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Autore: Rota    03/02/2024    0 recensioni
Camice e lenti appesi, gli restava soltanto l’ultima cosa da fare. Girò l’angolo del mobile di metallo, immergendosi nel fascio di luce blu elettrico dei refrigeratori; bastò un click perché tutto si spegnesse, attorno a lui, tranne un’unica luce alle sue spalle.
E sarebbe morto proprio lì, ai piedi del sostegno della sua BiancaNeve, espressione finale della sua bellezza.
Ma era buio davvero e non si accorse subito che qualcosa era cambiato – fu solo quando si ritrovò di nuovo accanto al tavolo da laboratorio che si rese conto che il cassetto era stato aperto e vuotato. Il gelo calò sulle sue spalle e la tensione stropicciò il suo stomaco, guardò nell’ombra ma non vide nulla.
«Cercavi questa?» Si girò di scatto, verso quella voce. Rook Hunt teneva la propria pistola puntata verso di lui e la sua, di pistola, appesa al pollice dell’altra mano. Sorrideva tranquillo. «Non ti avrei mai permesso di scappare, ancora una volta.»
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Rook Hunt, Vil Schoenheit
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Fece passare il pollice sopra la pelle fredda della guancia, in quella che avrebbe potuto sembrare una carezza – invece, così facendo, tolse quel grumo di polvere che era caduto dal soffitto, rendendo la superficie della sua opera perfetta ancora una volta.
Pelle di neve, labbra di sangue, capelli d’ebano: la sua scultura seguiva in maniera fedele tutte le caratteristiche della fiaba, e per questo la poteva chiamare la sua opera perfetta, nonché l’ultima.
Socchiuse gli occhi, mentre si toglieva lenti e visiera dalla fronte. Le mura avevano smesso di tremare, e un silenzio particolare era sceso su tutto il suo laboratorio. Nessun vagito, nessun sospiro, nessun gemito.
Vil guardò la fila di vasche vuote, addossate al muro, dove un tempo aveva conservato i pezzi delle sue composizioni, e le cavie mezze vive che erano servite alla sua arte. Non sentiva più alcun legame affettivo per quel posto, ma si rese conto che il suo cuore si era preventivamente chiuso alla delusione, prima che in qualche modo potesse provare paura e che la paura potesse sporcare tutto quello che c’era di importante.
Non l’avrebbero piegato, neanche nella sconfitta.
Un sottile filo di vento fece dondolare il ciuffo più lungo che gli scendeva dalla tempia. Vil fece girare la sedia sulle proprie ruote e guardò l’ingresso del laboratorio. Neanche uno spiraglio aperto, sulla porta nascosta nella semi-oscurità.
Chissà se il suo Epel era ancora vivo, là fuori.
Si alzò, abbassando dalle proprie spalle il camice bianco, ormai sporco di ogni tipo di liquido e resina. Si rese conto del tempo passato solo quando, al primo passo, sentì attorno alle ginocchia un cerchio di tensione, e la sua schiena si piegò in avanti in modo doloroso.
Forse erano passati davvero giorni, dall’ultima volta che era uscito, perché il tempo perdeva davvero ogni ragione quando la mente era impegnata a fare qualcosa.
Camice e lenti appesi, gli restava soltanto l’ultima cosa da fare. Girò l’angolo del mobile di metallo, immergendosi nel fascio di luce blu elettrico dei refrigeratori; bastò un click perché tutto si spegnesse, attorno a lui, tranne un’unica luce alle sue spalle.
E sarebbe morto proprio lì, ai piedi del sostegno della sua BiancaNeve, espressione finale della sua bellezza.
Ma era buio davvero e non si accorse subito che qualcosa era cambiato – fu solo quando si ritrovò di nuovo accanto al tavolo da laboratorio che si rese conto che il cassetto era stato aperto e vuotato. Il gelo calò sulle sue spalle e la tensione stropicciò il suo stomaco, guardò nell’ombra ma non vide nulla.
«Cercavi questa?» Si girò di scatto, verso quella voce. Rook Hunt teneva la propria pistola puntata verso di lui e la sua, di pistola, appesa al pollice dell’altra mano. Sorrideva tranquillo. «Non ti avrei mai permesso di scappare, ancora una volta.»
