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Autore: Pandora13    20/11/2023    1 recensioni
Principio della rana bollita:
Prendere un pentolone pieno d’acqua fredda, nel quale nuota tranquillamente una rana.
Accendere il fuoco sotto alla pentola ad intensità medio bassa, a provocare un crescente riscaldamento dell’acqua.
L’acqua diventa presto tiepida.
Osservare la rana trovare la temperatura gradevole e continuare a nuotare.
Aspettare l’innalzarsi della temperatura fino a sentirla calda.
La rana la troverà a questo punto molto sgradevole, ma si è debilitata e non ha più forze per reagire. Verificare come la rana non faccia nulla per uscire dalla situazione.
Lasciare che la temperatura dell’acqua salga ancora, fino a ebollizione, fino a verificare l’inevitabile cottura della rana che -semplicemente- muore bollita.
Il principio della rana bollita (detto anche “il principio dell'accettazione passiva”) non è applicabile immergendo la rana direttamente nell’acqua a 50°; in suddetta casistica, infatti, la rana balza subito fuori dal pentolone.

OmiHina post Time-skip
6245 parole
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kiyoomi Sakusa, Shouyou Hinata
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NdA: questa storia è un esperimento a quattro mani, scritta più di un anno fa da me e caith_rikku come regalo per il raggiungimento di un traguardo importantissimo -e anche per il compleanno- di speechlessback. La storia si può leggere separatamente, ma idealmente è ambientata nello stesso universo della serie scritta da noi tre e che ha inizio da questa fic di caith: Inevitabile caduta libera.
Si tratta di una OmiHIna post time-skip, perciò possono essere presenti spoiler del manga. 

 


Principio della rana bollita:
Prendere un pentolone pieno d’acqua fredda, nel quale nuota tranquillamente una rana.
Accendere il fuoco sotto alla pentola ad intensità medio bassa, a provocare un crescente riscaldamento dell’acqua.
L’acqua diventa presto tiepida.
Osservare la rana trovare la temperatura gradevole e continuare a nuotare.
Aspettare l’innalzarsi della temperatura fino a sentirla calda.
La rana la troverà a questo punto molto sgradevole, ma si è debilitata e non ha più forze per reagire. Verificare come la rana non faccia nulla per uscire dalla situazione.
Lasciare che la temperatura dell’acqua salga ancora, fino a ebollizione, fino a verificare l’inevitabile cottura della rana che -semplicemente- muore bollita.
Il principio della rana bollita (detto anche “il principio dell'accettazione passiva”) non è applicabile immergendo la rana direttamente nell’acqua a 50°; in suddetta casistica, infatti, la rana balza subito fuori dal pentolone.
 

 
“WAAAAAAAAAAAAAAH Kageyama conosci quel figo?” Il grido squarciò l’aria, attirando fin troppi sguardi per i gusti di Kageyama e provocando una sonora risata da parte del ragazzo in maglia gialla che si stava allontanando da loro.
“Certo che lo conosco stupido, è appena venuto a salutarmi!”.
“Non lui, Bakageyama, il tenebroso lì nell’angolo!” finì abbassando la voce, trascinando Kageyama a portata di orecchio, in quello che voleva essere un sussurro, ma che in realtà si sentiva ancora a diversi metri di distanza.
 
 

 
La prima volta che Kiyoomi lo aveva incontrato era stato durante il suo secondo torneo Nazionale Interliceale.
Komori aveva visto Kageyama tra la folla e si era avvicinato per salutarlo, lasciandolo senza troppi convenevoli nel suo angolo, ad osservare con disgusto malcelato la quantità di persone che li circondava.
Li aveva visti voltarsi nella sua direzione, Kageyama accennando un saluto, per poi riprendere la conversazione.
Pochi istanti dopo un uragano arancione aveva catalizzato chiassosamente la sua attenzione, saltellando nel suo campo visivo, urlando qualcosa al setter.
Komori, che stava tornando verso di lui, era scoppiato a ridere incredulo.
Una volta raggiunto il suo angolino gli aveva raccontato una storia assurda, sostenendo che il ragazzo stava gridando perché interessato proprio a lui.
Kiyoomi non ci aveva creduto.
Era semplicemente ridicolo e poi, anche fosse, di certo quello non sarebbe mai stato il suo tipo. Esuberante, chiassoso, frenetico, basso. Un ingenuo principiante in un colosso ormai caduto. Tutto il contrario di ciò che lo colpiva in un ragazzo. Se quel giorno aveva dato poco peso al ragazzo, il successivo tutto ciò che aveva notato -mentre Komori ne rimaneva affascinato- era come la sua veloce fosse pericolosa per la salute fisica.
La convinzione che quel ragazzo non fosse il suo tipo e non fosse neanche destinato a proseguire con quello sport si consolidò definitivamente durante la partita tra Karasuno e Kamomedai: aveva sentito dire di lui quella frase che considerava una delle peggiori, soprattutto se rivolta ad un giocatore: “che peccato”.
Tutto solo perché il piccoletto non sapeva prendersi cura di se stesso.
 
