trovò Aziraphale circondato da romanzi dalle copertine di dubbio gusto, intento a sfogliarne qualcuno.
«Bentornato, caro», lo salutò l’angelo, con un’occhiata veloce da sopra gli occhiali da lettura. Crowley rispose con un mezzo grugnito.
Crowley amava dare di sé un’immagine disinvolta, di qualcuno che si cura poco di tutto ciò che lo circonda e non si lascia coinvolgere dalle emozioni. Aziraphale, però, lo conosceva abbastanza bene da riconoscere il suo stato d’animo solo guardando la posa ciondolante che assumeva. In quel momento: spalle indietro, petto in fuori, mento in su, mani sui fianchi, puntellato su una gamba, corpo leggermente pendente verso destra. Era orgoglioso di qualcosa.
«Giornata produttiva, caro?», chiese, perché l’altro gli dicesse quello che evidentemente non vedeva l’ora di dire.
«Sì», la s sibilata serpentescamente, «Ho convinto Elon Musk ad acquistare Twitter».
«Oh!», esclamò Aziraphale, entusiasta nonostante per lui quella notizia non significasse nulla, «Fantastico!».
«Fantastico davvero, la gente impazzirà. Sarà un disastro», Crowley arricciò le labbra in un sorriso diabolico, «Quel tizio è una miniera di idee tremende. Tu invece che hai fatto?».
«Be’», Aziraphale alzò su di lui uno sguardo sconfitto, «Ho passato le ultime sei ore a leggere scene di sesso che anche Gabriel troverebbe irrealistiche. Questo signore sembra convinto che i seni femminili percepiscano in anticipo le variazioni del meteo», sospirò agitando sotto agli occhi di Crowley il volume che aveva in mano in quel momento.
«Interessante», disse lui, sarcastico.
«Una gran perdita di tempo», Aziraphale si tolse gli occhiali e scrollò le spalle.
Crowley, che pure non aveva capito perché Aziraphale continuasse con la storia di voler cercare quale fosse il tipico sesso umano, o cosa intendesse per tipico, sentì qualcosa stringersi all’altezza del cuore nel sentirlo scontento. Non certo il cuore, i demoni non ne hanno, ma qualcosa di vicino.
«Angelo, è ora di tirare fuori l’artiglieria pesante», disse. Si diresse verso la scrivania sotto alla finestra, quella su cui Aziraphale teneva una quantità disordinata di libri e carte. Con un gesto del braccio li spinse per terra, ignorando il verso oltraggiato dell’altro, poi, con uno schiocco di dita, fece comparire un computer.
«Se vuoi un’informazione in questo secolo, è a lui che devi rivolgerti», spiegò, volgendosi a guardare con una certa malcelata soddisfazione il volto intrigato del suo angelo.
 
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«Crowley, caro, com’è possibile che tutte queste signore continuino a restare incastrate nel cestello della lavatrice? Dovremmo acquistare una lavatrice?».
 
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Yufeng aveva una vescica dietro al tallone che strisciava contro alla scarpa da inizio turno. Fare avanti e indietro tra sala e cucina era l’inferno. Avrebbe voluto togliersi i tacchi, o quantomeno poter zoppicare, ma quello stronzo di David stava puntando tutti i camerieri con quei suoi occhietti neri da mangusta. Aveva iniziato la serata dichiarando che avrebbe licenziato chiunque al primo passo falso, cosa che diceva sempre, ma quella sera stava più attento del solito. Proprio la sera in cui il ristorante era pieno zeppo dei clienti più stronzi che Yufeng avesse avuto il dispiacere di servire.
Stava versando uno sherry a una coppia di ricchi snob con la puzza sotto al naso e guardò in direzione di Veronica, due tavoli più in là, che sembrava sull’orlo di una crisi di nervi mentre un ricco snob con la puzza sotto al naso le faceva segnali ampi con le braccia e le diceva parole che Yufeng non riusciva sentire. Si vedeva dalla sua faccia scarlatta, tutta contratta come dopo aver addentato un limone, che non erano complimenti. Dall’altra parte della sala, Peter era nelle medesime condizioni di Veronica.
