Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Greenleaf    29/01/2024    1 recensioni
Levi Ackerman, capitano imbattibile e uomo dalla lingua tagliente, ora ridotto su una sedia a rotelle. Sarebbe questa la sua grande vittoria? Forse è solo uno scherzo del destino, una penitenza da scontare. In fin dei conti lui ha sempre e solo sofferto. Nel suo cammino, ad un certo punto, si interpone una donna tutta pepe, che non riesce proprio a stare zitta in sua presenza. Sarà l'ennesimo castigo? Levi non la tollera, vorrebbe starle lontano e godersi il resto dei suoi giorni in completa solitudine.
Ma ovviamente, ogni cosa va per il verso sbagliato.
E chi l’avrebbe detto che, dopo la fine di una guerra, avrebbe dovuto affrontarne un’altra, completamente disarmato. Contro una donna. Non una donna qualunque, ovviamente, ma una con la lingua troppo lunga.
[Storia sospesa]
Genere: Hurt/Comfort, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 1
⋅ʚ♡ɞ⋅
Irina
 
Le impronte dei giganti colossali impresse sul terreno, erano colme d’acqua. Le stelle riflettevano silenziose il loro scintillio sulla superficie frastagliata, quasi volessero buttarsi dal cielo e tuffarsi dentro le pozzanghere. I bambini ridevano e saltellavano. Con le scarpe sporche di fango calpestavano l’erba fresca e i fiori di tarassaco che erano spuntati ai lati delle tende. Distesi un sorriso sulle labbra e accarezzai la guanciotta paffuta di Raul. Ero affezionata a loro, a tutte quelle piccole pesti. Lo ero da quando mi avevano abbracciata, facendomi scordare del mio dolore. Mi avevano aiutata a rialzarmi, pensando che fossi io quella forte. Quanto si sbagliavano! 

Mi sedetti e mugugnai appena il terreno freddo mi gelò il sedere. Presi il piatto di riso e mangiai silenziosamente, lanciando sguardi distratti alla gente in fila davanti alle grosse pentole fumanti. Pensare che, l’indomani sarei dovuta alzarmi per cucinare, pulire e aiutare mi stava già facendo venire un gran mal di testa. Certo, la cosa mi faceva stare bene, ma richiedeva uno sforzo consistente, da parte mia.
Sara, con il suo foulard legato intorno al collo, afferrò la sorellina da sotto le ascelle e la strinse a sé. La maggior parte di quei bambini erano orfani. Senza alcun conforto, a parte quello di una semisconosciuta mandata da chissà quale Dio per aiutarli.
 
“Andiamo a camminare?”
 
“Avete finito tutti di mangiare?” Guardai i loro visi sognanti. I cucchiai ancora stretti ai denti e, i loro occhi furbi.
 
“Mh, mh.” Annuì Raul, balzando in piedi. Per accontentarli consumai in fretta la cena e chiesi a due di loro di recuperare dei piatti per Amelia, - Una donna anziana incapace di muoversi  - e per il capitano dalla faccia inespressiva. Lo conoscevo solo di vista, avevo scambiato con lui sì e no qualche parola e, avevo intuito al volo di non stargli simpatica. In realtà, a parte i suoi conoscenti, non parlava quasi mai con nessuno. Era un tipo solitario, con un volto che trasudava tristezza e uno sguardo severo. Guardarlo sfrecciare sulla sedia a rotelle, però, mi tagliava il cuore in due. Non doveva essere facile per lui, tenendo conto del suo orgoglio. Pertanto, non gli avevo mai offerto il mio aiuto, timorosa di ferirlo.
 
Passeggiammo come sempre in quelle stradine affollate. Accompagnati dal canto dolce di un mandolino e dalle risate di alcune donne che avevano rivisto i figli dopo una giornata di lavoro. In molti uscivano dall’accampamento per raggiungere la pianura e piantare alberelli. Non c’ero mai andata sebbene avessi ricevuto parecchi inviti. Preferivo dare una mano qui, nella tendopoli. Onestamente, mi riusciva difficile trafficare con gli attrezzi da giardinaggio.
 
“Irina.”La voce di Gabi mi raggiunse da dietro le spalle. Mi voltai per incrociare i suoi occhioni color cioccolato. Dietro di lei Falco correva esultante, facendo lo slalom tra la gente. Le lanterne a terra li condussero fino a me. Si piegarono sulle ginocchiata. Erano sudati, le camicie a quadri aderivano perfettamente ai loro corpicini.
 
