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Autore: Scintilla19    02/11/2023    9 recensioni
Gianluca ed Elia sono due colleghi legati da un’amicizia speciale nata tra i banchi di scuola.
I due sono sempre stati inseparabili, ma da quando Gianluca ha scelto di fare carriera all’interno dell’azienda e seguire un percorso diverso da quello di Elia, qualcosa tra loro si è irrimediabilmente spezzato.
Dopo mesi di silenzio, la cena di Natale aziendale sarà l’occasione per far luce sui rispettivi sentimenti e provare a ricucire il loro rapporto.
🥈🥈🥈Seconda classificata🥈🥈🥈al contest Le quattro stagioni si raccontano indetto da elli2998 e Inchiostro_nel_Sangue sul forum di EFP
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al contest Le quattro stagioni si raccontano indetto da elli2998 e Inchiostro_nel_Sangue sul forum di EFP

Pacchetto “inverno 1”
Genere: drammatico; 
Condizione meteorologica: neve; 
Oggetto: tazza di tè nero caldo; 
Frase: Ogni fiocco di neve è una poesia scritta dall'inverno 

 


Intro:
Gianluca ed Elia sono due colleghi legati da un'amicizia speciale nata tra i banchi di scuola.
I due sono sempre stati inseparabili, ma da quando Gianluca ha scelto di fare carriera all’interno dell’azienda e seguire un percorso diverso da quello di Elia, qualcosa tra loro si è irrimediabilmente spezzato.

Dopo mesi di silenzio, la cena di Natale aziendale sarà l’occasione per far luce sui rispettivi sentimenti e provare a ricucire il loro rapporto.
 


 





 

Come neve sui polpastrelli

 

Non avevo aspettative su questa serata. Sono venuto solo per fare buona impressione ai capi, di certo non per il buon cibo o per la compagnia.
Ogni Natale, la stessa storia. Gente che non si sopporta seduta per quattro ore allo stesso tavolo, a mangiare cibo scadente e bere vino economico fino a dimenticarsi dello schifo di anno che è stato.

Molinari e Buonviso stanno duettando allegramente una canzone popolare abbastanza scurrile. Solo la scorsa settimana c’è stato uno scambio di e-mail di fuoco tra i due, dove sono finito in copia persino io, oltre a un terzo dell’azienda. Pare che Molinari abbia concordato col cliente una consegna senza interpellare Buonviso, consegna che di certo canneremo, visto che due terzi del team sono in ferie per le feste, e ovviamente questi ora sono cazzi di Buonviso che gestisce tutto il progetto. Vorrei dire che è la prima volta che succede, ma mentirei.
Eppure, a loro basta un po’ di alcol per dimenticare tutto.

Ho bevuto una bottiglia intera di rosso per cercare di arrivare stordito al discorso di fine anno del CEO, ma purtroppo non è stato sufficiente ad annientare il mio stato d’animo di perenne rottura di cazzo. 

Il boss inizia un discorso pieno di enfasi e frasi motivazionali che neanche Steve Jobs ai suoi tempi d’oro; per un attimo sospetto sia ubriaco fradicio e creda di essere nella Silicon Valley, ma purtroppo lo conosco abbastanza da sapere che è così al naturale.
Qualcuno dovrebbe mettergli in mano un bicchiere, magari la finirebbe di parlarsi addosso e per mezzanotte saremmo tutti a casa.

Finalmente Giada del marketing interviene e con la sua solita diplomazia toglie il microfono di mano al capo, passandolo ad uno degli altri soci, il CFO.

Sullo schermo alle sue spalle vengono proiettate slide di grafici che confermano quello che tutti sappiamo già: è stato un anno di merda, ma sorridiamo tutti e applaudiamo, perché ai capi si applaude anche se possiedono solo l’otto per cento della società e si credono i padroni dei nostri culi.

Se non fossi diventato da poco un socio anche io - di quelli che hanno ancor meno dell’otto percento - non sarei venuto. O meglio, sarei venuto, ma non per stare seduto tutta la sera con questi idioti che reputano la polo un capo di abbigliamento elegante.

Avrei preso posto vicino a te. Non accanto, ma un po’ più in là, in modo da poterti guardare indisturbato mentre combini qualcuna delle tue solite cazzate.

