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Autore: A_Typing_Heart    30/12/2023    0 recensioni
- La Spada di Dio parte 3 - «Servire la Spada di Dio è il compito più alto che un Caduto possa vedersi affidato nella sua vita, e tu hai già snaturato il tuo ruolo sfruttando la Spada per una tua vendetta. Ora intendi lasciare che commetta un peccato mortale a causa di quello che hai scelto di non fare?»
Genere: Drammatico, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Crowley Eusford, Ferid Bathory, Guren Ichinose, Mikaela Hyakuya, Yūichirō Hyakuya
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La spada di Dio'
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Il poliziotto si fermò davanti alla porta, impettito come un militare. Guren trovava buffa quell’aria austera sapendo a che cosa facesse la guardia e gli diede un contentino nella forma di una pacca sulla spalla. Entrò nella stanza e il poliziotto richiuse la porta dietro di lui.

I due pericolosi criminali nelle mani della polizia tedesca sembravano una coppia di gattini; erano così teneri che persino Guren non riuscì ad arrabbiarsi per tutti i problemi che avevano creato al suo ufficio.

Mikaela dormiva con la testa girata sul lato a causa della fasciatura della ferita, con la maschera dell’ossigeno per la respirazione assistita e un tutore rigido che gli bloccava la gamba sinistra dal piede al ginocchio. Aveva due diverse flebo nel braccio e il polso destro ammanettato alla sbarra del letto. Un altro paio di manette legava l’altro braccio a quello di Yuu, raggomitolato sul fianco accanto a lui.

Avevano l’aria di dormire il sonno dei bambini, esausti e tranquilli. Guren prese la cartella clinica e la sfogliò, anche se il tedesco medico non era il suo forte.

«Hanno anche le vite di scorta di una coppia di gatti randagi» commentò dopo averla sfogliata. «Sveglia, Stephan. Non ho voglia di tornare domani mattina.»

Gli scosse la gamba ma aveva già alzato la testa, insonnolito e confuso, per guardarlo.

«Guren» fece con voce impastata.

Tentò di stropicciarsi gli occhi con la mano legata a quella di Mika e si puntellò sul gomito per farlo con l’altra, che però era immobilizzata da un tutore rigido per una frattura del polso.

«C’è qualcosa che vuoi dirmi prima che ti rovesci addosso tutte le parolacce che conosco in sei lingue?»

«Mh… Scusami, Guren. So che ti ho messo nei guai… ma l’ho dovuto fare. Era la mia famiglia, non potevo lasciarla nelle mani di agenti che non conosco.»

«Mi hai piantato di proposito» l’accusò Guren, cercando di moderare la sua rabbia. «L’hai fatto per poter fare tutte queste cazzate illegali e far ammettere le prove alla polizia.»

«Sì. Scusami, ma tu non me l’avresti lasciato fare. Ci tieni troppo alla tua integrità. Io te l’ho detto dal primo giorno che la famiglia è la cosa più importante… solo che pensavi che non ne avevo più una.»

«Alt, basta. Basta, ho sentito sviolinate sulla vostra famiglia per tutta la notte da Ferid Bathory. Mi ha tormentato così tanto che sono scappato sul primo aereo per Berlino pur di non sentirlo più.»

«Cosa… Ferid? Eri con Ferid? Dov’è?»

«Adesso?» fece lui con noncuranza. «In una cella del reparto medico del penitenziario di Chatelet. A meno che i sedici avvocati di cui dispone non lo abbiano fatto uscire con tanto di scuse prima che io atterrassi.»

«È ferito?»

«Non è proprio nella forma splendida in cui siamo abituati a vederlo, diciamo così. Ma non è niente che non torni a posto in un mesetto o due» minimizzò scrollando le spalle. «Nel caso ti interessi saperlo, ha faticato ma l’ha trovato. Crowley Eusford.»

Yuu si mise più dritto.

«Davvero? E lui come sta?»

«Meglio di tutti quelli coinvolti in questo casino… almeno sul piano fisico. Anche per un uomo adulto, essere sequestrato non è una cosetta da ridere.»

Tornò vivido il ricordo dello smarrimento di Crowley dopo la sparatoria, dei suoi occhi senza più voglia di vivere, ma cercò di scacciarlo scuotendo la testa.

«Ce la farà, è forte. Avrei detto “l’uomo più forte che conosco”, ma adesso inizio a pensare che sia Ferid quello più forte che conosco. È uno schiacciasassi… Non ha avuto affatto bisogno di noi per salvarlo. Ha fatto tutto da solo…»

«Sì, è peggio di un bulldog con la rabbia.»

«Lui… non sta molto male, allora? Se fosse grave sarebbe in ospedale come noi…»

«Tu sembri stare benissimo» osservò Guren con un sorriso sghembo.

«Mi sono ammanettato a Mika proprio per non farmi portar via. Lui ha bisogno di stare qui e io non lo lascio finché non si riprende.»

