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Autore: _Lightning_    05/02/2024    5 recensioni
Napoli, 1925.
Un giovanissimo Luigi Alfredo Ricciardi, ispettore di polizia fresco di nomina, affronta la sua prima indagine sul campo. Ma una serie di imprevisti renderà il suo primo giorno di lavoro decisamente difficile da gestire, soprattutto per via del suo superiore svampito e di un certo medico legale che pare averlo preso in spiccata antipatia...
[Giallo // Comico // Missing Moment // Ricciardi/Modo (velati accenni)]
Genere: Comico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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Un corpo e mezzo

 

 




Maggio 1925, Napoli


          La lancetta più lunga dell’orologio da polso avanzò di un’altra tacca nel momento in cui abbassò lo sguardo a controllare l’ora; fatto piuttosto probabile, considerando che era l’ottava volta in un minuto che lo controllava, appunto quello appena trascorso.

Ricciardi rialzò gli occhi appena in tempo per non mancare il primo gradino della scalinata di Montesanto, rischiando comunque d’investire un passante nella fretta. Gettò lo sguardo verso la cima, che sembrava lontanissima. Rallentò un poco l’andatura per non rischiare di causarsi un malore, col sole di maggio che scaldava già impietoso le strade di Napoli e gli rendeva soffocante la giacca.

Non se l’era immaginata così, la prima giornata di lavoro sul campo, né si era immaginato di poter far tardi sulla sua prima scena del delitto; e tutto perché il suo supervisore, il commissario Angelo Garzo, non l’aveva aspettato in Questura come da accordi. Era rimasto impalato di fronte al suo ufficio per un quarto d’ora buono, prima che un appuntato di passaggio gli comunicasse che il commissario era già uscito per un omicidio appena riportato a Montesanto.

Ricciardi non era sicuro di aver nascosto a dovere il moto d’ansia che l’aveva scosso a quella notizia: non conosceva ancora così bene Napoli da potersi dirigere là a colpo sicuro, e aveva già i nervi a fior di pelle al pensiero di dover vedere un morto e il suo fantasma in presenza d’altre persone.

L’appuntato, un uomo robusto e brizzolato che si era presentato come Raffaele Maione, era stato forse mosso a pietà e gli aveva fatto la cortesia di dargli indicazioni precise su come raggiungere la zona, scrivendogli l’indirizzo e un paio di punti di riferimento su un foglietto al quale, ora, si aggrappava con particolare intensità nella calca della tarda mattinata.

Sbucò su Corso Vittorio Emanuele e staccò lo sguardo dalla carta stropicciata, individuando, poco più avanti, l’archetto seminascosto che avrebbe dovuto condurlo al vico; era abbastanza certo di aver compiuto almeno un paio di deviazioni inutili, perdendo tempo lungo il tragitto, e sperò solo che fosse l’indirizzo giusto.

Oltrepassato l’arco, si trovò in una stretta stradina compressa tra i palazzi, il cielo quasi invisibile tra panni stesi, imposte aperte e vasi di fiori. Non vide numeri civici accanto alle porticciole, ma riconoscere una scena del delitto non doveva essere poi così complesso.

Si aspettava di notare un certo sommovimento di agenti; e poi il fotografo, il medico legale, gli obituari... e pure il commissario Garzo, che l’aveva tanto gentilmente mollato nelle retrovie.

Strinse appena le mani nelle tasche della giacca: aveva l’impressione di non stare troppo simpatico ai suoi nuovi colleghi. Forse per le sue origini nobili, forse per aver superato senza intoppi il corso ufficiali ed essere stato nominato ispettore subito dopo la laurea, forse perché quell’anno avrebbe compiuto un quarto di secolo ed era ancora beatamente scapolo, forse perché era vestito e acconciato in modo fin troppo austero.

Sospirò a mezza bocca e, in un moto d’improvvisa consapevolezza, si allentò una ciocca di capelli sulla fronte, liberandola dalla brillantina con cui se li era tirati severamente all’indietro al mattino; in effetti, Rosa l’aveva guardato in modo un po’ critico, quando era uscito, senza per questo proferir parola. Non volle controllare nei riflessi sbiaditi delle finestre se quell’iniziativa avesse avuto l’esito sperato di stemperare il rigore che si imponeva ogni giorno. Si limitò ad affrettare il passo, scorgendo l’uscita del vicolo, e niente che assomigliasse a una scena del crimine nel breve tratto rimanente.