Yufeng non poté far altro che scambiarsi con loro sguardi di comprensione, prima di voltarsi e tornare in cucina a ritirare altri ordini.
Mentre usciva per portare al tavolo quattro due spaghetti allo scoglio e un’insalata di gamberi, Veronica la intercettò. Aveva tra le mani l’ordinazione del ricco snob di prima e una faccia affatto contenta. «Yufeng, devi coprire anche il sette», le comunicò in un tono concitato che tradiva la tensione, «Io non ce la faccio, questo stronzo è la terza volta che mi fa portare dentro il piatto». Yufeng non aveva voglia di coprire anche il sette come non aveva voglia di servire a nessun tavolo mai più per il resto della vita, ma comunque annuì. Se non avesse avuto le mani occupate, avrebbe dato una bella pacca sulla spalla alla collega. Dopo aver lasciato i piatti al quattro, si diresse al tavolo sette. La vescica la faceva penare ma si sforzò di fare passi misurati, eleganti per quanto le riusciva. Da dietro alla cassa si sentiva lo sguardo incarognito di David sulla nuca.
Il sette era di fronte alla vetrata che dava sul giardino, diviso dal resto della sala da un séparé dorato, in tinta con i colori rosati dei marmi della sala, che lo schermava parzialmente dagli sguardi degli altri. Per questo Yufeng non vide subito i clienti. Quando finalmente posò gli occhi su di loro per poco non le sfuggì un’imprecazione. Fuori dal micromondo del ristorante, Yufeng non era solita giudicare le persone dal loro aspetto, ma lì, sul lavoro, farlo era una strategia di sopravvivenza. Quando si trattava di ricchi, aveva scoperto, la marca di un abito, la forma di un cappello, una sfumatura di ombretto, erano indizi utilissimi per capire il grado di stronzaggine.
Al tavolo erano seduti due tizi, non giovani ma neanche vecchi, uno conciato come se volesse fare un provino per diventare il nuovo Doctor Who, l’altro in un completo total black con un ciuffo ingellato alla Elvis e gli occhiali da sole, al chiuso, di sera. Il fatto era questo: quando un ricco si vestiva in modo così strano, c’erano alte probabilità che fosse il tipo di matto che non si preoccupa di fare una scenata culminante nel licenziamento del cameriere, se qualcosa non era di suo gradimento. Yufeng sospirò e andò loro incontro.
«Buonasera signori, benvenuti», si esibì nel suo miglior sorriso di accoglienza, «Posso prendere il vostro ordine?».
Con sua estrema sorpresa, Doctor Who le rivolse un sorriso decisamente più brillante e sincero del suo. «Ma certo cara!», esclamò, e procedette ad ordinare un pasto di quattro portare.
«Per lei, signore?», Yufeng domandò ad Elvis.
Lui fece una smorfia svogliata, arricciando all’infuori le labbra. «Vino, rosso. Quello che ti pare», fece un gesto con la mano come a dire non me ne importa proprio nulla. Yufeng restò interdetta.
«Oh, caro, sicuro di non voler mangiare niente?», domandò l’altro, premuroso.
«Nah, ho mangiato ieri», rispose Elvis, con un altro gesto distaccato. Yufeng lo guardò battendo le ciglia velocemente, non sapendo se ridere o no della battuta visto che lui sembrava tanto serio.
«Allora è tutto, cara, grazie tante».
Mentre Yufeng si avviava per portare il taccuino con gli ordini in cucina, sempre attenta a non trascinare troppo il piede dolorante, Doctor Who, vale a dire Aziraphale, si voltò verso Elvis, cioè Crowley.
«Stavo dicendo: sebbene la maggior parte dei video fosse non meno fantasiosa dei romanzi che ho acquistato, ho raccolto un po’ di materiale che mi sembra utile», estrasse dal panciotto una quantità di fogli ripiegati, «Dovremmo vagliare assieme le idee, eliminare quelle che ci sembrano troppo complesse».