Non poteva saperlo allora, ma quella era stata la partita della svolta per Hinata, quella che li avrebbe riportati sullo stesso campo e poi li avrebbe separati nuovamente.
Non poteva saperlo allora, ma se lo sarebbe chiesto spesso in futuro, se la fiamma sotto la pentola in cui sarebbe bollito fosse già accesa in quel momento…
 
 
“Sakusa-san! Ciao! Sono Shoyo Hinata, che piacere conoscerti!”
La voce squillante lo aveva indotto ad alzare lo sguardo dai propri esercizi di stretching per vedere un volto che pensava di aver dimenticato.
Ricordava un piccolo corvo spelacchiato, rumoroso e caotico. Ricordava una voglia di fare urgente che cercava vanamente di compensare la mancanza di tecnica. Ricordava soprattutto quanto fosse sconsiderato.
“Mr. ho preso la febbre e sono stato messo in panchina.” poteva sembrare un’offesa, o una semplice constatazione dei fatti, ma era solo stupore e qualcosa a cui non sapeva dare un nome, curiosità forse?
E quando lo vide giocare, si rese conto definitivamente di essersi trovato di fronte un’altra persona, faticava a far coincidere il ricordo del ragazzino caotico con quello di Ninja Shoyo, mentre lo guardava muoversi con precisione: i muscoli di schiena e cosce che guizzavano, splendenti di lentiggini e abbronzatura.
 

 
Se non si era accesa prima, la fiamma si era accesa da qualche parte in quegli anni, tra una partita e un allenamento, tra una sfida e un dettaglio notato per caso.
Forse era stato quando aveva notato che Shoyo non era solo chiasso, energia e luce, ma anche meditazione, attenzione alla propria dieta, preoccupazione per gli altri e silenzi infiniti quando si lasciava assorbire dalle proprie ombre.
Forse quando aveva capito che il suo “Mantieni le distanze” non serviva con lui, non davvero, perché si fermava sempre da solo prima di toccarlo.
Forse era stato quando aveva visto i suoi occhi spalancarsi come piattini da tè la prima volta che era stato lui a dargli il cinque nel bel mezzo di una partita… forse non era importante quando era stata accesa la fiamma, perché quando se ne era accorto era comunque già troppo tardi.
 
“Mi sono innamorato.” probabilmente chiunque altro, sentendo quella stessa frase uscire dalla bocca di Sakusa Kiyoomi, avrebbe creduto di star sognando.
Non suo cugino.
Komori conosceva Sakusa meglio di chiunque altro ed era stato testimone silenzioso del suo struggimento adolescenziale per Ushijima Wakatoshi, ma nonostante ciò neanche lui aveva visto arrivare il colpo questa volta.
Hinata Shoyo era una delle persone più rumorose che conoscesse eppure era stato fedele al proprio soprannome e -silenzioso, ma letale come un ninja- era entrato prima nella routine di Kiyoomi e poi sotto la sua pelle.
Ciò che preoccupava maggiormente Komori, tuttavia, era che suo cugino non faceva mai niente a metà e l’amore non faceva eccezione. Shoyo d’altro canto… avrebbe mai potuto dargli ciò di cui aveva bisogno?
"Non si può dire che tu non abbia un tipo, eh?" aveva chiesto con sarcasmo, quasi più a se stesso che al cugino.
"Che intendi?".
Kami! Avrebbe dovuto sapere che Kiyoomi non avrebbe notato le somiglianze!
A colpo d’occhio nessuno avrebbe detto che il piccolo e solare HInata Shoyo e il massiccio e serio Ushijima Wakatoshi avessero qualcosa in comune, beh a parte il ruolo… eppure non era neanche qualcosa di così sottile e invisibile. A lui -che li conosceva più che come semplici avversari solo grazie alle parole altrui e alla nazionale- sembrava comunque così evidente: due fiere affamate, avide di crescita e libertà, due vite fatte di ambizione egoistica, due vite di dedizione completa alla pallavolo, due persone che non potevano donare interamente loro stesse e mettere qualcun altro al primo posto, non ancora.
Come poteva Komori non temere per il cugino?
Certo il piccolo opposto sapeva essere altruista, era solare, affettuoso e nonostante questo, o forse anche per questo rispettoso di ogni limite imposto da Sakusa, tuttavia aveva fatto di quelle caratteristiche -quelle che aveva in comune con l’altro grande amore di Sakusa- la propria forza per raggiungere la vetta e la felicità. I sentimenti trovavano posto in questa sua equazione?
Una cosa era certa, Sakusa era incapace di resistere a quel tipo di personalità, ma ne era anche del tutto ignaro, o non avrebbe dato la possibilità ad Hinata di avvicinarsi tanto, trovandosi di nuovo come la rana in una pentola d’acqua bollente.
 

 
Era l’alba e Sakusa era incantato a guardare Hinata preparargli la colazione.
Avevano fatto yoga assieme nel silenzio addormentato del dormitorio del Black Jackals, un’abitudine presa nei mesi senza nemmeno rendersene conto.
Hinata, mentre cucinava voltandogli le spalle, canticchiava sommessamente una melodia nostalgica. “Le uova le vuoi strapazzate? O preferisci un tamagoyaki?” domandò guardando Sakusa da oltre la sua spalla.
Era una scena intima e familiare, che permetteva a Sakusa di iniziare la giornata con il piede giusto, prima della cacofonia di rumori che gli avrebbe frastornato il cervello quando Bokuto e Atsumu si fossero svegliati. Sentiva il volto rilassato, le labbra quasi distese in un sorriso.
Sarebbe stato così facile in quel momento lasciar andare le proprie emozioni, permettersi di giocare finalmente a carte scoperte. Era quasi curioso all’idea di come Hinata avrebbe reagito… Si era solo immaginato quel perenne lieve civettare di Shoyo verso di lui?
 
Poi il telefono di Hinata cominciò a vibrare insistentemente, un elemento di disturbo nella loro bolla.
Rimasero entrambi interdetti a guardare il cellulare per qualche secondo, il numero con un prefisso straniero che sembrava deridere Sakusa. Poi Hinata rispose, allontanandosi “Olá. Quem fala?”, le uova lasciate sul bancone della cucina, intatte.
 