Detto ciò armeggiò con le manette e le aprì, come un giocattolo, per stiracchiarsi liberamente. Guren lo fissava di sottecchi come se stesse per sparargli addosso un rimprovero, ma Yuu l’ignorò e lasciò un bacio leggero sopra la benda sulla fronte di Mikaela.

«Sentito, Misha? Ce l’ha fatta… Crowley è salvo e Ferid sta bene… Riprenditi presto, così giocherete a scacchi di nuovo.»

Guren incrociò le braccia e si appoggiò alla finestra.

«Quando vi guardo non so se provo più nausea o invidia.»

«Che ore sono?»

«Mh? Sono le quattro e mezzo, più o meno. Perché?»

Yuu balzò giù dal letto più rapidamente potesse con tutte le sue ammaccature e prese il cellulare infilato in mezzo agli asciugamani. Non aveva ricevuto nessun messaggio o nessuna chiamata persa mentre dormiva e bastò a incendiargli le viscere.

«Quel bastardo! Giuro che—»

Ma non finì di giurare ritorsioni delle quali potesse pentirsi e lanciò di nuovo la chiamata.

«Non dovresti avere un cellulare. Sei in arresto, lo sai?»

«Sto cercando di fare la chiamata che spetta a Mika, lui come vedi non può farlo» sbottò Yuu. «Se soltanto rispondesse, quel—»

Poi gli squilli si interruppero. Seguì una serie di scatti e infine una voce rispose.

«Ma quanto ti ci vuole a rispondere?! Sto cercando di chiamarti da ieri sera!»

Dopo un momento di perplessità lo riconobbe.

«Yuu? Sei Yuu?»

«Sì, gran pezzo di cretino! Perché non rispondi a Mika da due settimane?! Non hai visto tutte le chiamate e i messaggi che ho lasciato?!»

«No, che cosa c’è?»

«Mika è in ospedale ed è incosciente da ieri sera… nh… ieri pomeriggio, da te! Chiamagli un avvocato e porta il culo qui da lui!»

«Cosa… ieri… avvocato? Ma dov’è?»

«Come dov’è, te l’ho appena de—»

La furia si spense all’improvviso quando capì che cosa intendeva dire. Scioccato si girò a guardare Mika nel letto.

«Tu… Jonathan, tu non sai dov’è stato fino adesso?»

«Con te» replicò lui con una vena di acidità. «Questo è quello che so.»

«Non hai mai parlato con lui da quando siamo partiti? Non hai letto i suoi messaggi?»

«Lui non mi ha chiamato e non mi ha scritto un bel niente fino a… forse, l’altro giorno. Non li ho letti, però.»

«Tuo marito sparisce per due settimane e non cerchi di sapere dove sia? Ti scrive e non leggi neanche per sapere se sta bene o se ti dice che gli manchi? Che… che problemi hai, si può sapere?!»

Guren lanciò un’occhiata allarmata alla porta e gli fece segno di abbassare la voce, ma Yuu era troppo furioso per badargli.

«I nostri problemi sono affari nostri» replicò Lucky, laconico.

«Questo raccontalo a chiunque, ma non a me! Me l’hai portato via per trattarlo come se non t’importasse di lui? Per mollarlo appena diventa difficile gestirlo, o sopportarlo? Guarda che per vedere il meglio di lui lo devi guadagnare!»

«Tu non l’hai avuto dopo il tradimento. Che ne sai di com’è avere sempre in mente Mika con un altro?»

«Mi prendi per il culo? Non ho avuto in mente nient’altro per anni!»

Guren gli strappò il telefono di mano prima che potesse sentire la replica e gli diede uno spintone che fece riverberare tutto lo scheletro, di trauma in trauma in tutto il corpo.

«Sono il direttore Ichinose dell’ufficio federale. Invito caldamente a trovare un buon avvocato penalista per Mikaela. Non appena arrivate a Berlino basterà contattare la centrale di polizia più vicina.»

Guren chiuse la chiamata e gli scoccò un’occhiata fulminante.

«Ti sembra il momento di scornarti con il marito di Mikaela?»

«Che razza di marito è se non sa dove sia Mika, non gli importa di sapere perché cerca di chiamarlo da sedici ore e si trastulla con due amanti?!»

«Che tipo di marito Mikaela abbia non è affar tuo e insultarlo al telefono non lo renderà migliore, se davvero non gli importa» tagliò corto lui. «Perché non pensi a te, per una buona volta?»

«Io sto bene, e non mi importa se starò dentro per un po’. Consegnando Katze all’Interpol avrò uno sconto.»

Guren scosse la testa e accennò al ragazzo incosciente nel letto.

«Sto parlando di lui. Gliel’hai detto?»

«Detto che cosa?» fece Yuu spazientito.

«Che lo ami ancora. Lui lo sa?»

«Verrà usato contro di me in tribunale?»

«Ne dubito, visto che non ci sarò. È in mano alla polizia tedesca e all’Interpol. Il Bureau se n’è tirato fuori dicendo che eri un cane sciolto.»