“Li avete visti?” Gabi sollevò il mento. “I gabbiani. Hanno volato in cielo, sulle nostre teste. Erano grossi quanto Falco. Non ne ho mai visti tanti prima d’ora. Eravamo lì fuori a piantare gli alberi e… I gabbiani!” Urlò con le palpebre sgranate.
 
“Mi sa che me li sono persi.”
 
“Un vero peccato.” Aggiunse il piccolo dai capelli color del grano.
 
I bambini intorno a me si emozionarono a tale racconto e sgusciarono avanti per saperne di più.
 
“Ma sì, Irina. Li abbiamo visti prima che tu arrivassi. Chissà se torneranno anche domani, così potrai vederli anche tu.”
 
“Non credo.” Rispose Gabi
 
“Perché no?” Chiese con il labbro tremante la piccola Emily.
 
“Non so. Non li ho mai visti qui. Non abbiamo visto nessun altro animale, a parte i cavalli.” Era vero e ciò mi fece aggrottare le sopracciglia e corrucciare le labbra in un broncio.
 
“Ma tutto è possibile.” Scompigliai i capelli di Emily e schiacciai l’occhio a Falco. “Stiamo andando verso la tenda della vecchia Amelia. Venite con noi, dopo avervi dato una lavata?” Da una tenda sbucò la madre di Gabi, mi rivolse un sorriso e fissò la sua bambina con amore.
 
“Certo, ci vediamo dopo.”
 
Continuammo a camminare, illuminati dalle lanterne che delineavano il percorso, quasi fossero dei fuochi fatui nel bel mezzo della notte. L’aria fresca mi scompigliò i capelli e, nel mio petto, inevitabilmente, calò una nube scura. Era sempre così! Superati i panni appesi a dei fili traballanti, raggiungemmo la vecchia Amelia. Mi chinai e consegnai a Raul il piatto di riso coperto da un panno.
 
“Hai un compito speciale.”Alzai le ciglia per trovare oltre un albero, la sagoma di quell’uomo con il volto pieno di cicatrici. Levi Ackerman. Il capitano che, aveva contribuito a salvarci tutti. “Vai da lui e dagli questo. Non dirgli che ti ho mandato io, però. Mi trovi da Amelia.”
 
“Dalla nonnina?”
 
“Già.”
 
Avvolse il piatto caldo nelle manine e raggiunse Levi con delle larghe falcate. Gli porse il riso. Vidi Levi guardarlo con le sopracciglia aggrottate. All’improvviso si girò e intercettò la mia occhiata. Con uno “Tcs” poco udibile, accolse il pasto e posò le due dita sui capelli ricciolini di Raul. Intuivo che fosse contrario alla mia solidarietà e mi guardavo dal girargli intorno. Infondo, perché avrei dovuto farlo se lui stesso voleva stare per i fatti suoi a guardare indisturbato le stelle? Un momento così intimo non poteva essere rovinato dalla mia presenza.
 
Sospirai lasciando che la brezza agitasse la mia gonna.
 
“Amelia, si può?”
 
“Entra Irina.”
 
“Noi due possiamo aspettarti fuori?” Mi chiese Emily in braccio a sua sorella Sara.
 
“Certo.” Scostai le spesse tende ed entrai nel rifugio di Amelia. Come sempre, quel posto, mi faceva stringere il cuore nel petto. Tutte le foto sparse a terra, i vestiti abbandonati dentro un baule decrepito, e lei, ormai senza forze, distesa sotto le coperte sgualcite.
 
“Ehilà.” Mi sedetti a terra e lasciai il piatto su una panca.
 
La luce di una candela fendette l’oscurità, agitandosi nel buio. In silenzio mi abbracciai le ginocchia e la osservai mentre si asciugava le lacrime. Ammirò con adorazione le uniche reliquie che le ricordavano di aver avuto una famiglia. La capivo. Ma a sua differenza, ero riuscita a superarla. Mi ero rialzata, avevo leccato le mie ferite e, le avevo coperte con delle bende. Ma erano sempre lì e sanguinavano quanto quelle di Amelia.
 
“Passerà mai?” Le chiesi afferrando una foto vicino ai miei piedi.
 
“Mai.”
 
“È vero. Impossibile dimenticare. Ma loro vorrebbero questo, Amelia?”
 
“Non lo so. Ma io vorrei loro indietro.” Era così avvilente vedere una donna di settantasei anni con le lacrime che solcavano le rughe e nuovi dolori a frantumarle il cuore.
 
“Anch’io li rivoglio con me. Non riesco a sbarazzarmi nemmeno degli oggetti che gli appartenevano.” Le porsi la mano. Amelia me la strinse nella sua stretta tremolante.
 
“Ma se piango, sono persa Amelia. E se non piango, mi sento in colpa. È tutto sbagliato. L’unica cosa che riesco a fare per loro è combattere. Lo faccio per i bambini che come Thomas…” La mia voce si affievolì, nuove lacrime mi punsero gli occhi. Il mio Thomas. Il mio bambino che a oggi avrebbe avuto gli stessi anni di Raul. Lui non c’era più. Il suo sorriso non poteva più scaldarmi il cuore. Il mio sole, era tramontato per sempre. Non poteva più essere coccolato dalla sua mamma. I giganti, me lo avevano portato via, insieme a Charlie, l’unico uomo della mia vita. Io ero sopravvissuta e li avevo pianti con una tale disperazione da credere che mi sarei sciolta tra le lacrime. A terra. In quella terra che aveva assorbito il loro sangue e li aveva sepolti senza darmi il tempo di rivederli.
 
La stretta di Amelia mi riportò al presente. “Loro sono insieme ai miei figli e ai miei nipoti. Sono i nostri angeli custodi. Per sempre.”
 
“Per sempre.” Rafforzai la presa e, prima di andare le chiesi di mangiare tutto. I bambini fuori si agitarono, entusiasti di continuare il giro. E io li avrei accontentati prima che i loro occhietti vispi si fossero chiusi per via della stanchezza. Li accontentavo sempre e mi prendevo cura di loro, come fossero figli miei. Perché una cosa l’avevo capita, infondo: se ero sopravvissuta, era solo per aiutare quelle piccole creature che non avevano più un appiglio. Per tergere le loro lacrime.
 
Non potevo dire di sentirmi meglio, ma vedere i loro volti spensierati, alleggeriva il peso che sentivo sulle spalle. Mi faceva sentire meno sola. Meno in colpa.
 
Così finii per farmi due volte il giro delle tende. Parlai con alcuni che avevo incontrato lungo la strada e, in fine, condussi i piccoli nel padiglione più grande. In realtà, quel rifugio, assomigliava più a un castello di stoffa che a una semplice tenda. I tessuti in vinile e pelle l’avvolgevano e riparavano i bimbi dalle intemperie. Un luogo adatto per ospitarli tutti quanti.
 
Con le spalle doloranti, percorsi tutta sola la strada che mi separava dalla mia piccola casetta. Così mi piaceva definirla. Stropicciai gli occhi e, assorbii il paesaggio che si stagliava contro il cielo blu scuro pezzato di stelle. Le punte delle tende parevano toccare la luna, il fumo dei falò si innalzava in cielo, regalandomi un invitante aroma di cibo. La via stretta era coperta da ciottoli e da qualche fiorellino. Sollevai il bordo della gonna prima di scorgere l’uomo in sedia a rotelle.
 
Mi fermai.
 
Lui pure.
 
Mi dedicò l’occhiata più miserabile mai ricevuta: sopracciglia tese, occhi assottigliati, un broncio indignato che gli conferiva un aspetto quasi minaccioso. Posò le mani sulle ruote e premette la schiena contro la spalliera che lo sosteneva. Non era robusto ma nonostante ciò, dalla camicia bianca, sporgevano fasci di muscoli definiti.
 
Sbattei le palpebre e mi imposi di camminare. Lo superai ma la sua voce, graffiante e calda, mi costrinse a tornare sui miei passi.
 
“Smettila di mandare i mocciosi da me.”
 
“Come prego?” Mi voltai un po’ sorpresa.
 
Levi sospirò. Come se si trovasse davanti a un problema irrisolto che stava spingendo a limite la sua pazienza. Mi guardò oltre la spalla, con il suo unico occhio buono e quelle cicatrici che gli tagliavano la guancia a metà. “Se voglio mangiare, non ho di certo bisogno di te. Smettila d'impicciarti.” Parlò pacatamente.
 
Respinsi l’irritazione che mi stava facendo contorcere le budella e scelsi di essere ragionevole. “Non potresti ringraziarmi e basta?” Gli avevo solo offerto del cibo, mica gli avevo fatto un torto.
 
“Non ho motivo di ringraziarti. Ti sto solo chiedendo di non fare nulla, per me. Se vuoi aiutare gli altri, beh, fa pure. Ma io non sono un moccioso da accudire. Non mi fissare con quegli occhi pietosi.”
 
Ma era serio? In quel tempo che avevo trascorso lì, mai nessuno mi aveva risposto con così tanta arroganza. Solitamente la gente era così felice di ricevere il mio aiuto. Ci scambiavamo quattro chiacchiere e, con alcuni condividevamo i nostri ricordi più intimi. Quel Levi invece si stava rivelando un gran insolente. “Dunque…” Mi schiarii la voce e il suo occhio blu scintillò curioso. “Io non ti offro da mangiare per pietà, ma perché mi va di farlo. E tu, in questo momento, sei molto maleducato a venirmi a rimproverare per una buona azione. Quindi non ti permettere.”
 
“Se vuoi sentirti lodata va dagli altri.”

Cosa?

“Io non voglio sentirmi lodata.”
 
“Allora mi pare che non abbiamo più nulla da dirci.” Si voltò e avanzò come se nulla fosse. I miei occhi finirono per fissare i capelli rasati dall’orecchio in giù.
 
“No, non è finita qui,” girai sui tacchi e lo raggiunsi in fretta. Lui non si fermò. Io nemmeno. “Mi dispiace non averti fatto una buona impressione, ma trovo che tu sia stato scorretto. Infondo ti ho solo offerto un piatto caldo. Non mi merito i tuoi rimproveri e… Scusami ma ti puoi fermare un attimo?”
 
Si bloccò con uno scatto veloce e si voltò per trafiggermi con l’occhio carico di tensione. “Ma quanto cazzo urli? “
 
Allungai le braccia ai fianchi e mi accigliai “Io non urlo. Ma…” Solo allora notai che alcune persone avevano fatto capolino per gustarsi la scena. In effetti, mi fissavano con occhiate interdette. Quindi, forse sì, avevo un po’ alzato la voce. “Non mi sono resa conto.”
 
Sollevò un sopracciglio. “Meglio che tu vada a riposare.”
 
“Ma…”
 
“Credimi, non ha importanza.” Mi lasciò lì, superandomi con la sua sedia a rotelle. Il rumore delle ruote che sferzavano sul terriccio, le sue spalle forti che coprivano la strada e, dentro di me un senso di sconcerto, che mi avvinghiava lentamente lasciandomi senza parole.
 
Decisi che non ci avrei pensato. Non potevo piacere a tutti anche se l’idea non mi rendeva felice. Tra l’altro non avevamo nulla da spartire io e lui, ed era inutile impensierirsi solo per un fugace scambio di parole. Non mi conosceva. Non lo conoscevo. Eravamo estranei. Era troppo presto per farmi un’idea generale, specie adesso che le palpebre si stavano abbassando per la stanchezza. Avrei risolto la faccenda domani.
 
Mi accucciai sotto le coperte e, come sempre, abbracciai stretto al petto il piccolo completino di mio figlio, la camicia di mio marito e, nelle mani, il ciuccio di bambù. Questi oggetti li avevo portati con me nel tascapane quando ero fuggita in fretta e furia dal ghetto per salvarmi. Momenti come quelli non li avrei mai cancellati dalla mente. Quando mio marito mi aveva spinto sul treno, e aveva cercato di salirci a sua volta non riuscendoci, mi ero sentita morire. Il bambino aveva gridato per venire da me e io, con le braccia protese, avevo tentato di prenderlo e salvarlo da quella carneficina.
 
Invece li avevo persi entrambi.
 
Perché il treno era partito senza di loro. E l’unica cosa che mi restava erano quei vestiti e delle foto che, troppo addolorata, avrei preferito non rivedere più.
 
Note:
Tadan rieccomi, come per magiaxD
In questo capitolo abbiamo conosciuto un po’ meglio Irina. La tematica delicata di cui vi ho parlato nelle scorse note è la perdita. Il lutto. Direi che è una situazione così tragica per tutti, purtroppo. Abbiamo visto tante persone soffrire nell’ultima puntata. Così ho pensato a Irina e l’ho scritta come meglio ho potuto. Anche se, ad un certo punto, è stata lei a definirsi entrando nella mia testa. L’incontro/scontro con Levi vi è piaciuto? Questi due battibeccheranno sempre, fino a… beh, fino a piacersi.
Mi sono ispirata ad Anastasia per la scena del treno, se a qualcuno interessa saperlo.
Amelia sarà anche un personaggio che vedrete spesso, insieme ai bambini. Non è un mio Oc, però. Amelia è lei:

Appena l’ho vista, mi sono sentita così triste. Possiamo intuire che sia sopravvissuta ma che la sua famiglia non ce l’abbia fatta. Così ho subito pensato di darle un ruolo. Spero che abbiate apprezzato:)
Ringrazio come sempre voi che avete letto. E un grazie speciale a chi ha commentato lo scorso capitolo ♡
Ci vediamo tra una settimana o dieci giorni. A presto!
 
   
 
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