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Autore: Sia_    24/12/2023    3 recensioni
Satosugu | Per Asmodeus
“Ogni volta che guardavo Suguru stasera sentivo una cosa, non lo so… dici che sto per morire? Che schifo morire così.”
“Non stai morendo, Gojo.”
“No?”
“Ti piace Geto, tutto qui.” Sospira. “Non ne posso più.”
O: La volta in cui Satoru è venuto a contatto con il siero della verità, è finito in infermeria e ha scoperto che essere sinceri a volte ripaga.
[La storia partecipa alla "Secret Santa Challenge" indetta da Maria Lace del forum Ferisce la Penna]
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Geto Suguru, Gojo Satoru
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Per Asmodeus, un felice Natale 

Overdramatic and true (to my lover)

 

24 dicembre

I take this magnetic force of a man to be my lover

My heart's been borrowed and yours has been blue

All's well that ends well to end up with you

Swear to be overdramatic and true to my lover
(Taylor Swift – Lover)

 

Il campo per gli allenamenti è ricoperto di neve, il cielo è di un bianco spettrale – a guardare fuori dalla finestra si fa fatica a distinguere quando inizi l’uno e finisca l’altro. Mei Mei ci prova, stringe le palpebre e cerca di immaginare dove si sia cacciata la pista da corsa e dove si nasconda invece l’angolo di prato su cui è cascata appena cinque volte nei suoi anni da studente. Le scarpe di qualcuno in campo fanno un rumore stridulo contro il pavimento, si distrae e dirotta lo sguardo verso l’interno. “Che strazio.” 

Shoko è seduta sulla panchina poco distante. “Che male c’è a divertirsi un po’?” Sorride, gli occhi marroni seguono la figura di Geto che fa avanti e indietro con la palla in mano: ha provato a guardare anche gli altri, ma non è la stessa cosa. È fuori questione che degli studenti possano competere con un sensei di livello speciale, persino a pallacanestro. 

“Non hanno niente di meglio da fare la Vigilia di Natale?” 

La dottoressa decide che non è compito suo farle notare che a casa durante le vacanze ci torna solo chi ha una famiglia e che, a prendere in mano l’elenco degli studenti, non sono poi tanti. “Tu che ci fai qui?” 

Mei Mei picchietta le dita della mano sinistra contro l’avambraccio. Natale è un periodo nero per chi esoricizza maledizioni: gli umani che rimangono soli durante le feste tendono a diventare malinconici, arrabbiati, frustrati. “Mi rendo reperibile nel caso succedesse qualcosa.” 

“Mh, capito.” Shoko incrocia le gambe e sistema le maniche del camice bianco. “Spero che Satoru sia l’unico a lavorare oggi.” A qualche metro di distanza Geto fa tre punti con un tiro, poi spettina i capelli dello studente che non è riuscito a murarlo. 

“Da quanto è via?” 

Fischiano un fallo, la palestra cade in un tiepido silenzio. “Due giorni.” Dovrebbe essere già di ritorno, pensa. Da quando Yaga ha annunciato la partita di pallacanestro una settimana e mezza fa, Gojo non ha smesso di parlarne – non vedeva l’ora di battere Geto davanti a tutti. Invece Suguru sta giocando da solo. 

“Sei preoccupata?” 

“Per Gojo?” Nega con un cenno del capo, il caschetto le solletica la pelle del collo. “Solo un pazzo potre…” Smette di parlare perché la tasca del camice si mette a vibrare e continua con una certa impazienza. Sul display, prima di appoggiare il cellulare all’orecchio, intravede il nome del preside. “Sì?” 

Mei alza un sopracciglio, annoiata. Se avesse lavorato un po’ di più nei mesi scorsi, adesso potrebbe permettersi un viaggio su un’isola tropicale; invece è incastrata all’istituto di arti occulte a guardare dei ragazzini e un professore passarsi la palla. Geto fa un applauso a uno studente, poi si sistema la ciocca di capelli che è scappata dalla pettinatura. 

“È vivo?” 

Dev’essere perché non distoglie lo sguardo, che Suguru finisce per guardarla di rimando, ci mette un secondo a sorridere. 

“Ho capito, ho capito, arrivo.” Shoko si alza, chiude il cellulare in uno scatto.

“Lavoro?” 

I tacchi di Ieiri rimbombano seccamente contro il pavimento di legno, ma il rumore si ferma dopo un paio di passi. “Se chiede di me, digli che non hai idea di dove sia finita, ok?” 

