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Autore: _Kalika_    17/11/2023    0 recensioni
[Atelier of Witch Hat]
***
«Tu perché sei qui?» chiese alla fine la fanciulla.
«Sono venuto a ringraziarti» Si ricordò il topolino. «Io ho tanta paura del buio, ma ogni notte la luce della Luna mi rende più coraggioso.»

***
«Qualche anno fa Beldaruit ha cominciato a ricamare.» Lo sguardo di Qifrey è ancora sfuggente e il tono distratto, ma almeno questa volta Riché non ha dubbio che stia parlando a lei. «Così, per passare il tempo. Fa i cuscini.»
Si china di nuovo verso il basso, i gomiti sulle cosce, e dà un’altra occhiata nella cesta. «Ho fatto l’errore di complimentarmi una volta, ed eccoci qua», muove appena le dita, ma Riché può quasi vedere il professore allargare le braccia per abbracciare l’intera casa, «sommersi dai cuscini.»
***
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Qifrey Week 2023
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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*Fanfiction partecipante alla Qifrey Week 2023*




La ragazza della luna - Dentro a un guscio di noce



Le carte restano immobili sul tavolino, in equilibrio l’una sull’altra non appena le ditine lasciano la presa. Riché contempla in silenzio la creazione a labbra strette, poi annuisce soddisfatta, lancia uno sguardo fugace a Qifrey e pesca altre due carte dal mazzo. Ha gli occhi grandi e concentrati.
Sussulta quando la legna nel camino collassa scricchiolando, e una pila di carte casca su sé stessa in risposta al tremito.
Come svegliato dal letargo, Qifrey alza appena il mento dalle ginocchia, poi si rannicchia meglio contro il bracciolo. Il divano protesta appena, rumore di stoffa su stoffa. Ruota piano la testa per cercare di capire la causa del rumore. «Peccato, avevi quasi finito» commenta gentile. Ha parlato un po’ in ritardo, come se non avesse capito bene cosa sia successo; e non molto convinto di ciò che ha detto.
Riché seduta a terra sposta lo sguardo su di lui, poi corruga le sopracciglia: «Non avevo quasi finito.» È il terzo castello che costruisce. Costruisce, poi distrugge e ricomincia. La parola fine non ha molto senso in ciò che sta facendo. Comunque non è importante. E Qifrey sembra non aver sentito. Ha di nuovo lo sguardo fisso sulle braci.
Riché pensa che, al suo posto, Tetia gli parlerebbe per distrarlo un po’. Pure Agathe ci proverebbe, o magari indagherebbe. Forse. Non è ancora sicura di averla capita bene.
Un’altra pila di carte casca giù. È troppo distratta. Sbuffa, raccoglie in un angolo le carte cadute e ricomincia, piano piano. La legna scricchiola nel camino. Fuori dall’Atelier, un gufo lancia un verso lungo e cupo per salutare la luna. Dopo aver completato il primo piano, Riché si perde a passare le dita sui bordi rovinati delle carte rimaste, ne osserva le figure lasciando la mente vagare ispirata dai tratti leggeri. Sono carte un po’ vecchie e sbiadite, dai colori smorzati, ma i disegni sono ancora molto belli.
 
In un paese di una terra lontana, dove d’estate gli alberi si piegavano sotto il peso dei frutti e d’inverno i bambini si rincorrevano pattinando sui laghi ghiacciati, c’era un vecchio pastore che possedeva una stalla piccola ma confortevole; e dentro alla stalla, insieme alle pecore e alle mucche, viveva un topolino che aveva paura del buio.
 
Le carte erano già all’Atelier due settimane fa, quando Riché è arrivata. Sembravano cambiare posizione magicamente, come se di notte un folletto dispettoso si divertisse a nasconderle. I primi giorni, ogni volta che se le trovava davanti, Riché le osservava senza osare toccarle. In cima al mazzo c’era sempre quella con un cervo dalle corna argentate, con gli occhi scuri scuri che la guardavano, un po’ dolci un po’ severi. Poi una volta aveva visto Olruggio prenderle e impilarle. “Vuoi provare?” le aveva chiesto quando l’aveva sorpresa a fissarlo, “a me aiuta a schiarire i pensieri.”
Riché non riesce a schiarirsi i pensieri quando fa i castelli di carte. Si concentra così tanto sul raggiungere l’equilibrio perfetto che non riesce a pensare ad altro, perciò non è molto utile quando vuole riflettere su qualcosa. Forse se facesse dei castelli un po’ più piccoli – Olruggio non superava i tre piani – funzionerebbe. Ma dopo aver completato per la prima volta il quinto piano, ha capito che non si sarebbe più accontentata di meno.
Lancia un’occhiata a Qifrey. Non si è mosso.
Riché osserva la carta che ha in mano. È una bella spada, lunga e decisa, con dei fiori arancioni che le crescono attorno. Forse un tempo erano rossi. È tutta spiegazzata.
La posiziona in silenzio alla base del secondo piano. Il retro delle carte è sempre uguale, blu scuro – Olruggio ha detto che sono nere, ma secondo Riché sono blu – con delle decorazioni chiare, intricate come tralci di vite. A Riché piace passarci il dito sopra più e più volte, ripetendo il percorso che torna sempre al punto di partenza.
È attenta a non fare rumore. Altrimenti, pensa, il maestro Qifrey si accorgerà che a quest’ora di solito l’ha già mandata a dormire. Ha un po’ sonno, in effetti, ma per qualche motivo le piace l’idea di restare sveglia più di quanto abbia mai fatto. Continua il secondo piano. Lancia uno sguardo al maestro, che adesso ha le sopracciglia corrugate. Chissà a cosa pensa. Le casca una carta di mano.
 
Di giorno correva per i campi con i suoi fratelli, mangiucchiando funghi e bacche e giocando con gli scoiattoli e i pettirossi, ma non appena il sole iniziava a calare ecco che correva subito dalla mamma, che lo aspettava nel fienile e gli preparava un giaciglio morbido morbido in cui dormire.
Spesso il topolino voleva entrare nella casa del pastore, dove c’erano le torce accese a illuminare le stanze, ma la mamma gli diceva: «È troppo pericoloso! Tu sei gentile e buono, ma se il pastore ti vedrà in casa, penserà che sei entrato per rubar del pane!»
 
