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Autore: Parmandil    07/10/2023    1 recensioni
Le porte del Multiverso sono aperte! Per tre anni gli avventurieri della Destiny hanno vagato tra le realtà, cercando di ritrovare la propria. Ma tutto ciò non era che il preambolo del vero conflitto.
Catapultati in un sistema stellare costruito artificialmente, assemblando pianeti ghermiti dal Multiverso, i nostri eroi iniziano a comprendere il diabolico piano degli Undine. Divisi dopo una fallita infiltrazione, dovranno scegliere tra la filosofia federale – il bene dei molti conta più di quello di uno – e la propria – tutti per uno e uno per tutti. Riusciranno i naufraghi a sopravvivere sul pianeta Arena, dove i più formidabili guerrieri del Multiverso si affrontano in lotte all’ultimo sangue? Quali segreti si nascondono sulla stazione a forma d’icosaedro? Chi è realmente il Viaggiatore? E soprattutto, di chi ci si può fidare? Tra stargate e monoliti, tra gli Aracnidi di Klendathu e i Vermi di Dune, le differenti realtà si contaminano come non mai. La posta in gioco è più alta, i nemici più agguerriti e le lealtà personali saranno messe alla prova come non mai. Anche radunando i campioni del Multiverso, c’è una sola certezza: stavolta non tutti i nostri eroi si ritroveranno sani e salvi.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Il Viaggiatore, Nuovo Personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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 -Capitolo 9: ...uno per tutti
 
   La CSS Destiny sanguinava. O almeno questa era l’impressione che avrebbe dato a un osservatore esterno. L’astronave dello Specchio aveva subito danni devastanti durante la battaglia. Una gondola quantica era esplosa, e con essa era saltata parte della sezione ad anello. L’altra, danneggiata, si lasciava dietro una rossa scia di plasma, come sangue nell’oceano. E gli squali – le bionavi – erano sempre più vicini. I loro raggi antiprotonici balenavano tutt’attorno allo scafo e talvolta lo colpivano, aprendovi grandi squarci. Dai ponti decompressi usciva a fiotti l’aria, trascinandosi dietro una miriade di detriti. L’unico motivo per cui non c’erano vittime era che la grande astronave era pressoché deserta. Oltre a centinaia di Exocomp, infatti, vi erano due sole occupanti, entrambe localizzate in plancia. Una era il Capitano Dualla, che si era posta alla consolle tattica e rispondeva al fuoco, martellando le bionavi inseguitrici con tutte le armi a disposizione. L’altra era il Tenente Shati, posta al timone, che cercava disperatamente di schivare i colpi nemici. Stava anche riportando l’astronave verso l’Harvester, come ordinato da Dualla, nell’estremo tentativo d’aiutare i compagni.
   «Abbiamo perso del tutto gli scudi posteriori!» avvertì la Deltana, mentre la nave si scuoteva. «Un altro colpo ed è la fine».
   «Non era questa l’idea, fin dall’inizio?!» fece la Caitiana, con una risata amara.
   «L’idea era e resta combattere fino all’ultimo» ribatté Dualla. Scagliò l’ennesima salva di siluri quantici contro la bionave di testa. Stavolta la danneggiò abbastanza da costringerla a rallentare, rinunciando all’inseguimento. Era la quinta bionave inseguitrice che disabilitava; ce n’erano altre cinque. Ma con la Destiny sul punto d’andare in pezzi, difficilmente se ne sarebbe liberata.
   La bionave che ora si trovava in testa alla flottiglia aprì il fuoco. Colpì la gondola rimanente della Destiny, disintegrandola in un lampo accecante. Un’altra porzione dell’anello si disintegrò, scoperchiando l’hangar e la stiva di carico su quel lato. Vi fu una seconda pioggia di detriti, e anche intere navette, che impattarono contro le bionavi. Queste dovettero rallentare e deviare dalla traiettoria, perdendo tempo prezioso.
   «Abbiamo guadagnato qualche secondo!» notò Shati, approfittandone per distanziarle il più possibile. In tal modo portò la Destiny oltre il raggio di tiro, ottenendo una breve pausa dagli attacchi. «Ma l’anello è distrutto su ambo i lati. Praticamente ci resta solo lo scafo centrale» avvertì. Così mutilata, la Destiny ricordava una nave di classe Juggernaut, dallo scafo squadrato e compatto. Era quasi buffo, si disse la Caitiana: finora aveva pilotato molte astronavi, ma mai mezza nave.
   «Ci accontenteremo» disse Dualla, facendo dei calcoli. «Tempo per raggiungere l’Harvester?».
   «Dieci minuti soggettivi, se i motori non scoppiano» rispose Shati, che in effetti lo temeva. In tutta la sua carriera spericolata, non aveva mai sforzato così tanto dei motori a impulso. In quel momento viaggiavano a due terzi della velocità della luce, tanto che cominciavano a sentirsi gli effetti relativistici della dilatazione temporale. I loro dieci minuti di viaggio, ad esempio, sarebbero stati percepiti come venti minuti dalle altre forze in campo.
   «Dieci minuti basteranno» disse Dualla, ultimando i calcoli. «Va’ subito in sala macchine. Lo stargate ti permetterà di salvarti» ordinò.
   Shati rimase interdetta. Fino ad allora nessuno lo aveva considerato, ma in effetti quel congegno poteva essere una via di fuga dall’astronave condannata. Ormai sapevano che gli stargate erano connessi in una rete, per cui entrando dal proprio si poteva uscire da quello desiderato, a patto di conoscerne l’indirizzo. E tra i dati raccolti sull’Harvester c’erano proprio gli indirizzi degli stargate disseminati dagli Undine in quel sistema stellare. Quindi la Caitiana aveva tutto ciò che le serviva per mettersi in salvo, a patto d’essere abbastanza veloce. Si alzò a mezzo, ma in quella un altro pensiero la bloccò. «Lei non viene?» chiese, intuendo la risposta.
   «Sto impostando una sequenza di fuoco automatica, ma qualcuno deve restare al timone» spiegò Dualla, indaffarata. «Così danneggiati e senza equipaggio, non possiamo combattere in modo efficace. Ma l’Harvester va distrutto entro pochi minuti, o Ferasa sarà perduta. Quindi intendo trasformare questa nave in un missile relativistico» spiegò.
   Shati fremette. “Missile relativistico” era un termine che descriveva qualunque corpo accelerato a una frazione significativa della velocità della luce. A quella velocità ogni oggetto, anche il più minuto, ha una forza d’impatto enorme. Per questo le astronavi, quando viaggiano a impulso, attivano il deflettore, deviando eventuali asteroidi o detriti spaziali. Altrimenti ogni sassolino colpirebbe lo scafo con l’energia di un siluro fotonico. E adesso Dualla intendeva trasformare l’intera Destiny, con la sua stazza da milioni di tonnellate, in un immane proiettile con cui colpire l’Harvester. E non c’era solo la massa da considerare. L’impatto avrebbe fatto detonare tutti i siluri rimanenti, oltre all’antimateria del nucleo. A conti fatti, c’era abbastanza energia da frantumare una piccola luna. Potevano distruggere l’Harvester; ma la Destiny si sarebbe dissolta in particelle elementari.
   «Non posso abbandonarla, Capitano» disse Shati con un filo di voce. «Sono la timoniera, spetta a me. Semmai è lei che dovrebbe salvarsi...» suggerì, lacerata fra opposte considerazioni. Non era impaziente di sacrificarsi, anzi ne avrebbe fatto volentieri a meno. Però le sembrava vile cavarsela a spese del Capitano, che lei stessa aveva scarcerato, istigandola per così dire a quella missione suicida. I suoi compagni, che già aveva lasciato malamente, le avrebbero creduto? O si sarebbero convinti che all’ultimo era fuggita, abbandonando Dualla al suo destino?
   «Non è una richiesta, ma un ordine!» tagliò corto la Deltana. Terminò d’inserire le istruzioni e lasciò la postazione tattica, accostandosi alla timoniera. «Ora vattene, sciocca testarda, o moriremo entrambe. Dammi i comandi e mettiti in salvo!» esclamò, sul punto di trascinarla via.
   Shati lesse i dati sulla consolle. Stavano sfrecciando a velocità elevatissima verso l’Harvester, su una nave condannata, tallonati dal nemico. Quell’attacco kamikaze era la sola cosa che poteva salvare Ferasa. E se lei non correva subito dallo stargate, sarebbe morta inutilmente. Non c’era onta nel salvarsi, se era il Capitano stesso a ordinarglielo, giusto?
   «Io... non la dimenticherò, Capitano. Grazie di tutto» mormorò la Caitiana, lasciando finalmente la poltroncina del timoniere.
   Dualla la occupò subito, accertandosi che le bionavi non rimontassero. Poi corresse la rotta in modo che, invece di passare accanto all’Harvester, la Destiny lo colpisse in pieno. Squillò l’allarme di collisione, ma la Deltana lo ignorò. «Grazie per avermi liberata, dandomi questa possibilità; ma c’è ancora molto da fare» avvertì. «Torna dai tuoi compagni, accertati che avvertano tutti del pericolo. E non vergognarti per le tue disgrazie; sei migliore di tanti ufficiali decorati che ho incontrato. Spero che un giorno anche tua madre se ne renda conto. Ora corri!» raccomandò.
   E Shati corse, come non aveva mai fatto in vita sua. Lasciò la plancia di volata, scendendo ai ponti inferiori mediante la scala a chiocciola. Non potendo teletrasportarsi in sala macchine, per via dei danni già subiti dalla nave, dovette percorrere mezzo chilometro di corridoi per raggiungerla. Intanto la CSS Destiny vibrava paurosamente per lo sforzo a cui erano sottoposti i propulsori e per i guasti sempre più numerosi. Ogni istante poteva essere l’ultimo, se una delle bionavi inseguitrici fosse riuscita a centrarla.
 