“Sakusa-san”
E Kiyoomi sentì freddo, gelo.
“Sakusa-san il Sao Paulo mi ha offerto un posto in squadra”
E in un attimo la loro bolla idilliaca era esplosa con un sonoro fragore che aveva svuotato mente e petto di Kiyoomi. Si ricordò improvvisamente chi erano, per cosa avevano lottato fino a quel momento, perchè erano solo Kiyoomi e Shoyo e nulla più.
 
Alla fine Sakusa non si era dichiarato, non perché gli fosse mancato il coraggio, ma perché aveva ritenuto più importante lasciare entrambi liberi di realizzare i propri sogni. Lui aveva bisogno di realizzarsi nella sicurezza della propria routine e della propria casa, quello che ormai erano i Black Jackals; Shoyo aveva bisogno di spiegare le ali e volare più alto possibile, un Icaro moderno le cui ali Sakusa sperava di non vedere mai in fiamme.
 

 
Alla fine se ne era pentito.
Non di averlo lasciato andare.
Ma di non essersi dichiarato.
Era così che si era ritrovato -nel bel mezzo di quello che sembrava il periodo dei drammi sentimentali di ogni suo conoscente- a prendere un aereo per il Brasile.
Non sapeva cosa gli avrebbe detto.
Sakusa nel suo non lasciare niente a metà poteva essere egoista quanto Shoyo. Voleva proseguire la carriera con i MSBY e con la Nazionale, finché il suo corpo glielo avrebbe concesso, voleva che Shoyo raggiungesse il massimo, voleva Shoyo, ma non lo voleva a distanza.
Così era giunto all’unica soluzione a cui era riuscito a pensare: aveva preso un biglietto per il Brasile solo per volare da lui.
 
“Sono contento di averti qui Sakusa-san” cinguettava Hinata, e Sakusa poté finalmente sospirare, in pace. Tutto era al posto giusto, poteva quasi dimenticarsi di essere in un paese straniero, in una casa sconosciuta.
Ancora non se ne capacitava del tutto.
L’aereo avrebbe dovuto dargli il tempo per prendere consapevolezza, invece gli aveva dato maggiormente la sensazione di star vivendo un sogno lucido.
35 ore di volo, 3 scali e un fuso orario avanti di 12 ore; era arrivato di primo pomeriggio, ma per il suo orologio biologico era nel pieno della notte, le abitudini bellamente buttate nel cesso.
E Hinata sembrava davvero un sogno, con un sorriso splendente come non lo aveva mai visto -non rivolto a lui- e quell’inconfondibile odore chimico di agrumi del suo solito bagnoschiuma 10in1 che prometteva di distruggere l’olfatto di Sakusa.
Abbronzato -come quando l'aveva incontrato la prima volta ai MSBY- i segni della pelle chiara che sbucavano dispettosi dai bordi della canottiera, come sempre perfettamente a proprio agio in ogni situazione.
Kyioomi aveva preteso una doccia appena messo piede a casa di Hinata, insofferente. Hinata, un placido sorriso furbo in volto, una luce famelica negli occhi, in silenzio era andato a lavarsi subito dopo. E poi Sakusa se lo era trovato davanti, loro due soli nella casa vuota e nel silenzio della siesta brasiliana. Hinata ancora più profumato e finalmente pulito, i capelli ancora umidi scompigliati attorno al viso. Erano più lunghi del solito.
Kiyoomi si perse a fissare una goccia di umidità su una ciocca ribelle.
Era il jet lag, si diceva.
 