«Esiste un incantesimo che stabilizza i castelli di carte.» Qifrey parla all’improvviso, prendendola di sorpresa. Ha un tono impastato. È come se non si fosse neanche accorto di averlo fatto. Guarda nella sua direzione, ma senza davvero farlo.
Riché scuote la testa e i capelli le coprono gli occhi. Li sistema. «Riché non vuole usare la magia.» Non voglio imparare la tua magia.
Qifrey resta in silenzio. Riché ha l’impressione che abbia voglia di sorridere un poco, ma riesce solo a posarsi le mani in grembo e annuire con leggerezza. «È giusto.» Di nuovo, è come se stesse parlando a qualcuno di molto lontano.
Torna a guardare il fuoco, ma questa volta resiste di meno.
Senza dire niente, allunga le gambe giù dal divano e si avvicina al quaderno lasciato sul tavolino. Ci stava scrivendo qualcosa, dopo cena, prima di posarlo e perdersi nei suoi pensieri. Lo sfoglia fino a trovare una pagina libera, si china a tracciare qualche segno lento e calibrato. Poi strappa con delicatezza il foglio dalla rilegatura, lo spinge appena in direzione di Riché e torna rannicchiato, come se non fosse successo niente.
«Ho detto che non voglio usarla.» Ripete Riché. È più confusa che irritata. Qifrey si strofina il naso, annuendo all’aria.
«Non devi.» Cerca il suo sguardo ma, per qualche ragione, non appena la guarda distoglie subito gli occhi. «Ma magari non ci sarà un’altra volta in cui potrò insegnartelo.»
A Riché sono bastate due settimane per capire quanto Qifrey ami insegnare. Ha già imparato a riconoscere il tono con cui si prepara a spiegare un dettaglio che gli sta a cuore, il sorriso soddisfatto di quando la lezione è andata a segno. Sembra vivere per quello.
Perciò le sue parole suonano tanto strane e sbagliate. E Qifrey è di nuovo perso tra le braci, di nuovo diverso da tutti i Qifrey che ha visto.
«In che senso, maestro?»
Non l’ha sentita. Riché non ha molta voglia di alzare la voce.
«Maestro?»
Questa volta la domanda viene coperta da un fruscio di seta, seguito da passi lenti e strascicati. Vengono dalla porta-finestra. Prima ancora che Riché faccia in tempo a chiedersi chi è, Olruggio appare in cima alle scale, testa bassa e spalle pesanti.
Sembra stanco, molto più del solito. Forse è solo perché è molto tardi.
 
Il topolino aveva molti amici nella stalla, e quando proprio non riusciva a dormire sgattaiolava via dal letto per andare a chiacchierare con loro finché non gli veniva sonno. Una notte, una cavallina sua amica gli chiese: «Perché vuoi tanto andare nella casa del pastore, quando c’è la Luna che illumina tutta la terra? Guarda fuori dalla finestra: oggi è tutta accesa!»
Ma il topolino rispose: «Io sono piccolo, e da quaggiù non ho mai visto la Luna.» Allora la puledra lo fece salire sulla sua testa: così il topino vide la Luna per la prima volta, bella e tonda, che illuminava i campi e sorrideva ai gufi.
 
Riché non sapeva che Olruggio fosse fuori casa, perciò è incuriosita. Tiene tra le braccia una cesta di vimini coperta da un drappo chiaro. All’ultimo gradino, sbuffa e alza la testa verso il camino. Sembra averli appena notati.
Macina gli ultimi passi verso di loro e poggia il cesto sul tavolino, proprio accanto alle carte che cadono come foglie sotto una folata di vento – poco male, non era più interessata – e intanto si gira verso Qifrey: «Che fai ancora sveglio?», e senza aspettare risposta si volta a guardare Riché, «e tu? Guarda che è tardi.»
Riché ormai ha capito che anche quando sembra brusco e spaventoso, in realtà Olruggio è solo preoccupato. Questo non la aiuta a rispondere. Lo fissa in silenzio, stringendo una carta tra le dita, fino a che Qifrey non si fa scivolare sul lato opposto del divano, davanti alla cesta. Tira giù le gambe, vi poggia sopra i gomiti e si stropiccia le mani sul volto. «Non fa niente…» Quando ritira la mano, a Riché sembra un po’ più lucido. Guarda la cesta.
«Non dirmi che è quello che penso» Mormora con voce gracchiante. Olruggio sembra scocciato, ma Riché da dov’è seduta non riesce a vederlo bene. Quando lascia la presa sulla cesta e si raddrizza, però, l’attenzione di Riché si sposta sulla lunga gonna nera, più ampia e luminosa del solito, e sul corpetto scuro decorato di perle. È strano vederlo così elegante, specie per lei che di tempo all’Atelier ne ha trascorso poco. Si chiede dove sia stato.
Quando si porta una mano alla nuca, la lunga manica ondeggia nella penombra come una tenda scostata di fretta: «Mi ha bloccato mentre me ne stavo andando, quel vecchio. Ha detto che ha trovato alcune tue vecchie cose e, ovviamente,» e intanto porta le mani al lati del viso, in un’imitazione di qualcuno che Riché non conosce, « “il tempismo era troppo perfetto per non restituirti tutto! Mancano solo due giorni!”»
«Figuriamoci…»
«Alcune cose sono per le ragazze» aggiunge in tono morbido. Riché non si inganna quando pensa che le abbia lanciato un’occhiata fugace. Si gira a parlarle: «Lord Beldaruit ha detto che Ririphin ha scelto qualcosa per te, lì dentro. Non cosa, però.» Indica il cesto col mento poi, per caso o discrezione, si volta verso Qifrey.
Riché è sorpresa. Non ha notizie di Riri-nii da quando è all’Atelier. «Riri-nii sta bene?» La voce le esce acuta, speranzosa. Si morde il labbro mentre Olruggio torna a guardarla alzando le spalle. «Non l’ho visto di persona, mi dispiace. Lord Beldaruit ha detto che…» esita, «…che si sta ambientando. E che è stato felice di aiutarlo con questo.» E gesticola di nuovo verso il basso, verso la cesta che Riché non vede l’ora di aprire.
Beldaruit è un ottimo insegnante e una brava persona, le aveva detto Qifrey quando aveva dovuto decidere con chi andare. Le parole le danzano in testa per un po’, come se stessero pian piano trovando un posto in cui restare.
 