L’unico segno di vita era un uomo poggiato indolentemente a lato di un portone, intento a fumare il sigaro mentre leggeva un giornale. Sollevò appena gli occhi oltre le lenti scure che li schermavano al suo passaggio, con un vicendevole cenno di saluto, per poi riportarli ai fitti caratteri stampati. Ricciardi si arrestò all’uscita del vicolo, ormai con la certezza di aver in qualche modo frainteso le indicazioni dell’appuntato e di trovarsi da tutt’altra parte.

Un fruscio di carta di giornale lo fece voltare, quando l’uomo alle sue spalle ripiegò il rotocalco per leggere più comodamente un trafiletto. A corto di altre idee, Ricciardi gli si fece incontro.

«Scusate.»

L’uomo alzò del tutto la testa, squadrandolo con occhi scuri e vivi, in chiara attesa di un continuo.

«Sapete, per caso, se qui nei dintorni abita un certo Marco Colantoni?»

L’uomo soffiò via una nuvoletta di fumo, scrutandolo meglio in viso.

«Certo, proprio qua dentro,» disse poi, con un cenno del capo al portone accanto a sé, «anche se, più che “abitare
, direi che il suo corpo occupa semplicemente uno spazio in casa propria, visto che è morto stecchito.»

Ricciardi trasecolò a quelle parole, così come all’assoluta indifferenza con cui l’uomo tornò a leggere il giornale. Lo osservò brevemente: dai capelli ricci corti sulla nuca, come dettava la moda, ma con delle ciocche indecorosamente lunghe che gli scendevano sulla fronte, alla polo informale che indossava sotto la giacca, alla barba scura curata, ma ben visibile in volto.

Poi, adocchiò la testata de
Il Mondo e il titolo che campeggiava in prima pagina: Manifesto degli Intellettuali Antifascisti, e non trattenne una lieve alzata di sopracciglia. S’era fatto già fatto la mezza idea che a quel tipo piacesse piantare grane, ma quella ne fu la conferma.

«Sarei l’ispettore incaricato all’indagine,» disse, schiarendosi appena la voce.

«E io sarei il medico legale incaricato,» rispose secco l’altro, chiudendo infine il quotidiano e cacciandoselo sottobraccio, come rassegnandosi a non poter leggere in santa pace. «Mi si è freddato il cadavere mentre v’aspettavo, ispettore.»

Ricciardi ignorò il suo tono provocatorio; almeno, non era paranoico e l’impressione di non star simpatico ai colleghi non era tale.

«Scusate se v’ho fatto attendere. C’è stata un’incomprensione tra me e il commissario Garzo; non essendo di Napoli, ho avuto qualche difficoltà a trovare il posto preciso.»

L’uomo sorrise per la prima volta con sguardo da lince, a metà tra il giocoso e il beffardo.

«Beh, l’avete trovato, il che vuol dire che un po’ di fiuto investigativo l’avete.» Tese una mano verso di lui. «Dottor Bruno Modo.»

«Ispettore Ricciardi,» replica semplicemente, stringendola ed evitando di menzionare l’imbeccata ricevuta in Questura per arrivare fin lì.

«Ah, niente
barone di Malomonte e doppi nomi altisonanti?» commentò lui pungente, costringendolo a storcere un sorriso di circostanza; ritirò la mano.

«Qui sono solo ispettore, dottor Modo.»

«Ben venga,» disse lui, con un sorriso guizzante e uno sbuffo del sigaro, «di palloni gonfiati mi pare di vederne già troppi e troppo in alto.»

Ricciardi tacque, affatto interessato a dar corda ai proseliti politici di quello che gli pareva un comunista; era lì per il caso, non per fare dibattito, né per giustificare delle origini nobili di cui non aveva colpa alcuna.

«Avete già esaminato la scena?»