L’altra si limita ad annuire – a che serve dirle che non ha idea di dove stia andando? – e a spostare lo sguardo fuori dalla finestra non appena la porta si chiude dietro le spalle di Shoko. Che strazio

 

“Sei un imbecille.” A causa dei vecchi infissi di legno che fanno costantemente entrare spifferi, in infermeria fa molto più freddo che in palestra. Shoko è girata di spalle, sta rimettendo nell’armadietto le garze con cui ha medicato uno stregone giorni prima. 

Yaga era ancora lì quando è arrivata, seduto alla scrivania. “Potresti fargli un check up completo?” le ha chiesto, alzandosi senza aggiungere altro e sparendo poi lungo il corridoio. 

Gojo è rimasto sul lettino per tutto il tempo, i palmi delle mani a sostenerne il peso. “Lo so.” Ha il capo rivolto verso l’alto, le ciocche di capelli cadono sulle bende bianche. L’ammissione di colpe è un buon modo per iniziare la conversazione. 

Shoko appoggia la schiena al bancone e lo guarda un po’ accigliata. “Avresti potuto chiamarlo.” 

“Non mi andava.” Le suole delle scarpe di Gojo picchiettano contro il pavimento, sorride. “Aveva una partita da giocare.” 

Anche tu. “Darà di matto quando scoprirà che sei finito in infermeria.” 

“Per questo non deve scoprire che sono in infermeria.” Il tono di Gojo si è fatto serio, torna a guardare in direzione dell’amica. “Io oggi non posso assolutamente incontrare Suguru, non deve sapere che sono tornato, che sono qui, che…” 

Ieiri alza gli occhi al cielo, spinge con un fianco il carrello pieno di strumenti medici verso il muro e si sistema sullo sgabello davanti al lettino. “Sai, è da quando sono qui che mi chiedo perché tu sia in infermeria: non mi sembri ferito.” Affronteranno un problema alla volta. “Eppure Yaga mi dice di correre a darti un occhio perché è sicuro che ci sia qualcosa che non va.” 

“C’è qualcosa che non va.” Non è quello che Satoru vorrebbe dire e, con gran rammarico, non riesce nemmeno a fermarsi. Gli sarebbe piaciuto, con un tono scanzonato, farle notare che il preside si preoccupa sempre troppo e che un giorno quel troppo può essere troppo poco e un altro giorno può essere troppo e basta, tipo Geto che gli riempie la scodella di ramen fino all’orlo per ripicca. 

Shoko rimane spiazzata dalla confessione, inclina di pochi gradi il capo verso destra. “E hai voglia di dirmi cosa c’è che non va?”

“No.” 

Le andrebbe proprio di fumare una sigaretta, adesso. Maledice sé stessa per aver promesso a Utahime che avrebbe smesso – ma non può mollare tutto perché Gojo le dà sui nervi. Cerca con la mano il cellulare che ha nella tasca, “Dici così solo perché se chiamo Geto lui non mi risponde.”

“No, è proprio che non te lo voglio dire.” Satoru la sente pigiare i tasti, la bocca si trasforma in un linea. 

Shoko fa l’indifferente. “Ma sai chi c’è in palestra?” Non gli lascia tanto tempo per provare a indovinare. “Mei Mei, che normalmente non è incline a elemosinare favori a destra e sinistra gratuitamente, ma adora vederti nei guai.” 

Sta per cliccare il verde, quando Satoru sbuffa. “C’era un gatto carino, dentro al velo.” 

“Un gatto?” 

Annuisce, una smorfia gli contorce il volto: le labbra si fanno piccole e il naso diventa tutto arricciato. “Lo sai quanto mi piacciano i gatti. Era bianco, tranne la punta della coda nera e… ok, ok. Ti hanno mai detto che hai poca pazienza? Mi sono distratto solo per un secondo e una di quelle maledizioni ha provato a colpirmi, con scarsi risultati.” 

“Perché sei in infermeria?” 

“Non mi ha colpito, ma ha rotto quasi un centinaio di provette che erano sul bancone dietro di me.” Rabbrividisce al ricordo della giacca bagnata, delle bende fradice, della pelle umida, del contenuto delle boccette che si mischia al sangue e si fa strada in mezzo alle ferite provocate dai vetri in frantumi. “Non preoccuparti, mi sono già occupato dei tagli.”