«Com’è bella!» esclamò, «e resta accesa tutta la notte?»
«Per forza!» Rispose l’amica. «Non lo sai che sulla Luna vive una maga? Ogni sera, quando il sole va a dormire, lei disegna una magia e accende tutte le torce sulla Luna; e le tiene accese tutto il tempo fino al mattino. Ogni mese, però, l’olio per le torce finisce e deve scendere a comprarlo.»
Così da quella sera, ogni notte, il topolino si arrampicava in alto per vedere la Luna. «Con una luce così bella, sono molto più tranquillo.» Pensava ogni volta. Anche la mamma era più tranquilla, perché il topolino non voleva più entrare nella casa del pastore; però era un po’ triste, perché invece di dormire, preferiva salire sulla finestra e guardare il cielo.
 
«Tutto bene?»
È appena un sussurro, quello che sente, al punto che è quasi certa di esserselo immaginata. Due parole così rapide, così dolci e apprensive che la fanno preoccupare. Alza la testa, confusa, e vede solo il mento di Qifrey che sale e scende, tutto il resto della figura oscurata dalla seta nera di Olruggio. Allora abbassa lo sguardo, raccoglie le carte sparpagliate sul tavolino, e non ascolta più. Non è affar suo.
Eppure non può fare a meno di chiedersi se avrebbe dovuto fare qualcosa.
Olruggio si raddrizza in un fruscio di stoffa. «Vado a darmi una rinfrescata» annuncia pensieroso, puntando alle scale che danno sulla sua stanza, «voi cominciate, eh.»
Riché scivola sulle ginocchia e si avvicina alla cesta mentre i passi di Olruggio fanno scricchiolare il ponticello. Guarda Qifrey, che si china sulla cesta e slega il nastro che fissa il drappo. I suoi movimenti sono lenti come quelli di chi si è svegliato da poco.
«Be’, iniziamo.»
Riché ancora non capisce se è curioso o se la considera un’incombenza.
 
Una notte di luna piena, strizzando gli occhietti verso l’alto, il topolino pensò che voleva proprio vederla meglio: allora, quatto quatto, uscì di nascosto dalla stalla. Com’era diversa, la Luna, senza mura intorno!
Ma ancora non gli bastava: una notte si arrampicò fin sul tetto della stalla, e vi rimase per ore e ore; un’altra volta salì su un grosso albero, su su fino al ramo più alto e allora, a un’altezza così grande, gli sembrò di vedere sulla superficie della Luna la figurina di qualcuno che si muoveva.
«Meno male che c’è quella signorina! Senza di lei, non avrei mai trovato il coraggio di arrivare fin quassù.» Disse a sé stesso. «La prossima volta che scenderà per comprare l’olio, devo proprio ringraziarla!»
 

La prima cosa che vede sono dei cuscinetti di stoffa. Hanno forme e dimensioni diverse, colori diversi, alcuni con frange, alcuni senza, alcuni con merletti, ma nessuno supera la spanna di grandezza. A prima vista Riché ne vede almeno dieci.
Li fissa perplessa finché, all’improvviso, Qifrey ride. Una risata appena accennata, a dire la verità, poco più di uno sbuffo; ma è l’ultimo suono che Riché si sarebbe aspettata di sentire. «Ancora cuscini…» Lo guarda sorpresa mentre si abbandona allo schienale. «Riché, prendi tutti quelli che vuoi.» Sta ancora sorridendo, una mano è salita a coprirsi le labbra. Riché non è sicura di capire cosa ci sia di così divertente.
Ma Qifrey non si muove, e non è sicura di volerlo contraddire. Sceglie un cuscinetto azzurro con un motivo geometrico. Non appena lo tira fuori dalla cesta diventa più grande, tanto che le scivola di mano. Allora li riconosce. Le erano familiari, in effetti.
Alza lo sguardo, ma questa volta non è per guardare Qifrey. Accanto a lui ci sono dei cuscini colorati. Anche per terra, intorno al tavolino, e in cucina. Anche dove è seduta lei.
«Qualche anno fa Beldaruit ha cominciato a ricamare.» Lo sguardo di Qifrey è ancora sfuggente e il tono distratto, ma almeno questa volta Riché non ha dubbio che stia parlando a lei. «Così, per passare il tempo. Fa i cuscini.»
Si china di nuovo verso il basso, i gomiti sulle cosce, e dà un’altra occhiata nella cesta. «Ho fatto l’errore di complimentarmi una volta, ed eccoci qua», muove appena le dita, ma Riché può quasi vedere il professore allargare le braccia per abbracciare l’intera casa, così come sa che, non fosse stasera, avrebbe riso e parlato e recitato per spiegare la faccenda. «…sommersi da cuscini.»
Sorride divertita. Non le è ben chiaro che rapporto ci sia tra Qifrey e il Saggio dell’Istruzione, ma le piacciono i cuscini. Li estrae uno a uno e li osserva con attenzione, selezionando quelli che vuole in camera.
Ne vede uno ocra, con delle belle frange lungo il bordo circolare. Probabilmente piacerebbe a Tetia. Lo mette da parte.
 

Il topolino, però, aveva ancora paura del buio. Infatti, dopo aver aspettato a lungo la notte senza Luna, quando uscì dalla stalla tremò dalla paura: era tutto buio e non vedeva niente! Non riusciva neanche a fare un passo!
«Come faccio?» si disperò con i suoi amici una volta tornato a casa, «quando lei scende, io non posso uscire da qui!»
Gli amici rifletterono un po’. Infine una pecorella disse: «Potresti andarla a trovare quando sta sulla Luna.»
«Ma come?» chiese confuso il topolino, «non ho le ali per volare fin lassù!»
«Tu no,» rise la pecorella, «ma tra qualche giorno passeranno nel cielo le stelle cadenti!»
Il topolino allora si preparò. Di giorno, invece di giocare con i fratellini, raccoglieva noci e ramoscelli; si fece aiutare da un amico pettirosso, che era bravo a costruire i nidi, e creò una barchetta con i gusci di noce, e al posto delle vele mise le foglie più belle che trovò.
 