«Approfonditamente,» replicò lui, staccandosi infine dal muro e muovendo un poco il sigaro a mezz’aria nel parlare. «Ho mandato gli obituari ad aspettare al bar qua vicino. Avevo già finito da un pezzo quando Garzo s’è fatto vivo... è voluto entrare per verificare di persona quanto gli ho riferito e per interrogare gli abitanti della palazzina, ma sarà una cosa lunga, conoscendolo.»

Dal suo tono, Ricciardi dedusse che il commissario doveva stargli ancor meno simpatico di lui.

«E cosa sapete dirmi sul delitto?»

«Lascio a voi l’onore di trarre le dovute conclusioni, ispettore,» ribatté lui con un cenno verso l’ingresso e l’aria di chi trova una situazione molto divertente. «Sono curioso di sentire cos’avrete da dire al riguardo. È la vostra prima indagine, no?»

«Esatto.» Gli sfuggì con un po’ d’asprezza, quella risposta. «E preferisco comunque esaminare da solo la scena. Con permesso.»

Lo superò senza ulteriori convenevoli, imboccando il portone. In quel momento, aveva problemi più urgenti di un medico col pallino della lotta di classe; per esempio, il mantenere assoluta compostezza di fronte al fantasma della vittima che sapeva attenderlo sulla scena.

Bruno seguì con la coda dell’occhio il nuovo ispettore che imboccava il portone e sbuffò via una folata di fumo particolarmente carica. Trattenne la tentazione di spiaccicarsi il giornale in faccia per l’urto: non solo lo chiamavano di domenica mattina – la sua sacrosanta domenica mattina – ma doveva pure sorbirsi i salamelecchi di un damerino appena trapiantato in Polizia per chissà quale suo capriccio strampalato.

Se lo immaginava, il barone di Malomonte che si faceva venire il grillo dell’investigazione dopo aver letto un giallo di troppo – sempre che non la considerasse letteratura scabrosa e traviante, ovvio – e che metteva su il completo nuovo e s’impomatava e incravattava di tutto punto per venire a spadroneggiare tra i comuni mortali della Polizia. In ritardo, pure.

Riaprì con stizza il giornale, finendo di leggere la lista di firmatari del Manifesto: nomi che in parte s'aspettava e che in altra parte gli sembravano prese di posizioni tanto per dar aria alla bocca e far bordello; una firma svolazzante per poi inneggiare alla grandezza del Duce in prima pagina. Storse il naso. Concedeva a Croce che in linea di principio fosse una magnifica iniziativa, sì, sebbene oltremodo tardiva da parte sua, ma, a prescindere dalla sincerità dell'adesione, era tutta gente che, probabilmente, si sarebbe ritrovata al gabbio entro un paio di giorni.

Forse, per un po’ avrebbe dovuto stare accorto a come parlava in pubblico... anche se dubitava ci sarebbe riuscito. Farsi beffe dei fasci tendeva a migliorargli la giornata, quando non rischiava di beccarsi un manganello sul muso perché non era tesserato.

Dio, che chiavica.

Richiuse il giornale di malagrazia, aspirando altro fumo e gettandolo fuori quasi subito, a creare una nuvoletta densa sopra di sé, in linea col suo cattivo umore; cattivo umore che imperversava da gennaio in oscillazioni più o meno sentite, a seconda della frequenza dei discorsi di Partito alla radio.

La tentazione di accanirsi gratuitamente su quella capa fresca in ghingheri si acuì: aveva storto il naso dall’istante in cui aveva saputo che il nuovo ispettore sarebbe stato un nobile cilentano, per giunta giovanissimo. Gli sapeva di agganci in alto ben oliati.

E ci aveva visto giusto, dato che non aveva nemmeno avuto la grazia di presentarsi puntualmente; che poi quell’imbecille sgallettante di Garzo l’avesse piantato in asso, non lo stupiva affatto – come minimo, s’era scordato del tutto di lui, o non avrebbe perso occasione di fargli la ruota attorno come un pavone su di giri, pur di ammanicarsi l’aristocrazia.

Lanciò un’occhiata al portone, silenzioso e vuoto come lo era stato per gli ultimi venti minuti. Certo che Garzo ce ne stava mettendo, di tempo, per questionare due cristiani.