Yaga due giorni prima l’ha preso da parte per dirgli che lo mandava in missione anche la Vigilia di Natale a esorcizzare maledizioni nel centro di ricerca più sviluppato di tutto il Giappone. Vai, alza il velo, esorcizza e non fare cazzate. A sua discolpa, Satoru stava facendo un ottimo lavoro prima di intravedere un gatto nel laboratorio MD – massima difesa. “Che poi, come ha fatto un gatto a entrare lì dentro?”

“Cosa c’era nelle provette?” 

Di nuovo, la punta delle scarpe di Gojo comincia a tamburellare con il pavimento. “A quanto mi hanno detto, siero della verità.” Per diciassette secondi la stanza si fa muta. “Io non posso vedere Suguru oggi.” Ripete di nuovo, il tono torna a essere serio. “Nemmeno se tu riuscissi magicamente a far sparire l’effetto, per quanto mi piacerebbe.” 

Il vuoto inghiotte nuovamente la stanza, poi Ieiri scoppia a ridere – è una risata rilassata, calda. Gojo sorride in risposta. “Onestamente non saprei nemmeno da dove iniziare.” 

“È che sei la più brava.” Satoru è disarmante quando è onesto. “Volevo che fossi l’unica a sapere di questa cosa: sei l’amica più discreta che ho.” 

“Dovresti venire a contatto con il siero della verità più spesso, sai?” Sospira, alzandosi in piedi. “Geto ha chiesto notizie di te fino allo sfinimento in questi giorni, ha persino posticipato la partita pur di farti giocare, nonostante non gli rispondessi al telefono.” 

Le orecchie di Satoru diventano improvvisamente calde e la sua prima e istintiva risposta è coprirle con i palmi delle mani per assicurarsi che non stiano prendendo fuoco. Dannato siero della verità. “Shoko, io oggi non lo posso vedere.” Sentenzia. 

“Perché diavolo sei venuto all’istituto, allora?” 

“Ijichi ha fatto la spia e Yuga mi ha trascinato qui… che seccatura.” Sorride Satoru però, le mani oscillano in mezzo alle cosce: è raro che qualcuno si preoccupi per lui, al di là di Suguru e Shoko. 

“Continuo a non capire perché tu non possa semplicemente dirglielo.” Sfiora con le dita delle mani la mascella di Satoru, poi scende verso il collo: le sue unghie tracciano una linea leggera sulla pelle diafana e delicata. Scindere il veleno dal sangue è facile, è una procedura che le ruba appena cinque minuti, difficile è rimettere in sesto gli arti, chiudere le ferite, fermare emorragie. Ma tra la prima e le seconde, non le capita quasi mai di sperimentare con qualcosa di nuovo.

“Assolutamente no.” Il tono della voce è concitato, ma il viso non si muove nemmeno di un centimetro. “Non posso dire a Suguru che mi piace, è troppo presto.” 

Shoko alza gli occhi al cielo, le mani scendono sulla giacca di Satoru. “Codardo.” 

La pelle diafana di Gojo si colora di una tenue sfumatura rossastra. “Avrei fatto bene a chiamare Utahime.” 

“Sicuro?” Si allontana, lascia cadere le braccia lungo il corpo. 

 “No.” Satoru è imbarazzato, ma i suoi lineamenti si addolciscono. “Mi era mancato essere un tuo paziente.”

“Temo di non poterti essere molto d’aiuto oggi.” Non è abituata al fallimento. “L’unica cosa che posso fare…” 

Non finisce la frase, le parole sono ovattate dal legno della porta che scorre nel binario. Oh, no. Dopo la missione, Gojo non ha forze per teletrasportarsi dall’altra parte del pianeta; i muscoli sono pesanti e ben saldi a quel lettino. 

“Ah, eri qui, Shoko.” Geto sorride, non sembra essersi accorto del paziente, nascosto al meglio dietro al camice dell’amica. “Uno studente si è fatto male, prendo del ghiaccio.” Si abbassa ad aprire il frigo alla sua sinistra, le braccia sono flesse verso l’ultimo ripiano. 

Gojo respira piano, ma si inclina di qualche grado per osservare la schiena di Geto, la maglietta nera stropicciata dalla partita, le scarpe da ginnastica leggermente consunte. Non ha mai desiderato morire così tanto. Ha i capelli neri sciolti, l'elastico è stretto intorno al polso del braccio che è appoggiato all’anta. “Che ci fai in infermeria? Pensavo che oggi non volessi lavorare.” 