Ha quasi finito quando Olruggio torna dalle sue stanze. Ha ancora l’abito di prima addosso e Riché lo osserva incantata mentre si lascia cadere accanto a Qifrey, la gonna svolazzante che fa un cerchio coprendo entrambi. Si passa una mano sulla barba, strofinandola appena come stesse riflettendo su qualcosa. Lancia a Qifrey uno sguardo che Riché non sa interpretare, poi sospira e poggia il braccio sullo schienale dietro di lui, sfiorandogli la spalla. «Sei sicuro?» gli sussurra. Deve star continuando una conversazione di cui Riché non conosce l’inizio.
Qifrey si gira a guardarlo. Non è sorpreso, non come se si fosse appena accorto dell’arrivo di Olruggio, ma per qualche secondo sembra non avere risposta. Poi, semplicemente, annuisce e torna a fissare il vuoto.
Riché guarda Olruggio. Anche lui sembra distratto, ma di un distratto diverso da Qifrey. Deve essersi accorto di essere fissato, perché scrolla le spalle e sbuffa. Poi finalmente dedica la sua attenzione al cesto e le labbra gli si storcono in un sorriso: «Cuscini, vedo.»
Riché ridacchia – può permettersi di far rumore, adesso che Olruggio sembra di buon umore – e tira fuori gli ultimi due. Qifrey li prende dal tavolino con movimenti rigidi, automatici, e li passa a Olruggio che trova loro un posto sul divano. «Me ne prendo un po’ io, se non avete spazio. Da qualche parte li faccio entrare.»
Qifrey aggrotta le sopracciglia e scuote piano la testa. Sembra faticare a capire perché è contrario, ma dopo pochi secondi apre la bocca: «Non mi piace che tu abbia così tanta stoffa infiammabile vicino al laboratorio.» Intanto allunga le mani nella cesta, posizionando accuratamente ninnoli e oggettini vari sul tavolo.
 
Arrivò la notte tanto attesa e il topolino, sulla sua barchetta in mezzo ai campi, guardava la Luna piena e tutto il cielo: ed eccole! Ecco le stelle cadenti, che sfrecciavano velocissime nel buio! Rapide, silenziose, precise, solcavano l’intera volta guardando dritte davanti a sé.
«Ehi!» Urlava il topolino, facendo dondolare la barca, «Sono qui! Sono qui! Aspettate!» Ma nessuna stella lo sentiva. Stava per perdere le speranze e rinunciare quando, all’improvviso, notò una stella cadente più lenta delle altre, che procedeva incerta e traballante. «Ehi! Stellina!» Provò a chiamarla, e la stella lo sentì.
Incuriosita, si allontanò dalle compagne e scese fino alla barchetta, inciampando in una nuvola: «Ciao! Stavi chiamando me?»
«Sei l’unica che mi ha notato» rispose il topolino un po’ sconsolato.
«È perché le altre sono molto concentrate sul lavoro» spiegò la stella arrossendo, «io invece sono nervosa, perché è la mia prima pioggia di stelle, e continuavo a guardarmi intorno per capire la strada giusta. Sai, sono un po’ maldestra.»
«A me non importa se sei maldestra» disse timidamente il topolino, «puoi portarmi fino alla Luna?»
 
Si tratta perlopiù di soprammobili e vecchi attrezzi da apprendista. Un paio di penne dalla punta usurata, una clessidra, una scatolina vuota.
«Dai, non è così pericoloso.»
Poi un mazzo di carte verdi, una tazza da tè beccata – e Riché si sofferma incuriosita, chiedendosi che valore abbia. Perché non buttarla, altrimenti?
Poi quella che sembra una tovaglietta, che però si allarga tra le mani di Qifrey fino a diventare una mantellina, e ancora una strana scultura dalla forma imprecisata, una trottola, un’altra penna. E il peluche di un gatto.
«Voglio dire, tutte le volte che hanno preso fuoco li ho spenti in tempo.»
Riché ferma la sua ricerca. Le basta vederlo per sapere che è stato scelto da Riri-nii. Intanto perché a Riri-nii piacciono i gatti, ma soprattutto perché il peluche piace a lei. E lo sa che a undici anni è un po’ troppo grande per certe cose, ma sa anche che in un posto come l’Atelier nessuno se ne lamenterà. È perfetto. È bellissimo. Ma, a un’occhiata più attenta, è anche piuttosto vecchio.
«E non è successo tante volte, comunque. Una dozzina, penso. Venti al massimo.»
Di per sé non è un problema. Ciò che la fa esitare è la deduzione che appartenga a Qifrey.
In realtà, non è un problema neanche quello. In un posto come l’Assemblea, la comunità è piccola ed è normale avere vestiti e giocattoli di seconda se non terza mano. Solo che, magari è ancora di Qifrey. Riché più di chiunque altro comprende il non volersi separare dalle proprie cose, tantomeno dai propri giocattoli.
«Qifrey?»
Ma è troppo bello per rinunciare senza aver tentato, perciò alza la testa. Poi si accorge del silenzio. È calato all’improvviso, come una coperta pesante, non appena Olruggio ha smesso di parlare. È un’assenza di risposte come tante della stessa sera, e Riché osserva Qifrey che tiene lo sguardo fisso nella cesta, così come le sue mani. È immobile, assolutamente immobile.
 
La stella brillò per la sorpresa: «La Luna? Accipicchia, sulla Luna non ci sono mai stata.» Vedendo l’espressione delusa del topolino, però, cambiò idea. «Be’, la strada non dev’essere troppo difficile! E poi sei già pronto per il viaggio… Su, metti la barchetta sulla mia coda e partiamo!»
E così partirono in volo alla volta della Luna. Anche se la stella aveva detto che sarebbe stato un lungo viaggio, correva così veloce che al topolino sembrò passato un istante quando finalmente arrivarono.
 