Yuu sospirò sedendosi sul letto e guardò Mika, con la confortante condensa del suo respiro dentro la maschera.

«Certo che lo sa… e credo…»

Si mordicchiò il labbro. Lo aveva pensato forse cento volte nelle ultime ventiquattro ore, ma dirlo ad alta voce in presenza di qualcun altro era come dire a se stesso che quella follia era qualcosa di concreto, di possibile.

«Credo che se non fosse sposato noi avremmo ancora una possibilità. Credo che non sia tutto sparito tra di noi. È lì, dov’era prima che se ne andasse. Non è andato via perché non mi amava più, lui… aveva… aveva paura che io amassi le mie ambizioni più di lui.»

«Mi pare evidente che non è così. Se vedesse la mia scrivania lo saprebbe per certo che hai fottuto le tue ambizioni.»

«Lo so. Mi dispiace che abbia tante conseguenze su di te, Guren. Ma non mi pento della scelta che ho fatto.»

«Sembra che nessuno di voi squilibrati si penta di qualcosa, stanotte.»

Guren aprì la finestra e prese dalla tasca della giacca accendino e un paio di sigarette, che fece dondolare come un’esca succulenta.

«Non fumare qui dentro, c’è Mika.»

«Ha la maschera. Avanti, non ne vedrai per un bel pezzo.»

Era restio, ma alla fine si decise ad approfittarne. Zoppicò fino alla finestra e prese l’accendino. Quel primo tiro di sigaretta fu rigenerante come un sorso di acqua fredda in una giornata torrida. Fu certo di non essersi mai goduto tanto una fumata.

«Quindi… Crowley era in Francia?»

«Già.»

«Come ha fatto Ferid a trovarlo così in fretta?»

«Questo lo chiederai a loro quando vi rivedrete. Non dovrebbe mancare molto.»

Guren guardò l’orologio e nello stesso momento si udì un vociare fuori dalla porta. Il suo ex superiore fece sparire sigaretta e accendino sotto lo sguardo confuso di Yuu.

«Ce ne hanno messo di tempo.»

«Chi?»

Il poliziotto aprì la porta a un ometto stempiato con la ventiquattrore e a una bella donna che somigliava a Rihanna da giovane. Fu lui il primo a entrare e parlare.

«Sono Walter J. Thompson, socio anziano dello studio Thompson, Freyer & Seller, questa è la signorina Erika Boones, penalista di punta dello studio, e rappresentiamo Mikaela Shindo e Stephan Hirsch, conosciuto anche come Yuuichiro Amane, contro le assurde accuse che sono state loro mosse! Ogni dichiarazione fatta dai nostri clienti fino a questo istante è inammissibile e il giudice riceverà una mozione in merito insieme al giornale del mattino!»

Yuu sbatté più volte gli occhi, perplesso.

Non credevo che un essere umano potesse parlare così tanto senza prendere fiato…

«Sì, sì» fece Guren con un sorrisetto. «Non serve, ero il superiore dell’agente speciale Amane. Ero passato per aggiornamenti dalla Francia. Tenete pure le mozioni per l’ispettore di turno.»

«Ma chi… io non ho ancora chiamato un avvocato.»

«Perché avresti dovuto? Non ti serve quando hai per amico un bulldog pieno di soldi.»

Guren si dileguò senza aggiungere altro e schivò il guardiano che gli faceva domande sulle manette inspiegabilmente aperte di Yuu; impresa facile visto che l’avvocato Thompson era tornato alla carica per vedere immediatamente chiunque fosse a capo dell’indagine.

L’avvocatessa Boones invece aveva un temperamento calmo e composto, ignorava la discussione del suo superiore con gli agenti. Dopo aver lanciato uno sguardo pieno di compassione a Mika badò a Yuu e gli strinse la mano – la sinistra – con un sorriso sicuro.

«Risolveremo la faccenda molto presto. Ovviamente la nostra posizione è quella di respingere tutte le accuse, ma se è d’accordo vorremmo subito sapere quale versione dei fatti intendete sostenere.»

«Ce n’è una sola. A me non importa cosa mi succede…» ammise lui, e guardò Mika. «Lui, però, deve tornare a casa. Come se non fosse successo niente.»

«Il signor Bathory mi ha avvisata che avrebbe detto così. E mi ha avvisata che lui vi vuole entrambi a casa, quindi miriamo a questo risultato. Dobbiamo solo capire qual è la strada più facile per ottenerlo.»

Yuu sedette sul bordo del letto e si lasciò andare a una risata di nervi, con le dita tra i capelli. Da quando aveva dato il benservito a Guren era stato pronto a fronteggiare ogni conseguenza, dalla morte al carcere speciale per molto tempo, ma ora cullava l’onesta certezza di cavarsela con poco più del polso fratturato.

Se solo Mika si fosse svegliato avrebbe potuto anche pensare a cuor leggero a che parole usare per dire a sua madre la verità.