Vil provò a non far trasparire nulla delle proprie emozioni, gelido come le sue statue – e si forzò a tenere ferme le ginocchia tremanti, a regolare la voce. C’era sempre stato qualcosa, in quel poliziotto, che lo aveva messo a disagio.
«Quindi, alla fine, sei riuscito a prendermi.»
«Oui, a quanto pare è così.» Senza abbassare la pistola, il poliziotto emerse dall’ombra e cominciò a guardarsi attorno. «Sono venuto a stanarti nella tua tana.»
Non produceva alcun rumore, sembrava persino non respirasse – tutt’altro che umano, come una figura intangibile, eppure spessa e inviolabile. Una figura che lui non avrebbe potuto scomporre mai, neppure nell’estremo più terribile della propria arte.
Rook Hunt si avvicinò alla prima vasca e lesse il cartellino appeso al bordo. «Il re Leone?»
Vil mosse la testa, piano. Cominciava a sentire il freddo mordergli la pelle nuda delle mani, e l’odore di disinfettante che gli pizzicava il naso. Rook Hunt passò alla seconda vasca, ma come lui accennò un movimento, la canna della pistola lo seguì, e bloccò ogni sua resistenza.
«Peter Pan, Pinocchio, Alice nel paese delle meraviglie…» Sorrise, con una calma docile sconcertante: non emetteva alcun intento omicida, seppur circondato da segue e bisturi, martelli macchiati di sangue rappreso. «Qui è dove hai creato le tue opere, Vil Schoenheit. O, meglio conosciuto come, “la Matrigna”.»
Dovette stare al suo gioco, anche solo per prendere tempo.
Bilanciò il proprio peso sui piedi, per essere pronto a qualsiasi scatto, tenendo sempre d’occhio la pistola nelle sue mani. «Non mi è mai piaciuto quel nome, “cacciatore”.»
«Davvero, eppure l’ho scelto apposta per te! 100% coerente con quello che crei. “Roi du poison”, quello che ti avevano dato all’inizio, non mi sembrava azzeccato.»
Fece una smorfia: ricordava tutti i notiziari dove Rook Hunt veniva intervistato dai giornalisti, alle prese con quel sedicente killer seriale che trasformava le proprie vittime in sculture umane o, come aveva detto quel giornalista diventato poi Quasimodo il Gobbo, grottesche rappresentazioni di una mente perversa.
«Hai sempre avuto un senso dell’umorismo piuttosto bizzarro.»
«Mi fa piacere sapere di aver ricevuto a lungo le tue attenzioni.»
«Io non sono né vecchio né brutto.»
«Pensi che sia per quello che ti ho dato questo soprannome? Oh no, no, no.» Rook si avvicinò al tavolo del laboratorio, con passi silenziosi. Mosse il polso e la pistola, perché Vil si allontanasse un poco e gli facesse spazio – si approcciò alla testa mozzata di Biancaneve, Neige Leblanche, riposta in una cornice floreale decorata con finta neve. E nei suoi occhi, Vil vide una bellezza sincera, genuina. «La principessa è bella e piena di nobiltà, di quell’innocenza che ispira opere buone. Eppure, la sua ingenuità la porta a commettere errori mortali.» Rook toccò la cornice, ma una strana sensazione pervase Vil, quasi non ne fosse poi così irritato. Lui, proprio quel poliziotto che gli stava dando la caccia da anni, gli sembrava la persona più simile a se stesso. E Rook gli sorrise. «La regina simboleggia il sopruso e la gelosia, ma anche la potenza, la maestosità, la sensualità.»
Ebbe uno spasmo del cuore, un singulto di umanità a lungo taciuta. Il tedio delle ginocchia si sciolse e la paura scivolò sotto le caviglie, lasciando spazio a una strana forma di rassicurazione.
Non avrebbe lasciato quel mondo invano.
La sua voce si fece più sicura. «Hai ucciso Epel?»
«Ti serviva il suo corpo?» Rise, lo guardò in viso solo per un istante, un guizzo negli occhi da cacciatore. «No, non avrei mai potuto ucciderlo. Come lui non ha potuto uccidere te. Ma non ha confessato il luogo del tuo covo, se è questo che ti preoccupa.»