Riché vorrebbe sporgersi, per capire cosa sta osservando, ma qualcosa la tiene ferma sul posto. Così come Olruggio, che dopo essere ammutolito guarda la schiena di Qifrey uno, due, tre secondi, prima di schiodarsi e chinarsi su di lui: «Tutto bene?»
È solo quando gli posa una mano tra le scapole che Qifrey finalmente sobbalza. Alza le braccia, tenendo tra le mani una confezione piatta e rettangolare dall’aria elegante. Cialde da tè.
Riché sposta lo sguardo su Qifrey, che torna rigido sullo schienale. «Il Drago a due teste», mormora molleggiando la confezione davanti agli occhi.
Olruggio mugugna un verso di comprensione, mentre pure lui torna a rilassarsi contro la spalla di Qifrey: «È una marca tanto buona?»
«Una tra le migliori di Zozah. Altro che coincidenza, deve averci pensato da settimane.» Sospira ancora, ma non di felicità come si aspetterebbe Riché. Sembra sconfitto. Triste, quasi, mentre non distoglie gli occhi dal tè.
«È un bel pensiero. Non possiamo dirgli di non mandarci altri cuscini, però.» Sentenzia Olruggio con uno sbuffo divertito. Qifrey scuote la testa in conferma, e resta fermo. A lungo.
Riché non capisce dove sia il problema. Non capisce neanche perché il Saggio dell’Istruzione abbia regalato del tè al suo maestro, ma non è sicura di poter indagare. Invece, l’attenzione torna impellente sulla questione precedente.
 

La superficie era tutta bianca, come si vedeva dalla Terra, ed era morbida come un cuscino di piume. «Grazie, stellina! Cosa farai adesso, ti riposerai per un po’?»
«Oh, no, devo tornare dalle mie sorelle! Saranno preoccupate. Ma quando vorrai tornare a casa, chiamami e verrò a prenderti.»
Dopo essersi salutati, la stella cadente sfrecciò via veloce com’era arrivata. Il topolino passeggiò su e giù per la Luna, emozionato come non mai. Com’era morbida e divertente! E quante fiaccole accese, che brillavano di luce bianca come il latte!
 
Solo che, ogni volta che alza lo sguardo, vede che Qifrey non si è mosso. Deve essersene accorto anche Olruggio, che a un certo punto solleva una mano e, dallo schienale dove riposava, porta le nocche contro la guancia di Qifrey finché non attira la sua attenzione. «Forse dovresti andare a dormire», suggerisce piano.
Qifrey allora si riscuote, lasciando cadere il tè in grembo e muovendo le spalle come un drago risvegliato dal letargo: «Prima finisco qui.»
Finalmente guarda Riché. Stira un sorriso, allunga una mano verso il tavolino ingombro di chincaglierie: «Puoi prendere tutto quello che vuoi. Lascia qualcosa alle altre ragazze, però. Credo che ad Agathe potrebbe piacere questa penna.»
Riché indica il peluche. «È tuo?»
«Mh. Non ci sono molto affezionato. Ti piace?»
Riché annuisce e lo prende tra le manine. Passa le dita sugli occhi, che sono perline nere. Una è più sporgente, legata troppo debole.
«Se è rovinato, te lo possiamo sistemare» si offre Olruggio. Riché immagina che normalmente sarebbe stato Qifrey a proporlo. Rigira il gattino tra le mani. È tozzo, fa quasi ridere. La coda è un po’ scucita. Però le piace. «Va bene così.» Si morde il labbro. «Per ora. Come si chiama?»
«Uh…» Riché vede lo sguardo di Olruggio spostarsi su Qifrey, che scuote la testa. «Non me lo ricordo» sorride gentile, «scegli tu.»
Riché annuisce e guarda di nuovo il pupazzo prima di posarlo accanto a lei. Ci penserà. Non vuole prendere una decisione del genere su due piedi. Torna a scandagliare il tavolo mentre ascolta a mezzo orecchio i suoi maestri.
«Com’è andata stasera?» Sta chiedendo Qifrey, con tono debole ma, finalmente, sveglio e presente.
Riché prende le tre vecchie penne. Una è nera, un po’ elegante, con un ricciolino in cima. Per Agathe, sicuramente. Le altre due sono simili. Nessuna delle due le dice niente. Lascerà che sia Tetia a decidere.
«’rgomento popolare, stasera.» Olruggio alza la voce, forse senza neanche accorgersene. Sembra arrabbiato, ma con nessuno nella stanza. «Tu, Beldaruit, e i vostri nuovi...» Non finisce la frase, e nella stanza cala un silenzio pieno di incisi che Riché non riesce a decifrare. Si sente osservata, e le dà fastidio.
«Lo sapevamo», è tutto ciò che sussurra Qifrey. Non sorride.
Riché osserva la scatolina vuota. È molto graziosa, ma non saprebbe proprio cosa metterci dentro. Non le serve neanche la clessidra.
«’gni volta che partecipo a certe serate, mi trovo a sperare che sia l’ultimo» Ha un tono duro, ma è smorzato come se avesse qualcosa davanti alla bocca. «Sono dei tali bastardi, Qifrey, non-»
«Oru…»
Riché non ha paura, ma non le piace sentire il tono aggressivo di Olruggio. Sistema i capelli, coprendo le orecchie con le ciocche azzurre.
Se il castello di carte fosse stato ancora in piedi, il sospiro di Olruggio l’avrebbe fatto cadere. «Scusa, Riché. Non dovrei dire certe cose davanti a una bambina.» Smuove un po’ le gambe e la pesante gonna fruscia sul divano. Riché si morde le labbra.
«Cos’altro hai lì?» Chiede Olruggio con voce ovattata. Quando Riché solleva lo sguardo, vede che ha il mento poggiato sulla spalla di Qifrey, con solo la mano in mezzo a mo’ di cuscinetto. Osserva i libri che il maestro ha pescato dalla cesta e si è posato in grembo. Qifrey li tira su, rigirandoseli tra le mani a uno a uno. «Questo me lo ricordo, ci scrivevo gli esercizi. Guarda…»
A Riché piace molto il suono delle pagine sfogliate. La fa rilassare.
 
Cammina cammina, alla fine arrivò a una piccola casetta. La porta era accostata, così il topolino curioso entrò e vide che era vuota. C’era un letto, un caminetto con un braciere acceso e uno scaffale con tante giare d’olio, per metà vuote.
Tornò fuori e si mise ad aspettare sull’uscio, guardando il cielo. Dalla Luna poteva vedere la Terra, piena di foreste e di laghi azzurri; e, oltre la Terra, vedeva tantissime stelle, così tante che perse il conto.
Aspettò tutta la notte. Mentre vedeva il Sole spuntare e illuminare la Terra, arrivò da un sentierino una ragazza con un abitino grigio e la pelle scura come l’ebano. Camminava piano, trasportando una torcia e una giara vuota, e con il sole alle spalle sembrava una figurina ritagliata da un cartoncino nero. Il topolino le corse incontro mentre lei lo guardava sorpresa.
 