 

***

 

New Oakheart gli sembrava una città enorme ed estranea come se non l’avesse mai vista. Come se non avesse vissuto più di metà della sua vita lì, a scuola o in forze alla polizia di Satbury.

Crowley guardava le case e i negozi sfilare dal finestrino, immerso nei più disparati e inconsistenti pensieri; uno stato di alienazione che ormai gli era familiare e che allo stesso tempo temeva diventasse la regola dei giorni che gli restavano.

«Non siamo sulla Regent, vero?»

«No, caro. Siamo quasi nel North End. Ho preso la parallela della Madigans. È più scorrevole a quest’ora.»

Crowley guardò Ferid alla guida. Non gli succedeva mai di vederlo, perché quando erano insieme di norma guidava sempre lui. Era a suo agio, nonostante il braccio segnato dal bendaggio kinesiologico e il tutore sul gomito.

«Non ti dà problemi guidare con quel braccio?»

«Le meraviglie del cambio automatico, tesoro» fu la sua ilare risposta.

Il panorama familiare – con qualche cambiamento trascurabile negli anni – catturò l’attenzione di Crowley fuori dal finestrino di nuovo. Solo dopo qualche minuto di riflessioni senza significato tornò abbastanza lucido da chiedersi perché stesse vedendo le strade del North End meridionale anziché il West End.

«Credevo che andassimo a prendere i bambini. Perché siamo qui?»

«Perché sono dai tuoi genitori.»

Infatti Ferid rallentò e accostò davanti a una casa che Crowley non vedeva da molto tempo. Sentiva un’ansia crescergli dentro il petto, schiacciare l’aria fuori dai polmoni.

«Io… erano da Estelle. Ho visto le foto che gli ha fatto la guardia di lei. Erano a casa di Estelle.»

«Sì, tesoro, erano da Estelle, ma Madison ha preso gli orecchioni… Krul s’era offerta di badarci lei finché non tornavamo, ma poi Neil ha detto che poteva tenerli lui. Ho pensato che essendo in pensione gli avrebbero dato meno problemi che a Krul e Liam. Ho fatto male?»

In cuor suo aveva un’altra risposta, ma scosse la testa. Con la sensazione di essere sott’acqua Crowley scese dall’auto. Non vedeva l’ora di vedere di nuovo i bambini, ma vedere suo padre dopo quello che gli era successo gli dava imbarazzo; si sentiva come un adolescente che bagna il letto di nuovo.

Ferid andò per primo, imboccando il vialetto di ciottoli bianchi che attraversava il cortile sul lato del garage. Non si spiegava come fosse tanto a suo agio a casa dei suoi genitori pur essendoci stato solo due volte in occasione della presentazione ufficiale della loro prole.

Si fece coraggio e lo seguì. Sentì suo padre parlare e la risata squillante di Emma; quel suono da solo riuscì a cancellare la sua paura e persino a dissipare lo stordimento in cui si sentiva immerso da giorni.

Superò Ferid a lunghi passi, senza accorgersi che lui si fermò. Sul retro, il vecchio cortile sconnesso in cui giocava da bambino era stato trasformato in un bel giardino con prato e fiori, un tavolo in legno con le panche e un barbecue intorno al quale erano riuniti suo padre e i suoi bambini.

«Il segreto per un hamburger di soia che sembra carne è la consistenza» stava dicendo Neil. «Ora vi insegno il trucco: cipolle e patate lesse…»

Non c’era stato alcun rumore, eppure Emma girò la testolina biondo-cenere indietro e posò gli occhi scuri su di lui come se avesse saputo già che era lì.

«PAPÀ!»

Il suo strillo distrasse tutti dalle ricette del barbecue, ma lei aveva già spiccato una corsa velocissima; inciampò cadendo sul prato ma si rialzò in un lampo abbandonando le ciabattine. Vestita di giallo era come una pallina da tennis che rimbalzava.

Crowley si inginocchiò sull’erba e allargò le braccia appena in tempo per acchiapparla al volo. Emma gli strinse il collo così forte da fargli male, ma non gli importava: la strinse mentre gli si abbarbicava addosso come una scimmietta, respirò il suo odore con la faccia affondata nella sua spalla.

È già cresciuta… È più pesante, e ha i capelli più lunghi…

«Sei tornato, papà! Finalmente!» squittì lei. «Dove sei stato? Mi sei mancato tanto!»

Avrebbe voluto avere delle parole forti abbastanza per spiegare a una bambina come si sentiva un padre che era stato convinto di non poter rivedere i suoi figli, ma non ne aveva.

«Anche tu, tesoro… da morire.»

Lo mollò quanto bastava perché si guardassero negli occhi e lei gli sorridesse. Finalmente sentì quella sua angoscia persistente lasciarlo, strisciarsene via; fu come se non avesse mai incontrato Claire-Solenne.