Una sigaretta. Vorrebbe tantissimo chiudere le labbra e inalare del fumo. “No, infatti.” 

Suguru si rimette in piedi, il ghiaccio gli sta raffreddando il palmo della mano. Rimane di spalle, il frigo si chiude lentamente e fa un rumore ovattato. “Non è che l’hai sentito, vero?” Sta leggendo le istruzioni sulla superficie di plastica, tanto per fare qualcosa. 

Forse un pacchetto intero sarebbe meglio, dovrebbe andarselo a comprare come regalo di Natale. Giusto per evenienza, nel caso capitasse ancora di fare da divisorio a due idioti. Satoru è alto un metro e novanta, è davvero possibile che non lo veda? Che non senta la solita colonia costosissima che si spruzza addosso? 

Dev’essere che i vestiti di Gojo ora sono impregnati di siero della verità e che non c’è spazio per il profumo di giglio. Dev’essere anche che si è fatto il più piccolo possibile – a giocare con la fisica del mondo, magari finisci per imparare a cambiare forma. Invece no, perché quando Suguru finalmente si gira a guardarla, ci mette meno di un secondo a notare che qualcuno è seduto dietro di lei e un secondo a capire che è Satoru: il sollievo che gli dipinge in volto è così trasparente da essere imbarazzante. 

“Potrei averlo sentito.” Shoko allunga una mano verso il ghiaccio. “Vado io dallo studente.” 

No.” Satoru stringe il camice per tenerla ferma.

Si ruota per sgridarlo, il movimento lo costringe ad allentare la presa sulla stoffa. “Non fare il bambino.”

“È tutta colpa tua, questa” le sussurra, accigliato. 

“Mia?” 

Tre sere prima, Shoko l’ha convinto a uscire e l’ha anche convinto a ordinare un drink  – Satoru non beve. Satoru non è in grado di reggere nemmeno una goccia di alcool. Satoru però ha pensato che era quasi Natale, cosa poteva succedere? È successo che Geto era al bancone a parlare con Utahime, che rideva e che la sua risata tutto sommato era l’unico suono che riusciva a distinguere, nonostante fossero a dieci metri di distanza in un locale pieno di gente. 

“Tua, .” Gojo si impunta, ha ancora il ricordo del bicchiere freddo contro il palmo della mano, dei suoi passi incerti e della chiacchierata con Ieiri in dormitorio.

 

“Ogni volta che guardavo Suguru stasera sentivo una cosa, non lo so… dici che sto per morire? Che schifo morire così.”

“Non stai morendo, Gojo.”

“No?”

“Ti piace Geto, tutto qui.” Sospira. “Non ne posso più.”

 

Satoru non beve perché poi, da ubriaco, si rende conto che sono sei anni che conosce il suo migliore amico e che l’ha sempre – sempre sempre sempre – amato. La mattina dopo si sveglia con un mal di testa allucinante e con la consapevolezza di avere una cotta allucinante per Suguru; l’amore è l’esperienza più vicina alla morte che abbia mai provato. 

Geto si schiarisce la gola, quando gli altri due finalmente si girano nella sua direzione notano che ha le braccia conserte – il sacchetto pende da un lato – e un sopracciglio inclinato verso l’alto. 

Shoko ne approfitta per liberare il camice. “Il ghiaccio, grazie.” Si allunga di nuovo verso Suguru e allarga il palmo della mano, in una manciata di secondi il peso della sacca congelata le fa pressione sulla pelle. 

“E io che faccio?” Satoru stringe le labbra in una smorfia, si inclina in avanti e per poco non casca giù dal lettino. 

Aver smesso di fumare, in fondo, non è così male. Ecco, l’ha pensato. L’ha pensato perché l’aria fresca del corridoio le solletica il viso ora che è uscita dall’infermeria.  “Aspetti, so che non ti si addice molto.” Rimane nel limbo fino a che le labbra non si chiudono, insieme alla porta dietro alle sue spalle.  

In infermeria rimangono in due. Suguru è fermo con le mani che ciondolano lungo i fianchi, mentre Satoru si rimette dritto con una spinta della gamba sinistra. Dopo lo sfrusciare della carta contro il tessuto dei pantaloni, silenzio. 