Crowley scorse con gli occhi gli appunti che Aziraphale gli aveva messo sotto al naso senza commentare. «Credo che io dovrei avere una vagina», dichiarò. Aziraphale annuì con aria interessata, invitandolo con un gesto ad elaborare il pensiero.
«Sembra più divertente. Dovresti averne una anche tu», proseguì Crowley.
Aziraphale considerò la cosa, un po’ contrariato. «Pensavo: ci vuole molta creatività se entrambi dobbiamo avere una vagina. Forse non è l’idea migliore per la nostra prima volta. Dovremmo scegliere l’opzione più semplice», argomentò.
Crowley scosse la testa, noncurante. «Seh», disse.
«Quindi», proseguì Aziraphale, come se stesse illustrando un trattato di biologia a una folla di studiosi, «Il pene sembra l’organo genitale più semplice, dal mio punto di vista, essendo esterno al corpo, facilmente eccitabile eccetera. Ma avere due peni potrebbe rivelarsi altrettanto difficile».
Crowley fece una smorfia non meglio definibile, rendendosi conto che il suo angelo era proprio intenzionato ad avere quella conversazione nella maniera più seria possibile. Pensò: tanto vale che lo assecondi del tutto. «Richiederebbe l’uso di un’altra parte del corpo per, sai, la penetrazione, se proprio ci tieni ad averla», rispose stringendosi nelle spalle.
«Non saprei caro, ho letto che è molto doloroso per uno che lo fa per la prima volta»
«Tutto è doloroso per uno che lo fa per la prima volta, se non ci stai attento, angelo»
«Concordo, ma comunque la maniera più semplice sembra essere un pene e una vagina», Aziraphale indicò nuovamente i suoi appunti, «Ѐ anche piuttosto tipico».
«Pensi?», chiese Crowley, piegando la testa da un lato.
«Tu no?», rispose Aziraphale.
«Voglio dire», Crowley si sistemò sulla sedia in modo da stare seduto ancora più scompostamente di prima, «Probabilmente non è tanto tipico quanto certi umani vorrebbero che sembri. Sai, riguarda l’etero-normatività, il maschilismo e altre stronzate demoniache».
Aziraphale batté le palpebre un paio di volte. «Non ho idea di che cosa tu stia parlando, caro», rispose.
Mentre Crowley ricordava ad Aziraphale quanti danni avesse fatto nella storia del mondo la strana ossessione che gli esseri umani hanno con il sesso biologico e la sessualità, Yufeng era in cucina in attesa che lo chef le preparasse i pesci spada da portare al tavolo otto. Si guardò attorno per controllare se David non la stesse osservando ma non lo trovò nel suo campo visivo, dunque ne approfittò per accostarsi contro al muro e sfilare il piede dalla scarpa. Appoggiò la pianta stanca e indolenzita sul pavimento e quasi sibilò per il sollievo di sentire il freddo attraverso il collant. Stava per chiudere un momento gli occhi e abbandonare anche la nuca contro alla parete, quando il rumore della porta della cucina che veniva aperta la fece sussultare e calzare la scarpa in un secondo. Ma non era David che era entrato. Vide infatti Peter schizzare verso la porta sul retro e chiudersela violentemente alle spalle. Lo sguardo di Yufeng incontrò quello dello chef, entrambi erano senza parole.
«Vado», Yufeng fece allo chef un gesto che indicava vagamente la direzione che aveva preso Peter. Uscì.   
Fuori venne subito accarezzata da un refolo d’aria fredda che la fece rabbrividire e stringersi il colletto della camicetta bianca sul collo. Peter stava accucciato accanto al grosso bidone dell’umido, e subito Yufeng si accorse che singhiozzava.
«Ehi, ehi», disse, avvicinandosi per posargli una mano su una spalla, «Che succede?».