Sul tuo tavolo ci sono diverse bottiglie di vino vuote, sicuramente raccattate in giro dagli altri tavoli. Ti vedo armeggiare con i tappi di sughero per costruire una cerbottana improvvisata insieme a quei ragazzini neoassunti che già ti venerano. 

Mi chiedo quanto alcol servirebbe a noi, per tornare ad essere così.

È da tanto che non stiamo un po’ insieme, io e te, come ai vecchi tempi. Prima della mia promozione ai piani alti. 

La tua postazione in ufficio era due file più avanti della mia, da lì riuscivo a vedere il tuo schermo quasi sempre.
Bevevi una tazza di tè nero al giorno e sulla tua scrivania non mancavano mai bustine e filtri usati che dimenticavi di buttare. 

Ogni pomeriggio, verso le cinque, prendevi la tazza meno sporca e andavi nella kitchenette a prepararti un tè caldo.
Per farsi un tè serve più tempo rispetto a un caffè, dicevi, così avevi iniziato a preferirlo per costringerti a fare una pausa più lunga, anche se poi finivi sempre per portartelo alla scrivania perché eri stracarico di lavoro.

La tastiera del tuo computer era circondata da macchie circolari impresse dalla tazza ogni volta che la posavi, e Barbara si incazzava ogni volta perché la tua postazione era sempre un porcile, ma alla fine ti bastava farle gli occhi dolci e un sorriso per fargliela passare.

Elia il Bello. È questo il soprannome che ti hanno dato in azienda, e tu non batti ciglio quando ti chiamano così, fingendo di non sapere l’effetto che fai a tutti.
Chiunque farebbe qualsiasi cosa pur di avere un minuto del tuo tempo. E non solo perché sei in gamba.

È rimasto un posto libero accanto a me.
Per tutta la sera ti ho immaginato lì, a passare la serata gomito a gomito con me, ma senza dirci una parola.
È passato così tanto tempo dall’ultima birra che abbiamo bevuto insieme che sarebbe strano ricominciare a parlarsi così, in mezzo a tanta gente. Sarebbe preferibile il silenzio e a me andrebbe pure bene, pur di averti di nuovo vicino. 

L’open bar è stata l’unica buona idea della serata. La maggior parte della gente è andata via dopo la consegna dei regali: un paio di calzini neri con un gattino astronauta tra le stelle. Dovrebbe far ridere, ma io trovo tutto questo patetico.
Se ancora mi parlassi, ora non mancheresti di farmi notare quanto sia diventato pesante.

Sorseggio il mio gin tonic molto poco tonic e ti osservo. 
Stai facendo l’imbecille con quella cretina di Micaela, la event manager che ha organizzato la serata. Giada, la sua collega del marketing, è ubriaca marcia e sta molestando uno dei miei ragazzi. La loro tirocinante, invece, è tristemente sobria e si sta dando da fare per smontare telo, proiettore e tutte le cianfrusaglie inutili che per qualche motivo hanno deciso di portarsi dietro. Poveretta. Le darei anche una mano, se fosse compito mio. Ma non lo è, per cui mando giù quel che rimane del gin tonic e aspetto.

Arrivi barcollando verso il bar e ti accasci sul bancone vicino a me, con il bicchiere vuoto ancora stretto in mano.
Il barman ti nota finalmente e tu gli chiedi un altro whiskey. Ne ordino uno anche io e, senza rivolgerti la parola, ti osservo.
E, cazzo, se sei bello, anche se puzzi di alcol e sei sudato perché fa caldo, con i capelli legati in una coda spettinata e gli occhi allucinati.
Sorseggi il whiskey guardando nel vuoto, come se ciò che ti accade intorno non ti toccasse. Come se nemmeno io fossi qui.
Sei ostinato, ma io posso esserlo di più. Non ho intenzione di andar via di qui prima che lo faccia tu.



 

Finalmente stiamo lasciando il locale. Siamo rimasti in sette.
Micaela ci affibbia rispettivamente un treppiedi e un faretto per le foto da riportare in sede perché la sua macchina è già piena.
Si avvia in auto con la stagista e noi col resto del gruppo le raggiungiamo a piedi.
Fuori fa freddo, ha nevicato tutto il giorno e nel parco che attraversiamo c’è un invitante strato di neve intonso su cui ovviamente inizi a rotolarti con tutta la sacca del treppiedi.