“Cosa fai qui?”
“Shoyo”
“SHOYO?” Hinata arrossì vistosamente, fino alla punta delle orecchie. Adorabile.
Sakusa chiuse gli occhi per ritrovare la concentrazione. Ora o mai più. Aveva affrontato cinque disgustosi e affollati aeroporti per questo.
“Ti amo, Shoyo”
Tutta l’aria uscì dai polmoni di Shoyo mentre gli occhi si facevano grandi e umidi.
Sakusa notò distintamente lo sguardo di Hinata posarsi sulle sue labbra prima di vederlo allungarsi verso di lui con slancio.
Sakusa si mosse fulmineo bloccandolo per le spalle.
“Cosa stai facendo?” Domandò, la voce rotta un po’ troppo alta.
“Cosa sto facendo io?”
“Non ho intenzione di avere una relazione a distanza”
“Una cosa…?” Hinata era sempre più perplesso. Si scostò da lui, sciogliendo il contatto fisico. "Kiyoomi…" cominciò, e si prese il suo tempo, assaporando il sapore del nome sulla lingua, “…te lo devo chiedere di nuovo. Cosa sei venuto a fare qui?”
“Te l’ho appena spiegato” anche Sakusa si sentiva confuso. Frastornato. Aveva talmente tanto sonno da perdere il filo dei suoi pensieri.
“E cosa vuoi da me?”
“Niente”
“Niente?”
“Non è il momento. Tu sei in Brasile, io sono in Giappone. Siamo al culmine della nostra carriera, dobbiamo rimanerci più tempo possibile. Mancano solo una manciata di anni al nostro ritiro. Non possiamo focalizzarci su null’altro” lo disse come se avesse imparato un discorso a memoria. Un po’ era così.
“E allora cosa diamine fai qui?!” Hinata cominciava a scocciarsi.
“Osamu e Akaashi stanno assieme”
“Lo so”
“… e mi hanno fatto capire che dovevo dirlo” la voce di Sakusa si spense nel turbinio dei suoi stessi pensieri sconclusionati, ma qualcosa nel suo tono, nella sua espressione, addolcì Hinata, che sospirò e sorrise.
Fu un attimo, poi negli occhi si fece largo la fame.
Si allungò di nuovo verso Sakusa in un unico movimento fluido. Era come se fosse sempre stato lì, dentro allo spazio vitale di Kiyoomi. Sembrava così giusto che lui fosse lì.
“Beh, ma con tutta la strada che hai fatto… e con tutto il tempo che abbiamo atteso…”
“Abbiamo?”
“Bel tenebroso, io ti ho adocchiato dal primo anno delle superiori!” ridacchiò Hinata, dei campanelli il cui tintinnio risuonava in Sakusa facendolo vibrare nelle viscere. Arrossì, perse l’uso della parola.
Si sentiva un adolescente impacciato, e la sensazione sembrava schernirlo. Voleva allungare una mano sulla guancia di Hinata, sentire il calore della sua pelle. Voleva assaggiargli le labbra.
Voleva prenderlo tra le braccia e rubarlo al mondo, reclamarlo come suo. Voleva nascondersi con lui in una luna di miele, lì in Brasile. Afferrarlo, divorarlo, inglobarlo. Voleva vivere con lui, renderlo parte della sua abitudine come solo la famiglia può esserlo. Si vide passeggiare insieme a lui all’alba, nella periferia di Tokyo, di lì a vent’anni.
Non poteva. Non ora.
“Io non faccio le cose a metà”.
“Sei troppo rigido” ed era languido, mentre allungava una mano a massaggiargli il muscolo del braccio. La mano era talmente bollente sulla sua pelle che Sakusa pensò gli sarebbe rimasta l’impronta. Voleva gli rimanesse l’impronta. Se doveva convivere con quell’ingombrante sentimento che non poteva controllare, tanto valeva esserne marchiato.
Chiuse gli occhi, combattuto, e sentì entrambe le mani di Hinata sulle proprie braccia, caute. Lo accarezzavano e massaggiavano con pazienza, come aspettando un suo cenno. Gli massaggiò i bicipiti, salì fino alle spalle, poi si spostò alla base del collo, le dita che premevano sapientemente sulla cervicale contratta.
Kiyoomi sospirò pesantemente, un gemito gli si formava in gola. Era piacevole, lo sentiva giusto, lo aveva atteso così tanto.
Ma era anche effimero, sarebbe durato così poco.
Poi le mani di Shoyo si allungarono sulla sua nuca, si infilarono nei capelli a massaggiare lo scalpo, a cullargli la testa. Sakusa non poté far altro che piegarsi al tocco, ammaliato dalla capacità ormai intrinseca di Shoyo di adescare, dentro e fuori dal campo, e Shoyo di mosse istintivamente più vicino, espirando un gemito.
Quello che quel singolo gemito fece al cervello provato di Kiyoomi fu imbarazzante. Una scossa elettrica che lo sconvolse, lo fece rabbrividire; un’esplosione nelle viscere che crebbe fino a incastrarsi in gola; e Kiyoomi non fu più capace di pensare a qualcosa che non fosse quel singolo istante di presente.
Sempre con gli occhi chiusi, terrorizzato all’idea di aprirli, si piegò in avanti e delle labbra umide e calde si unirono immediatamente alle sue in un ringhio gutturale.
 
Forse stava sognando.
La presenza di Shoyo era così prepotente e ingombrante da sovrastarlo, obnubilargli i sensi. Era ovunque: pelle sotto le sue dita, sapore sul suo palato, ansimi nelle sue orecchie. Attorno a lui, dentro di lui, che lo mordeva e reclamava.
Pelle di luna ustionata da un tocco di puro sole che lo scaldava nelle viscere.
Non si era mai reso conto di aver sofferto così tanto il freddo.
 
“Possiamo farla funzionare”
“Non mi sono fottuto il cervello fino a questo punto. Saremmo solo un intralcio”
La presa sui suoi fianchi si fece arrabbiata, possessiva.
Nonostante tutto, Kiyoomi non si fece convincere.
 
 

 
“Benvenuti da Onigiri Mi— Sakusa?”
Sakusa entrò chinando il capo leggermente, in segno di rispetto. Il locale era ancora poco affollato, aveva ovviamente scelto un orario di calma. Si sedette su uno sgabello davanti a Osamu, “Vorrei un onigiri all’umeboshi e uno al tonno”.
Osamu lo guardò sorpreso, “Cosa ci fai qui?”
Sakusa alzò lo sguardo a incontrare quello dell’altro, poi piegò un angolo delle labbra in un malcelato sorriso, “Bokuto e Atsumu non verranno mai a cercarmi qui”. 
Osamu sorrise, poi si voltò per poter nascondere l’espressione rassegnata e imbarazzata in volto, mentre cominciava a lavorare all’ordine di Sakusa. “Come stanno?” Domandò, cercando di tenere il tono superficiale.
“Sono disgustosi da guardare, ma negano ancora l’evidenza” forse il suo tono di voce era risultato più aggressivo del previsto, perchè Osamu sembrò tendersi. “E tu invece come stai, Sakusa? So che sei tornato da poco dal Brasile”
“Sto una favola” non si sprecò nemmeno a fingere.
“Suna mi ha detto…”
“Sono addirittura argomento delle poche discussioni che hai con il tuo ex?”
E questa volta aveva parlato per ferire: da quando in qua la gente parlava di lui e della sua vita sentimentale? E da quando in qua si sentivano anche in diritto di parlargliene liberamente?
Ma d’altronde davanti a lui c’era comunque un Miya, l’altra metà di Atsumu, cosa ci si poteva aspettare?
“Fa pure il duro quanto vuoi, ma si vede lontano un miglio che stai di merda.” Osamu gli mise davanti il piatto con la sua ordinazione “Gli onigiri li offre la casa”
“Non voglio la tua pietà”
“Smettila di fare il coglione e mangia”
Gli onigiri erano buonissimi. Ma Sakusa sentiva solo freddo.
 