   «E quello cos’è?» chiese il Supervisore, notando il vascello in avvicinamento, evidenziato sullo schermo. Nel mentre continuava a giocherellare col cranio di Gort, come se fosse un antistress.
   «Si tratta dell’altra Destiny, signore» rispose l’addetto ai sensori. «Le bionavi l’hanno danneggiata gravemente, ma ancora non sono riuscite a finirla. Si sta avvicinando a gran velocità».
   «A quale velocità?» chiese il Supervisore, colto da un orribile sospetto.
   «Al 70% della velocità della luce, e continua ad accelerare» fu la temuta risposta.
   Il Supervisore serrò la stretta con tale violenza da frantumare il cranio di Gort. Le schegge ossee volarono ovunque nel salone. «La sua traiettoria?!» chiese, pur intuendo la risposta.
   «È in rotta di collisione» confermò il sottoposto, mentre le pareti iniziavano a trasudare un feromone d’allarme. «Ci colpirà tra venti minuti. La sua energia cinetica... signore, lo scafo non reggerà!».
   A quella conferma il Supervisore scattò in piedi, inviando un allarme telepatico a tutto il personale dell’Harvester. «Ordine d’evacuazione! Abbandonate immediatamente questa struttura. Ci ritiriamo al... Mondo Corallo» ordinò, dopo una breve esitazione.
   Il Mondo Corallo era la capitale della civiltà Undine, governata direttamente dall’Imperatore. E questi sarebbe stato decisamente contrariato di vederlo arrivare sconfitto e in fuga, lasciandosi dietro i rottami dell’Harvester, per giunta senza essersi impadronito di Ferasa. Tornare in quelle condizioni meschine era una condanna a morte per lui... ma restare sulla stazione era una condanna per tutti. Così non aveva altra scelta.
   All’ordine del Supervisore, tutti abbandonarono le proprie postazioni. Lasciarono il centro di comando e corsero allo stargate imbarcato sull’Harvester, con tutta la rapidità dei loro tre arti. Il Maestro Formatore lo attivò, aprendo un wormhole azzurrino che conduceva direttamente al Mondo Corallo, a migliaia d’anni luce da lì. Il Supervisore lo varcò per primo, mettendosi in salvo. Sfortunatamente la salvezza era un concetto relativo, quando bisognava giustificare un fallimento davanti all’Imperatore. Mentre osservava i suoi ufficiali che lo raggiungevano nel mondo corallino, il Supervisore non poté levarsi l’idea che quella disfatta fosse dovuta anche alle azioni del Viaggiatore. Un essere all’apparenza inoffensivo, che rifiutava di combattere... eppure era il loro avversario più insidioso. «E presto potrebbe essercene un altro» rifletté cupamente, pensando al giovane El-Auriano dell’USS Destiny.
 
   Giunta in sala macchine, un po’ ansante per la corsa, Shati si trovò davanti a un pandemonio. Gli allarmi automatici squillavano senza che nessuno li spegnesse. L’aria era densa, impregnata delle esalazioni acri che fuoriuscivano dai condotti infranti. Nella semioscurità risaltavano le scintille provenienti da cavi lacerati e consolle infrante. In tutto questo gli Exocomp erano all’opera, nell’eroico tentativo di circoscrivere e riparare i danni. I robottini lavoravano al massimo dell’efficienza: entravano e uscivano dai tubi di Jefferies, regolavano gli iniettori, ronzavano attorno al nucleo per stabilizzare il campo di contenimento. Shati però sapeva che i loro sforzi, per quanto encomiabili, erano inutili. Presto l’astronave sarebbe stata distrutta con tutto il suo contenuto.
   Conscia che ogni istante era vitale, la Caitiana attraversò di corsa il salone, giovandosi della sua abilità di vedere al buio. Schivò i cavi che pendevano dal soffitto e gli Exocomp indaffarati. Superò con un balzo una pozza corrosiva dovuta a una perdita di liquido refrigerante. E finalmente si trovò di fronte allo stargate.
   Era alieno e inquietante come la prima volta che l’aveva visto, con quella forma ad anello istoriata di geroglifici. Se non si fosse trattato di un’assoluta emergenza, Shati non avrebbe osato attraversarlo. Ma con la nave in procinto di disintegrarsi, non poteva fare la schizzinosa. Almeno dopo le ultime riunioni cominciava a farsi un’idea di come funzionasse. Anche così, era la prima volta che lo azionava, e temeva di sbagliare qualcosa.
   «Dunque, vediamo. Primo passo: abbassare il campo di forza» si disse la Caitiana. Questo fu facile: le bastò spegnere il generatore. Il campo che sigillava lo stargate si disattivò, permettendo nuovamente d’usarlo. Questo era sia un bene che un male. Era un bene, perché se era abbastanza svelta poteva andarsene. Ed era un male, perché altrimenti rischiava che fossero gli Undine ad abbordare la nave, come avevano fatto l’altra volta.
   «Secondo passo, i comandi...». La timoniera si accostò alla strana pulsantiera simile a una meridiana. Le sue mani indugiarono sui cerchi concentrici di simboli sconosciuti. Dunque, dove voleva andare? Gli Undine avevano posto stargate su tutti i mondi che avevano rubato, con l’eccezione di Arena, da cui nessuno doveva fuggire. Quindi aveva un’ampia scelta: in quel sistema c’erano dodici pianeti e una quarantina di satelliti (quasi tutti abitati, poiché in origine erano mondi autonomi).
   Shati tuttavia ricordò che la maggior parte di quei pianeti erano allo sbando, da quando gli Undine li avevano sequestrati. Il crollo dei commerci e il panico generalizzato si erano tradotti in violenze e saccheggi, tanto che le città erano quasi ovunque in rovina. Alcuni mondi soffrivano anche di sconvolgimenti climatici, dato che gli Undine li avevano piazzati su orbite diverse da quelle originali. Certo, Shati sperava, una volta arrivata, di contattare la Destiny affinché venisse a prenderla. Ma la vocina della prudenza, dentro di lei, sussurrò che doveva prepararsi all’eventualità di un soggiorno prolungato. E allora quale pianeta poteva scegliere, in quel folle assembramento, se non Ferasa? Non il suo Ferasa, che si apprestavano a salvare, ma quello dello Specchio. In realtà andare su un qualunque mondo dello Specchio non le garbava granché, ma era pur sempre meglio che disintegrarsi, o finire su un pianeta totalmente alieno.
   Presa la decisione, Shati fece per inserire le coordinate. E si bloccò di nuovo, accorgendosi con orrore che non le ricordava. Del resto le aveva osservate nei ritagli di tempo, nei giorni precedenti. E quei simboli alieni non l’aiutavano certo a memorizzare. Sarebbe servita la memoria infallibile di un robot per ricordare la giusta sequenza. Un robot come...
   «Be-beep! Perché tu qui?!» pigolò un Exocomp, accostandosi. La Caitiana fece istintivamente per allontanarlo, come se fosse un moscone fastidioso, ma si fermò a metà del gesto. Osservò la targhetta del robottino, che riportava il numero 64. Quello non era un Exocomp qualunque. Era Ottoperotto, l’insostituibile mascotte dell’USS Destiny. Shati rimase scioccata nello scoprire che gli ingegneri lo avevano lasciato lì, sull’astronave condannata. Intuì vagamente che lo avevano fatto perché la sua autonomia decisionale era un valore aggiunto in quei momenti concitati. E infatti ora poteva salvarle la vita.
   «Siamo in rotta di collisione con l’Harvester e dobbiamo andarcene» spiegò la timoniera. «Lo stargate può portarci in salvo su Ferasa, ma non ricordo l’indirizzo. Tu ce l’hai in memoria?!» chiese, quasi supplicante.
   «Affermativo, be-beep! Ottoperotto porta via Shati, se può andare con lei!» rispose il robottino, lampeggiando di lucette multicolori.
   «Ma certo che puoi accompagnarmi. Su, svelto, inserisci le coordinate!» lo esortò la Caitiana, sapendo che il tempo era agli sgoccioli.
   L’Exocomp si accostò alla pulsantiera, fluttuando appena sopra di essa. Replicò una sorta di punteruolo sul muso e s’inclinò in avanti, usandolo per premere i tasti. Ogni volta che ne pigiava uno, la parte interna dello stargate ruotava, fissando il glifo corrispondente su uno chevron della parte esterna. Ottoperotto premette sette simboli, che si abbinarono ai sette chevron, l’ultimo dei quali era posto in cima all’anello.
   Shati era rimasta ferma davanti allo stargate, osservando affascinata gli elementi in movimento. Si chiese quanti stargate esistevano, a parte quelli razziati dagli Undine. E se nel loro universo d’origine tutti i mondi della Via Lattea fossero uniti a quel modo? Che prospettive esaltanti si aprivano per l’esplorazione! «Ma così le astronavi sarebbero obsolete... e io mi troverei senza lavoro» rifletté, sentendo scemare l’interesse.
   In quella Ottoperotto dette la conferma finale, premendo il tasto rosso al centro della pulsantiera. D’un tratto Shati ricordò lo sbuffo d’energia distruttiva che aveva accompagnato la precedente apertura. Balzò di lato, accanto al robottino, appena in tempo per non essere disintegrata. Il vortice azzurrino venne in avanti, si arrestò e fu risucchiato come l’altra volta, lasciando una superficie simile a uno specchio d’acqua increspato. Non c’era modo di vedere cosa si trovava dall’altra parte. La Caitiana doveva fidarsi della memoria elettronica di Ottoperotto, sperando che li avrebbe condotti su Ferasa. Il resto lo avrebbe deciso una volta lì. Bisognava vedere in che condizioni era la zona in cui sarebbero sbucati, e se poteva contattare l’USS Destiny perché venisse a prenderli.
   «Un problema alla volta» si disse Shati, avvicinandosi alla splendente superficie bianco-azzurra. Quella tecnologia sconosciuta le metteva apprensione, ma era la sua unica via di salvezza. E poi il Capitano Rivera ci era già passato senza difficoltà. «Vieni, piccoletto» disse la timoniera, richiamando Ottoperotto. Accostò la mano alla mutevole superficie del wormhole, per immergerla prima del resto.
   Fu allora che un serbatoio di plasma si ruppe, provocando una massiccia esplosione in sala macchine. L’ondata di plasma incandescente avvolse e distrusse parecchi Exocomp. Shati sentì il boato assordante, subito seguito dall’ondata di calore e dallo spostamento d’aria alle sue spalle. La Caitiana non fece in tempo a reagire: fu sollevata da terra e scaraventata in avanti dall’onda d’urto. Dritta all’interno del wormhole. Con lei fu proiettato anche Ottoperotto, il cui fischio elettronico si perse nel boato. Mezza stordita e con la pelliccia strinata dal calore, Shati ebbe la rapida visione del tunnel spaziale che si snodava tra l’astronave e il pianeta di destinazione. Era come precipitare in avanti, senza potersi fermare: una sensazione terrificante.
   Per un attimo vi fu luce, segno che era sbucata dal lato opposto. No, non sbucata... proiettata in avanti dall’esplosione. La sua energia cinetica, infatti, si era conservata, al punto che nemmeno la Caitiana riuscì a cadere con le mani in avanti. Impattò contro la pavimentazione, alla stessa velocità di un incidente d’auto, e rotolò parecchi metri prima di fermarsi. Dopo la luce, Shati vide le stelle. E dopo quelle fu inghiottita da un’oscurità infinita e senza sogni.
 