Non parlare è perfetto. Gojo è scappato da Geto: sono approssimativamente tre giorni che non si sentono, ha ignorato tutte le chiamate. Già aveva paura a incontrarlo senza siero della verità in circolo, stare chiuso con lui in una stanza in queste condizioni gli mangia l’anima. È così che morirà? È così che la vita di Satoru Gojo avrà fine?

Suguru pensa invece che non parlare sia snervante: gli concede ventidue secondi per avere una spiegazione, poi si arrabbia, conta ancora fino a dieci e con il tono di voce più pacato e misurato possibile gli chiede, “Stai bene?” 

“No.” Oh no, oh no, oh no. Parlare è terribile. Non gli dà il tempo di reagire. “Come è andata la partita?” 

Lo ama. Lo ama. Lo ama. E si sente un imbecille per non averlo capito prima: ha ignorato ogni tipo di informazione, di stimolo e di risposta. Forse gli piace così tanto che il suo cervello ha semplicemente deciso di rompersi: deve essere così, Geto deve avergli rotto qualcosa. 

Il suo rimuginare viene interrotto dal suono delle scarpe da ginnastica di Suguru contro le piastrelle; non è tanto forte, probabilmente se Shoko fosse lì a trafficare nei cassetti, Satoru non lo avrebbe nemmeno sentito. Invece è focalizzato su ogni passo e con ogni passo che lo avvicina a Geto pensa che è arrivato il momento di alzare le barriere. Che succede se adesso l’altro lo tocca? 

Lo vuole sapere, non si sono ancora toccati da quando ha scoperto che lo ama. Le dita dell’altro gli sfiorano le punte delle orecchie e gli smuovono le ciocche di capelli. È bello, anche se si è scordato di respirare – sta per lasciare la terra dei vivi. 

“Ho vinto.” 

“Solo perché non ero in campo.” 

“Mhhh… dici, Satoru?” Geto sorride nel trovare la chiusura delle bende, Gojo è un pezzo di marmo mentre inizia a scioglierle: è piacevole avere il controllo della situazione. “Parole forti per uno che non si è nemmeno presentato.” 

A Satoru scappa una risata, il suono è sia teso che dolce – sta provando in tutti i modi a dissimulare la sua disperazione. “Stavo lavorando.” L’ha accettato, ha accettato che morirà sotto le mani di Suguru. 

La fascia cade dagli occhi, rimane a mezz’aria dopo avergli solleticato il mento; ora Satoru lo vede bene, si accorge che è molto più vicino di quanto credesse: i sei occhi studiano il taglio del viso, i capelli che scendono verso le spalle, il colore delle iridi scure – si specchia nella notte. 

“E sei finito in infermeria.” Geto ferma la garza tra due dita e comincia a farla su. “Credevo che il nostro tacito accordo di venirci a salvare il culo a vicenda fosse ancora valido, anche se siamo professori ora.”

Gojo deglutisce, ha la gola secca a ogni giro. “Sei arrabbiato?” 

“Un po’.” Appoggia la matassa al carrello che Shoko ha fatto scorrere contro al muro, poi incrocia le braccia al petto. “Perché non mi hai chiamato?” 

“La missione non era così difficile.” Satoru si accorge che raccontare la verità è facile: forse, senza considerare che Suguru è ad appena venti centimetri di distanza, potrebbe non morire. Può farcela. 

“E allora perché non hai risposto alle mie, di chiamate?” 

Non può farcela. Vedi, Suguru, ho recentemente scoperto di essere innamorato di te e sto cercando di metabolizzare la cosa in privato, ma se tu continui a… “Vedi, Suguru, ho recentemente…” oh no… “scoperto di…” Serra le labbra, sente che la pelle del viso ha cominciato a scottare. 

“Stai bene?” 

Nega.

Il palmo di Geto gli si appoggia alla fronte. “Non mi sembra che tu…”

“Sto per morire.” Esplode e non riflette minimamente sulle conseguenze delle sue azioni, almeno finché non traduce lo sguardo di Suguru: l’ultima volta che l’ha visto così è stato quando Toji gli ha trapassato il petto. “Non sto per morire, scherzo.” 

Le mani dell’altro stregone scivolano via, aderiscono al lettino vicino alle sue gambe. Satoru è intrappolato, passa dalla padella alla brace. “Perché devi sempre essere così drammatico?” Geto inclina il capo in avanti, non si guardano più.

“È nella mia natura.”

“Ero preoccupato.” 