 
Successo voleva dire anche Nazionale, e Nazionale voleva dire rivedere Shoyo.
I mondiali si avvicinavano e presto ci sarebbe stato un ritiro.
Non era pronto.
Kami! Non sapeva se lo sarebbe mai stato.
Pensare al suo viaggio in Brasile lo lasciava sempre sopraffatto.
Era stato troppo bello per essere vero. Troppo caldo. Troppo eccitante. Troppo affettuoso. Troppo arrabbiato. Troppo amareggiato. Troppo freddo…
Era semplicemente tutto troppo.
Avrebbe voluto riuscire ad odiare Shoyo, a dargli almeno tutta la colpa.
Avrebbe voluto cedere alla sua stessa rabbia e credere che davvero si fosse approfittato di lui in un momento di profonda debolezza.
La verità era che era arrabbiato con se stesso.
Shoyo se ne era approfittato? Sì, molto probabilmente sì, era nella sua natura, ma anche lui lo aveva fatto. Aveva approfittato della situazione per smettere per un attimo di essere razionale, per non sentire per qualche momento quel freddo avvolgente che era la solitudine.
Sapeva di aver fatto la cosa giusta… E allora perché faceva così schifo?
 

 
“Vuoi dirmi cosa ci fai qua ad Osaka?”
"Non potrei semplicemente aver voglia di vedere mio cugino?”
Il sopracciglio di Sakusa si alzò, scettico “Fammi indovinare: Suna è andato a trovare i suoi genitori a Hyogo”
Komori nascose un sorriso, ma rimase a guardare Sakusa sereno, nonostante sentisse il volto diventare di fuoco.
Sakusa come sempre vide uno spiraglio e cercò di assestare un punto, maledetto schiacciatore; “Ancora arrossisci come un ragazzino? Eppure ne è passato di tempo”
Pensava di segnare così facilmente? Come se Komori non fosse uno dei migliori difensori in circolazione…  “Mi sento sempre come la prima volta” rispose furbo, avvicinandosi a Sakusa con fare intimo “Vuoi i dettagli?” domandò provocatorio.
Sakusa si scostò da lui, l’espressione disgustata e inorridita, quasi spaventata. Komori scoppiò a ridere.
Poi tornò serio, quella serietà che aveva solo in partita, o quando qualcosa era davvero importante.
“Però volevo davvero vederti, per quello non sono a Hyogo con Rin”
“Come mai?”
“Ogni tanto devo controllare con i miei occhi come stai”
Komori lasciò che il silenzio calasse tra di loro, lasciò che diventasse palpabile nel suo significato implicito.
Poi Sakusa sbuffò appena, un angolo della bocca quasi si piegò in un sorriso di gratitudine prima di abbassare lo sguardo, imbarazzato dalla premura. Komori sorrise sornione, mordendosi la lingua per non pungolarlo ulteriormente.
“Sai, penso di essermene fatto una ragione”
“Alla buon’ora, finalmente puoi metterci una pietra sopra-” non sapeva se credere davvero alle sue stesse parole. Voleva che Sakusa stesse bene, che trovasse qualcuno in grado di dargli tutto ciò di cui aveva bisogno. Shoyo non poteva esserlo in quel momento, nonostante ciò, non era certo che non fosse quello giusto.
Sakusa lo guardò confuso, “Non intendevo questo” disse tentennando.
Komori spalancò maggiormente gli occhi.
“Non posso liberarmi di questo sentimento, ho solo imparato a conviverci”
 
Una rana indebolita nell’acqua calda. Aveva aspettato troppo prima di cercare di saltare fuori dalla pentola. Ancora una volta, poteva accusare solo sé stesso.
 