Ricerca il peluche con la manina e lo porta sulle ginocchia. Ascolta le pagine ingiallite scorrere, ascolta i polpastrelli di Qifrey che carezzano le copertine, che giocano con la rilegatura. Ascolta le risate dei maestri, i commenti leggeri. Riché può sentirli parlottare, sussurrarsi segreti, ricordi, opinioni. Qifrey mormora qualcosa e Olruggio schiocca la lingua.
Non lo fanno neanche apposta. Sembrano persi in un altro mondo, un mondo migliore di quello di pochi minuti prima. Le ricordano la mamma e il papà, quando a cena iniziavano a parlare di qualcosa che sapevano solo loro, e lei e Riri-nii non potevano far altro che stare a sentire e cercare di indovinare i tasselli mancanti.
Ha un po’ sonno.
«Ma questo…»
«Questo è un reperto» ride Qifrey per la seconda volta nella serata, il tono tenue e incredulo. «Me le leggeva Beldaruit quando ero appena arrivato all’Assemblea. Prima ancora che imparassi a leggere.»
«È una bella edizione, sembra costosa. Guarda che bei disegni, guarda qua.»
«Figurati se non perdeva l’occasione di spendere una fortuna per un libro per bambini…»
Riché alza la testa incuriosita, giusto in tempo per vedere Olruggio che si allontana dalla spalla di Qifrey per liberare la mano e colpirlo in testa: «Senti chi parla, che ti senti in debito per la vita per una tazza di tè.»
Per la terza volta – ma ormai, nota Riché, l’atmosfera è così tranquilla che non se ne stupisce più – Qifrey ride e china la testa. Poi, come colpito da una delle sue ispirazioni, punta lo sguardo verso Riché: «Cara, conosci le fiabe di Margarita Coriolis?» E intanto solleva il libro, così che possa vedere la copertina colorata. Le ricorda le carte dell’Atelier.
«A Riché piacciono le fiabe. Ma queste non le conosco.»
«Allora te ne leggo una, poi vai a dormire.» Decide Qifrey aprendo il volume.
«Quella del pesce?» suggerisce Olruggio a mezza voce, intrappolando uno sbadiglio tra le dita, «è l’unica che ricordo.»
Qifrey scuote la testa. «Me ne ricordo altre più belle.» Sfoglia piano le pagine, come assaporando ogni singola illustrazione. È così lento che Riché dopo un po’ pensa che si sia dimenticato ciò che stava facendo. Sbadiglia.
«Questa.» Alza il libro verso la sua spalla, da dove Olruggio mormora il suo consenso. «Ti piaceva tanto, questa.» Ha un sorriso nella voce.
Riché vede Qifrey socchiudere gli occhi, come se annuire fosse un gesto troppo brusco. Liscia il bordo della pagina.
La sua voce è calma e gentile. «In un paese di una terra lontana, dove d’estate gli alberi si piegavano sotto il peso dei frutti e d’inverno i bambini si rincorrevano pattinando sui laghi ghiacciati, c’era un vecchio pastore che possedeva una stalla piccola ma confortevole…»
 
«Sei tu la maga che ogni notte accende la Luna?» le chiese timidamente.
«Sono l’unica che può farlo, perché sono l’unica che vive qui.» La sua voce era calma e gentile, così delicata che il topolino per poco non riusciva a sentirla.
La ragazza continuò a camminare in silenzio e il topolino la seguì. Entrò in casa, posò la torcia e la giara sullo scaffale, poi uscì e si sedette per terra vicino all’uscio. Guardava il cielo, proprio come aveva fatto il topolino per tutta la notte.
Il topolino non sapeva cosa dire, e rimase a lungo in silenzio osservando le stelle riflettersi negli occhi scuri della maga.
«Tu perché sei qui?» chiese alla fine la fanciulla.
«Sono venuto a ringraziarti» Si ricordò il topolino. «Io ho tanta paura del buio, ma ogni notte la luce della Luna mi rende più coraggioso.»
La strega era stupita, e rispose sorridendo: «Non era mai capitato che qualcuno salisse fin quassù per ringraziarmi. Sei molto gentile e coraggioso.»
Dopo un po’ la ragazza rientrò in casa e si mise a disegnare su un foglio gli incantesimi per il giorno dopo. Il topolino si costruì un giaciglio accanto al caminetto e dormirono per tutta la durata del giorno. Quando il sole tramontò, la ragazza prese una nuova giara d’olio, il blocchetto degli incantesimi e uscì di casa.
«Posso venire con te?» Chiese il topolino. «Sono troppo piccolo per aiutarti, ma posso tenerti compagnia!»
 
«Ma sai che non me la ricordo?»
Ha parlato molto piano, quasi a sé stesso, ma Qifrey smette di leggere e si gira a guardarlo. «Davvero?» alza le sopracciglia, come incredulo. «A me sembra di essere tornato indietro nel tempo.»
«Sarà che l’hai letta molte più volte di me.»
«Dici?»
«Ma sì, a me non diceva granché. L’avrò sentita un paio di volte.»
Riché vuole sapere cosa succede dopo. «Io non l’ho mai letta.» Commenta tranquilla. Olruggio sbuffa una risata, Qifrey la guarda e sorride: «Hai ragione.»
 
«Va bene. Così potrai parlarmi del tuo viaggio.»
Camminarono per tutta la Luna mentre la fanciulla accendeva le torce a una a una con la magia. Camminando leggera sulla superficie morbida della Luna, sembrava ballasse con la sua ombra. Non parlava molto di sé, ma le piaceva ascoltare il topolino.
«Come hai fatto a venire fin qui?»
«Non è stato un viaggio difficile. Ho trovato un passaggio.»
«Un passaggio?»
«Sì, una stella cadente gentilissima mi ha portato qui!» Il topolino sospirò, guardando verso l’alto. «È stato magico. E il cielo è così bello e luminoso! Mi viene voglia di restare qui per sempre.»
«Sì,» concordò la strega guardando anche lei il cielo, «è bello, lo spazio. Ma è fatto per chi non ha nessuno. Per chi non può essere felice altrove, perché non ha di meglio altrove.»
«Non c’è niente di meglio di questo cielo! Guarda, ci sono le stelle anche di giorno! Come mai non viene mai nessuno?»
 