Poi gli piombò addosso un pacchetto doppio: Eden, con i suoi capelli scuri presi da Estelle e un paio di occhietti celesti e vispi negli stessi lineamenti di Ferid, che portava in braccio Morgan con un buffo costume da bagno e una zazzera di capelli rossi umidi. Crowley liberò un braccio per stringere anche loro e baciarli in qualsiasi punto riuscisse a raggiungere dei loro visini.

«Oh, ciao, papà, che bello vederti! Sì, anche io sono felice di rivedervi, piccolini miei, siete stati bene con Estelle e i nonni?» blaterava intanto Ferid. «Neil, per favore, dammi tu un po’ di affetto! Non mi considera nessuno!»

Emma rise e anche Neil, che però l’accolse con un breve abbraccio.

«Erano preoccupati per Crowley… I bambini non sono ingenui, sapevano che qualcosa non andava. È stata dura, Ferid? Sembri reduce da una rissa sulla curva sbagliata del Belfast Stadium quando giocano i Lizards.»

«Lo stadio non è il mio habitat, sopravvivere è stata dura» abbozzò lui. «Siamo in tempo per mangiare?»

«Siete in tempo anche per cucinare e apparecchiare… Ragazzi, ehi! C’è un barbecue da preparare!» fece, rivolto ai bambini. «Andate a prendere tutto quello che c’è di pronto dalla nonna che si comincia!»

Crowley lasciò la presa. Non riusciva a non sorridere.

«Fate vedere al nonno quanto siamo bravi a cucinare all’aperto, forza.»

Con un coro di gridolini entusiasti schizzarono via – Morgan sempre accessorio di suo fratello maggiore – e Crowley si rialzò, spolverandosi i pantaloni. Erano macchiati di erba, ma vista la lieta occasione Ferid sorrise facendo finta di non essersene accorto.

«Crowley, sono felice che tu sia di nuovo a casa. Dai una strizzata al tuo vecchio… ma piano, eh.»

Non se l’aspettava, ma obbedì. Non si era mai accorto di quanto suo padre fosse diventato magro con l’età.

«Grazie, papà» gli sussurrò. «Grazie anche di aver badato ai bambini.»

«E di che? Sono i miei nipoti, e non sono tanto male come nonno. Mi sa che sono meglio come nonno che come padre.»

«La seconda volta va sempre meglio della prima. Non te ne crucciare, papà.»

Neil smise di sorridere e gli fece un cenno con la testa verso la porta sul retro.

«La mamma è in cucina. È stata in pena per te. Vai a salutarla.»

La sola idea di rivederla gli faceva ribollire le viscere al ricordo di come si era comportata con lui quando suo padre era stato ricoverato e di come si era mostrata scostante quando le aveva portato quelli che per lui erano i suoi figli a tutti gli effetti.

«Perché dovrei? Non mi parla anche se le faccio una domanda.»

«Sono passati anni… e tenere Morgan qui l’ha ammorbidita. Si è ricordata com’era avere te così piccolo in casa. Non sarà come prima…»

«Dai, tesoro, è storia vecchia. Non ci pensare più» insistette Ferid. «Io e nonna Nancy siamo stati separati per una vita, ma abbiamo ripreso quando ci siamo rivisti. Puoi ricominciare da qui con tua madre, no?»

Crowley notava delle vistose differenze tra Nancy e l’atteggiamento granitico di sua madre, ma un pensiero improvviso lo distolse dall’elenco delle colpe di Maureen Eusford: si era finalmente ricordato dove avesse sentito nominare Crowley Montague, il mistico dal quale Solenne era così ossessionata.

Mi ha raccontato di lui quando ci siamo parlati nel mio ufficio… di quel bell’uomo che portava il mio stesso nome e che era scomparso nel nulla… Lo conosceva…

Guardò fisso Ferid, che lo ricambiò preoccupato.

«Che cosa succede? Sei pallido, caro. Ti senti male?»

«No, io… dev’essere un calo di zuccheri» abbozzò Crowley. «Chiedo alla mamma se ha una bibita.»

Si allontanò da loro verso la porta sul retro, ma aspettò che i bambini ne uscissero con la teglia delle costolette e una di pannocchie tagliate. Per un momento li guardò, con i loro sette anni, mettere i guanti per cucinare vicino al fuoco e far sedere il più piccolo lontano dal barbecue; guardò suo padre, più sano di come fosse dieci anni prima, parlare in tono amorevole all’uomo che l’aveva fatto infuriare solo per essere il compagno di suo figlio.

Il pensiero di Ismael gli era ancora amaro dopo quello che era successo a causa sua, ma le sue parole gli erano rimaste in mente per anni.

Quanti miracoli puoi ancora portare nella mia vita?

Ferid si voltò verso di lui, come se avesse risposto ai suoi pensieri nello stesso modo di Emma. Gli fece un sorriso incoraggiante e Crowley aprì le porte doppie della cucina per fronteggiare sua madre.

Bastò vederla con gli occhi lucidi, come non ricordava di averla mai vista prima, per aggiungere un altro miracolo alla sua lista.