 
Seduto in disparte, dando le spalle al resto della squadra, Sakusa si massaggiò il polso destro cercando di rimanere impassibile, ingoiando un gemito.
Le sue articolazioni lo stavano facendo impazzire, il dolore era costante e pulsava da quando il giorno prima grosse nuvole nere avevano portato sollievo alla calura di fine estate.
Doveva resistere, il ritiro della Nazionale sarebbe durato ancora un paio di giorni prima della prima amichevole della stagione. Poi avrebbe potuto riposarsi. Per qualche giorno, almeno.
“Kiyoomi-kun, va sempre peggio?”
Sakusa sussultò, smettendo immediatamente di massaggiarsi il polso, colto in fallo. Ruotò la testa per guardare Ushijima, mentre si ricordava di respirare.
Avrebbe voluto raccontare una menzogna, o far finta di non aver capito a cosa si riferisse, ma lo sguardo di Wakatoshi lo inchiodava davanti alla realtà, come aveva sempre fatto. Era un tratto che Sakusa aveva sempre apprezzato in lui.
Si ritrovò quindi a sospirare, “Te ne sei accorto?” domandò, nascondendo lo sguardo. Si sentiva sempre nudo, scoperto, di fronte al Cannone del Giappone.
Wakatoshi annuì, andando a sedersi accanto a lui. Le loro spalle si sfiorarono. Sakusa si sentì leggermente arrossire nonostante tutto, nonostante tutti gli anni che erano passati da quella sua prima cotta non ricambiata. Il corpo di Ushijima, non più alto del proprio, ma sicuramente molto più possente, sapeva ancora trasmettergli sicurezza e soggezione al contempo.
“Kiyoomi-kun, è importante prendersi cura del proprio corpo, ascoltarlo” Ushijima cercava di tenere il volume della propria voce basso, ma il risultato era un brontolio animale.
Kyioomi era stanco e rabbioso, non riusciva ad accettare che il dolore costante gli stesse offuscando la mente. Con fastidio, si rese conto che la voce che Wakatoshi gli suonava fin troppo invitante, avrebbe voluto lasciarsi andare.
Poi Wakatoshi parlò di nuovo, “Cosa ne pensa Shoyo?”.
E Kyioomi tornò freddo immediatamente, lanciandogli una delle sue migliori occhiatacce, ma Ushijima ne era da sempre immune, “Hinata non sa nulla, Wakatoshi-kun. Perché dovrebbe?”
"Perché stai per lasciare la pallavolo”
Sakusa spalancò gli occhi, il terrore gli invase le viscere. Strinse i denti con forza fino a sentire una fitta di dolore alla mandibola. Si sentiva una fiera in gabbia.
Di nuovo, avrebbe voluto mentire spudoratamente a Wakatoshi come a sé stesso, per l’ennesima volta nascondersi quella maledetta scomoda verità che lo stava tenendo sveglio di notte. Avrebbe voluto urlare, oltraggiarsi come avrebbe fatto Atsumu o ridere sonoramente come avrebbe fatto Bokuto.
Avrebbe voluto sorridere come avrebbe fatto Shoyo, il sole nel cuore e un ottimismo che sfiorava la follia.
Invece rimase lì pietrificato. Un cerbiatto immobile davanti ai fanali di un’auto in piena corsa verso di lui. Non riusciva nemmeno ad essere brutalmente pragmatico come Wakatoshi.
“Shoyo tra due giorni torna in Brasile” fu l’unica cosa che riuscì a blaterare, completamente sopraffatto e sconfitto.
Sakusa appoggiò i gomiti alle cosce e lasciò la testa crollare in avanti. Wakatoshi sospirò vicino a lui, poteva sentire gli ingranaggi muoversi nel suo cervello.
“La prima volta che mi hai parlato di quanto fosse labile la posizione di un atleta professionista, è stato quando ti ho detto che avrei proseguito con l’agonismo. L’ho apprezzato: non era preoccupazione, era mettere entrambi di fronte alla realtà. Per questo hai già costruito la strada che seguirai”
“È troppo presto” e si vergognò di averlo detto, un ragazzino emotivo che blaterava stupidaggini.
Wakatoshi si aprì in un mezzo sorriso indulgente, raro.
“Siamo animali. È il nostro corpo a decidere per noi, possiamo solo farci trovare pronti e senza rimpianti”
Impercettibilmente, Ushijima appoggiò maggiormente il proprio corpo a quello di Kiyoomi.
E Kyioomi non aveva rimpianti, non nella pallavolo almeno. Aveva dato tutto sé stesso, come in ogni cosa che faceva. Sapeva da sempre quale fosse l’obiettivo e l’aveva inseguito senza guardare in faccia nessuno, lasciandosi terra bruciata attorno. Come poteva abbandonare la sua ragione di vita, dopo tutto quello che aveva sacrificato? (un sorriso raggiante e malizioso, circondato da lentiggini)
Ushijima Wakatoshi da quel momento rimase perennemente al suo fianco, silenzioso, stoico e cerebrale, ma pronto a sorreggere Kiyoomi ad ogni passo.
Sakusa Kiyoomi, Asso della pallavolo giovanile, MVP universitario nell’anno della sua laurea, a 27 anni sarebbe stato il primo atleta della monster generation a ritirarsi.
Recise anticipatamente il suo contratto con i MSBY Black Jackals - almeno così gli sembrò di avere una parvenza di controllo, ed evitò di uscire totalmente di senno.
 

 
Una sirena.
Il suono del tabellone che indicava un cambio.
“Shoyo!”
…divenne un rumore ovattato, di fondo, ma sordo e vibrante fino nelle viscere, nel momento in cui vide il suo numero scritto come giocatore in uscita.
Shoyo era abituato alle sostituzioni, il volley permette di farne molte e per i motivi più vari, dalla semplice strategia, al voler parlare per più tempo di quello concesso dal time-out con un singolo giocatore, al voler fare riprendere fiato ad un giocatore troppo stanco, sino al voler dare spazio a qualcuno che solitamente gioca di meno, in un momento in cui la partita lo permette.
Erano anni che ne aveva imparato l’importanza, sia per la salute che per rientrare in campo più lucido, con le idee chiare, più utile a se stesso e alla squadra.
Non era uno shock essere sostituiti.
Quel giorno però… Era diverso.
”Como se sente Shoyo?”
“C- como? Bem, por quê? O que você quer dizer?”
Non capiva, non voleva capire, ma sapeva.
L’età avanzava.
Gli atleti hanno vita breve.
Le sue gambe stavano avendo la peggio contro il tempo, non correvano più così forte, non saltavano più così in alto.
NO! Non avrebbe ceduto così in fretta, aveva ancora tempo, doveva averne!
 

 
Hinata sfoderò il suo più brillante sorriso.
Era sempre lo stesso, diceva il cuore a Kyioomi. Ma qualche ruga di espressione era leggermente più marcata. La barba vecchia di un giorno sembrava un po’ più folta.
Erano passati quattro anni, ma sembrava passata un’era intera. Hinata sembrava sbucato da un’altra vita.
E probabilmente Shoyo pensava la stessa cosa, fuori luogo nei suoi vestiti sportivi in quel bar formale, frequentato da persone in giacca e cravatta. Come Kiyoomi.
 