   Andata Shati, Dualla si concentrò sul pilotare la CSS Destiny. Non era una cosa che, come Capitano, faceva spesso; come di rado stava al tattico. Ma durante la Guerra Civile le era capitato di fare entrambe le cose, e durante la costruzione dell’USS Destiny aveva familiarizzato coi comandi, così che ora riusciva a cavarsela in entrambe le mansioni.
   La Deltana eseguì una serie di manovre evasive per schivare il fuoco nemico, pur continuando a dirigersi contro l’Harvester. Per diversi minuti si concentrò interamente sui comandi, mentre la nave vibrava come se dovesse andare in pezzi. A un tratto alzò lo sguardo e vide l’Harvester che s’ingrandiva sullo schermo, circondato dalla nube verdastra del thalaron. Quella vista le fece accapponare la pelle. Era stata prigioniera lì per anni, inconsapevole nell’ibernazione, mentre il suo equipaggio periva negli scontri orchestrati dagli Undine. Beh, ora le cose erano cambiate. Ora stava tornando per fargliela pagare, con gli interessi.
   «Computer, attiva la sequenza d’attacco Dualla Alfa-1!» ordinò la Deltana, riferendosi allo schema che aveva impostato poco prima. La CSS Destiny aprì il fuoco con le armi anteriori, colpendo un settore particolarmente indebolito dell’Harvester. Il cannone a impulso e i siluri transfasici aprirono un ampio squarcio nello scafo organico. Invece di passare a un altro bersaglio, la nave continuò a martoriare lo stesso punto, così che la falla divenne sempre più ampia e profonda.
   Ormai l’Harvester era vicinissimo, tanto da invadere tutto lo schermo. L’allarme di prossimità indicò che mancavano pochi secondi all’impatto. Ma Dualla non deviò la traiettoria, anzi diresse la nave-missile con precisione contro la falla. Tutt’attorno le bionavi sparavano all’impazzata nel tentativo di fermarla. Un raggio antiprotonico sfiorò lo scafo, lacerandolo per un lungo tratto e mettendo a nudo i ponti sottostanti; ma nemmeno questo poteva fermare l’ultima corsa della CSS Destiny.
   La mente in tumulto di Dualla le ripropose alcuni dei momenti chiave che l’avevano condotta lì, come tanti flash. La conversazione con l’Ammiraglio Hod, che le aveva affidato la missione nello Spazio Fluido. Il primo contatto con gli Undine e la cattura. Gli interrogatori simili a torture. La liberazione e la fuga dall’Harvester. I difficili rapporti col nuovo equipaggio della Destiny, culminati nel suo arresto. Infine la nuova fuga e quell’ultimo, disperato assalto. Ogni volta si era sforzata di fare il suo dovere di Capitano della Flotta Stellare, anche quando le sembrava d’essere sola contro tutti. E la somma di queste decisioni l’aveva portata lì... alla fine della sua storia.
   Forse la Storia, quella ufficiale, non l’avrebbe ricordata con clemenza. Sarebbe stata nota come il Capitano che si era fatta sottrarre l’astronave e uccidere l’equipaggio. Il Capitano che, liberata dagli avventurieri, era tornata da estranea sulla propria nave e aveva fallito anche con loro. Il Capitano che, infine, si era vendicata con un attacco kamikaze che forse avrebbe solo acuito il conflitto. No, la Storia non sarebbe stata tenera con lei. Beh, pazienza. Il suo scopo era salvare Ferasa, nonché il nuovo equipaggio della Destiny, permettendogli di tornare a casa. Della fama – o infamia – postuma non si curava più di tanto. L’unica cosa importante era fare la differenza, in quel frangente cruciale...
   Un’ultima istantanea le attraversò la mente: l’ultimo weekend passato con la sua famiglia, su Delta IV, prima d’imbarcarsi per quella missione senza ritorno. Ecco, era per loro che valeva la pena fare la differenza; affinché non conoscessero mai gli orrori dello Spazio Fluido.
   «Per voi» sussurrò la Deltana, chiudendo gli occhi. In quell’attimo la CSS Destiny impattò contro l’Harvester, venendo annichilita.
 
   Non appena Talyn gli ebbe detto a che velocità arrivava l’altra Destiny, Rivera capì cosa aveva in mente Dualla. Capì altresì che né lui, né gli Undine potevano fermarla. L’impatto era inevitabile: potevano solo cercare d’allontanarsi il più possibile. «Fuoco a volontà contro l’emettitore di raggio traente, dobbiamo liberarci!» ordinò.
   Naskeel cominciò a far fuoco ancor prima che il Capitano terminasse la frase. L’USS Destiny crivellò l’emettitore col cannone a impulso, i raggi anti-polaronici e siluri d’ogni tipo, fino a provocare un’esplosione. Nell’attimo in cui il raggio traente venne meno, il timoniere partì a massimo impulso verso lo spazio aperto. L’Harvester e le bionavi rimpicciolirono dietro di loro. Fortunatamente non vi fu alcun inseguimento, perché gli Undine erano troppo occupati a indirizzare i colpi contro la CSS Destiny, nell’estremo tentativo di fermarla. Poco lontano, Ferasa aveva quasi raggiunto la consistenza solida, tanto che gli osservatori sulla superficie potevano assistere alla battaglia. Mentre fuggiva a massimo impulso, l’USS Destiny continuò a trasmettere a ripetizione il proprio messaggio d’allerta.
   «Impatto imminente» avvertì Talyn, inquadrando la visione di poppa sullo schermo, mentre la nave vibrava per lo sforzo dei propulsori.
   «Grazie, Capitano Dualla» mormorò Rivera, chinando il capo. Ed ecco, lo schermo divenne bianco per il lampo dell’impatto.
 
   Com’è noto i suoni non possono trasmettersi nel vuoto. Quindi nessun boato accompagnò l’esplosione. Nel silenzio dello spazio, ci fu un accecante lampo bianco, seguito da una pioggia di radiazioni. Esaurito il bagliore, tutto tornò visibile. La CSS Destiny era scomparsa, persino i suoi atomi si erano scissi in particelle elementari. Al suo posto c’era un cratere sulla superficie dell’Harvester, tanto vasto da riempire una delle venti facce. Tutta la stazione era percorsa da crepe, da un capo all’altro. E sul lato opposto, i detriti dell’impatto fuoriuscirono dallo scafo, schizzando nello spazio a velocità ancora prossime a quella della luce. Alcuni frammenti colpirono le bionavi, mettendole fuori uso. Per qualche momento parve che questa fosse la fine, con la stazione sì danneggiata, ma recuperabile.
   L’Harvester però non era una stazione qualunque. Al suo centro si nascondeva un immenso generatore gravimetrico, così potente da lacerare il velo tra le realtà. Ora quel generatore era stato crivellato dai frammenti dell’Harvester stesso, spinti attraverso la sua struttura. Di conseguenza cominciò a perdere energia, provocando danni a cascata, fino a superare la soglia critica. Quando i campi di contenimento collassarono, il reattore esplose.
   Visto da fuori, l’Harvester fu dilaniato dalle esplosioni a catena. Le strutture portanti cedettero e le antenne superstiti si frantumarono. Le bionavi ronzarono come vespe impazzite attorno alla megastruttura, ma non potevano fare nulla per salvarla. Infine, con un lampo ancora più intenso del precedente, l’Harvester si disintegrò. Un’onda d’urto toroidale si allargò nello spazio, travolgendo le bionavi. Ferasa, che era assai più lontana, fu fortunatamente mancata, anche se parecchi satelliti artificiali furono distrutti e i detriti rigarono il cielo come meteoriti.
   La fine dell’Harvester fu anche la fine delle emissioni gravimetriche. Senza di quelle, l’interfase – ancora incompleta – cominciò a richiudersi, come una ferita che si rimargina. Ferasa impallidì e divenne grigiastra, mentre la sua geografia si sfocava. Poco alla volta perse consistenza, facendosi diafana e impalpabile, come un ologramma che si disattiva. Ben presto non rimase che una sfera indistinta e semitrasparente, sempre più fioca. Infine anche quella pallida visione svanì del tutto. Il mondo dei Caitiani era scomparso, reclamato dal suo Universo d’origine; ai ladri non restava un solo granello di sabbia o goccia d’acqua. Così terminò la Battaglia dell’Harvester; ma non terminò l’odissea dell’USS Destiny nel Multiverso.
 