Gojo sorride. Ma di cosa ha paura? Lo ama da sei anni senza saperlo, può resistere qualche minuto con lui nella stessa stanza mentre sa di amarlo. Figurarsi poi se in sei anni che l’ha amato non ha mai detto o fatto cose sconvenienti: Geto deve esserci abituato, no? Abbassa lo sguardo, decide di scoprire la consistenza dei capelli corvini: le sue dita si perdono in una foresta buia, soffice, profumata. “Ti preoccupi sempre troppo.”

“È nella mia natura.” Quando i polpastrelli di Satoru si mettono a giocare con le punte delle ciocche, Suguru guarda verso l’alto – di nuovo, vicinissimi. “Che ci fai in infermeria?” 

“Sono accidentalmente venuto a contatto con del siero della verità.” Gojo sussulta, il suo avambraccio cade contro la gamba. 

“Nessuno viene accidentalmente a contatto con del siero della verità, Satoru.” 

“E allora chiamami nessuno perché…” 

Suguru sospira, sbatte piano le palpebre. “Come è successo?”

“C’era un gatto.” 

“Sei un imbecille.” 

“Lo so.” Gojo guarda verso il soffitto, si è messo a ridere. 

“E com’è che è tutta colpa di Shoko?” 

E com’è che Suguru riesce a fare solo domande scomode? Gojo rilassa i muscoli della mascella, improvvisamente l’idea di essere sincero riesce solo a renderlo felice: che almeno finisca in fretta.  “Mi ha fatto bere l’altra sera al bar, erano quasi sei anni che non toccavo una goccia di alcool perché so che non lo reggo bene e…” si ferma perché vorrebbe muoversi, ma spostarsi in qualsiasi direzione sarebbe come diventare una estensione di Geto. Non quando gli sto confessando che lo amo. “E infatti non lo reggo, perché da ubriaco ho scoperto che esisti solo tu.” 

L’altro deglutisce, gli occhi seguono la linea del collo di Satoru inclinato verso l’alto.

“Sei anni per rendermi conto che sono irrimediabilmente innamorato di te.” Sorride. “Capisci che non posso risponderti al telefono con questa nuova consapevolezza, già faccio fatica a starti attorno mentre non lo so. E poi vengo colpito dal siero della verità e prego di non, non incontrarti per tutto il giorno e Shoko mi lascia qua da solo con te: non pensi che sia crudele da parte sua?” 

Il mare di Gojo investe Geto come uno tsunami, tornano a guardarsi. “Oggi sei molto bello, te l’ho già detto? Ti sta bene il nero.” 

Suguru chiude la bocca, è completamente secca. Cosa? 

“Credo che prima o poi morirò se mi stai così vicino.” Satoru dondola la testa a destra e a sinistra. “Sto pensando: e se adesso lo bacio? Perché non l’ho baciato prima?” 

Cosa? 

“Suguru, se non ti sposti ti bacio davvero.” Gojo non è mai stato così serio e onesto in vita sua, fa quasi paura. “Te lo dico perché so che ti piace quella brunetta del supermercato…”

Quale brunetta?” Geto finalmente risponde – a una cosa inutile, ma almeno dimostra di essere ancora in vita. 

“Quella del supermercato.” 

“A me non piace nessuna brunetta del supermercato.” 

Oh, questa è nuova. Ha passato ore nei giorni precedenti a pensare che andava bene lo stesso se Geto amava qualcun altro – era pronto a farsi bastare i suoi, di sentimenti. “Io credevo che…”

“Non mi sto spostando.” 

Le guance di Satoru sono rosse, la malattia ha contagiato anche le orecchie. “Non ti stai spostando.” 

È un dato di fatto che cambia le carte in tavola, anzi, fa proprio cambiare il tavolo: e adesso? Gojo ha una voglia matta di alzarsi. A furia di avvicinarsi, guardarsi e appartenersi ci mette una frazione di secondo per annullare la distanza che li separa. Ed è rugiada sull’erba, tuono e  poi lampo: come cose che sono una l’estensione dell’altra, principio e fine. Si baciano nel silenzio dell’infermeria, ora calda; gli spifferi non possono niente. 

Le labbra di Suguru sono morbide e salate, forse per il sudore della partita, quelle di Satoru sono per fredde e dolci – mentre Yaga lo stava sgridando, si è messo a sgranocchiare l’ultima caramella rimasta nella tasca. La sua mano si rialza, lascia la gamba e si incastra tra la guancia e la mascella di Geto: lo vuole vicino. 

