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Autore: Melisanna    09/10/2023    1 recensioni
Daichi guardò le sue mani, nella cornice del bancone, riempire di bianchi riccioli di daikon un vassoio rettangolare di ceramica blu, disporvi sopra le fette spesse, aggiungere una pallina di wasabi e un poco di zenzero, tutto con quei movimenti misurati, esperti, precisi, così simili a quelli con cui un tempo toccava la palla. Poi Miya pose il vassoio di fronte al cliente e gli si avvicinò asciugandosi le mani sul grembiule.
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Daichi Sawamura, Osamu Miya
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Storia scritta per la challenge O'famo strano sul gruppo Facebook Non solo Sherlock - gruppo eventi multifandom.
La storia è il seguito di questa: https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=4046866&i=1 Si può leggere anche senza leggere la precedente, ma per apprezzarla maggiormente consiglio di fare un salto sull'altra One-shot.
Il pairing è improbabilissimo, scriverlo è stata una sfida con me stessa e con drisinil che mi ha proposto il prompt, ma ho finito per diventare una fan di questa strana coppia.


Senza traccia di ironia

Dall’ingresso  del locale si riversava nella strada buia un fiotto di luce dorata. Daichi si chinò per entrare, ma le tende rosse che pendevano dall’architrave gli si avvolsero lo stesso intorno al cranio. Nemmeno nel locale di un altro ex-pallavolista poteva aspettarsi che le misure tenessero conto della loro altezza.

Nella penombra del locale, oltre al bancone di legno lucido, stava Osamu Miya. L’alto cappello bianco gli schiacciava i capelli sulla fronte e le palpebre pesanti gli nascondevano quasi completamente gli occhi, mentre guardava in basso, serio e concentrato. Abbassando appena gli occhi, Daichi poteva vedere, attraverso la vetrina di liquori al di sotto del bancone, una vignetta di fumetto separata dalla prima, con il volto e le spalle, da quella orizzontale linea nera, le sue mani dalle lunghe dita capaci, impegnate nel ridurre in fette uguali e perfette la carne striata e lattiginosa di un pesce bianco.

Daichi si attardò sulla soglia, approfittando dei secondi in cui poteva guardarlo senza essere guardato a sua volta. Non era sicuro del perché si trovasse lì. Non era sicuro del perché avesse accettato l’invito, in primis.
O forse sì, lo sapeva, in quel momento l’aveva fatto per spirito di competizione, perché non voleva lasciare l’ultima parola a Miya, perché non voleva dargli la soddisfazione di averlo messo in imbarazzo. Quindi era arrivato fin lì e si sarebbe fatto offrire la cena solo per ripicca? Bravo Daichi, complimenti, molto maturo da parte tua.

Però Miya era bello da guardare, con gli zigomi alti e le labbra carnose e quegli occhi sonnolenti e sensuali. E della sua cucina si dicevano meraviglie. Non sarebbe stato un cattivo affare, in fondo, e alla fine della cena poteva salutarlo e ritirarsi in buon ordine, senza rischiare che la situazione diventasse di nuovo ambigua.

In quel momento, Osamu Miya sollevò gli occhi e incontrò il suo sguardo e se anche Daichi avesse voluto andarsene, sarebbe stato troppo tardi. Miya stirò un angolo della bocca in un sorriso storto, indolente, che si accordava così bene ai suoi occhi dalle palpebre pesanti e gli fece un cenno, prima di tornare a concentrarsi sul sashimi.

Daichi guardò le sue mani, nella cornice del bancone, riempire di bianchi riccioli di daikon un vassoio rettangolare di ceramica blu, disporvi sopra le fette spesse, aggiungere una pallina di wasabi e un poco di zenzero, tutto con quei movimenti misurati, esperti, precisi, così simili a quelli con cui un tempo toccava la palla. Poi Miya pose il vassoio di fronte al cliente e gli si avvicinò asciugandosi le mani sul grembiule.

“Sei venuto davvero” lo squadrò dal basso in alto, nonostante fosse diversi centimetri più alto di lui, con uno sguardo lento e pensoso, calcolatore. “Chi l’avrebbe mai detto. Sei pieno di sorprese, capitano”.