   Mentre si allontanavano dalla battaglia, gli avventurieri rimasero con gli occhi incollati allo schermo, osservando l’ultimo atto del dramma. Quando l’Harvester esplose e anche Ferasa svanì del tutto, vi fu un lungo silenzio. Il Capitano e gli ufficiali sapevano di aver vinto... a caro prezzo. Toccò a Talyn parlare per primo.
   «I sensori indicano che l’interfase s’è richiusa» mormorò il giovane. «Le bionavi sono danneggiate e non c’inseguono, per il momento».
   «Danni?» chiese Rivera, con voce roca.
   «Falla sulla fiancata destra – i campi di forza hanno retto – e lievi danni alla gondola di dritta» rispose Naskeel. «L’occultamento è ancora compromesso per via della falla» avvertì.
   «Plancia a sala macchine, possiamo aprire una fenditura per abbandonare lo Spazio Fluido?» chiese il Capitano, temendo la vendetta degli Undine. Senza la cavitazione né l’occultamento, la Destiny era troppo vulnerabile: dovevano andarsene subito.
   «Direi di sì, Capitano. Mi dia solo qualche minuto, per i controlli di sicurezza» rispose Irvik, tutto indaffarato.
   «Andiamo appena pronti. Plancia, chiudo» disse Rivera, e si abbandonò sulla poltrona. Ora che l’adrenalina lo stava abbandonando, si sentiva esausto.
   «E Shati?» chiese Losira con un filo di voce.
   «Nessuna navetta o capsula ha lasciato l’altra Destiny» rispose Talyn con tristezza. «Del resto, se lei era al timone, dev’esserci rimasta fino all’ultimo. Non ho rilevato nemmeno un teletrasporto d’emergenza... e poi dove sarebbe dovuta andare? Ferasa non era ancora pienamente trasferita, quindi non ci si poteva rifugiare. Non c’era via di scampo».
   «Dobbiamo accettare la realtà: abbiamo perso la nostra amica» disse il Capitano, reggendosi la testa con una mano. Come se non fosse abbastanza brutto, si erano lasciati piuttosto male.
   «È stata... molto coraggiosa» disse Scorpion, cercando di confortarlo.
   «Si è fatta carico della salvezza di tutti, come una vera cittadina» aggiunse Johnny Rico, echeggiando l’elegia funebre tenuta per la sua amata Dizzy, uccisa dagli Aracnidi.
   «Se si è sacrificata credendo in ciò che faceva, ora è in pace» concluse solennemente Yo’rek, inginocchiandosi in segno di rispetto e posando a terra la lancia da combattimento.
   «Terremo una commemorazione per lei e per Dualla, appena sarà possibile» decise Rivera. «Per adesso non aggiungerò altro. Tutti voi, che la conoscevate, sapete che vuoto ha lasciato tra noi. La Destiny non sarà più la stessa».
 
   Il giorno dopo l’USS Destiny stazionava nel Vuoto, il cosmo senza stelle che gli avventurieri avevano eletto a loro rifugio tra una missione e l’altra. Le riparazioni procedevano spedite, anche grazie agli Exocomp. Talyn tuttavia notò l’assenza di Ottoperotto, chiedendo spiegazioni. Così Irvik dovette ammettere di averlo lasciato sulla CSS Destiny, affinché la facesse resistere più a lungo in battaglia. L’El-Auriano se ne risentì, pur comprendendo le ragioni del gesto. «Non l’avresti fatto, se fosse stato una persona in carne e ossa» accusò.
   «No, ma infatti Ottoperotto non era una persona come noi» si difese l’Ingegnere. «Capisco che ti eri molto affezionato a lui. Anch’io gli volevo bene. Ma era pur sempre un robot, per quanto ben costruito. E se devo scegliere tra sacrificare le persone o le macchine, sceglierò sempre queste ultime» spiegò.
   «Lui era diverso dagli altri» insisté Talyn. «Aveva personalità e spirito d’iniziativa».
   «Lo so; per questo ho dovuto sacrificarlo» disse tristemente il Voth. «Era l’unico abbastanza creativo da sostituire un ingegnere. Suppongo che la vittoria sia anche merito suo. E allora ricordiamolo con gratitudine, come Shati» suggerì.
   «Shati ha scelto di sacrificarsi. Non credo che tu abbia dato a Ottoperotto la stessa possibilità» ribatté Talyn, e se ne andò con una scrollata di spalle. Non detestava Irvik per quella scelta difficile e in un certo senso obbligata. Ma si sentiva il cuore oppresso dall’ennesima perdita. Prima la sua famiglia, poi il Viaggiatore, ora Shati e Ottoperotto. Sembrava che tutti i suoi cari facessero una brutta fine, a dispetto dei suoi sforzi. E chi sarebbe stato il prossimo?
   «Almeno il Viaggiatore potrei rivederlo, se le sue ultime parole saranno profetiche» si disse il giovane, aggrappandosi a quella tenue speranza. Quel giorno avrebbe scoperto di più sul suo conto. E forse, anche su se stesso.
 
   Quella sera si tenne una mesta commemorazione in ricordo delle vittime. Gli avventurieri si radunarono nell’hangar 1, assieme ai loro ospiti. Scorpion e Rico, Yo’rek e Azrael, Master Chief e Liara erano tutti sopravvissuti alla battaglia e vollero partecipare alla cerimonia.
   Il Capitano spese qualche parola per ciascuno dei defunti. Parlò dell’ingegnere Gort, che si era offerto volontario per la rischiosa missione nell’Harvester e aveva reperito la nuova serie di coordinate. Raccontò di come il Viaggiatore era apparso proprio al momento giusto su Arena, prima per salvare Talyn dalla tempesta di sabbia, poi per mettere in fuga gli Aracnidi che assediavano il fortino, infine per smascherare l’Infiltratore. Narrò come aveva guarito Talyn dall’infezione e aperto il portale che li aveva riportati sulla Destiny, prima di svanire misteriosamente. Disse di Dualla, che si era trovata in una situazione senza uscita dopo la perdita del suo equipaggio, stretta fra il suo dovere di Capitano e le esigenze della Destiny, tanto da sacrificarsi affinché tutti loro si salvassero. Soprattutto parlò di Shati, di come dietro l’apparente allegria si celasse un animo ferito da una vita che non le aveva reso giustizia, al punto che anche lei aveva preferito immolarsi. Accennò persino a Ottoperotto, spiegando come non tutti gli eroi fossero di carne e sangue.
   «Come vedete, in questi ultimi giorni abbiamo perso molti amici» disse il Capitano, avviandosi alla conclusione. «In alcuni casi non abbiamo avuto il tempo di conoscerli a dovere. In altri non abbiamo compreso il loro valore, se non quand’era troppo tardi. Ma se ora siamo qui, vivi e con un futuro davanti, è grazie al loro sacrificio. Hanno salvato non solo questa nave, ma un intero mondo, che altrimenti sarebbe stato preso dagli Undine. E allora ringraziamoli per quanto ci hanno dato, e perdoniamo ogni incomprensione. Sforziamoci d’essere coraggiosi e leali come loro, mentre continuiamo il nostro viaggio. E quando finalmente torneremo a casa... allora brinderemo a loro. In libertà».
 