“Satoru…”

“Aspetta, mi è piaciuto molto più di quanto credessi.” Lo bacia di nuovo. 

Le mani di Geto gli cingono la vita, stringono la camicia da sotto la giacca, salgono e scendono lungo la schiena: se è stato Gojo a prendere iniziativa, è lui che adesso ha le redini. Lo tira a sé, la carta del lettino si strappa sotto ai pantaloni. Acqua del mare che si infrange sulla sabbia, si fa spazio tra i granelli. Aria che smuove le foglie degli alberi. Le loro lingue che si incontrano per la prima volta.

“Questo com'era?” 

Bello.” Gojo si mordicchia il labbro arrossato, “Sei una brutta persona.” 

Suguru sorride di sbieco, le dita si perdono nei capelli argentei di Satoru: è come prendere possesso della luna. “Dimmelo di nuovo.” 

“Che sei una brutta persona?” 

Nega col capo. “L’altra cosa.” Da quanto tempo aspettava di sentirselo dire? Da quanto tempo Shoko ha mantenuto il suo, di segreto? Geto ama Gojo da troppo per non essere imbarazzante, l’ha amato dal primo istante – ci vuole coraggio e determinazione per amare un imbecille. 

Satoru appoggia la fronte alla spalla dell’altro, la stoffa della maglietta è morbida contro la sua pelle. “Sono innamorato di te.” Prende un lungo respiro, l’aria è mischiata al profumo di Suguru. Sorride, mentre la sua mano studia con meticolosità quella dell’altro. 

Ancora.”

Ha quattro linee che gli tagliano il palmo, formano un disegno difficile da decifrare. Gojo ci passa l’indice, è sicuro che gli stia facendo il solletico. “Ti stai divertendo un po’ troppo.”  

La guancia di Geto trova sostegno sul capo di Satoru. “Non è che tutti i giorni mi capita di trovarti così.” Onesto e innamorato di me. “Cosa vuoi che faccia?” 

“Vorrei che mi dicessi che mi ami anche tu e che…”

“Ti amo.” Suguru non lo lascia finire, chiude gli occhi. “Vedi di non morire, mi spiacerebbe visto il tempo che ho dovuto aspettare per sentirtelo dire.” 

“Quanto?” 

“Sei anni.” 

Sei anni fa Satoru si è seduto a un banco e si è trovato a fianco Geto. “Da sempre?” Dal primo giorno, forse dopo averlo sentito parlare cinque minuti, forse prima. Chissà. L’unica cosa che Satoru sa è che anche lui l’ha amato da quel momento – ci ha messo sei anni a capire che fosse amore, questo sì. 

Ha fermato il movimento dell’indice, adesso le loro mani sono palmo contro palmo. 

“Da sempre.” Aver visto Suguru, tutto sommato, è stato un bene: ora si appartengono più di prima. “Dovremmo tornare in palestra, tra poco si aprono i regali.” 

“Vuoi portarmi in palestra ad aprire regali quando sono spudoratamente onesto? Pensavo mi avessi appena detto che mi ami.” 

“Non che faccia differenza, sei molto bravo a dire che una cosa non ti piace.” Suguru si mette dritto, sta sorridendo; le loro mani sono ancora una matassa. “Dai, ho una cosa da darti.” 

Il volto di Gojo si illumina, i suoi piedi toccano finalmente terra. “Anche io.” La porta dell’infermeria scivola a sinistra, il primo che mette un passo nel corridoio è Geto. “Oltre al mio cuore, si intende.” 

È la prima volta che lo vede arrossire, è una bellissima sensazione. “Satoru, smettila.” 

“Come se io non avessi appena scartato il tuo, Suguru.”  

 



Arrivo anche io a consegnare il mio Secret Santa
Mi sono divertita da matti a scrivere questa storia e spero con tutto il cuore, Asmodeus, che ti possa piacere e che ti abbia regalato un po' di felicità natalizia! 
L'idea del siero della verità mi ha proprio conquistata, per quanto fare in modo che fosse Gojo a subirne gli effetti fosse parecchio difficile (minimo infinito e tutto il resto). Così il mio è un pretesto scemo (un gatto!), lo so: gioco sul fatto che anche Satoru è un po' scemo. 

Approfitto per ringraziare chi è arrivato fin qui e per augurare a tutti delle bellissime feste! 
Un abbraccione, 
Sia 




 
   
 
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