“Ti ha sempre donato il completo, una volta avevi così poche occasioni per mettertelo” il tono era cinguettante, ma Kyioomi lo conosceva a sufficienza da leggere la malizia negli occhi.
Sakusa si ritrovò ad allentare impercettibilmente il nodo della cravatta, prima di imporsi di smetterla.
“Tu invece non sei cambiato affatto”
“Grazie!” Rispose troppo in fretta.
Sakusa cominciò a preoccuparsi.
“Come sta andando?”
“Di cosa parli?”
Hinata gesticolò come a indicare tutto ciò che li circondava. Come fosse una spiegazione.
Kiyoomi scrollò le spalle. Bevve un sorso di tè. “Il lavoro è facile, si guadagna bene” si fermò per guardarlo, “posso fare lo stronzo quanto voglio” disse con una punta di divertimento nella voce.
Shoyo rise apertamente, uno sciabordio di campanelli che rilasciò un’ondata di melassa bollente nello stomaco di Sakusa. Non lo avrebbe ammesso facilmente, ma si sentiva sempre orgoglioso quando riusciva a farlo ridere.
“E non ti manca?”
La tazza tintinnò quando venne posata sul piattino. Rimasero in silenzio, ognuno a fissare le proprie mani.
Poi Sakusa alzò lo sguardo risoluto. Quasi con austerità, sicuramente con orgoglio, non slacciò mai lo sguardo da quello di Shoyo. La schiena dritta.
“Non dimenticherò mai la mia vita nella pallavolo. Ma è finita. L’abbiamo sempre saputo che era una strada con una data di scadenza. Bisogna ricordare quello che è stato, trarne il massimo, e andare avanti senza rimpianti”
Quando concluse, Hinata fece un respiro profondo, stiracchiò la schiena, le mani dietro la testa. Si aprì in un leggero sorriso triste, guardando fuori dalle vetrate. “Sembra tu abbia imparato questa tiritera a memoria. Sono le parole di Ushiwaka?”
Ed era troppo tagliente per stare bene.
“E tu come stai, Shoyo? Cosa fai qui?”
Lo sguardo che gli lanciò di sfuggita aveva il potere di spezzare anche un cuore di pietra.
Sussurrò, ma sembrava urlasse. “Il Sao Paolo non mi ha rinnovato il contratto”
 
Kiyoomi sentì un brivido freddo corrergli lungo la schiena, una leggera sensazione di panico intorpidirgli le dita. Non era la persona adatta a questo.
Ci era già passato e lo sapeva per esperienza. Lui stesso, seppure fosse pronto a quell’imminente necessità fin da prima che la sua carriera iniziasse, aveva avuto bisogno di Wakatoshi per accettare razionalmente la fine della propria carriera agonistica. Ushijima era stato un confidente e una guida che con fermezza e l’aiuto esperto di Iwaizumi lo aveva portato a fare la scelta giusta, cercando di renderla il meno indolore possibile.
 
Shoyo aveva bisogno di qualcuno che potesse fare lo stesso per lui, di un’anima affine nel modo feroce e affamato di vivere la pallavolo.
Con grande sofferenza dovette ammettere che quella persona non poteva essere lui.
Strinse il cellulare con più forza del necessario, mentre faceva partire la chiamata.
Shoyo non ne sarebbe stato felice.
 

 
“Che cavolo ci fa lui qui?".
Hinata era arrabbiato. No, era furioso.
Anche se gli occhi raccontavano un'altra storia: sembrava lo sguardo di una fiera ingabbiata.
Tradimento.
Shoyo era ferito.
"Hai bisogno di lui." poche frasi gli avevano provocato la stessa sofferenza nell'uscire dalla sua bocca.
Sakusa non aspettò nemmeno risposta -non avrebbe retto- voltandosi e uscendo dal locale risoluto, lasciando i due vecchi amici al bancone del bar.
"Shoyo."
"Tobio…"
"Sono 5017 per me e 5019 per te."
"Ti sbagli, sono 5018 e saranno sempre di più, ma lo sai bene, no? Sei qui a gongolare per la tua vittoria definitiva, non è vero?" chiese con amarezza.
"Ritirarsi in modo onorevole quando arriva il momento non è una sconfitta."… e Shoyo in quel momento avrebbe davvero voluto credergli ma continuava a sentire solo un enorme vuoto che si riempiva di rabbia, “Non mi faccio rabbonire dalla tua pietà”.
Kageyama fu veloce a tirargli un calcio, con la stessa irruenza di quando erano solo dei ragazzini al Karasuno. “Baka, ti sembra che io possa dire le cose per pietà?”
No. Kageyama non era mai stato capace di empatia, di indorare la pillola, di trovare le piccole bugie giuste per confortare.
Ma Shoyo continuava a non sapere come sentirsi e quando Kageyama sospirò frustrato, lui si ritrovò a calare lo sguardo con vergogna.
Calò il silenzio tra di loro, Shoyo sentiva il cuore martellargli nelle tempie, poi Kageyama parlò, secco e brutale come sempre: “Che diavolo hai fatto in questi anni?”
Hinata smise di respirare.
Quelle parole erano il fulcro del loro rapporto e ciò che aveva mosso ogni suo passo negli ultimi quindici anni. Quelle parole erano impresse a fuoco dentro di lui, erano da sempre la fonte della sua fame.
Alzò gli occhi furente, rabbioso, pronto ad attaccare, ma rimase immediatamente spiazzato: Kageyama sorrideva.
“Questa volta sapresti rispondermi eh, Shoyo?”
Sì. Dal loro primo incontro, Shoyo aveva dato e sacrificato tutto -dei ricci neri su pelle di luna- per la pallavolo, per raggiungere Kageyama nella sommità del mondo, per placare la fame.
Poteva dire di avercela fatta, di non avere nessun rimpianto, di essere diventato con orgoglio un giocatore completo, ma la maledetta fame non si era mai placata.
“Tu come fai ad accettarlo?” Gli domandò allora Hinata a bruciapelo.
Kageyama sempre così perfetto, ancora in prima linea in una squadra straniera, sereno a parlare del loro futuro -un buco nero.
Tobio lo guardò corrucciandosi, come se non capisse, così Hinata lo incalzò maggiormente: “Mi guardo attorno e vedo solo compagni di una vita che si ritirano, non conosco più della metà dei convocati in Nazionale. Come fai a essere sereno?”
“Sereno?” Kageyama cominciò a ridere, una risata forzata che diventò di pancia, sempre più forte, gli occhi chiusi e la testa reclinata all’indietro. Poi calò la testa in avanti e con una mano si coprì gli occhi.
“Come cazzo puoi pensare che mi senta sereno, idiota?” E la sua voce era appena un sussurro ma completamente rotta.
Shoyo si sentì il gelo attanagliargli la schiena, gli occhi pizzicare. D’impulso si avvicinò a Kageyama e gli strinse un polso più forte che poté. Non poteva vederlo così, non l’aveva mai visto cadere così tanto.
“Andrà tutto bene Tobio”
“Non andrà bene un cazzo, abbiamo almeno altri 40 anni davanti a noi ma la nostra vita è già finita”.
 