   L’indomani i Magnifici Sei furono chiamati in sala tattica, dove trovarono il Capitano e i suoi ufficiali ad attenderli. «Ebbene?» chiese Azrael.
   «Ho una buona notizia» disse Rivera. «Analizzando le nuove coordinate, munite di descrizione, crediamo di aver rintracciato le vostre realtà d’origine. Tutte, nessuna esclusa».
   «Quindi potete riportarci indietro?!» si emozionò Liara.
   «È il minimo che possiamo fare, per ringraziarvi dell’aiuto» confermò il Capitano. «Partiremo domani stesso, al termine delle riparazioni. Visiteremo le vostre realtà una per una, accompagnandovi dalla vostra gente. Naturalmente le vostre indicazioni saranno indispensabili per lasciarvi nel posto giusto. Ormai è chiaro che i pericoli abbondano in tutti gli Universi».
   «Grazie, Capitano» disse Master Chief. «Così potremo riprendere da dove eravamo rimasti. Abbiamo tutti una battaglia da combattere, o una ricerca da portare a termine».
   «Ne convengo» annuì Rivera. «Ma su tutti noi grava ancora la minaccia degli Undine. Più ci penso, più mi convinco che distruggere l’Harvester non è la fine della storia, anzi potrebbe scatenare reazioni ancora più rabbiose. Quindi è fondamentale che i nostri governi siano avvertiti, come voleva Dualla. Ora, per quanto riguarda la Federazione, spero ardentemente che abbia ricevuto il messaggio attraverso l’interfase. Noi stessi lo ribadiremo, se mai riusciremo a tornare. Ma vorrei che tutti voi faceste altrettanto coi vostri popoli. Siete tutti militari, chi più chi meno. Perciò, quando tornerete, avvertite i vostri governi e le forze armate del pericolo. Così saranno più preparati, in caso di necessità».
   «Uhm, non sarà così facile. Ci serviranno prove, per essere presi sul serio» avvertì Rico, suscitando l’approvazione degli altri.
   «Se i vostri governi vogliono le prove, le avranno!» assicurò Rivera. «Sono disposto a prendere contatto coi loro rappresentanti, a fargli visitare questa nave e a fornirgli tutte le informazioni che abbiamo raccolto sugli Undine, comprese le registrazioni dell’ultima battaglia. Questo dovrebbe bastare».
   «Ritengo di sì» approvò Yo’rek. «Più si diffonde la consapevolezza del pericolo, meglio è. E se gli Undine scoprono che tante realtà sono pronte a resistergli, potrebbero farsi passare la voglia d’invadere. A questo proposito, mi chiedevo se avete trovato anche le coordinate dell’Universo d’origine di Erzsébeth. Intendo quella vera, non l’Infiltratore» chiarì.
   «Sì, le abbiamo» confermò il Capitano. «Una volta finito con voi, andremo ad avvertire anche il suo Commonwealth. È giusto che pure loro siano avvisati. E lo dobbiamo alla vera Erzsébeth, che purtroppo non abbiamo mai conosciuto» aggiunse malinconico. I suoi resti giacevano chissà dove sotto le sabbie di Arena; misera fine per un’orgogliosa Nietzscheana.
   «Se l’Infiltratore ha detto la verità, e il Commonwealth è davvero esteso su tre galassie, allora sarebbe un potente alleato contro gli Undine» commentò Naskeel.
   «Senza dubbio. Ma in un modo o nell’altro lo saranno tutti, se riusciremo a farci ascoltare» disse Rivera, osservando i Magnifici Sei.
   «Uhm, non so» si rabbuiò Scorpion. «La mia realtà è già abbastanza incasinata. Siamo una piccola flotta, sempre braccata dai Cylon. Se la mia gente sapesse di quest’altra minaccia, scoppierebbe il caos».
   «Allora nel tuo caso non ci esporremo» propose il Capitano. «Useremo l’occultamento e il teletrasporto per riunirti alla tua gente, senza farci rilevare. Poi sarai tu a raccontare quel che ritieni opportuno. Se pensi che sia meglio mantenere il segreto, così sia».
   «Sì, credo che farò così» annuì Scorpion, meditabonda. «Dirò di aver perso la memoria, o qualcosa del genere. Tanto la situazione è così disastrata che non mi faranno troppe domande. Anche se, ora che ci penso...» aggiunse con aria speranzosa.
   «Sì?».
   «Potreste darmi le coordinate della Terra? Sono anni che noi superstiti la stiamo cercando, senza cavare un ragno dal buco. Se la trovassimo, risolveremmo la maggior parte dei nostri guai» confessò.
   «Uhm, si può fare» rimuginò il Capitano. «Anche se prima di stabilirvi dovreste accertarvi che i Cylon non vi sorprendano ancora. Comunque sì, posso darti le coordinate spaziali del nostro pianeta».
   «Dovremo tradurle in un sistema di riferimento diverso da quello federale, perché siano comprensibili» avvertì Talyn. «Possiamo usare le pulsar, come si faceva in passato. Mi metterò subito al lavoro» si offrì, anche per distrarsi dai recenti lutti.
   «Bene, cominciate subito» approvò Rivera. «Qualcun altro vuol tornare in incognito?».
   Gli altri cinque campioni scossero la testa. «Dalle mie parti, più vi fate vedere e meglio è» disse Master Chief. «V’introdurrò al centro di comando delle Nazioni Unite, così che possiate conferire voi stessi con le autorità».
   «Io invece vi condurrò alla Cittadella, sede dell’Alleanza dei Sistemi, così che possiate fare lo stesso» promise Liara.
   «E io vi condurrò alla Falange, la grande stazione da battaglia dell’Imperium» disse solennemente Azrael, per non essere secondo a nessuno. «Lì potrete parlare coi Signori della Terra, o forse persino col Primarca Guilliman».
   «Un pezzo grosso?» chiese il Capitano.
   «La più alta autorità dell’Imperium, dopo l’Imperatore stesso» dichiarò l’Ultramarine.
   «Beh, direi che mi basta» ammise Rivera, chiedendosi se da quelle parti erano tutti grossi e intrattabili come lui.
   «Io vi porterò sia dai leader dei Jaffa Liberi, su Dakara, sia dai nostri alleati Tau’ri... intendo gli Umani» chiarì Yo’rek. «Più fazioni sono avvertite, meglio è».
   «Ben detto» approvò il Capitano. «Qualche altra richiesta?».
   «Beh, ecco...» fece Rico, esitante, «non ho potuto fare a meno d’ammirare il vostro arsenale. I siluri, in particolare, sono più potenti di qualunque nostra arma. E ormai sapete contro cosa dobbiamo batterci. Sono anni che affrontiamo gli Aracnidi, e se dovessimo perdere, l’umanità sarebbe condannata. Perciò mi chiedevo se potreste venderci qualche siluro, o almeno i piani per costruirli...» suggerì, con una scintilla di bramosia.
   «Capitano?» fece Losira, guardandolo dubbiosa.
   «Niente da fare» disse Rivera con decisione, ricordando come quel marine fosse al servizio di un regime semi-fascista. «Capisco che vi battete per la sopravvivenza dell’umanità, ma non credo che la otterrete con armi ancor più distruttive».
   «Perché no?! Hai visto gli Aracnidi! Gli unici insetti buoni sono gli insetti morti!» sbottò Rico.
   «Può darsi» ammise il Capitano. «Ma è tempo che cominci a farti qualche domanda, Johnny. Ad esempio, chi ha cominciato la guerra? Voi o loro? Chi sta invadendo i pianeti altrui? Voi o loro?».
   A queste insinuazioni, il Tenente divenne paonazzo e sbuffò. «Loro ci bersagliano d’asteroidi per sterminarci...» cominciò.
   «Asteroidi così veloci da muoversi tra un sistema e l’altro, e così ben mirati da colpire le città prescelte? E perché la vostra flotta non li intercetta durante il tragitto?» incalzò il Capitano.
   «Perché ad ogni attacco i vostri superiori fanno sbarcare la fanteria, senza adeguato supporto aereo né mezzi corazzati? Ormai dovrebbero aver capito che così vi mandano al massacro» aggiunse Naskeel.
   «Io non lo so... ma che cosa state cercando d’insinuare?!» si risentì Rico, passando lo sguardo dall’uno all’altro.
   «Il mio sospetto è che il vostro regime – che detto fra noi mi sembra soffocante – sfrutti questa contesa con gli Aracnidi per giustificare la propria esistenza e il controllo sulle vostre vite» spiegò Rivera. «Non dico che abbia scatenato apposta la guerra, ma di certo non si comporta come se volesse vincerla. Direi piuttosto che la sta trascinando in lungo, mandando ogni volta i fanti come te al macello. Così i vostri leader vi danno un nemico da temere e combattere, senza che voi protestiate per le libertà che vi hanno tolto. Ora, non dico che dovreste diventare amiconi degli Aracnidi; forse non sarà mai possibile. Però dovreste smetterla d’obbedire ciecamente alle autorità e iniziare a chiedervi seriamente che società volete. Finché non comincerete a farlo, le nostre armi saranno off-limits. Questa è la mia ultima parola» disse in tono categorico.
   «E va bene... vinceremo anche senza il vostro aiuto!» mugugnò Rico. Eppure il discorso sembrava averlo colpito, tanto che da quel momento fu più taciturno e smise di lodare il suo regime ad ogni occasione.
 
   Terminata la riunione, i Magnifici Sei lasciarono la sala tattica. Anche Talyn se ne andò, per fornire a Scorpion una mappa stellare che la sua gente potesse usare per raggiungere la Terra. Gli altri stavano per seguirlo, ma il Capitano li trattenne. «Aspettate» disse. «Ci restano cose di cui discutere».
   «Già... ad esempio non hai detto cosa conti di fare, una volta riportati quei sei a casa loro» notò Losira.
   «Ah, non abbiamo scelta. Useremo la nuova lista di coordinate per continuare a muoverci nel Multiverso. E ogni volta che esploreremo un’altra realtà, diffonderemo la consapevolezza della minaccia Undine» stabilì Rivera.
   «Allora è questo il nostro futuro?» chiese Losira, sconsolata. «Vagheremo per sempre nel Multiverso, avvertendo gli altri, ma senza trovare pace né riposo per noi stessi?!».
   «Non è detto» obiettò il Capitano. «Il Viaggiatore era convinto che un giorno ci saremmo rivisti. E io penso che lui sarebbe in grado di riportarci a casa, se le condizioni fossero propizie. Quindi dobbiamo attendere il prossimo incontro».
   «Ma non era morto?» si accigliò la Risiana. «Hai detto che si è dissolto nell’aria...».
   «Ho detto di averlo visto dissolversi nell’aria» puntualizzò Rivera. «Non so se questo significhi che è morto. Di solito le persone non muoiono così. Quindi potrebbe esserci una spiegazione alternativa alla morte. Forse si è trasferito, o è stato trasferito altrove. O magari non è mai stato davvero su Arena, e quella che noi vedevamo era un qualche genere di proiezione. Questo spiegherebbe perché gli Undine non sono mai riusciti a ucciderlo, in tanti anni».
   «Se era una proiezione, era tangibile. Ha sollevato oggetti, consumato cibo, e alcuni di noi lo hanno toccato» notò Naskeel.
   «Lo so, è strano. Non ho tutte le risposte» ammise il Capitano. «Ma è innegabile che quell’essere ci abbia aiutati. E credo che avesse ancora qualche asso nella manica quand’è scomparso. Se ha detto che ci rivedremo, sono incline a credergli».
   «Ma insomma, chi è questo Viaggiatore?!» esclamò Losira. «Da dove viene, che cosa vuole...?».
   Rivera si sforzò d’esporre tutto ciò che aveva appreso sul suo conto, sia per esperienza diretta, sia spulciando il database federale. Mentre parlava, si rese conto che non era molto... ed era tutto vago. Quando si parlava del Viaggiatore non c’erano certezze, solo ipotesi e deduzioni.
   «Ma che vuole quell’essere da Talyn?!» chiese Losira, quando si accorse che il Viaggiatore era interessato soprattutto al giovane.
   «Gliel’ho chiesto, dopo che lo guarì dall’infezione» ricordò il Capitano, sforzandosi di ricordare quella lunga chiacchierata. «Il Viaggiatore mi disse che lui non è l’unico del suo genere, ce ne sono altri. Ma ciò che li accomuna non è la patria o la specie, bensì il talento e l’addestramento. Pochissimi hanno il talento, e ancor meno vengono scoperti e addestrati. Ebbene, il Viaggiatore è convinto che Talyn sia uno di quei pochi eletti...».
   «E vorrebbe portarselo via per addestrarlo?! Non se ne parla!» rabbrividì la Risiana. Si guardò attorno, come se temesse di vederlo spuntare in quel preciso momento per reclamare il giovane.
   «Calmati!» la esortò Rivera. «Non sei sempre stata tu a dire che Talyn ha qualcosa di speciale? Non riuscivi a definire cosa fosse, nemmeno tu che lo conosci meglio di tutti; ma avvertivi che qualcosa c’era. Ebbene, avevi ragione. Ora finalmente conosciamo qualcuno che se ne intende, e potrebbe addestrarlo...».
   «Addestrarlo per cosa?!» esplose Losira. «Qual è la politica di questi Viaggiatori? Quali sono le regole d’ingaggio? Le modalità d’intervento? E i loro obiettivi? Chi li comanda? Dove vivono? Come risolvono i contrasti? Insomma, ti rendi conto che non sappiamo niente di loro? E tu vorresti consegnargli Talyn?!».
   «Io non voglio consegnargli nessuno» si spazientì il Capitano. «Ma Talyn non è più quel ladruncolo di strada che trovasti a Stardust City. Ormai è un adulto, padrone delle sue scelte. Quando il Viaggiatore tornerà, Talyn potrà fargli domande più approfondite. Se le risposte lo interesseranno, sarà suo diritto seguirlo, anche solo per verificare come stanno le cose. Altrimenti resterà con noi. Del resto ho già messo in chiaro col Viaggiatore che lui ci è utile qui, e comunque non se ne andrebbe per ragioni futili. Abbiamo raggiunto un accordo...».
   «Un accordo col Viaggiatore? Cos’avete stabilito esattamente? Sii preciso! Questi esseri sovrannaturali sono implacabili, quando stipulano dei contratti!» avvertì la Risiana, ancora agitata.
   «Quello non è il Diavolo, okay? Almeno spero che non lo sia» disse Rivera, innervosito. «E il nostro accordo è stato puramente verbale. Abbiamo convenuto di non pressare ulteriormente Talyn, per adesso. Se il Viaggiatore si farà di nuovo vivo, potrà parlargli e invitarlo nel club. Ma non è detto che la cosa vada in porto. Vedi, c’è un altro requisito, oltre al talento... la vocazione, ecco. Per diventare Viaggiatori ci vuole la vocazione» ricordò. «Se salterà fuori che Talyn non ce l’ha, fine del discorso».
   «E se invece l’avesse...» mormorò Losira.
   «Starà a lui decidere» tagliò corto il Capitano.
   «Una scelta difficile» notò Irvik. Anche lui era molto affezionato al giovane, al quale aveva dato lezioni d’ingegneria, e lo inquietava l’idea di vederlo partire verso una destinazione così vaga.
   «Sempre meglio che nessuna scelta» sospirò Rivera. «Non è quello che spesso è mancato a noialtri? La possibilità di scegliere cosa fare delle nostre vite? Ora che Talyn ha questa possibilità, non me la sento di negargliela. Comunque stiamo parlando del futuro; per adesso le cose non cambieranno. Talyn è ancora fra noi, e vorrei – anzi, vi ordino – di non parlargli di queste cose. Non dobbiamo dargli l’impressione d’essere un mostro, né un eletto, per non destabilizzarlo. Continueremo a trattarlo come prima, intesi?».
   Gli avventurieri borbottarono il loro assenso. Allora il Capitano chiuse la riunione, non volendo che l’interessato s’insospettisse nel vederli ancora raccolti in sala tattica. Tutti tornarono alle loro occupazioni. La Destiny era ancora in riparazione; c’era molto da fare prima di riprendere il viaggio. Per la maggior parte di loro il mistero del Viaggiatore era solo una delle tante stranezze finora incontrare, da accantonare finché non fosse tornato rilevante. Ma chi era più vicino a Talyn non poteva scordare ciò che era stato detto.
 