 

***

 

L’ennesimo cancello elettrico si spalancò davanti a lui. Ricambiò con indifferenza gli sguardi truci di alcune facce ammaccate da lui stesso nei giorni passati e uscì dalla recinzione con il fagotto dei suoi averi sotto il braccio.

Fin da quando era un giovane agente di pattuglia aveva creduto che la scarcerazione portasse con sé sollievo, gioia ed euforia, una sensazione di nuove possibilità ovunque come lumache dopo la pioggia, ma non sentiva nulla di tutto ciò. In verità non sentiva assolutamente niente e quasi rimpianse la tabella oraria della prigione e la lunga sequela di molestatori che riempivano i giorni.

E adesso? Che cosa faccio adesso? Dove vado?

Non che gli mancassero le possibilità: poteva restare a Berlino e riprendere un posto al Diamond Jacks, tornare negli Stati Uniti e cercare di riavvicinarsi alla bizzarra famiglia di Satbury, o andare in Italia e cercarsi un posto vicino a sua madre e sua sorella. Tutti progetti che gli davano un lieve solletico al cuore, ma aveva la sconfortante sensazione che nessuna di quelle famiglie avesse veramente bisogno di lui. Che la sua presenza si sarebbe rivelata tossica.

Peccato che Guren non sia venuto a prendermi, almeno poteva darmi una sigaretta.

Ma l’FBI era probabilmente la famiglia più intoccabile che aveva dopo la sua frittata. Una frittata che aveva comunque portato all’incriminazione di un centinaio di persone tra acquirenti dei Figli di Prometeo e manovali come Katze, con uno scandalo di risonanza mondiale su cui giornalisti montavano speciali da prima serata e qualche scrittore stava già battendo i prossimi best seller della stagione.

Un successo. Un trionfo, si può dire… considerando che ho incassato venti capi d’accusa civili e penali e dopo tre mesi sono fuori. Dovrebbero scriverlo su di me, il libro…

Eppure un vuoto esistenziale gli si era aperto dentro quando era stato separato da Mika all’inizio di agosto e non si era più riempito. Non era possibile per loro avere contatti fino alla chiusura del procedimento, e poi aveva saputo dal suo avvocato – il vecchio Thompson – che Mika era stato rilasciato i primi giorni di ottobre.

Yuu si lasciò cadere sulla panca di cemento accanto al cartello delle corse degli autobus e dei numeri dei taxi. Il cielo era grigio uniforme, ma neanche della pioggia si preoccupava.

Chissà se Misha è tornato alla fattoria… e come va. Forse lo potrei chiamare… sapere come sta e come va con Jonathan… L’ho trattato malissimo al telefono quella volta. Si arrabbierà se scopre che l’ho chiamato ancora.

Indeciso, rimase a lungo a fissare il nome di Mika sullo schermo, torturandosi con le conseguenze che quella chiamata poteva avere sulle loro vite o sulla sua psiche.

«Allora, mi chiami o no?»

Si prese un tale spavento che il cellulare gli sfuggì dalle mani. Mika scoppiò a ridere e gli si gettò al collo prima che recuperasse il telefono. L’irritazione svanì immediatamente.

«Dovevi uscire un’ora fa! Mi ero addormentato in macchina. Sarebbe stato il colmo mancarti proprio adesso…»

«Ma che cosa fai ancora qui? Pensavo fossi uscito un mese fa…»

«Aspettavo te, no, Yuu-chan?» fece lui stizzito, come se gli avesse fatto una domanda da cretino. «Non volevo andare a casa senza parlarti… senza chiarirci.»

«Chiarirci su che cosa?»

«Abbiamo fatto delle cose in questo periodo… e ci siamo detti delle cose. Penso che non dovremmo fingere che non sia successo.»

«Dove hai messo Jonathan? Spero non sia a portata di orecchio. Non ci tengo a farmi sparare appena uscito di prigione.»

Mika scosse la testa, senza smettere di sorridere.

«Non ti preoccupare di quello. È in Kentucky, non è venuto fin qui.»

«Cosa?» sbottò Yuu, indignato. «Scherzi? Sei stato incarcerato ed eri in ospedale con una commozione cerebrale e lui non è venuto?!»

«Lo sapevo che non sarebbe venuto. Ha troppa paura dell’aereo.»

«Ma chissenefrega! Tu attraverseresti una città in fiamme per lui! Una foresta di rospi! Una… città di rospi in fiamme, ecco, e lui non prende un aereo per te?!»

Mika rise della sua immagine delirante e neanche l’argomento spinoso riuscì a scalfire quel suo viso così gioioso.

«Ma Lucky non è te… non ha il tuo coraggio, o il mio. È un altro tipo di persona. È capace di corteggiarti anche per tutta la vita, di spaccarsi la schiena per te ogni giorno, ma non di questo tipo di atti teatrali.»

Infastidito Yuu incrociò le braccia ed emise una specie di grugnito in segno di disappunto.