Gli altri ridono, rido anche io perché sono ubriaco abbastanza da trovarlo divertente, ma dentro di me sto urlando.

Vorrei che tutto questo finisse, vorrei che tutti sparissero. È mezzanotte passata, mia moglie mi starà aspettando, eppure io non posso fare a meno di restare qui dove ci sei tu.

Accelero il passo, sperando di dare il ritmo al gruppetto, ed effettivamente funziona. Resti indietro a tirarci palle di neve alle spalle, senza centrare nessuno di noi, finché rassegnato non ti aggreghi al gruppo a testa bassa.
 

La sbornia triste ti passa non appena arriviamo in sede. Raduni tutti attorno a una scrivania libera e parli, parli a ruota libera e tutti pendono dalle tue labbra, e ora più che mai somigli a un moderno Gesù Cristo circondato dai suoi apostoli in un’opera blasfema.

C’è Max che ti guarda adorante con i suoi occhioni blu spalancati quando parli degli ultimi progressi dell’intelligenza artificiale, poco importa che Enrico accanto a lui ne sappia mille volte più di te. 
È il modo in cui dici le cose che ammalia e trascina tutti nel tuo vortice. 
Anche io ci sono stato, in quel vortice, e so che effetto fa sentirsi come dei prescelti per aver avuto un minuto del tuo tempo. E si sta di merda quando anche quel misero minuto non lo hai più. 

Mi riconnetto velocemente ai tuoi deliri e con sorpresa mi rendo conto che stai parlando di noi. Stai raccontando a tutti del nostro primo colloquio di lavoro, avvenuto ormai più di quindici anni fa, e di sfuggita mi domando perché tu abbia deciso di parlarne proprio adesso. 

Ci eravamo candidati entrambi come sviluppatori in una piccola startup.
Quel giorno diluviava e, poco prima di arrivare all’appuntamento, nella fretta scivolai e caddi di culo in una pozzanghera fangosa. Quando mi rialzai, sembrava che mi fossi cagato addosso.

Ridi forte quando lo racconti, così forte che la tua risata suona falsa ed esagerata. Nemmeno si capisce più cosa stai dicendo, farfugli il resto della storia tra gli spasmi e gli altri ti guardano con espressioni perplesse, incapaci di capire cosa ci sia di così tanto divertente. Ma ridono lo stesso, perché quando tu ridi, Elia, il mondo ride sempre con te.

Hai voluto umiliarmi e ridicolizzarmi col tuo racconto poco lusinghiero, però i tuoi occhi sono tristi come non li ho mai visti.

Per tutto questo tempo ho incolpato te per avermi allontanato dalla tua vita. Ma sono stato io a deluderti, da quando ho iniziato a leccare il culo a chi dovevo per ottenere qualche briciola in più da questo lavoro di merda che facciamo.

A te queste cose non sono mai piaciute. La politica, la carriera, la posizione, persino farsi pagare i cazzo di straordinari. Tu sei rimasto un sognatore puro come allora, ami ancora sporcarti ogni giorno le mani col codice piuttosto che con i soldi, e tanto ti basta per essere felice. 
Ma mutuo e pannolini non si pagano con le pacche sulle spalle, te l’ho sempre detto.

Sono stato io a lasciarti indietro. E forse sei tu quello che sta soffrendo di più. Lo capisco ora, dal modo in cui prosegui il racconto, deridendomi senza pietà, come il peggiore dei bulli. Eppure, sarà per colpa dell’alcol o della stanchezza, proprio non riesco a odiarti.

«Eri bellissimo» dico in segno di resa, interrompendo il tuo racconto. 

Incrocio i tuoi occhi per un attimo, e all’improvviso ho come l’impressione che tutti lo sappiano, il segreto che mi porto dietro da una vita.

Dal giorno in cui ci siamo conosciuti, a scuola. Tu indossavi un jeans blu e una felpa nera degli AC/DC che porti ancora oggi. Io non sono mai stato bello, tanto meno ai tempi della scuola, eppure vicino a te mi sentivo un figo, come se la tua bellezza si propagasse anche su di me.

E vorrei che continuasse ad essere così, sempre.

«Ragazzi, ho trovato l’alcol!»

Con un tempismo inaspettato, Giada arriva alle mie spalle stringendo in mano un avanzo di prosecco racimolato da chissà quale armadietto, risalente presumibilmente allo scorso Natale, che meriterebbe solo di finire nel cesso, ma che lei si ostina a voler bere.