Peter era giovane, appena ventenne. Veniva dalla Tailandia, e per questo Yufeng l’aveva preso subito in simpatia: sapeva bene cosa significa vivere da soli in un paese straniero a quell’età.
Lui alzò su di lei uno sguardo liquido. «Non lo sopporto più», si lamentò, «Si è messo a prendermi in giro davanti a una cliente. Mi ha detto che sono lento a capire, che sono un ciccione». Si riferiva a David. Yufeng era ormai così abituata alle sue angherie che non provò alcuna indignazione, solo una rassegnata tristezza. Peter, proprio come lei, aveva un affitto da pagare e non poteva permettersi di perdere il lavoro.
«Su, su», gli accarezzò la schiena, «Pete, non possiamo mollare». Peter singhiozzò ancora più forte. «Gli mettiamo un bel lassativo nel caffè», tentò. Peter fece un verso a metà tra una risata e un altro singhiozzo. «Sul serio Pete, stringiamo i denti un altro po’. È un idiota, non sarà manager per sempre», Peter annuì asciugandosi gli occhi con la manica della camicia e alzandosi in piedi.
«Vai a sciacquarti la faccia e corri in sala, dai», gli assestò un’ultima pacca sulla spalla. «Mancano…», controllò l’orologio da polso, «Meno di due ore alla chiusura. Ce la siamo quasi portata a casa».
Per via di quella interruzione, Yufeng dovette tornare dentro di corsa. Prese le ordinazioni del sette e dell’otto e rientrò in sala. Quando arrivò al tavolo in cui Aziraphale e Crowley stavano disquisendo su quale organo genitale fosse il più comodo per fare pipì – chissà come c’erano arrivati a quel punto del discorso? –, Aziraphale scattò in piedi per aiutarla a posizionare i piatti sul tavolo. Crowley, stravaccato sulla sedia, lo guardò per tutto il tempo con occhi affezionati, convenientemente schermati dagli occhiali neri.
«Grazie, signore», disse Yufeng ad Aziraphale, sincera. Era stato un grande sollievo scoprire che, almeno questo cliente, non si sarebbe impegnato per renderle la vita ancora più difficile.
«Cara, figurati», mosse la mano per minimizzare, risedendosi.
Yufeng si voltò per tornare in cucina ma sentì, alle proprie spalle­: «Ehi, tu».
Era stato Crowley a chiamarla. Aveva preso in mano il bicchiere di vino che lei gli aveva portato ma si era interrotto a metà nel gesto di portarselo alla bocca. Ecco, pensò Yufeng vedendolo, mi ha detto di portargli un vino a caso e ora si lamenta di quello che ho scelto. Si preparò alla scenata.
«Ti sanguina il piede», disse invece Crowley.
«Come?», si stupì Yufeng, guardando in basso verso le proprie scarpe.
«Dietro», indicò Crowley.
Yufeng si accorse che, dove c’era la vescica, ora il collant era macchiato di marrone scuro. «Oh», disse, «Nulla di che. È scoppiata una bolla».
«Oh cara!», esclamò Aziraphale, reagendo come se Yufeng avesse detto bomba e non bolla, «Siedi qui, vado a cercarti un cerotto!». Si era già alzato in piedi.
«No!», si allarmò Yufeng, gettando un’occhiata nervosa dall’altra parte della sala, dove David stava di vedetta, «No signore, per favore, non dica nulla a nessuno».
«Ma cara, ci vorrà solo un minuto», insisté Aziraphale, «Deve essere spiacevole camminare con quella ferita!».
Yufeng guardò negli occhi – e negli occhiali - quei due tizi. Dopo non avrebbe saputo spiegare perché, ma in quel momento c’era qualcosa, dentro di lei, un’idea indefinibile che le faceva pensare che sarebbe andato tutto bene se avesse confidato i suoi problemi a quei signori. Come se la sua lingua si fosse autonomamente sciolta da qualsiasi censura precedentemente imposta, disse: «Vedete quel tizio», indicò senza voltarsi la direzione in cui sapeva si trovasse David, «Ѐ il manager e non aspetta altro se non che io faccia un errore per venire a urlarmi contro, o licenziarmi. Se sapesse che vi ho rovinato la cena me la farebbe pagare. Se gli chiedessi una pausa mi insulterebbe. In ogni caso io non potrei difendermi perché è lui a dire al mio capo chi è dentro e chi fuori. Perciò per favore, signori, facciamo finta di niente».