Era appena troppo vicino perché la distanza fosse confortevole e parlava con voce appena troppo bassa e intima. Daichi quasi deglutì, sotto il peso del suo sguardo indagatore, poi sbatté due volte le palpebre e si sentì di nuovo padrone di sé. Tese le labbra in un sorriso che si augurò mostrasse almeno altrettanta sicurezza di sé di quello che arricciava le labbra di Miya. “Credevo avessimo un appuntamento. Sbaglio?”

Il sorriso di Miya si fece più largo e sincero “No, non sbagli, vieni ti accompagno al tavolo”.

Daichi si guardò intorno, il locale era piccolo – in fondo Miya faceva soprattutto asporto – ma accogliente e persino elegante, con le sue linee geometriche e il semplice arredamento di legno chiaro. C’erano solo nove tavolini e sei  sgabelli erano allineati lungo il bancone. Alle pareti, con cornici laccate di rosso, facevano bella mostra di sé i diplomi di chef di Miya, molti più di quanti Daichi si sarebbe aspettato, accanto a foto di spettacolari azioni di pallavolo. Lo sguardo di Daichi si attardò su quella più grande, uno scatto grand’angolato di Miya – l’altro Miya – con la palla che si era appena staccata dalle sue dita; Shoyo, in aria accanto a lui, stava per lasciare andare il braccio. Il muro era scomposto e in ritardo. Sarebbe stato un bel punto.

“Carino il tuo locale” commentò, mentre Miya si avvicinava a uno dei tavolini e spostava una sedia per invitarlo ad accomodarsi. Sollevò la testa e si guardò intorno, come se fosse la prima volta anche per lui che vedeva il locale “Sì, non è male… Soprattutto è quello che volevo: un posto dove dedicarmi a cucinare”.

“Non ti manca mai?” Daichi accennò con il mento alla foto di Miya e Shoyo.

Miya si tirò su e appoggiò le mani sui fianchi, sollevando un sopracciglio all’indirizzo del gemello “Non lo sopportavo più… Sono contento della scelta che ho fatto”.

“Non parlavo di tuo fratello”.

“So di cosa parlavi. E a te manca?” Miya tornò a guardarlo negli occhi. Aveva le iridi grigie, trasparenti come quelle degli occidentali, chissà da chi le aveva prese. Anche Atsumu le aveva così?

Daichi si strinse nelle spalle “Gioco con la squadra del distretto, ma io non ho mai avuto le qualità per diventare professionista”.

“E chi lo dice?” Miya si chinò fino a quasi sfiorargli la punta del naso con la sua “Io ricordo che eri un ottimo capitano. Uno che guardava sempre la schiena dei suoi compagni”.

Daichi ci mise una frazione di secondo di troppo a cogliere il senso della frase per poter ribattere. Sentì le guance farsi pericolosamente calde e boccheggiò prima di riuscire a mettere insieme un debole “Non… non guardavo niente a nessuno!”

“Ah, davvero?” Miya inclinò la testa da un lato “Neanche ad Asahi? Mi ricordo che aveva una gran bella schiena da guardare”.

Lo fissò negli occhi, impassibile. Daichi contrasse la mandibola, resistette per un paio di secondi, poi dovette voltare il viso e la risata gli sfuggì da dietro la mano con cui si era coperto il volto “Ok, va bene. Ogni tanto ad Asahi gliel’ho guardata la schiena”.

Un sorriso vittorioso apparve sul volto di Miya “Ci avrei scommesso”. Indicò la sedia che gli aveva offerto poco prima. “Siediti, dai. Che ti porto?”

Daichi gli fu grato di non infierire e si accomodò “Una birra, intanto”.

Miya tirò fuori un blocchetto e un lapis dalla tasca del grembiule – il grembiule gli stava molto bene, non poté fare a meno di notare Daichi, era sexy in un qualche modo vagamente fetish – “Una Asahi, va bene?”

Si voltò per guardarlo in faccia. Il volto di Miya era serissimo, ma fu certo di vedere uno scintillio divertito sotto le sue palpebre pesanti. Daichi stirò le labbra e lo fissò con disapprovazione. Miya sollevò un sopracciglio, imperturbato “Preferisci una Kirin?”

“Un’Asahi va benissimo” sbuffò. Quel tipo era proprio un giullare, chi l’avrebbe mai detto.

Senza commentare Miya prese un appunto sul taccuino “E da mangiare?”

“Fai tu, mi fido…”.

“Ok, ok, ci penso io, se proprio sei sicuro di fidarti…” Miya scrisse qualcos’altro e tornò verso il bancone.

Daichi ne approfittò per guardargli la schiena. Forse Miya non giocava più a pallavolo, ma di certo non si faceva mancare la palestra, per avere una schiena così alta e soda e il laccio bianco del grembiule intorno alla vita, la metteva ancora più in evidenza.

Gli vide prendere una bottiglia di birra – Asahi! – , riempire una teiera di acqua calda e immergerci il filtro con il tè, appoggiare il tutto su un vassoio che sollevò con una mano e tornare verso di lui. Appoggiò il piatto davanti a lui, poi la teiera, un bicchiere di ceramica, un boccale e la birra. Stappò la bottiglia con mano esperta e versò due dita nel boccale. Davanti alla teiera appoggiò una clessidra.

“Lascialo in infusione finché non è scesa tutta la sabbia, ma poi levalo, che se no diventa amaro e si rovina l’aroma” gli disse severamente.

Daichi annuì obbediente. Miya tornò al bancone, mentre lui sollevava il coperchio della teiera e annusava curioso l’effluvio. Non sembrava macha. Per fortuna: a lui il macha non piaceva, ma si sentiva sempre un po’ coglione ad ammetterlo.

Si versò un bicchiere generoso di birra e si guardò attorno.

I tavoli intorno a lui erano tutti occupati e così anche le sedute al bancone. Perciò, in fondo, Miya doveva avergli riservato il posto, anche se aveva finto di sorprendersi per il suo arrivo. La maggior parte degli avventori avevano abiti costosi e alla moda, non per niente il locale di Miya era finito anche alla televisione e non per quattro parole su una rete locale, ma una puntata intera di un famoso programma di cucina.

Il tavolino dove si trovava Daichi era un po’ arretrato, ma aveva un’ottima vista sul bancone, con le sue due vignette – una più grande in alto e una più stretta e sottile subito sotto – tra le quali si muoveva Miya. Daichi indugiò sul suo viso assorto, con la ruga che la concentrazione scavava fra le sopracciglia: di tanto in tanto spariva dalla vignetta superiore, per riapparire in quella inferiore, gli occhi alla stessa altezza delle mani. Miya si voltò verso di lui, sollevò entrambe le sopracciglia e fece un gesto che lì per lì Daichi non capì. Poi abbassò lo sguardo sul tavolo e si accorse che l’ultimo granello di sabbia era appena scivolato giù dalla clessidra.

Allarmato, si affrettò a rimuovere il filtro, mentre Miya gli rivolgeva uno sguardo di rimprovero.

Miya tornò da lui poco dopo, con una scodella coperta nella mano destra e bilanciando un piatto sulla sinistra.
Appoggiò la scodella alla sua sinistra con accanto un cucchiaio di ceramica e piazzò il piatto davanti a lui.

Tutto intorno al bordo era disposto un orologio di sushi. Daichi lo esaminò. Era più elaborato di quello tradizionale, ogni fetta era decorata con una goccia di salsa, un battuto di erbe o persino della frutta, riconobbe la carne bianca e priva di venature della seppia e quella rosata del salmone. C’erano un gambero rosso – crudo – e uno rosa – cotto – e due diverse porzioni di tonno, una delle due era scottata e avevano un condimento diverso.

Miya indicò il pesce chiaro e traslucido davanti a lui “Inizia dalla ricciola e prosegui in senso orario, fino all’anguilla. L’onigiri mangialo per ultimo, altrimenti ti si rovina il sapore. E il misoshiro solo dopo, lascialo coperto, se no si raffredda”.

Daichi annuì “Pensavo facessi solo onigiri”.

“Non si va in televisione facendo onigiri. Ho cominciato con i banchini alle partite, ma dopo un po’ mi ero già annoiato, volevo qualcosa che mi permettesse di sperimentare”.

Daichi studiò il piatto “È un’ostrica questa?”

“Sì, con una riduzione di vino bianco. Sono stato un anno in Europa, a studiare come preparano il pesce lì. È interessante provare a innestare una tradizione diversa sulle radici solide della nostra. Vuoi della salsa di soia?”.

Il cambio di argomento fu così rapido che Daichi riuscì a non mostrarsi sorpreso solo grazie ai riflessi che aveva sviluppato in campo “No, grazie, sarebbe un peccato, coprirei i sapori”.

Miya annuì con approvazione “Mangia con calma, chiudo a mezzanotte e poi avremo tempo per noi, capitano”.

Daichi lo seguì con lo sguardo mentre tornava al bancone. Miya si voltò e Daichi lo vide sillabare “man-gia”.

Decise di concentrarsi sul cibo finché non lo avesse finito, per non rischiare di indisporre lo chef. Prese tra due dita il pezzo di sushi con la ricciola e lo osservò. La fetta di pesce era spessa e soda e incisa trasversalmente a intervalli regolari. Sopra Miya aveva versato un unghia di una salsa densa e arancione e una sottilissima fetta di alchechengi.

Non assomigliava a niente che avesse mangiato in precedenza, ma d’altra parte lui non frequentava ristoranti ricercati come quello. Augurandosi di non fare facce strane se il sapore fosse stato orribile, Daichi ficcò tutto in bocca.

Il sapore non era orribile. Insolito, quello sì, con l’acidulo del frutto che sgrassava il pesce e una punta appena dolce, ma buono, molto buono. Una faccia strana Daichi dovette farla ugualmente, però, a giudicare dal ghigno di Miya.

Cercò di godersi al massimo il boccone, senza avere la pretesa di essere in grado di giudicare l’effettiva qualità del cibo. Aveva sempre mangiato più per necessità che per piacere, nel modo famelico degli sportivi e, con lo stipendio da poliziotto, quello che si permetteva di solito era un ramen alla fine del turno o una porzione di Oden comprata al supermercato. Impegnandosi quanto poteva, si pulì la bocca con il wasabi e assaggiò il tè – aromatico e delicato, non amaro come il macha – e proseguì con il boccone seguente.

Il sushi di Miya si rivelò sorprendente ad ogni assaggio, il sapore di ogni pesce era esaltato dagli accostamenti esotici con erbe e spezie. Non era il sushi che mangiava a casa sua o prendeva al combini. Non avrebbe saputo dire se era altrettanto buono di quello dei ristoranti più tradizionali, ma per quanto lo riguardava era eccezionale e passava da un boccone all’altra con sempre maggior curiosità, avvinto da quei sapori singolari, senza mai sapere se a quello dopo l’avrebbe aspettato una punta di acidulo o piccante o  un retrogusto agrodolce.

Concluse soddisfatto con l’anguilla, grassa e gustosa e si prese un momento per un lungo sorso di birra prima di passare all’onigiri. Nel sollevare gli occhi incontrò lo sguardo di Miya e sollevò un pollice in un gesto di approvazione che gli fruttò un sorriso soddisfatto in risposta.

Riappoggiò il bicchiere e diede all’onigiri un morso che lo lasciò stupefatto: il riso era mescolato a carne di manzo. Cruda. Questa non era proprio una cosa da giapponese. Eppure, mentre masticava, dovette ammettere che il sapore intenso non era per niente sgradevole. Il secondo morso fu, se possibile, ancora più sorprendente, perché gli esplose in bocca il tuorlo di un uovo di quaglia à la poche, che era racchiuso nel centro dell’onigiri. Parte colò sul riso, tingendolo di giallo, mentre lui si leccava le labbra per pulirle e cercava di capire se quell’insieme di sapori forti e insoliti fosse piacevole. Cercando di venire a capo di quell’enigma assaggiò ancora. Il sapore dell’uovo si sposava alla perfezione con quello della carne cruda. Daichi diede un altro morso e un altro. Al sesto aveva finito l’onigiri e non aveva dubbi sul fatto che quella trovata di Miya fosse eccellente. E che sarebbe ripassato dal ristorante a mangiarne un altro alla prima occasione.

Magari da portare via, che lì sospettava che i prezzi non fossero proprio alla sua portata.

Finì la birra e, prima che potesse dire qualcosa, Miya aveva fatto sparire la bottiglia vuota e l’aveva sostituita con un’altra. Con calma si dedicò al misoshiro che era caldo e gradevole come dovrebbe essere sempre il misoshiro, ma con un’aggiunta di un qualcosa di cremoso e piccante che Daichi non riconosceva.

Mentre lo gustava, ormai sazio e soddisfatto, si prese il tempo per guardare per bene le foto alle pareti. Riconobbe Ushijima e Tobio e in una silhouette intuì Bokuto. Atsumu Miya appariva due volte, meno di quelle che Daichi si sarebbe aspettato e Osamu nemmeno una.

Daichi appoggiò il cucchiaio e si appoggiò comodamente contro lo schienale della sedia. Miya si avvicinò quasi subito e impilò piatto e ciotola sulla mano sinistra, rivolgendogli uno sguardo interrogativo.

Daichi gli rispose con un sorriso che sapeva essere pigro e soddisfatto “Ho fatto bene a fidarmi. Cosa c’era nel misoshiru?”

“Gorgonzola, un formaggio italiano e pochi fagioli passati”.

“Non ho la più pallida idea di cosa tu stia dicendo, ma era ottimo. Mi ci vorrebbe tutte le volte che devo mangiare in caserma al posto di quei pranzi tristissimi che prendo al combini”.

Miya lo guardò da sotto le ciglia folte, che ombreggiavano le sue palpebre pesanti. Un sorriso asimmetrico e appena accennato gli scavava una fossetta nella guancia sinistra. Daichi desiderò premerci un dito. “Chissà, se ti comporterai bene…” disse, portando via le stoviglie.

Daichi lo lasciò allontanarsi a malincuore, non erano ancora le undici e il tempo sembrava scorrere lento come melassa. Si versò altra birra, sperando che l’alcool, lo rendesse più rapido.

Da sopra l’orlo del bicchiere, si attardò a studiare il volto di Miya, cercando, intorno alle sue labbra, una traccia della fossetta ironica che era apparsa poco prima, ma sul suo viso non sembrava che esserci altro che concentrazione.

Lasciò scivolare lo sguardo giù per il collo lungo, attraverso il petto ampio fino alle mani. Una premeva il trancio di tonno, compatto e rubeo, mentre la lama del coltello scorreva, affondando nella carne senza sforzo apparente. L’altra mano lasciò la presa sul manico di legno e afferrò un altro coltello per realizzare le incisioni sul pezzo appena tagliato, poi sparì in un contenitore di bambù e riemerse con un morso di riso. Vi premette sopra un pizzico di wasabi e poi il tonno e le dita vi si avvolsero con un gesto che compattò e diede forma al nigiri. Tenendo fra il polpastrello dell’indice e del pollice lo appoggiò su un vassoio di terracotta lucida. I suoi occhi intenti apparvero nel telaio della vignetta e la mano destra afferrò un accendino. La fiamma azzurra scorse solo per un attimo sulla superficie rossa del tonno, lasciandola opaca e sbiancata. L’altra mano dispose al centro della fetta un battuto verde.

Gli occhi sparirono di nuovo sopra l’orlo superiore. La mano sinistra afferrò un pezzo di una carne rosata e la destra una nuova porzione di riso. Le dita di Miya ripeterono il gesto di prima avvolgendosi una sola volta intorno pesce e al riso e quando si aprirono li avevano di nuovo trasformati in un perfetto pezzo di sushi. Lo dispose accanto all’altro.

Uno degli uomini al bancone sollevò la bottiglia vuota e disse qualcosa, Miya rise, di una risata che gli scoprì tutti i denti bianchi e grandi, una risata calda e accogliente di cui Daichi non lo avrebbe creduto capace, si asciugò le mani sui fianchi del grembiule, prese una birra dal frigo, l’aprì e la porse all’uomo. L’uomo disse qualcos’altro che Daichi, anche tendendo l’orecchio non riuscì a capire, ma Miya lo guardava con tutta l’attenzione del mondo e disse qualcosa a sua volta e fu il turno dell’uomo di ridere, poi Miya abbassò di nuovo lo sguardo e di nuovo sembrò rinchiudersi in uno spazio suo in cui c’erano solo lui e il cibo che stava cucinando.

Daichi guardò le sue mani avvolgersi intorno al riso e al pesce, le lunghe dita chiudersi a una a una e il pollice premere piano ancora e ancora e ancora e ogni volta dentro di lui cresceva qualcosa, un’impazienza, una fame che non riconosceva e che non avevano niente a che fare col suo stomaco. Un basso sordo che rimbombava nel ventre e nel petto e diventava ogni momento più pressante, soffocante e saliva, saliva, saliva.

