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Autore: orange    15/08/2023    0 recensioni
Settembre 1944. 
Monte Sole.
Il risveglio è brusco, scomodo, come l’osso di una spalla che le trafigge lo stomaco e le dà la nausea. Non si è accorta del ragazzino che l’ha presa e caricata di peso, portandola in direzione degli alberi e della montagna.
15/08/2023 Questa storia è stata originariamente pubblicata il 30/05/2013 con il titolo Ti porto via. È stata revisionata e viene oggi ripubblicata con il titolo Come fiori di campo. Spero possa incontrare il vostro favore e ringrazio chi l'ha apprezzata finora e chi, ancora oggi, le dedica il proprio tempo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Come fiori di campo


Teresa ha solo tredici anni. Quando apre gli occhi, però, il corpo pesa come se le ossa ne avessero molti di più. Sbircia tra le ciglia, sperando di essere sola, di poter finalmente respirare. Non sente quasi nulla, soltanto un fischio lontano che non ha mai sentito prima. È fastidioso e non vuole morire.
 
Cerca di darsi la spinta con il braccio destro, l’unico rimasto libero, ma il peso di un corpo morto non è facile da sollevare, per una ragazzina tutta ossa. Inclina la testa e sposta il busto, nel tentativo di far scivolare il peso e riuscire a sgattaiolare via. Qui non c'è più niente, pensa lucidamente.
 
Le ginocchia sbucciate bruciano, quando si alza. Il vestito è sporco, rovinato. Qualcosa di caldo le annoda i capelli sulla fronte e, quando porta le dita sottili alle tempie, la loro punta si tinge di rosso.
 
Finalmente libera, prende il corpo della donna che l'ha protetta per le spalle e lo rivolta sulla schiena, con uno sforzo che sembra spezzarle i polsi. Il viso di sua madre è sporco di sangue, del sangue di qualcuno, e gli occhi sono spalancati, ghiacciati nel vuoto. Teresa li ha potuti fissare per tutta la notte.
Li chiude gentilmente, poi le sposta i capelli dal viso e li accarezza, solo un attimo. La bocca è leggermente dischiusa, lascia intravedere i bei denti che le zie le hanno sempre invidiato. Prova a chiuderla, ma non ci riesce. Solo un tentativo, prima di provare repulsione.
 
Vuole solamente uscire, ha bisogno di aria fresca per zittire la nausea. Tremante sulle gambe da cerbiatto, scavalca i corpi delle zie e dei bambini della casa. Gli uomini non ci sono. Chissà se sono ancora vivi, si chiede.
 
Calpesta qualcosa, il suo piede affonda prima di farla cadere. Il suono del suo stesso corpo gettato sul pavimento le rimbomba nelle orecchie, si attorciglia su quel fischio che non smette di disturbarla.  Di nuovo, si rialza. Di nuovo, le ginocchia bruciano. Solo qualche passo ed è finita, pensa.
Quando riesce a uscire, il sole ormai alto la acceca. Si copre gli occhi con la mano, notando solo ora quanto sia sporca. Cerca di ripulirla come può sulla stoffa azzurra della gonna, ma le servirebbe dell’acqua per riuscirci.
 
Ha sete. La gola è arsa, fa troppo caldo. Sente uno strano sapore sulla lingua, ferro che le scivola in gola.
Continua ad attraversare il cortile, la testa bassa nella speranza che nessuno la veda. Nessuno di quelli con gli stivali neri.
 
Incespica un po’ mentre corre verso il fienile, ma appena si richiude la porta alle spalle si sente un po’ meglio. Non c’è nessuno.
 
Non c’è nessuno.
Non ha idea di cosa fare, di dove andare, non sa se andare a cercare aiuto o aspettare nascosta sotto la paglia che qualcuno la trovi.
Ma chi? Qui non c’è nessuno.
Si siede, aspetta.
 
Il risveglio è brusco, scomodo, come l’osso di una spalla che le trafigge lo stomaco e le dà la nausea. Non si è accorta del ragazzino che l’ha presa e caricata di peso, portandola in direzione degli alberi e della montagna.
 
Teresa scalcia, ma lui le serra le gambe con il braccio, impedendole di muoverle. Urla, ma non si sente. Lui la lascia cadere a terra e le preme una mano sulla bocca per sigillarla. Lei la morde, ma lui non la toglie.
 
Sulle foglie umide e il terreno molle, Teresa si rannicchia su se stessa con le braccia a coprirsi gli occhi. Non urla più.
Solo quando lui le afferra i polsi e le scaccia le mani dal volto, Teresa lo guarda.
Non indossa stivali neri, solo un paio di scarponi usurati, senza lacci. Ha un fucile sulla spalla e gli occhi grigi che ha visto in quelli con gli stivali neri.
 
Lui si china davanti a lei, un ginocchio a terra. Le dice qualcosa, ma Teresa sente solo una voce ovattata. Si sforza di leggere il labiale, ma non ci vede bene.
Frustrato, il ragazzo si rialza e si guarda intorno. Sembra nervoso e spaventato quanto lei, anche se non trema.
 
Un po’ di tempo lo passano così, a guardarsi intorno. Lui la lascia in pace, ma ogni tanto sembra parlarle. Teresa non capisce, ma quando finalmente riesce a leggergli le labbra, indovina la domanda.
 
Teresa, risponde. Mi chiamo Teresa.  
 
È solo allora che quel ragazzo abbozza un sorriso un po’ timido e le tende la mano. Teresa scruta quella mano e quel sorriso.
Andiamo, ti porto via, dice.
 
Lei sistema la propria mano nella sua, ruvida, e si sente più calma. Forse mi posso fidare, pensa, mentre si incammina con lui.
Quando arrivano a calpestare i fiori di campo, le sembra di vederlo raccogliere qualche stelo ingiallito per lei.
Mentre guarda i propri piedi schiacciare quei fiori, Teresa sente la voce di suo nonno dirle “Sono belli quegli stivali neri. Io non li ho mai avuti, degli stivali così.”



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