Olruggio si tira su, dritto come un fuso. Non sorride.
«Tutto bene?»
È la terza volta che Riché sente questa domanda. Questa volta è Qifrey a farla.
Olruggio borbotta tra sé e sé come Riché lo ha visto fare spesso. Di solito non è buon segno. «Mh. Non è niente. Mi sono ricordato…» scrolla le spalle, esita. «Non fa niente, continua.»
 
La ragazza rimase in silenzio per un po’. Durante la camminata, arrivarono nel punto in cui il topolino era atterrato. La maga raccolse la barchetta che era rimasta lì e la mise in tasca.
«Le stelle sono molto sole, in realtà.» Mormorò a un tratto. «Alcune si muovono in gruppo e possono rincorrersi fra loro, ma ci sono moltissime stelle ferme che non possono farlo. Alla fine muoiono di solitudine, sai.»
«E perché le stelle cadenti non vanno a trovarle?»
«Perché sono molto egoiste. E poi, se fossi costretto a vivere sempre nella stessa capanna, come ti sentiresti se ogni giorno qualcuno che può viaggiare lontano venisse a raccontarti le sue avventure?»
«La stella cadente che mi ha portato qui non era egoista» protestò il topolino, e la fanciulla sorrise.
«Allora hai trovato una stella molto speciale.» Poi ebbe un’idea. «Visto che non hai niente da fare, perché prima di andare via non provi a giocare un po’ con le stelle ferme? Penso che ne sarebbero felici.»
Il topolino non vedeva l’ora. Quando tornarono a casa, la maga disegnò un incantesimo sulla sua barchetta per farla volare nello spazio, e la notte dopo il topolino partì verso la stella più vicina. Si divertì un mondo.
Le stelle ferme non erano egoiste. Erano un po’ tristi, come aveva detto la fanciulla, ma molto curiose. Ascoltavano le storie del topolino con attenzione, poi si divertivano a vederlo sfrecciare avanti e indietro sulla sua barchetta di noci.
Passarono i giorni, tutti simili fra loro. Ogni tanto, mentre viaggiava verso le stelle fisse, incontrava la stella gentile che lo aveva portato sulla Luna e giocava a rincorrersi con lei.
Quando il sole iniziava a salire, il topolino tornava a casa sulla Luna e raccontava la sua giornata alla maga. Lei conosceva le stelle, e gli suggeriva sempre nuovi giochi e nuove idee con cui divertirsi, anche quando era così stanca che voleva andare subito a dormire.
Le notti di falci di Luna, quando aveva poco lavoro, la maga parlava più volentieri: il topolino scoprì che non era sempre stata lei ad accendere la Luna. Prima di lei c’era stato un vecchietto, e prima di quel vecchietto un gufo dispettoso. «Chi ci sarà dopo di te?», le chiedeva. «Chissà», rispondeva lei, «magari tu.»
Il topolino iniziò ad alternare i giorni in cui giocava con le stelle a quelli in cui aiutava la maga. Sistemarono la barchetta, così che potesse trasportare l’olio, e la fanciulla iniziò a insegnargli l’incantesimo per accendere le torce. Intingendo la codina nella boccetta d’inchiostro, il topolino si allenava a tracciare i segni giusti sul foglio: non aveva mai fatto qualcosa di così difficile eppure di così divertente.
Eppure, dopo un po’, il topolino iniziò a sentirsi triste. Gli mancavano i suoi amici, gli mancavano la mamma e i fratelli che aveva lasciato sulla Terra. Non capiva bene: stare nello spazio era così divertente! Aveva fatto cose mai provate prima, conosciuto stelle interessanti, e non era mai buio. Nonostante ciò, voleva tornare a casa.
«Te l’ho detto quando sei arrivato, no?» rispose la maga sorridendo quando il topolino si confidò con lei, «Lo spazio è per chi non ha nessuno. Tu invece hai qualcuno che ti aspetta. Se hai una casa, ci devi tornare! È la cosa più importante, dopo aver fatto un lungo viaggio, tornare a casa. Non è mai troppo tardi.»
«E tu?»
Lei scosse la testa. «È proprio per questo che posso restare qui. Io non ho nessuno.»
Erano seduti sull’uscio di casa, come al loro primo incontro di tanto tempo prima. Guardavano il cielo.
Il topolino non capiva bene. «Ma, adesso, hai me. Adesso siamo amici.»
 
Riché tiene gli occhi fissi sul tavolino, quindi si accorge che Olruggio si è mosso soltanto quando sente un tonfo leggero. Alza la testa e lo vede sprofondato contro la spalla di Qifrey, gli occhi puntati sulle pagine. Rapido come il volo di una rondine, il ricordo dei suoi genitori seduti in soggiorno le sfiora di nuovo la mente. Le avevano letto delle storie, ogni tanto. Si divertivano a leggere a turni alterni.
«Oru?» Qifrey sussurra contro la sua spalla. Riché non capisce cosa gli stia chiedendo ma Olruggio scuote appena la testa e sorride, senza guardare nessuno in particolare. «Mi sono ricordato una cosa» commenta criptico.
Qifrey resta un attimo in silenzio.
«Una cosa bella?» Sussurra, così piano che Riché quasi non lo sente.
«Penso di sì. Adesso.» Muove le gambe, la gonna fruscia. «Spero di sì.»
Qifrey gira la pagina. «Non dipende solo da me, sai?»
Sembra un po’ triste.
Olruggio ride.
 
Lei rise. «Ma qualcuno deve restare sulla Luna a illuminarla, no? Non possiamo lasciarla al buio. Ma ti prometto che, non appena arriverà qualcuno che vuole fare a cambio, scenderò sulla Terra e giocheremo insieme.»
Il topolino accettò. Allora, un po’ emozionato, chiamò la sua amica stella e si preparò alla partenza. Quando si salutarono, la maga gli disse: «Addio! Mi impegnerò per illuminare la Terra sempre meglio, e magari riuscirai a vedermi anche da laggiù.»
«E io», promise il topolino, «io affronterò la mia paura. Anche se sarò al buio, avrò tutti i miei amici accanto a me, e saprò che sei lassù a illuminare la Luna per me. Addio!»
Mentre la stella correva, il topolino rimase a guardare la fanciulla che agitava la mano finché non divenne un puntino scuro nel bianco della Luna. Poi si voltò, e tornò finalmente a casa.
 