   Quella sera il Capitano fu chiamato da Talyn nel laboratorio di astrometria. All’ingresso trovò l’El-Auriano in compagnia dei Magnifici Sei. Sullo schermo campeggiava una mappa stellare, con evidenziate numerose pulsar.
   «Salve, Capitano! Come vedi, abbiamo fatto progressi» lo accolse il giovane.
   «Hai la mappa da dare a Scorpion?» chiese Rivera.
   «È cosa fatta» annuì Talyn. «Già che c’ero, ho preparato un piano di volo per riportare i nostri alleati a casa. Mi sono consultato con tutti e abbiamo deciso chi ha più urgenza di tornare» spiegò.
   «E sei riuscito a mettere tutti d’accordo?!» si stupì il Capitano, sapendo quanto fosse difficile farli ragionare.
   «Hu-hu» confermò l’El-Auriano, azionando i comandi. Alla mappa stellare subentrò un complesso piano di volo, con una mappa tridimensionale che indicava il tragitto da percorrere per ricondurre ciascuno al proprio posto.  Era organizzato in modo da non dover ripassare per luoghi vicini, così da svolgere tutto nel minor tempo possibile. Rivera lo studiò attentamente, senza trovarvi alcun difetto.
   «Piano approvato» disse il Capitano. «Partiremo domattina. Signori, se volete sbronzarvi sulla Destiny, questa è l’occasione. È l’ultima serata che passerete tutti assieme» informò gli ospiti.
   «Sentito? Andiamo al bar, e vediamo chi regge di più l’alcool!» propose Scorpion, su di giri per l’allegria.
   «Io non posso ubriacarmi» spiegò Azrael.
   «Bah! Voi Space Marines siete noiosi! Che fate per divertirvi?» chiese la caposquadriglia del Battlestar Galactica.
   «Raramente abbiamo del tempo libero, tra una battaglia e l’altra» rispose l’Ultramarine. «Oltre a curare il nostro equipaggiamento e a studiare strategia, ci dedichiamo a preghiere e atti di devozione».
   «Ugh, non fa per me. Beh, t’insegnerò a giocare a carte. E chissà che, con tutte queste bevande aliene, non trovi qualcosa capace d’ubriacarti. Su, tutti in mensa! Facciamo bisboccia!» esclamò Scorpion, suscitando il moderato interesse dei colleghi.
   «Io non faccio bisboccia» disse Master Chief, cercando di sfilarsi.
   «Oh sì, invece! Così finalmente vedremo che faccia hai!» insisté Scorpion, dato che non l’avevano mai visto togliersi il casco.
   I sei campioni lasciarono la sala astrometrica, bisticciando e schiamazzando. Le loro voci si persero nel corridoio, finché tornò la calma. Nel laboratorio erano rimasti solo Rivera e Talyn.
   «Che tipi» commentò l’El-Auriano. «A volte sono pesanti, ma... credo che mi mancheranno».
   «Sì, anche a me» ammise il Capitano. «Ma è giusto che tornino alle loro responsabilità. C’è gente che conta su di loro, e loro stessi hanno delle missioni in sospeso. E poi chissà... forse li rivedremo» ragionò.
   «Io vorrei rivedere il Viaggiatore» sospirò Talyn. «C’è così tanto che avrebbe potuto insegnarmi! Avrei dovuto approfittare maggiormente del tempo che ho avuto, quand’eravamo nel suo rifugio. Ma in quei giorni non pensavo che a tornare da voi. Non che me ne penta, sia chiaro!» si corresse, temendo di sembrare insensibile.
   «Non preoccuparti, capisco cosa intendi. Era un essere straordinario, il più esperto del Multiverso che abbiamo mai incontrato» convenne Rivera. Visto che ormai erano in argomento, decise di sondare cautamente il parere del giovane. «E così, vorresti rivederlo... per imparare che cosa?».
   «Mah, non saprei... qualunque cosa avesse da dirmi sul Multiverso» rispose il giovane, evasivo. «E magari anche un po’ della sua filosofia. Anche se non combatteva, aveva del fegato per opporsi agli Undine. Vorrei capire come bilanciava le due cose».
   «Uhm... ma tu pensi che sia ancora vivo?» chiese il Capitano, cercando di non dare a vedere quanto la cosa lo interessasse.
   «Sono convinto di sì» rispose Talyn, osservando la mappa stellare senza realmente vederla. «E prima o poi lo rincontreremo» aggiunse con una strana sicurezza, che l’altro non osò contestare.
   «Beh, se lo dici tu...» fece Rivera, con un sorriso incoraggiante. In realtà quella sorta di profezia lo inquietava, perché sembrava indicare che Talyn era destinato a seguire il Viaggiatore, forse persino a diventare come lui.
   «Diamo tempo al tempo» si disse il Capitano, lasciando il laboratorio astrometrico. La loro nuova odissea stava per cominciare, e prometteva d’essere ancor più straordinaria della precedente. Le porte del Multiverso erano aperte, le occasioni illimitate. Nessuno, nemmeno il Viaggiatore poteva prevedere ciò che avrebbero fatto. E in tutto questo, lui ancora non voleva rinunciare alla speranza che prima o poi sarebbero tornati a casa. Del resto, se la Flotta Stellare aveva ricevuto il loro messaggio, di certo si era già attivata per cercarli...
 