Aziraphale aprì e chiuse la bocca, troppo oltraggiato per commentare.
«Non ti dà neanche il permesso di metterti un cerotto?», ripeté Crowley. Il tono era ironico e distaccato, ma Aziraphale notò dal modo in cui stringeva le labbra che la cosa non gli andava a genio.
Yufeng annuì. «Meglio che vada, prima che si accorga…», disse.
«Sta già venendo qui», notò Crowley con nonchalance.
David infatti stava marciando verso di loro.
«Tutto bene, signori?», domandò. Con i clienti David aveva un tono viscido e servile che faceva venire i conati a tutto il personale del ristorante.
Crowley lo squadrò da capo a piedi prima di rispondere. Né alto né basso, completo elegante che gli stava un po’ troppo largo, capelli tinti di nero con una ricrescita bianca dietro alle orecchie, viso piccolo e allungato da mustelide, occhietti neri e cattivi e, particolare che lo colpì, un pizzetto a triangolo rovesciato. Sembrava un adesivo attaccato al suo mento.
«Tutto eccellente», disse infine, con sufficienza, «Ma questa si è spenta», e gli indicò la candela al centro del tavolo. Yufeng avrebbe giurato che appena un attimo prima era accesa, e sia Doctor Who che Elvis le sembravano troppo lontani per poterci soffiare sopra…
«Certo, signore», rispose David, sbrodolante e sottomesso, poi, rivolto a Yufeng: «Vai a prendere un fiammifero e accendi la candela ai signori». Aveva cambiato completamente tono, era stato brusco e sprezzante.
«Perché non l’accendi tu?», si intromise Crowley, «Hai l’accendino proprio lì».
David si tastò la giacca ed estrasse un accendino dal taschino che Crowley aveva indicato. Lo fissò perplesso, e Yufeng capiva perché: David non fumava. Quell’accendino, ne era quasi sicura, non c’era prima che Elvis lo nominasse.
«Allora?», incalzò Crowley. David si riscosse. «Certo, signore».
Con il pollice fece ruotare la rotellina ma lo scatto non produsse alcuna fiamma. Ritentò a vuoto, ancora e ancora.
«Non mi sembra così complicato, no, angelo?», lo canzonò Crowley, facendo scivolare per qualche secondo lo sguardo su Aziraphale. L’angelo guardava a David con malcelato fastidio. «Affatto, caro», rispose.
«Un po’ di pazienza, signori», grugnì David, la cui fronte si stava imperlando di sudore per l’agitazione. Si portò l’accendino sotto al naso, come per guardarci dentro, e fu allora che la fiamma schizzò fuori. Yufeng strillò per la sorpresa. Non era la fiammata che avrebbe potuto produrre un piccolo accendino, e David non stava neanche toccando la rotellina!
Anche David aveva urlato ed aveva cominciato a saltellare sul posto. Tutta la sala si voltò a guardalo: aveva il pizzetto in fiamme. Per quanto provasse a picchiettarlo con le dita, non si spegneva.
Tra le sue grida qualcuno degli altri clienti strillò: «Aiutatelo!», ma nessuno si mosse.
Yufeng vide che Doctor Who si studiava le unghie di una mano come se non stesse accadendo nulla di strano. Elvis sorseggiò il suo vino. «Ecco», disse, porgendole il bicchiere. C’era ancora del liquido dentro e Yufeng lo prese. Guardò quegli occhiali scuri e il suo mezzo sorriso ironico, e capì. Gli sorrise.
«A te l’onore», le disse Crowley.
Yufeng tirò il vino in faccia a David. Il fuoco si spense e il pizzetto non c’era più.