«Ma allora, come hai-?» Vil scosse subito la testa: la verità avrebbe annegato la poesia in una cruda realtà, e lui non desiderava sporcare quella fiaba con proprio niente. «No, non voglio saperlo. Qualsiasi sia la risposta, mi inquieterà.» Fece un cenno con la testa, per indicare la sua ultima scultura. «Perché tu lo sappia, ho pensato a lungo se scegliere te o lui.»
Rook sorrise con tutto il viso, davvero inquietante. «Davvero? E come mai poi ha scelto proprio Neige, al posto mio?»
«Bianca come la neve. Rossa come il sangue. Nera come l’ebano. Lui era perfetto, tu saresti stato solo grottesco.»
«Come lo è stato Quasimodo, il Gobbo.» La toccò ancora, con la stessa cura che si doveva dare a qualcosa di prezioso. Il piedistallo e la cornice, le guance lisce di un bianco incantevole. Forse, forse stava leggendo qualcosa, Vil rimase in silenzio ad aspettare il suo verdetto. «Ma anche il grottesco ha il suo fascino e il suo messaggio, non è così? Perché, alla fine, Biancaneve simboleggia la tua, di innocenza.» Sorrise ancora, più morbido e dolce. «La conserverò per me.»
Vil nascose nell’ombra del proprio laboratorio il sorriso del suo animo, proprio mentre Rook si allontanava da Biancaneve e si girava completamente nella sua direzione.
«Cosa farai, Matrigna? Seguirai il Cacciatore verso la luce, o ti inoltrerai ancora di più nel bosco oscuro?»
«Ho scelta?»
«L’hai sempre avuta.»
Si concesse un ultimo istante dove tutto, tutto imprimeva in lui la presenza della vita terrena.
Il Re delle pozioni, il re del veleno. Il veleno non lascia traccia nei corpi e non li altera, era sempre stato perfetto per conservare tutto ciò che gli serviva. Eviscerati i corpi, poteva fare di teste, braccia e gambe ciò che più desiderava: dei ballerini, dei teatranti, degli attori di ogni opera immaginaria e veritiera, l’arte che diventava realtà e ne traeva ispirazione. E l’arte ha come unico scopo quello di portare un messaggio – una volta colto, diventa immortale.
I suoi piedi gli diedero la sensazione della durezza del pavimento, il suo naso della temperatura dell’aria, e degli odori di cui era satura. Si mosse con uno scatto, e subito una pallottola arrivò alla sua spalla.
Ma così come Rook non desiderava davvero ucciderlo, lui non desiderava davvero vivere. Sperò soltanto che Rook Hunt non avesse avuto il tempo necessario per perlustrare tutto il suo laboratorio.
«Non puoi scappare, Vil!» Lo perse dopo tre angoli, nel buio di corridoi e scaffali che solo lui poteva riconoscere. Una seconda pallottola mancò il suo polpaccio: Rook stava tentando di fermarlo, a quel punto, e per fortuna non ci riuscì. Raggiunse ansante il muro a est e si schiantò prima di riuscire a fermarsi, con un ultimo sforzo aprì la porta di ferro.
«Aspetta!»
La voce di lui rimbalzò in rimbombi continui, ovunque, come lo spettro di tutte le persone che aveva ucciso.
Lì, la più grande delle sue vasche, che conservava ancora tutta la resina usata per la balena di Pinocchio, appariva quieta nella sua mortale tranquillità, quasi acqua su cui si rifrangevano e riflettevano i colori dei riflettori azzurri. Sarebbe bastato entrarci, per farla finita.
Sentì Rook Hunt avvicinarsi alla porta d’ingresso troppo alla svelta, così si arrampicò su una delle scale di emergenza che davano al soffitto e che si arrampicavano sui muri adiacenti.
Illuminato da quel blu assoluto, lo vide arrivare e fermarsi, la sorpresa negli occhi che diventare una realizzazione inevitabile.
Rook Hunt lo aveva salvato e allo stesso tempo condannato a morte. Per lui, avrebbe conservato nel cuore la più terribile delle maledizioni, il suo amore.
«Conserverai anche me?»
«Per sempre, mio adorato Vil.»
«Va bene, allora…»
Lasciò la presa.
   
 
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