   La Federazione era in subbuglio. Mai prima d’ora uno dei suoi pianeti era svanito fisicamente dallo spazio, solo per riapparire mezz’ora dopo, con gli abitanti sconvolti e terrorizzati. Molti Caitiani erano fuggiti per il timore che il fenomeno si ripetesse, ma il panico stava dilagando anche sugli altri mondi. La Flotta Stellare aveva inviato una nutrita flotta a sorvegliare il pianeta, per proteggerlo in caso di nuovi attacchi. Ma un dispiegamento di forze non bastava: bisognava capire cos’era successo per sviluppare una risposta efficace. Ecco perché l’Ammiraglio Hod aveva convocato una riunione d’emergenza del Comando di Flotta.
   «Seduti, prego» disse l’Elaysiana dai corti capelli grigi, entrando in sala. Sedette al suo posto e gli altri la imitarono, occupando i seggi predisposti attorno all’ampio tavolo a ferro di cavallo. C’erano rappresentanti di tutte le branche della Flotta Stellare e persino della Sezione 31, il famigerato servizio segreto.
   «Come sapete, siamo qui riuniti per discutere gli allarmanti fatti di Ferasa» riprese l’Ammiraglio. «Gli osservatori astronomici posti in superficie, come anche i satelliti in orbita, certificano che il pianeta è stato temporaneamente traslato in un’altra realtà. Per fortuna il trasferimento è stato incompleto e poi si è invertito, restituendoci il pianeta. Ma c’è poco da stare tranquilli, se un simile evento ha potuto coglierci di sorpresa. Vi dico fin da subito che, stando ai sensori, Ferasa è incappato in un’interfase di spazio. Sappiamo ancora poco di questi fenomeni, ma una cosa è certa: possono essere sia naturali che indotti».
   «Conosciamo almeno un caso d’interfase naturale, tuttora operante» intervenne il direttore dell’Ufficio Cartografico di Flotta. «Il pianeta Thalassa, che ospita una colonia Kriosana, oscilla tra il nostro Universo e un cosmo senza stelle con un ciclo regolare. Ogni quarant’anni l’intero sistema viene traslato nel Vuoto, rimanendovi per un mese, e poi torna qui, puntuale come un orologio. Il ciclo dura da almeno quattrocento anni, senza variazioni».
   «Sono al corrente del fenomeno di Thalassa. Ho avuto modo d’interessarmene, negli ultimi anni» garantì Hod. «Ma il caso di Ferasa è diverso. Abbiamo prove inoppugnabili che l’interfase è stata creata artificialmente, nel deliberato tentativo di sequestrare il pianeta. Osservate queste riprese, effettuate durante l’evento».
   Così dicendo l’Elaysiana attivò lo schermo in fondo al salone. Mostrò le registrazioni della battaglia, inquadrando l’Harvester. I capi della Flotta Stellare lo osservarono corrucciati.
   «Questa struttura emetteva enormi quantità d’energia gravimetrica, tanto da provocare l’interfase. Non c’è nulla di simile nel nostro database, ma i sensori indicano che si tratta di tecnologia organica. E guardate qui» aggiunse Hod, bloccando l’immagine e ingrandendo un dettaglio. Un paio di bionavi giganteggiarono sullo schermo.
   «Undine» riconobbe un ufficiale di nome Norrin. Era l’unico Hirogeno che sedeva in quella tavolata. Dirigeva gli Hunter Squadron, i corpi speciali che davano la caccia ai criminali di guerra, assicurandoli alla giustizia.
   «Già, proprio loro» confermò l’Elaysiana, arricciando il naso. «Adesso si spiega il loro interesse nei confronti di Ferasa, con quelle ricognizioni furtive. Si preparavano a rubare il pianeta... per aggiungerlo alla loro collezione. Guardate cos’hanno rivelato i sensori a lungo raggio!».
   Così dicendo Hod mostrò il sistema stellare che gli Undine avevano assemblato in secoli di ruberie. Decine di pianeti e satelliti – incluso Arena – si susseguirono sullo schermo, sotto gli occhi sconcertati dei presenti. «Questi mondi sembrano provenire ciascuno da un cosmo differente, la maggior parte dei quali ci sono ignoti. Ma il più interessante è forse questo» aggiunse l’Ammiraglio, inquadrando un pianeta tropicale.
   «Ferasa?» si stupì uno dei presenti.
   «No, dato che le riprese sono state fatte dal nostro Ferasa, e quest’altro pianeta era già aggregato al sistema. L’ipotesi più probabile è che sia il Ferasa dello Specchio» spiegò Hod. «Come vedete, le attività degli Undine sono pervasive».
   «Ma stavolta hanno fallito...» notò un ufficiale.
   «Sono stati fermati» corresse l’Elaysiana. «E guardate un po’ chi dobbiamo ringraziare». Mostrò di nuovo la battaglia attorno all’Harvester, bloccandola mentre la nave attaccante era visibile. La ingrandì finché divenne riconoscibile.
   «La Destiny!». Un mormorio stupito corse lungo la tavolata. Tutti i presenti conoscevano la nave dispersa nel Multiverso.
   «Corretto. E le sorprese non sono finite» disse Hod, mostrando le fasi successive della battaglia. Dopo l’attacco iniziale la Destiny fuggì, gravemente danneggiata, facendosi inseguire da alcune bionavi. Le subentrò un’astronave identica, ma ancora integra, che proseguì lo scontro. L’Ammiraglio zoomò ancora di più, fino a inquadrare il suo nome e numero di registro.
   «CSS Destiny... perché quella C?» chiese un altro ufficiale.
   «Stando ai nostri rapporti, quella è la sigla delle astronavi in forze alla Confederazione, nell’Universo dello Specchio» rivelò il rappresentante della Sezione 31. «Queste riprese dimostrano che i due vascelli hanno unito le forze contro gli Undine».
   «Ma la nostra Destiny non era caduta in mano a una banda d’avventurieri?» chiese Norrin.
   «Oh, sì. Infatti sono stati loro a lanciare l’attacco» confermò Hod. «Durante la battaglia, entrambe le Destiny hanno trasmesso ripetutamente un messaggio subspaziale attraverso l’interfase. Era un messaggio iper-compresso, che ci è giunto danneggiato, ma grazie alle numerose ripetizioni lo abbiamo ricostruito pressoché nella sua interezza.
   Si tratta dei diari dei sensori della Destiny, più i diari di bordo degli occupanti – cioè gli avventurieri – da quando vi hanno messo piede. Sono informazioni senza prezzo sul Multiverso: tre anni e mezzo di straordinarie esplorazioni. Un anno intero riguarda solo l’Universo nello Specchio, nel quale hanno contribuito addirittura a un cambio di regime nella Confederazione. Ma le informazioni più preziose, per noi, riguardano gli Undine. I nostri esperti sono già al lavoro e voi stessi potrete visionare il materiale. C’è anche un messaggio personale di Rivera, che si augura di renderci un servizio utile... nel caso non fossero sopravvissuti alla battaglia» si adombrò.
   «Sono risultati straordinari, soprattutto se consideriamo che non sono opera d’ufficiali addestrati, ma di questi strani avventurieri» commentò un graduato. «Se torneranno, dovremo graziarli».
   «Non torneranno» disse l’Ammiraglio, incupita. «Osservate l’epilogo della battaglia». Mostrò di nuovo le riprese ad ampio raggio. La nave contrassegnata come USS Destiny si era fatta inseguire dagli Undine, mentre la CSS continuava l’attacco. Ben presto fu evidente che da sola non sarebbe riuscita a distruggere l’Harvester. Infatti, dopo aver distrutto alcune antenne, fu trattenuta da un potente raggio traente. Le bionavi la circondarono, senza tuttavia aprire il fuoco.
   «Che stanno facendo... perché non la finiscono?» chiese uno dei presenti.
   «Hanno cercato d’abbordarla» indovinò Norrin.
   «Già, ma pare che gli sia andata male» annuì Hod. «E adesso...». Una raffica di siluri colpì l’Harvester. La CSS Destiny ne approfittò per liberarsi dal raggio traente e fuggire. Subito dopo qualcosa di rapidissimo centrò la stazione, disintegrandosi nell’impatto. I detriti schizzarono ovunque, danneggiando le bionavi. Sotto gli occhi sgranati dei presenti, l’Harvester esplose, creando un’onda d’urto toroidale che mise definitivamente fuori uso le bionavi. Allora anche la ripresa impallidì e si dissolse, finché riapparvero le stelle della Via Lattea.
   «La ripresa è finita perché, con la distruzione della struttura Undine, l’interfase s’è chiusa e Ferasa è tornata nel nostro cosmo» chiarì l’Ammiraglio.
   «Cos’era quel bolide che ha dato il colpo di grazia alla stazione?» chiese un ufficiale.
   «Gli analisti ritengono che fosse l’USS Destiny, gravemente danneggiata dalla battaglia» rispose Hod con gravità. «Privati d’ogni possibilità di fuga, gli avventurieri hanno trasformato la loro nave in un missile relativistico. Senza il loro sacrificio, la stazione non sarebbe mai stata distrutta e noi avremmo perso Ferasa».
   Cadde il silenzio, mentre tutti i presenti riflettevano su quel gesto estremo. A nessuno balenò il sospetto che le due astronavi si fossero scambiate i contrassegni per ingannare gli Undine, e che quindi l’USS Destiny fosse ancora integra, con l’equipaggio in vita.
   «Quegli avventurieri hanno salvato un mondo e ci hanno avvertiti del pericolo. Tutta la Federazione deve conoscere il loro coraggio» disse infine Norrin.
   «Molte di queste informazioni sono top secret, ma... parlerò col Presidente, per vedere cosa possiamo divulgare» promise Hod. «Del resto, dopo i fatti di Ferasa è impossibile mantenere il segreto su quanto sta accadendo. I cittadini vorranno delle risposte, ed è meglio dargliele, piuttosto che far proliferare le illazioni».
   «Quindi... qual è la prossima mossa?» chiese l’Hirogeno. «Anche se la stazione è distrutta, dubito che questa sia la fine della storia. Gli Undine potrebbero ricostruirla... forse ne hanno già pronte delle altre. E poiché è stata una nave federale a sconfiggerli, potrebbero scatenare fin da subito delle rappresaglie» avvertì.
   «Infatti ho diramato un messaggio d’allerta a tutta la Flotta. Le navi in esplorazione sono richiamate a proteggere i pianeti, i cantieri e altre strutture chiave. Le guarnigioni sono pronte alla battaglia» convenne l’Ammiraglio. «Del resto, è da quando scomparve la Destiny che premo per potenziare le difese. E a diciannove anni dal termine della Guerra Civile, siamo finalmente tornati al nostro potenziale prebellico».
   «Bene, ma... non si vincono le guerre stando sulla difensiva. E questa, ormai, è una vera guerra» avvertì Norrin. «Prima contrattacchiamo, meglio è».
   «Non lancerò la Flotta allo sbaraglio contro una delle specie più potenti che conosciamo» obiettò Hod. «Per adesso esamineremo i dati inviati dalla Destiny, così da approfondire la conoscenza degli Undine e cercare punti deboli. Inoltre modificheremo il maggior numero possibile di vascelli, per dargli la capacità di muoversi nel Multiverso. Appena possibile manderemo alcune di queste navi in esplorazione, per avere informazioni aggiornate sul nemico. Altre le terremo pronte all’intervento, in caso di nuovi attacchi».
   Guardandosi attorno, l’Elaysiana notò che alcuni dei presenti apparivano insoddisfatti. «Lo so, non è molto, come risposta a un simile attacco. Ma è la condotta più prudente. E la prudenza è d’obbligo, se non vogliamo rischiare un confitto ancor più rovinoso di quelli dei decenni passati» si giustificò. «Dovremo affidarci all’intelligence e alla ricerca scientifica per prepararci. In ogni caso, i nostri sforzi devono tendere a una soluzione diplomatica, per quanto appaia difficile».
   «E se gli Undine non fossero minimamente interessati alla diplomazia? Se lanciassero un’invasione su larga scala per vendicarsi dell’insuccesso? Se aprissero interfasi ovunque per rubare altri mondi?» incalzò Norrin.
   «Allora... che Dio ci aiuti» mormorò Hod, sapendo che nessun sacrificio come quello della Destiny sarebbe bastato a salvarli.
 