«Però… Yuu-chan, devo dirti una cosa. Ti ho detto una bugia quando eravamo alla fattoria, e ho continuato a ripeterla… e… per chiarezza, è giusto che tu lo sappia. Lucky si è arrabbiato un po’ quando tu gli hai detto quella cosa al telefono…»

«Che è un gran pezzo di cretino? Lo ripeterei.»

«Che è mio marito.»

Mika non guardava dalla sua parte. Si rigirava le chiavi della macchina tra le dita, facendo tintinnare il portachiavi a ogni giro.

«Lucky non è mio marito. Avevamo deciso una data per la primavera, ma poi… quell’estate io l’ho tradito con Steven e… ha deciso di rimandarla. Sono passati tre anni ma non abbiamo più parlato di sposarci.»

«Ma… ma perché me l’hai detto, allora?»

«Perché tu mi stavi punzecchiando» ribatté lui, cedendo infine il sorriso. «Mi stavi dicendo che avevo il vizio di tradire… Me l’ha detto anche lui quando abbiamo litigato, e io… mi faceva male e ti ho detto qualcosa che pensavo ti desse fastidio.»

L’onda d’urto di quella rivelazione bomba passò rapida, lasciando il posto a una desolazione difficile da esprimere. Yuu sospirò, sentendosi fisicamente e mentalmente stanco.

«Misha… dobbiamo chiudere questa storia. Dobbiamo smetterla tutti e due. Siamo ancora io e te, come quando eravamo bambini, e almeno tu ed io dovremmo parlarci e discutere senza prenderci a coltellate per farci del male.»

«Mi dispiace… ma eri così irritante!»

«Te lo concedo» ammise Yuu. «Ma adesso basta, okay? Basta colpi bassi. Niente bruciature e stilettate. E devi farlo finire anche con Jonathan, con quella storia assurda degli amanti.»

«Ho parlato con lui di questo… al telefono. Credo che abbia capito che mi ha fatto molto male. Che ha esagerato a reagire così per uno scivolone da sbronza, e che la sua ripicca è durata anche troppo a lungo. Penso che possiamo riprovare da capo quando torno… e forse stavolta arriveremo a quel matrimonio.»

Capì subito cosa si muoveva nel suo stomaco e il suo primo istinto fu tacerlo, ma non avrebbe fatto nulla di buono a forza di seppellire le sue emozioni.

«Se ne sei contento, bene… io però quasi speravo che scegliesse gli amanti. Penso ancora che Lucky sia un idiota con un grosso pene. Uno che ti tratta così dev’essere per forza un imbecille.»

Con sua sorpresa Mika ridacchiò.

«È bello che tu lo dica. Non tanto bello per lui, ma per me sì.»

Cadde un momento di silenzio, durante il quale Yuu guardò in giro e vide Steven in attesa vicino alla macchina, a debita distanza da loro. Quando si accorse che l’aveva visto alzò la mano in segno di saluto. Dopo una breve esitazione glielo ricambiò.

«Quindi torni in Kentucky, adesso?»

«Sì… ti ho promesso che avrei provato ad aggiustare le cose. Io… non ho parlato con te di cosa sentivo prima di andarmene. Non voglio fare lo stesso con Lucky. Voglio parlare con lui, voglio che proviamo a salvare il nostro rapporto… perché i primi anni è stato davvero bellissimo. Scusami se te lo dico così.»

«Bello come nelle favole?»

«Bello come nelle favole. Sì.»

Il peso che sentì al centro del petto aveva poco a che vedere con la rissa più recente dentro la gabbia. Per attenuarlo si costrinse a rivolgere la mente ai suoi conti in sospeso.

«Beh, io ho promesso che se lo facevi sarei andato da mia madre, quindi è quello che farò… se Cristina non gliel’ha già spiattellato. Lo sai come sono i bambini.»

«Se l’ha fatto andrai a vedere la reazione» l’incoraggiò Mika. «Ho delle buone sensazioni. Credo che sarai felice di aver trovato il coraggio.»

Avrebbe voluto potergli dire lo stesso, ma lui aveva delle pessime sensazioni su Lucky dopo averlo sentito così indifferente al telefono. Pregò di sbagliarsi, di avere su di lui un’opinione di parte. Anche se questo significava rinunciare a Mika come amante per sempre, pur sapendo che era la sua anima gemella.

Steven apparve a pochi metri. Yuu se lo ricordava decisamente più alticcio e trasandato, invece ora era ben vestito e con un viso curato. Era più bello di Lucky, secondo lui: i suoi lineamenti erano più eleganti. Il whisky non aveva dovuto faticare poi molto per convincere Mika a cedere, se solo l’aveva visto così in tiro una volta.

«Scusatemi se interrompo, ma rischiamo di far tardi per il volo, Mikey…»

«È vero… È ora di andare. Vuoi un passaggio, Yuu-chan? Ti lasciamo a casa, o da qualche altra parte?»

«Ah… no. No, devo ancora decidere come muovermi. Ci penso su mentre aspetto l’autobus… tu vai a casa. Pinnella Pass starà piangendo sui barattoli vuoti delle marmellate che non hai fatto quest’estate.»