E continuò a crescere dentro di lui, mentre studiava i bicipiti che premevano sotto il maglione leggero che suggeriva ben più di quanto nascondesse, mentre Miya afferrava e stringeva e tagliava e il dente bianco che luccicava all’angolo destro della bocca, quando rispondeva a una battuta dei clienti seduti al bancone e quelle mani dinoccolate e forti e sapienti che apparivano e sparivano dalla vignetta inferiore e ogni tanto facevano capolino in quella superiore, spingendo un vassoio, porgendo un calice di vino, una brocca di sakè.

Una volta sola Miya ricomparve al suo fianco, per lasciargli un’altra bottiglia di birra e portare via quella vuota. Il suo fianco gli sfiorò il braccio sinistro e Daichi sentì il suo calore attraverso i vestiti.

E poi, lentamente, troppo lentamente gli avventori iniziarono a uscire, alla spicciolata, finché non restarono solo due al bancone che, da come parlavano tra di loro e a Miya dovevano essere clienti abituali e continuavano a farsi servire sakè e a ridere, mentre Miya riordinava, metteva le sedie sui tavoli, spazzava e puliva il bancone e Daichi li odiò per ogni minuto dopo la mezzanotte che si attardarono, finché, infine, Miya ebbe pietà di lui e li accompagnò alla porta con inchini e ringraziamenti che Daichi ritenne più che esagerati e chiuse finalmente la porta dietro di loro.

“Lavo le ultime cose e poi possiamo andare, avevi idee?” Miya gli passò accanto e tornò dietro il bancone, senza quasi guardarlo. Daichi, si alzò e lo seguì senza rispondere, mentre il rombo dentro di lui gli risuonava assordante nelle orecchie.

“Allora, che ti va di fare? Possiamo andare a berci qualcosa con calma fuori o anche qui se preferisci. Io devo anche mangiare. E poi potremmo andare da me… o da te magari” Miya non distolse lo sguardo dal lavello, ma Daichi fu certo che quello scintillio divertito luccicasse di nuovo sotto le sue palpebre e il sorriso aleggiasse intorno alle sue labbra.

Daichi si chinò e gli scostò i capelli e lo baciò alla base del collo. Lo sentì inspirare sorpreso, per una volta senza parole e lo baciò di nuovo e lo fece voltare stringendogli i fianchi.

Miya teneva le braccia sollevate, in una posa goffa e aveva i suoi occhi sonnolenti spalancanti “Ho le mani bagnate… Io… aspetta, non…”

Daichi gli prese il viso tra le mani e lo inclinò quanto bastava per poterlo baciare a lungo e bene, come capì di aver desiderato baciarlo per tutta la sera, assaporando le sue labbra e la sua bocca che sapeva di sakè e di qualcosa di affumicato e insolito come la sua cucina. Lo sentì fremere sotto le sue mani e resistere solo un secondo prima di afferrargli il collo della camicia e premere contro di lui, mentre le dita bagnate lasciavano tracce traslucide sul cotone bianco.

Daichi lo spinse contro il bancone e gli lasciò il viso solo per affondargli una mano nei capelli e infilare l’altra sotto quel maglione grigio che suggeriva ben più di quanto nascondesse, per premere la sua carne compatta come quella del tonno e tirargli bacino giù e in avanti, verso di sé, finché non poté incastrare una coscia fra le sue e il suo viso si trovò alla stessa altezza del suo.

Miya si staccò dal bacio con un sospiro. Aveva il viso arrossato e si morse il labbro inferiore in un gesto d’imbarazzo che spinse Daichi a baciarlo di nuovo. Miya si ritrasse “A-aspetta… Andiamo sopra… Ho una stanza, un letto…”

Daichi gli strinse la vita “Troppo lontano” lo baciò di nuovo e gli lasciò i capelli solo per aprirgli i jeans e spingerli verso il basso, tutto insieme con le mutande. “Osamu” gli respirò in un orecchio mentre gli mordeva il collo – e non aveva un sapore assolutamente delizioso, delicato come la ricciola, gustoso come l’anguilla? – .

“Oh cazzo… Daichi” ansimò Miya gettando la testa indietro.

 Si portò la mani dietro la schiena per slegarsi il grembiule, ma Daichi gli afferrò i polsi “Lascialo, mi piace” ordinò, mentre lo faceva voltare, facendogli scorrere una mano possessiva tra i glutei e sollevando il maglione per avere una vista migliore.

“Sì…  capitano” rispose Miya, afferrando il bordo del bancone. E non c’era una traccia di ironia nelle sue parole.
 
 
 
  
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