Poi, rivolse lo sguardo in alto, verso il cielo di un azzurro pallido diviso in sezioni diritte dai fili del bucato. Si spinse gli occhiali da sole sul naso, a schermarsi dalla luce intensa. Ammise che, sì, diventava fin troppo di cattivo umore, quando lo disturbavano la domenica mattina.

Forse, s’era posto in modo troppo brusco con quel Ricciardi; non teneva proprio genio d’inimicarselo, visto che avrebbe dovuto averlo tra i piedi a ogni indagine. D’altronde, per chi non conosceva tutte le viuzze segrete di Napoli, recarsi lì senza una guida poteva davvero rivelarsi un arduo compito... soprattutto per uno di provincia, magari abituato a farsi scarrozzare in giro da altri. Barone o meno, almeno ci aveva provato.

Gli garantì il beneficio del dubbio, almeno finché non sarebbe tornato là fuori a esprimersi sul crimine: dalle sue conclusioni, avrebbe capito se aveva a che fare con un signorotto ottuso o con qualcuno che avesse un cervello funzionante – sebbene con gusti di vestiario discutibili.

Riaprì il giornale e ne cavò fuori il foglio rosa stinto della Domenica Sportiva: almeno, sperava, a legger di ciclismo non si sarebbe fatto venire un’ulcera.

Ricciardi si rese conto di non aver chiesto a che piano dovesse andare quando era ormai entrato nell’androne della palazzina. Piuttosto che tornar sui propri passi, preferì sbrigarsela da solo ed esaminare una ad una tutte le porte e targhette su ogni pianerottolo in cerca di quella giusta.

All’ultimo piano, ovviamente, scovò il nome Colantoni. La porta era accostata.

Ebbe un fremito, nello spingerla, pronto ad avvertire la sensazione di gelo che, di solito, accompagnava il suo essere in prossimità dei morti assassinati.

Non lo colse; o almeno, non ancora. Avanzò piano nello stretto corridoio d’ingresso, lasciato in penombra, e sbucò nel piccolo salotto. Subito, lo colse alla gola un forte odore ferrigno. Individuò subito il corpo di Colantoni, riverso prono a terra in una pozza di sangue che si era sparsa attorno alla sua testa. La ferita sembrava localizzata sulla tempia coperta.

Vicino alla sua mano, un aprilettere, forse l’arma del delitto; vicino all’altra, una busta ormai intrisa di liquido vermiglio.

Tese le orecchie e fece scattare gli occhi da un angolo all’altro dell’ambiente: nessun fantasma, nessuna voce. Si avvicinò d’un passo al cadavere e gli bastarono un paio di secondi per capire il perché. Il tappeto persiano era sollevato a cunetta vicino al piede della vittima e sul bracciolo intagliato della poltrona lì accanto si scorgeva una chiazza rossastra, quasi invisibile sul legno scuro se non osservando attentamente.

Rimase quasi deluso, in un modo che lo fece sentire subito in colpa: un semplice incidente. Poteva archiviare il caso seduta stante come tale. Più che la dinamica della scena, di per sé abbastanza palese, fu l’assenza di uno spettro a confermarglielo: essi si mostravano solo se era avvenuto un fatto di sangue intenzionale, con un chiaro colpevole; o in caso di suicidio, ipotesi non plausibile in questo caso.

Avanzò ancora, giusto per escludere definitivamente che l’aprilettere o la busta potessero essere indizi rilevanti, e subito sobbalzò all’indietro per la sorpresa: oltre la poltrona, finora nascosto alla vista, giaceva un altro corpo.

Un uomo, anch’egli prono, la nuca rivolta verso di lui, un completo color sabbia addosso. Nessun fantasma, nessuna voce, neanche per lui; non un delitto efferato, dunque. Un infarto, suppose, nel ritrovare Colantoni, anche se non aveva idea di chi vivesse con lui o se avesse parenti o cosa. Strinse i pugni, irritato. Non gliel’avevano ovviamente riferito.

Tentennò, espirando secco dal naso. Cos’era, quello, un tiro mancino ai suoi danni? