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Autore: The Writer Of The Stars    26/01/2024    0 recensioni
"Rey e Ben viaggiarono per un mese. La loro auto si ruppe sei volte, dormirono in dodici ostelli diversi, qualcuno li ospitò, vissero tanto. Verso i primi giorni di Luglio giunsero a Manchester by the sea. Ben diceva che lì vi abitava Poe Dameron, un suo vecchio amico d’infanzia che si era trasferito nel Massachusetts da pochi anni. Non fu difficile trovarlo, perché era una cittadina piccola ma adorabile, come l’aveva definita Rey, talmente bella che espresse il desiderio di vivere lì per sempre. Ben fece qualcosa di più. Una mattina all’alba la portò presso Singing Beach e lì, davanti alle onde baciate dal sole, si inginocchiò di fronte a Rey e le chiese di sposarlo. Pianse e disse di sì, lo baciò e poi lo prese per mano, correndo verso la riva e buttandosi in acqua. Rey amava ed era viva. Ben era tornato a mangiare, amava ed era vivo. "
|Reylo AU!| Ispirata a "Sleep on the floor", The Lumineers. Vecchia storia, pubblicata anche in inglese su Ao3.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ben Solo/Kylo Ren, Kylo Ren, Rey
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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I was not born to drown
 
“Era davvero un brav’uomo, siamo distrutti da questa tragedia.”

Rey aveva sentito quella stessa frase per ben dodici volte nel giro di un’ora e quaranta minuti. Gliel’avevano sussurrata le vecchie del quartiere e i vicini di mezza età mentre la abbracciavano e le lasciavano due baci sulle guance, uno a destra, uno a sinistra. La signora Parker le aveva anche carezzato le braccia nude come a volerla riscaldarle, “Non hai freddo così, tesoro?” le aveva chiesto infatti poco dopo, mentre squadrava l’abito blu e leggero che le giungeva alle ginocchia ossute e piene di cicatrici d’infanzia. Rey aveva scosso la testa.

“Sto bene.” Parlava del freddo e la signora Parker l’aveva subito lasciata stare; si era avvicinata alla bara in legno di ciliegio posta al centro del salotto, posato un mazzo di crisantemi sul petto di suo padre e poi se n’era andata dai suoi quattro nipoti che l’attendevano a casa, “Sono adorabili, Rey, dovresti passare a trovarmi una volta così potrai conoscerli.” Ophelia ha sette anni, Alexander cinque, James tre, Rachel neanche uno. Ormai glielo aveva ripetuto talmente tante volte che ricordava alla perfezione ogni dettaglio anagrafico di quei bambini sconosciuti, quasi era in grado di immaginare il loro aspetto grazie alle descrizioni della donna.

Ophelia, pensava ogni volta che la donna la nominava, che nome meraviglioso.

La signora Parker le aveva chiesto se avesse freddo, ma la verità è che non provava assolutamente nulla. Né freddo né caldo, né gioia né dolore, né angoscia o serenità. Un uomo sulla quarantina le si avvicinò e le carezzò indeciso una spalla, presentandosi come “un collega di suo padre”.
“Era una persona di grande carisma” le disse, “la sua perdita ha lasciato un vuoto encomiabile tra di noi.” Rey sorrise mesta e si portò una ciocca di capelli castani e disordinati dietro le orecchie minute.

“Di certo lei lo conosceva meglio di me.” Sussurrò con triste sarcasmo, allontanandosi poi dalla bara scoperta. L’uomo rimase interdetto, portandosi il cappello scuro al petto colmo di distintivi; indossava una divisa militare da alto ufficiale.

Rey intanto si era bloccata sulla soglia di casa con le braccia abbandonate lungo i fianchi e il venticello di metà maggio che le scompigliava quell’abito leggero; dall’altra parte della strada scorse un metro e novantadue d’uomo, fasciato in un completo scuro, avvicinarsi a lei.
Ben la abbracciò con contegno, avvertendo lo sguardo dei presenti puntarsi su di lui. Rey, che non gli arrivava nemmeno al collo, affondò il volto tra le pieghe della sua camicia immacolata inspirando l’odore di agrumi che la pelle del ragazzo emanava. In casa molti dei presenti erano abitanti del quartiere e conoscevano Ben Solo per vie traverse; sapevano che era il figlio di Han, il meccanico del quartiere, e di Leia Organa che un tempo aspirava ad una candidatura parlamentare ma che si era poi tirata indietro con la nascita del Gigante, come lo chiamavano ormai per abitudine. Non sapevano, però, che vi fosse un qualche legame tra la figlia del Comandante Kenobi dell’esercito e quel ragazzone che sembrava uscito da un cartone animato e la cosa sembrava sorprenderli.

“Ho litigato di nuovo con mio padre.” Le sussurrò Ben in un orecchio e Rey fu sollevata nel non udire di nuovo quella melanconica frase di circostanza che l’aveva circondata per tutta la durata della giornata.

“Scappiamo via, Rey.” Continuò, carezzandole la nuca e cingendole i fianchi con il braccio libero. Rey sgranò gli occhi e tacque, poi scosse la testa e si lasciò sfuggire, per la prima volta da quella mattina, una piccola lacrima cristallina.

“Se non lasciamo questo posto, non potremo mai farcela.” Poi sciolse l’abbraccio, osservò gli occhi annacquati di Rey e si allontanò con lentezza verso la strada adiacente, mentre l’ennesima parente sconosciuta si avvicinava alla giovane per farle le condoglianze.

“Rey, cara …”

Metti in valigia uno spazzolino da denti, metti in valigia una delle tue camicette preferite, prendi un assegno, prendi tutti i tuoi risparmi, perché se non ce ne andiamo da questa città, potremmo non farcela.


“Ben, aspetta!” Ben si fermò di colpo, sprofondando ancora di più le mani nelle tasche di quel completo che gli stava stretto. Si voltò con lentezza e vide Rey e il suo abito blu svolazzante corrergli incontro, così allungò un braccio verso di lei e le strinse la manina glabra e esile.
“Andiamo.” Sussurrò, aprendole la portiera della sua vecchia auto nera.
 
Rey amava il tettuccio apribile dell’automobile di Ben. Maggio era un mese caldo e sentire il vento scompigliarle i capelli mentre percorrevano la statale a velocità sostenuta contribuiva a donarle un’immensa sensazione – o forse parvenza- di libertà. Ben le lanciò uno sguardo sereno e sorrise piano. Si era liberato della giacca che lo ingessava e aveva arrotolato le maniche della camicia bianca fino ai gomiti in modo da agevolare i movimenti, ma in verità anche lui si stava godendo a pieno quel clima mite e tendente all’estate ormai vicina. Guardò di nuovo Rey e realizzò per l’ennesima volta per quale motivo la amasse: Rey era la sua libertà.
Quando era piccolo andava in classe con un certo Johnny Terryman, soprannominato da tutti Thrillerman, perché era in grado di spaventare chiunque gli si avvicinasse. Era di corporatura minuta, ma era violento e tutti lo rispettavano e osannavano tra i corridoi della scuola. Durante il suo ultimo anno delle elementari, Ben aveva avuto uno sviluppo della crescita eccezionale e spropositato, che lo aveva portato a raggiungere il metro e sessantacinque e, di conseguenza, a divenire il più alto della classe. Era esile di corporatura, ma l’altezza sembrava ingigantirlo a dismisura; Johnny Terryman aveva iniziato a portarlo in giro chiamandolo Mammut Solo. Ogni tanto poi lui e il suo gruppo di amici lo aspettavano fuori dalla scuola e lo picchiavano per divertimento, perché anche se fisicamente era molto più grande di loro, Ben non sapeva difendersi. A volte poi si divertivano a lanciarlo all’interno del cassonetto dell’immondizia, ma erano occasioni più rare, perché era necessario che il gruppo fosse al completo o non sarebbero riusciti a sollevarlo e gettarlo tra la spazzatura. Ben aveva pensato allora che dovesse smettere di crescere e per fare ciò voleva smettere di mangiare. Inizialmente non ci era riuscito, perché a sua madre non sfuggiva mai un pezzo di carne lasciato sul piatto, ma poi, durante le medie, i suoi genitori avevano avuto un periodo di crisi matrimoniale e ne aveva così approfittato per cercare di bloccare quella crescita che non gli dava tregua. Era sprofondato in disturbi dell’alimentazione durante gli anni delle superiori, poiché alternava periodi di completo digiuno ad altri di stasi in cui tornava ad ingurgitare cibo come una persona normale, ma la crescita non si era mai fermata ed era così giunto al diploma con il suo imbarazzante metro e novantadue di altezza. Rey aveva tre anni in meno di lui ed era piccola ed esile come una bambina. Durante il suo primo anno di liceo non era riuscita ad integrarsi a pieno con la propria classe, aveva voti troppo alti e non indossava mai gli stessi abiti alla moda delle sue compagne. A Ben era capitato spesso di vederla pranzare sola nel cortile della scuola e più volte aveva avuto il bruciante istinto di avvicinarsi a lei e parlarle, come a dire, due emarginati insieme non sono più tanto emarginati. A volte restava sveglio intere notti a riflettere e a preparare eventuali discorsi con cui approcciarsi a quella ragazzina con gli occhiali da lettura e i capelli legati frettolosamente, ma ogni volta che si trovava dinanzi alla vetrata che dava sul cortile vedeva la propria immagine riflessa e allora correva verso il bagno a rimettere il poco che aveva mangiato. Rey in realtà aveva notato quel ragazzone carino che la osservava impacciato dai corridoi e nel profondo le faceva piacere sapere che qualcuno la guardasse senza disprezzo o odio alcuno. Era una bella sensazione. Un giorno, mentre stava mangiucchiando una mela verde e leggeva un libro di Leo Perutz, le era capitato di alzare per un attimo lo sguardo e così aveva colto Ben in flagrante. Aveva visto gli occhioni scuri del giovane adombrarsi di panico ma lei, spontaneamente, gli sorrise e gli fece cenno di avvicinarsi alla panchina. Ben la raggiunse con passi dinoccolati e Rey dovette spostarsi un poco per fargli spazio. Lui riconobbe il libro poggiato sulle ginocchia della giovane, e da lì furono un po’ meno emarginati.
Ben non aveva mai parlato a nessuno degli atti di bullismo subiti, né tantomeno dei suoi problemi d’alimentazione, ma Rey non aveva bisogno che fosse lui a dirglielo, Rey aveva capito e voleva aiutarlo. Vederli girare insieme tra i corridoi del liceo aveva suscitato le attenzioni della maggior parte degli studenti, tanto che alcuni avevano anche preso ad additarli meschinamente “Il Gigante e la bambina.” Furono bravi però ad ignorare le voci e Rey fu ancora più brava nel convincere Ben a pranzare con lei ogni giorno. La via della guarigione era ancora lontana, ma con un po’ di fatica lo avrebbe aiutato a raggiungerla.

“Dove stiamo andando?” Ben scosse d’improvviso il capo, risvegliandosi da quei pensieri. Rey lo osservava con gli occhioni infantili pieni di bambinesca curiosità e aveva legato i capelli in una mezza coda disordinata, alcuni ciuffi castani le ricadevano sulle gote piene di lentiggini; era una meraviglia.