Shoyo e Tobio avevano 31 anni e attorno a loro tutte le persone con cui erano cresciuti stavano fronteggiando il loro più grande incubo.
La pallavolo era stata la loro unica religione, l’amore della loro vita.
Come si poteva sopravvivere al distacco?
 
“Bakageyama” si sentì dire, la voce addolcita, “sta finendo un’era della nostra vita, ma non è la fine”
Kageyama si mosse bruscamente per volgere gli occhi arrossati al cielo, “Certo, mi metterò a fare il salary man come il tuo ragazzo”
Shoyo gli tirò un pugno. “Sei troppo stupido per fare l’impiegato. Segui le orme del tuo Senpai e mettiti ad allenare”
Tobio sbuffò un sorriso, “Non ho la minima intenzione di fare la fine di Oikawa-san. Piuttosto entro nella federazione della Nazionale”
“Mi sembra un buon piano!”
“E tu Shoyo?”
Hinata si ritrovò suo malgrado a sorridere. Alla fine, come c’era da aspettarsi, Kageyama non aveva avuto la minima empatia per poterlo consolare e Shoyo si era ritrovato a consolare entrambi.
Ma in qualche modo la presenza di Kageyama aveva dissipato quelle nubi di rabbia e disperazione che aveva dentro, dandogli modo di rendersi conto che sapeva già quale fosse la risposta, chi fosse la risposta.
Lo sapeva talmente bene che si era precipitato direttamente da lui appena arrivato in Giappone.
Ma lui aveva chiamato Kageyama.
 

 
“Credi che fossi venuto da te perché non avevo nessun altro?”
Kiyoomi non aveva mai visto Shoyo così furente, un uragano, una fiera inferocita. Non che questo lo intimorisse. Per un attimo, però, si chiese se avesse fatto la scelta giusta.
“Non ero la persona adatta, Shoyo”
“Sono venuto a cercare te, e tu chiami Kageyama?”
Kiyoomi ricambiò lo sguardo con malcelata frustrazione. Davvero doveva spiegargli per quale motivo fra tutti avesse scelto di chiamare Tobio Kageyama, l’altra metà del duo bislacco? L’unica persona di cui Sakusa fosse mai stato veramente geloso, mentre di notte si domandava se quei due fossero destinati nella vita, oltre che nella pallavolo?
Kiyoomi alzò leggermente il mento, un gesto altezzoso che sottolineava la differenza di altezza tra di loro, “Quindi, ti è servito?” domandò gelido.
Hinata si immobilizzò, spiazzato. Abbassò lo sguardo e strinse i pugni, in evidente difficoltà.
Sakusa sbuffò un ghigno, “Stai solo facendo i capricci, lo sai che avevo ragione”. Forse non avrebbe dovuto sentirsi così soddisfatto.
Shoyo alzò di nuovo lo sguardo, sempre battagliero, ma meno irruento: ebbe comunque il potere di inchiodare Sakusa sul posto.
“Non avevi comunque il diritto di chiamarlo”
Kiyoomi abbassò lo sguardo dal suo prima ancora di rendersene conto, “Hai ragione”
“Non ero pronto per parlare con lui”
“Non lo saresti mai stato”
Hinata quasi ruggì, coprendo la distanza che li separava e prendendolo per il bavero della camicia, “Smettila di essere così arrogante, maledizione!”
“Non è arroganza, è razionalità! Vedi perché non ero la persona adatta?”
“Non è importante che tu lo sia, è te che voglio al mio fianco!”
E le parole smisero di avere una forma nel cervello di Kiyoomi. A bocca leggermente aperta, continuò a fissare vacuo Hinata mentre sentiva il rossore invadergli le guance ed espandersi lentamente su orecchie, collo, torace.
Hinata sembrò tornare in sé: gli occhi ripresero la consueta luminosità e una risata gli scappò dalle labbra mentre la presa sulla camicia diventava una morbida carezza alla base del collo. “Guarda come sei arrossito” lo canzonò affettuosamente.
Kiyoomi deglutì a vuoto. Lui che era sempre stato razionale, anche cauto, doveva ritrovarsi ancora a cadere così facilmente per quel bianco sorriso solare, per quel proiettile di energia, quella ferocia insaziabile.
Che sconfitta.
 

 
Beh forse la sconfitta non era poi così male, forse poteva fingere di non essere una rana bollita, ma di star facendo volontariamente un bagno in una Onsen, perché quel calore bruciante che lo divorava da dentro da quella che ormai sembrava una vita, aveva preso la forma di un tepore piacevole, mentre si addormentava tra le braccia di Hinata, sul loro divano, nel loro nuovo appartamento.
O forse era davvero stupido come quella rana e si stava godendo quel dolce calore, senza accorgersi che lo stava lentamente uccidendo.
In ogni caso, andava bene così, Kiyoomi non aveva più freddo.
 
 
   
 
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