Mentre tutti cercano di dissuaderla, tu ne approfitti per uscire sul retro con la scusa di una sigaretta.

Ti seguo poco dopo quando sono certo che nessuno più badi a me. 

Sei accanto alla porta, appoggiato al muro, e per un attimo ti sorprendo a guardarmi di sottecchi, curioso di sapere chi di noi ti abbia raggiunto per primo. 

Non sembri sorpreso di vedere me.

Distogli lo sguardo e ti accendi la sigaretta, prendendo un tiro profondo.

Avanzo fino a starti di fronte, in modo che tu non mi possa più ignorare.

Vorrei dirti qualcosa di intelligente per iniziare una conversazione, ma non mi viene in mente nulla, così indico la sigaretta come farebbe un bambino che desidera il giocattolo del compagno.

Non dici nulla, semplicemente mi porgi la sigaretta e mi guardi mentre sfioro con le labbra quel punto dove anche le tue labbra sono state.

Non ho mai riflettuto su quanto sia intimo questo gesto che tante volte abbiamo condiviso, dai banchi di scuola a quelli della facoltà di informatica, dalle serate passate a bere birra e fumare canne, alle lunghe nottate davanti al PC per risolvere i casini di qualche commerciale.

Una boccata dopo l’altra, senza bisogno di parole, sento che ci stiamo riavvicinando.

È come se questa semplice sigaretta si caricasse del nostro dolore.

Ce lo scambiamo, lo assimiliamo, e poi lo buttiamo fuori.



 

Nevica di nuovo. 

Minuscoli fiocchi restano intrappolati sul tuo cappello di lana, nella mia sciarpa, tra la tua barba, nei miei capelli; si appiccicano addosso come le parole che dovremmo dirci ma che non riusciamo a pronunciare.

La sigaretta è ormai consumata e spenta. Ci siamo solo noi e la neve.



 

«Ci sei per una birra lunedì, dopo le feste?» mi dici dopo quella che sembra un’eternità.

Rispondo con un’alzata di spalle.

«Anche durante, se vuoi.» 

Annuisci pensieroso, valutando la mia proposta. 

«Ok, fatta» mi rispondi con una pacca sulla spalla ed un sorriso appena accennato.

La tua mano indugia un attimo sul mio braccio, prima di staccarsi.



 

«Allora buon Natale, Gian.»

«Sì… buon Natale» riesco a dire soltanto, anche se quello che vorrei dirti è di restare.

Mi scruti un attimo, prima di andare; c’è l’ombra di un dubbio nei tuoi occhi, e tremo all’idea che possa trasformarsi in orrore per quello che potresti aver finalmente capito.

Ma poi ti volti, e non saprò mai se davvero non l’hai capito o hai preferito far finta di niente.



 

Ti guardo tornare dentro dagli altri e ripiombo nella realtà.
Mi rendo conto solo ora di quanto sia fredda l’aria che respiro.

Resto ancora un po’ sotto la neve e ripenso a noi. La speranza di ritornare ad essere amici allevia di poco il peso che ho nel petto.

Osservo i fiocchi di neve, ora un po’ più grandi, che si depositano sul cappotto, delicate carezze di un inverno rigido e freddo, fugaci come lo sei tu, pronti a dissolversi al primo tocco di tiepidi polpastrelli.

E mentre una lacrima scende, mi consolo pensando che ogni fiocco di neve è una poesia scritta dall’inverno per me.

 

 


 

Note finali

Gentili lettori di questa sezione, spero che abbiate gradito la lettura del mio primo racconto originale. 
Era da tempo che volevo mettere su carta questi due personaggi ancora fumosi nella mia testa, e il contest di elli2998 e inchiostro_nel_sangue è stata l’occasione perfetta per dar loro forma, o almeno provarci :)
Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, se vi è piaciuto o meno, se ha suscitato qualche emozione in voi o vi ha lasciato indifferenti, se vi piacerebbe leggere un seguito e se avete spunti di miglioramento. O qualunque altra cosa vogliate dirmi :)

Un grazie speciale va alle giudici elli2998 e inchiostro_nel_sangue per aver indetto questo bellissimo contest, e alla carissima Mirella__ per avermi spronato a partecipare.

Grazie per aver letto fin qui! 🌺

   
 
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