 
 
Ogni mese, quando c’è la Luna nuova, il topolino esce dalla stalla e cammina per le stradine buie: nessuno lo sa, ma sta accompagnando la ragazza della Luna a fare compere.
Badate, ha ancora paura del buio: ma ha imparato che, per le giuste persone, si può affrontare ogni paura. Così cammina nel buio, in attesa che la ragazza della Luna scenda sulla Terra per restare a giocare con lui per sempre.
 
 
 

Quand’era giovane, in una notte senza nuvole, Qifrey aveva provato a volare fino alla Luna. Aveva appena imparato a usare l’incantesimo di levitazione.

Erano in ritardo, lui e Olruggio.
Erano rimasti in superficie più di quanto fosse loro concesso, e avrebbero dovuto sbrigarsi a tornare giù. Potevano già sentire nelle orecchie le strigliate dei maestri.
Eppure Qifrey era partito verso l’alto, in silenzio, lasciando a terra tutte le sue cose. Ed era andato verso la Luna.
Era appena un bambino.
Quando le scarpe avevano smesso di volare – non avrebbero raggiunto le Montagne Dada, figuriamoci la Luna – Qifrey si era guardato attorno, aveva visto il buio e aveva pensato che sarebbe morto lì; che stava affogando, e che da quel nero non ci sarebbe più uscito.
Non era stato un pensiero vero e proprio, a dire la verità. Si era trattata di una presa di coscienza, di una porta scura sbattuta in faccia che gli aveva fatto capire, subito e senza possibilità di errore, che era tutto finito lì.
Lo spazio doveva essere bello, luminoso. Sarebbe dovuto esserlo; avrebbe dovuto salvarlo e portarlo lontano. Toglierlo dalla cupola soffocante dell’Assemblea. Sarebbe dovuto essere il posto giusto, per uno come lui. L’aveva letto nei libri.
Avrebbe dovuto farlo respirare.
Invece il cielo nero, nero, nero era sopra di lui e lo stava schiacciando, lo prendeva in giro, gli chiedeva: «È qui che vuoi stare?»
Era rimasto lì immobile e si era sentito morire. Aveva guardato la Luna – un placido spicchio, freddo e lontano – e aveva capito che non c’era posto per lui. Neanche lì.
Non c’era niente da nessuna parte.
Non c’era luce, non c’erano stelle, o forse era solo Qifrey a cui girava la testa e non vedeva più nulla. Il cielo gli cascava addosso, il cielo lo colpiva a martellate. Il cielo lo avrebbe fatto cadere.
A terra, a terra non c’era niente. Solo buio. Solo buio, ombre, pietra fredda, e una fiammella accesa tremolante. Una luce così dolce e gentile che Qifrey doveva essersela per forza immaginata.
Così come stava immaginando una voce, la voce di qualcuno a cui Qifrey apparteneva con tutto il suo essere.
Gli urlava di scendere, ‘che erano in ritardo. Che sarebbero finiti senza cena, se non si fosse sbrigato. Era una voce nervosa, arrabbiata, e Qifrey per un attimo aveva pensato di scappare perché non voleva vederlo arrabbiato. Non voleva farlo arrabbiare.
Ma no, ma no, sarebbe stato anche peggio. E poi, e poi non respirava più e gli tremavano le gambe, dove poteva andare se non a casa?
Erano appena bambini.
 
Olruggio non aveva davvero capito, quando Qifrey se n’era andato via.
Era solo scocciato, all’inizio. Aveva iniziato a preoccuparsi quando aveva visto che non tornava. Non lo vedeva più, con tutto quel buio.
Era tardi. Faceva freddo. Voleva andare a casa.
Aveva acceso una luce con la magia – gli veniva bene, eccome se gli veniva bene la magia del fuoco – e aveva gridato un po’. Si era alzato in volo, appena appena, e Qifrey era tornato.
Qifrey non abbracciava le persone perciò Qifrey non l’aveva abbracciato anche se, guardandolo, Olruggio aveva avuto tutta l’impressione che avesse voglia di farlo. Si erano scontrati, quello sì, perché Qifrey non sapeva volare molto bene e gli era cascato addosso. Qifrey che era pallido come un cencio e durante la strada verso casa aveva fatto cascare mille volte le cose che si portava dietro.
Alla fine, proprio alla fine, mentre i maestri li sgridavano – macché, Beldaruit non li sgridava mai, ma bastava il suo sguardo deluso a farli sentire in colpa – Qifrey si era messo vicino vicino e gli aveva stretto la manica della tunica. La cosa più vicina a un abbraccio che avesse mai fatto.
Era appena un bambino, Olruggio. Ne aveva, di tempo, per capire cos’era successo.
Per capire come farlo tornare.
 
 
«Non dipende solo da me, sai?»
«Cosa?»
«Se è un ricordo bello, dico. Non è solo grazie a me. Per niente, Oru.»









*** Angolo dell'Autrice ***
Grazie a chiunque sia arrivato fin qui! Di fan di Wha italiani ce ne sono davvero pochi quindi tengo un posto speciale nel cuore per chiunque abbia letto - e, si spera, apprezzato - questa storia.
È la prima Ff su Witch Hat Atelier che scrivo, anche se penso proprio che non sarà l'ultima - ma Qifrey e Olruggio sono due personcine delicate, vanno trattati con cura, perciò mi prenderò il mio tempo.

Nota nella nota: vorrei ringraziare colachampagne3 per le bellissime storie su Witch Hat Atelier che ha pubblicato su Ao3.
Mentirei se dicessi che l'idea di associare Qifrey a una fiaba mi sarebbe venuta in mente senza le sue fanfiction. Sono stupende, di una sensibilità e una sottile malinconia travolgenti.
Correte tutti a leggerle.

Ultimissima cosa: ho notato, ascoltando i pareri di qualche lettore, che tutti hanno trovato un'interpretazione lievemente diversa dell'ultima parte della storia - alcune anche parecchio distanti dalla mia idea, e devo dire che la cosa mi riempie di curiosità.

Per quale motivo Qifrey ha deciso di andare verso la Luna, quando era bambino? Quale pensiero - quale frase, quale speranza - c'era dietro le sue azioni?

Fatemi sapere la vostra interpretazione!
Grazie ancora e alla prossima,
Kalika
 
   
 
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