   «Be-beep. Be-beep. Be-beep».
   Il fischio elettronico era fastidioso, insistente, come quello di una sveglia. Shati si girò su un fianco, cercando di rimboccarsi delle coperte inesistenti. «Ugh... ancora cinque minuti...» biascicò, rifiutando d’aprire gli occhi.
   «Be-beep. Sveglia, Shati!» pigolò una vocina elettronica. La Caitiana la riconobbe confusamente come quella di Ottoperotto. Prima che potesse schiarirsi la mente, il robottino le si accostò e le diede dei colpetti, come un cagnolino che cerchi di svegliare il padrone. Siccome Shati non reagiva, l’Exocomp optò per una terapia d’urto. Replicò un circuito elettrico sul proprio muso e tornò a sfiorarla sulla spalla, dandole la scossa.
   Fzzzt!
   «Meow!» mugolò Shati, balzando in piedi con la pelliccia arruffata e sfrigolante. «Che t’è saltato in mente, stupido barattolo?! Stai cercando d’arrostirmi?!» protestò, sfiorandosi la spalla dolorante. Non era l’unica parte del corpo a farle male. La timoniera era tutta indolenzita, come se fosse stata presa e scagliata a grande distanza.
   «Shati sveglia! Battaglia finita, Ferasa salva, be-beep! CSS Destiny distrutta, USS Destiny fuggita. Noi dispersi su altra Ferasa, be-beep!» pigolò Ottoperotto, ronzandole attorno tutto animato.
   «Ma che stai...» fece Shati, sul punto di scacciarlo infastidita. Ma si fermò a metà della frase e del gesto. Le memorie dell’ultima giornata fluirono in lei, come acqua da una diga crollata. Ricordò l’ammutinamento contro Dualla e il ritorno del Capitano con gli altri dispersi. Rammentò come, divorata dall’ansia per il suo mondo, aveva liberato Dualla e si era trasferita con lei sulla CSS Destiny, assumendone il controllo. Poi la disperata battaglia contro gli Undine, i danni irreparabili alla nave, l’attacco kamikaze contro l’Harvester. Ricordò le ultime parole di Dualla, che le ordinava di salvarsi, e la corsa in sala macchine per attivare lo stargate. Lo aveva attivato? Sì, ricordava il vortice azzurrino e la superficie simile a uno stagno increspato. Aveva cercato di varcarlo... ma poi le cose si facevano confuse. Osservando la sua tuta bruciacchiata e la pelliccia strinata, dedusse che c’era stata un’esplosione in sala macchine, e lei era stata scagliata attraverso il tunnel spaziale. Ottoperotto l’aveva seguita, o era stato gettato anche lui nel wormhole. Così erano entrambi in salvo... ma dove?
   Shati si guardò attorno. Si trovava in un vasto salone, che pareva la hall di uno spazioporto. La luce naturale filtrava da alti finestroni, rivelando un ambiente abbandonato. C’erano macerie ovunque e la vegetazione cresceva negli interstizi dei muri. Qua e là erano ancora leggibili delle scritte in lingua Caitiana. Ma certo, ora ricordava. Negli ultimi momenti sulla CSS Destiny, con la nave lanciata a tutta velocità contro l’Harvester, aveva dovuto scegliere una destinazione... e aveva scelto il suo mondo. O ad essere precisi, il corrispettivo dello Specchio, che gli Undine avevano annesso da anni alla loro collezione.
   Voltandosi, la timoniera vide lo stargate da cui era uscita. Era addossato alla parete di fondo del salone e appariva disattivato. Lì accanto vi era la colonnina con i comandi d’attivazione. Era sporca e piena di rampicanti, come se fosse in disuso da anni. Eppure lo stargate funzionava, dato che lei vi era appena passata. «Per quanto tempo sono rimasta svenuta?» volle sapere.
   «Sei ore, diciotto minuti, quarantasette secondi, be-beep!» rispose Ottoperotto.
   «Caspita, devo aver preso una bella botta» mugugnò la Caitiana, massaggiandosi la testa. Era un bene che il robottino fosse rimasto a vigilarla e infine l’avesse svegliata. Non le piaceva l’idea di giacere priva di sensi in quel luogo sconosciuto.
   «Ottoperotto temeva guasto al cervello, be-beep! Ottoperotto non abilitato a riparare cervello di Shati!» disse il robottino, ancora in apprensione.
   «Cosa... il mio cervello non s’è guastato, okay?! Ho solo preso una botta, ma ora sono sveglia!» garantì la Caitiana. «Sono sveglia e posso chiamare i soccorsi. Shati a Destiny...» disse, portandosi istintivamente la mano al comunicatore. Ma le sue dita toccarono solo il tessuto sintetico della tuta.
   La Caitiana sgranò gli occhi e drizzò le orecchie per l’allarme. Si tastò dappertutto, si frugò le tasche, si guardò attorno con ansia, ma era inutile: non c’era traccia del comunicatore. Allora ricordò di averlo disintegrato durante la fuga, per rendersi più difficile da rintracciare. E anche dopo essersi trasferite sulla CSS Destiny, lei e Dualla non se n’erano mai procurati altri, dato che fino agli ultimi minuti erano rimaste assieme in plancia. Così adesso non poteva contattare l’USS Destiny per farsi salvare. Del resto sarebbe stato prudente inviare una richiesta di soccorso? Si trovava pur sempre nello Spazio Fluido, il regno degli Undine, che erano certamente furiosi dopo la battaglia. Se avessero intercettato la sua trasmissione, sarebbero giunti a ucciderla, e forse a tendere un’imboscata alla Destiny. Ma se non poteva chiedere aiuto... allora che le restava da fare?
   «Oh, no» mormorò la Caitiana, mettendosi a sedere su alcuni gradini.
   «Be-beep?» fece Ottoperotto, accostandosi.
   «Non capisci? Non ho il comunicatore, e anche se ne trovassi uno qui non potrei usarlo, perché attirerei gli Undine» spiegò Shati. «E c’è di peggio. Vedendo la CSS Destiny che impattava con l’Harvester, i nostri amici avranno certamente pensato che siamo morti. Non solo Dualla – pace all’anima sua – ma anche noi due. Quindi non ci stanno nemmeno cercando. Abbandoneranno lo Spazio Fluido senza di noi... forse l’hanno già fatto. E noi resteremo bloccati qui, per... il resto dei nostri giorni» rabbrividì.
   Era un sinistro contrappasso per le sue azioni. Nei giorni precedenti lei si era opposta al salvataggio dei naufraghi su Arena, per quelle che le parevano buone ragioni. E adesso lei stessa si ritrovava naufraga su un altro mondo, senza alcun salvataggio all’orizzonte. Forse era vero che ciascuno ottiene ciò che semina...
   «Noi... naufraghi?» chiese Ottoperotto, strusciandosi contro di lei, come in cerca di protezione.
   «Temo proprio di sì» confermò Shati, carezzandolo come se fosse un cucciolo. «Siamo ancora nello Spazio Fluido, ricercati dagli Undine... anche se spero che i miei segni vitali si confondano con quelli degli altri Caitiani, qui su Ferasa».
   «Ferasa-Specchio» puntualizzò l’Exocomp.
   «Già, Ferasa-Specchio» ammise la timoniera. «Chissà quant’è diverso da quello che conoscevo» mormorò, guardandosi attorno. Ricordò le letture dei sensori, secondo cui tutti i pianeti rubati dagli Undine erano caduti nell’anarchia, con le città abbandonate e saccheggiate. In che condizioni era esattamente quel mondo, e in particolare quella zona? A giudicare dallo stato d’abbandono dello spazioporto, non buone.
   D’un tratto Shati sentì l’urgenza di uscire all’aperto, per vedere con i suoi occhi le condizioni della città. Balzò in piedi e si diresse verso l’uscita, seguita da Ottoperotto. Intanto parlottava tra sé, facendo l’elenco di tutto ciò che le mancava. «Vediamo... niente comunicatore. Niente tricorder. Niente acqua né provviste. Niente medicine... frell, ho solo questo!» esclamò, impugnando il phaser che portava con sé fin dalla sua fuga dall’USS Destiny. Quasi certamente le sarebbe servito, se la città versava nelle condizioni che temeva.
   La Caitiana accelerò il passo, sull’onda dell’impazienza, fin quasi a correre. Giunta in fondo alla hall percorse un corridoio buio e pieno di ragnatele. Infine sbucò all’aria aperta. La luce sanguigna del tramonto le ferì gli occhi, facendola lacrimare. Quando le sue pupille si furono adattate, la Caitiana si guardò attorno... e restò di sasso.
   Si trovava a Lyncis, la capitale di Ferasa. Ma se la Lyncis federale era una città piena di vita e d’attività, il suo corrispettivo dello Specchio era una città fantasma, piena di palazzi diroccati. Non c’era traccia della popolazione, solo segni di lotte e saccheggi. Molti edifici portavano i segni d’incendi, presumibilmente scoppiati subito dopo che il pianeta era stato traslato nello Spazio Fluido, quand’erano dilagati panico e violenze. Da allora però erano trascorsi diversi anni. Dopo gli incendi e i saccheggi, la natura tropicale di Ferasa aveva ripreso il sopravvento. La vegetazione aveva ammantato i palazzi anneriti, le strade soprelevate, i resti arrugginiti dei veicoli. Gli uccelli svolazzavano da un grattacielo all’altro, lanciando i loro richiami serali, e i quadrupedi sgattaiolavano nel sottobosco. Shati notò che le strade e la piazza davanti a lei erano allagate, con acqua ristagnante, segno che le fogne e i canali di scolo si erano ostruiti senza la dovuta manutenzione. I monsoni tipici di Ferasa avevano fatto il resto. Invece di defluire nei canali, l’acqua si era accumulata, formando quegli stagni urbani. Anno dopo anno, la capitale si stava ritrasformando in una giungla.
   «Be-beep, noi soli» commentò tristemente Ottoperotto, mentre sondava il circondario alla vana ricerca di segni vitali umanoidi.
   Osservando il panorama post-apocalittico, Shati si sentì cogliere dalla disperazione. Come aveva detto al robottino, era bloccata lì per il resto dei suoi giorni. E questi rischiavano d’essere brevi, davvero brevi, in quel mondo inselvatichito. Se anche si fosse celata agli Undine, come sarebbe sopravvissuta? E se avesse trovato dei superstiti, cosa poteva aspettarsi da loro?
   Alzando gli occhi, la Caitiana vide un cielo affollato di mondi rubati. Erano vicini, più di quanto potesse capitare nei veri sistemi stellari, e quindi apparivano assurdamente grandi. Erano un segno tangibile della potenza degli Undine, tanto che perfino l’esplosione dell’Harvester – visibile come un secondo sole – le parve una vittoria effimera. Attorno a lei c’era solo la desolazione della città in rovina, reclamata dalla giungla acquitrinosa. E nessuno sarebbe venuto a cercarla... nemmeno i suoi migliori amici, che la credevano morta.
   A quel pensiero Shati cadde in ginocchio, rovesciò la testa all’indietro e si sfogò con un urlo lacerante, senza curarsi d’essere sentita. Fu un lungo grido luttuoso, che mise in fuga gli animali ed echeggiò tra i palazzi diroccati, prima di spegnersi in un rantolo. 
 
   
 
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