Più tardi, alla chiusura, mentre pulivano la sala, Yufeng, Veronica e Peter non riuscivano a smettere di ridere raccontandosi come David fosse scappato, urlando che avevano tutti passato il limite e che non avrebbe messo mai più piede in quel locale. Non aveva riportato alcuna ustione, nonostante avesse bruciato per più di mezzo minuto. La vescica aperta di Yufeng era sparita, come la macchia di sangue sul collant. Nella sua tasca, una lauta mancia.
Nessuno di loro tre ricordava già più i clienti del tavolo numero sette.
 
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La Bentley aveva acquisito una simpatia del tutto speciale per Aziraphale. Se c’era Aziraphale metteva la musica che piaceva a lui, si manteneva sotto al limite di velocità come piaceva a lui, a volte diventava del colore che piaceva a lui. Crowley diventava matto a litigarci ma non otteneva niente da lei.
«Piaccio all’auto più di quanto non piaccia a te, caro», aveva scherzato una volta Aziraphale.
«Dubito sia possibile», aveva borbottato Crowley.
Anche adesso, con Aziraphale sul sedile del passeggero, la Bentley si rifiutava di sorpassare in corsa le auto bloccate nel traffico di Londra. Non c’era miracolo che la potesse convincere. Crowley dunque stava imbronciato con le mani sul volante, in attesa. In sottofondo, un pezzo jazz be-bop.
Al contrario Aziraphale era luminoso come un raggio di sole. «Ѐ stato molto gentile da parte tua aiutare quei ragazzi», disse.
«Gentile? Volevo solo fare sparire quel ridicolo pizzetto», rispose Crowley.
Aziraphale lo guardò a lungo con affetto: non gli credeva nemmeno un po’.  
La Bentley, intanto, era di color giallo canarino.
 
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Seduto sul letto a gambe incrociate, Aziraphale si lamentò: «Questa questione del sesso è ben più complessa di quel che mi sarei immaginato. La scelta del momento, dei genitali, del luogo…».
Crowley, accanto a lui, si stava sistemando la cuffietta da notte sui capelli. «Non nella mia macchina», disse.
«La nostra macchina. Non so davvero da dove cominciare!», si rigirava tra le mani gli appunti stropicciati, «Vorrei una ricetta, delle istruzioni, un manuale, qualcosa che mi dica come fare tutto perfettamente!».
«Be’, angelo», cominciò Crowley, avvicinandosi e togliendogli gli appunti di mano, «Non sarò un esperto in questo campo ma credo… Che il sesso non sia perfetto al primo tentativo… Ѐ molto tipico».
Aziraphale lo guardò, un po’ sconsolato. «Lo pensi davvero?», domandò.
«Sì», Crowley prese le sue mani tra le proprie, «Sì, davvero. E, guarda, forse all’inizio non ci piacerà. Diavolo, potrebbe addirittura non piacerci affatto e potremmo non voler mai più ripetere l’esperienza ma… Il punto è esplorare la cosa, insieme. Tipo, scoprire quello che ci piace, che ci fa star bene. Non importa se piace o no agli altri».
Aziraphale ci rifletté su qualche secondo. «Immagino… Non ci avevo mai pensato in questi termini», gli rivolse un piccolo sorriso speranzoso che fece battere più forte qualcosa nel petto di Crowley. Di nuovo, assolutamente non il cuore.
«Lo so. Solo… Proviamoci, ok?», accarezzò con i pollici il dorso delle mani dell’altro.
«Oh, certo Crowley», Aziraphale, commosso, si slanciò verso di lui per baciargli la bocca, «Mi sei più caro di tutte le creature in cielo e in terra», sussurrò.
Stavolta fu Crowley a dargli un bacio.
Quando si separarono, Crowley disse: «Voglio comunque avere una vagina».
«Oh, amore, puoi avere tutte le vagine che vuoi!».
Presolo per il bavero del pigiama, Aziraphale se lo tirò addosso.  
   
 
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