«Te ne mando qualcuno, invidioso. Insieme alla ricetta.»

Mika l’avviluppò in un altro abbraccio da piovra.

«Non sparire per altri sette anni, Yuu, ti prego. Chiamami quando hai parlato con tua madre… chiamami tutte le volte che vuoi. Anche se non c’è niente di cui parlare.»

«Okay.»

Mika lo lasciò andare e si avviò alla macchina in fretta. Steven, preso di sorpresa, armeggiò con l’accendino e gli strinse la mano come saluto.

«Buona fortuna, amico… Ah, prendile. Ho promesso che avrei smesso anche con queste.»

Gli mise in mano il pacchetto di sigarette tedesche e si allontanò di corsa. Yuu restò lì sulla panca di cemento a guardare l’auto che faceva manovra e una testa di capelli biondi che restò voltata verso di lui fino a che fu capace di distinguerla.

«Buona fortuna, Misha. In ogni senso, immagino.»

Aprì il pacchetto per prendere una sigaretta e con quella venne fuori un foglietto ripiegato più volte, una pagina da un blocchetto a quadretti. Si accese la sigaretta – fu un sollievo immenso dopo tre mesi senza e un simile carico sul cuore – e sbirciò il foglio, aspettandosi frasi da turisti in tedesco o numeri di telefono utili.

Era uno scritto piuttosto lungo e in calligrafia stretta, in inglese con qualche errore ortografico che saltava all’occhio. Si raddrizzò sulla panchina e lesse.

Yuu, se conosco Mikey come penso terrà quel segreto, ma penso che lo devi sapere. Jonathan non si fida ancora di Mikey, ma non per la notte che ha passato con me (anche se non l’ha presa bene). È per un’altra storia. Dopo quella notte con me Jay è diventato geloso e controllava tutto per sapere se aveva altri amanti, e ha trovato in una sua tasca il biglietto del suo viaggio a New Oakheart, nel maggio del 2026. Noi siamo stati insieme dopo, ad agosto di quell’anno.

La cosa che ha insospettito Jay è che aveva prenotato solo l’andata e ha comprato il ritorno quando era lì. Mio fratello ha pensato che Mikey fosse tornato a cercarti a casa e non ti abbia trovato, e allora è tornato alla fattoria. Non so se ti ha mai detto che ti aveva cercato, però io lo so per certo perché me lo ha detto lui quando ha bevuto con me.

Un’ultima cosa che devi sapere anche tu è che quando sei comparso e ti sei portato via Mikey mio fratello ha creduto che non sarebbe più tornato. Credo che sarà sorpreso di vederlo rientrare alla fattoria.

A questo punto sai tutto. Scusa se mi sono fatto gli affari vostri, ma quando parla di te Mikey sembra pieno di vita. Ora fai tu la scelta che pensi sia giusta.

Fissò attonito il foglio firmato da Steven e lo rilesse una seconda volta, ma non ne colse un senso diverso dalla prima volta, e rimase lì imbambolato finché non gli caddero la cenere e la brace su un dito.

«Ahia!»

Scrollò la mano e spense la sigaretta alla cieca, rileggendo alcune frasi in particolare dove saltava all’occhio un anno scritto in numeri. Era l’anno in cui aveva avuto il via libera dall’istruttore degli agenti speciali e in maggio era già arrivato a Berlino… e a quanto Steven diceva, Mika era tornato a cercarlo a casa. Per riallacciare un rapporto amichevole o perché aveva deciso che la sua favola bucolica non era più quello che voleva per la sua vita?

Raccolse il suo telefono, pronto a chiamare. Nella sua testa era già partito un film che aveva un finale molto migliore di lui da solo su una panchina e Mika sulla via del ritorno da un fidanzato che non era neanche capace di prendere un aereo per stargli vicino, ma non chiamò.

No… ora abbiamo entrambi qualcosa da fare… Se ho ragione… se ho ragione su Jonathan, finirà in ogni caso. Non serve essere così impulsivi…

Più ci pensava e più sentiva che aspettare fosse una scelta saggia, ma il silenzio non era il modo giusto. Ci rimuginò un po’ e gli scrisse un messaggio, lo corresse varie volte e alla fine raggiunse una neutralità che lo soddisfaceva.

Misha, vado verso casa in Hermannstrasse. Appena arrivo in Italia ti chiamo, e quando torno negli USA ti faccio sapere dove mi sistemo. Voglio che tu sappia sempre dove trovarmi.

Sorrise e lo inviò. Non voleva instillargli apertamente l’idea di mollare tutto e tornare a quello che erano prima – e che quell’estate tedesca aveva dimostrato potessero ancora essere – ma voleva anche essere sicuro che quel messaggio gli sussurrasse all’orecchio nel dormiveglia, se la favola non fosse ricominciata, che da qualche parte c’era un altro principe con cui riprovare.

   
 
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