“Non lo so.” Le rispose enigmatico, “Penso a vivere.”
 ***
 
Finn li aveva accolti con gli occhi lucidi e un sorriso sorpreso. Non vedeva Rey da dieci anni ormai, da quando lei e suo padre si erano trasferiti, e ritrovarsi davanti una donna di ventidue anni anziché la bambina un po’ maschiaccio con cui era abituato a giocare da piccolo, gli fece un grande effetto. Rey era diventata bella ed era felice di vedere come quel ragazzone con cui si era presentata la facesse stare bene. Lei non aveva voluto parlare di suo padre o del perché si trovasse lì, ma si era limitata a dire “pensiamo a vivere”, chiedendogli poi se avesse potuto ospitarli per quella notte. Rey e Ben dormirono nella camera degli ospiti senza il pigiama che avevano dimenticato di portare, abbracciati stretti stretti e chiedendosi internamente se davvero avevano fatto la cosa giusta. Quando la mattina dopo salirono in auto con il sole che baciava loro l’epidermide, si dissero che sì, avevano fatto la cosa giusta.

Rey e Ben viaggiarono per un mese. La loro auto si ruppe sei volte, dormirono in dodici ostelli diversi, qualcuno li ospitò, vissero tanto. Verso i primi giorni di Luglio giunsero a Manchester by the sea. Ben diceva che lì vi abitava Poe Dameron, un suo vecchio amico d’infanzia che si era trasferito nel Massachusetts da pochi anni. Non fu difficile trovarlo, perché era una cittadina piccola ma adorabile, come l’aveva definita Rey, talmente bella che espresse il desiderio di vivere lì per sempre. Ben fece qualcosa di più. Una mattina all’alba la portò presso Singing  Beach e lì, davanti alle onde baciate dal sole, si inginocchiò di fronte a Rey e le chiese di sposarlo. Pianse e disse di sì, lo baciò e poi lo prese per mano, correndo verso la riva e buttandosi in acqua. Rey amava ed era viva. Ben era tornato a mangiare, amava ed era vivo.

La sera stessa Rey e Ben si sposarono nel giardino della casa di Poe. C’erano alcuni amici del ragazzo che loro avevano visto giusto un paio di volte durante la loro permanenza, Rey indossava uno dei suoi abiti svolazzanti dai colori aranciati che non aveva nulla a che vedere con un abito da sposa, ma si amavano e si promisero qualunque cosa. Quella notte dormirono nel salotto di casa Dameron, stesi in terra su di un finto tappeto persiano, abbracciati e nudi. Ben baciò gli occhi di Rey, carezzandole il ventre piatto.

“Vorrei tanto avere un figlio.” Gli confessò in un sussurro. Ben sorrise, strofinando il proprio naso grande contro quello minuto di Rey.

“Sì?”

Rey annuì, socchiudendo gli occhi e sorridendo, come se stesse già immaginando il volto del loro futuro bambino.

“Una bambina. Vorrei una bambina.”

“E come vorresti chiamarla?” le chiese Ben, giocherellando con le sua dita esili.

Rey inspirò a fondo e sorrise con dolcezza.

“Ophelia. Mi piacerebbe moltissimo chiamarla Ophelia.”
 
***

Rey sentì un vento freddo carezzarle le braccia nude. Spalancò gli occhi e si scontrò con un paio di scarpe ortopediche color grigio topo; sotto di esse riconobbe un tappeto persiano, uno vero, quello di casa sua.

“Quanto sei testarda, Rey” sussurrò una voce nelle vicinanze. “Addormentarti qui in salotto, sei sempre la solita.” Rey riconobbe la voce della signora Parker e realizzò solo allora che non vi era Ben al suo fianco, che quella non era la casa di Poe Dameron a Manchester by the sea, ma la sua odiata casa in quel paese orribile, e soprattutto si rese conto che Ben se n’era andato, e lei non lo aveva seguito perché infine troppo codarda.

Era stato tutto un sogno. Non era mai fuggita.

La signora Parker si abbassò alla sua altezza, poggiandole una coperta di lana grezza sulle spalle.

“Te lo avevo detto, tesoro, che questo abito era troppo leggero.”
 
   
 
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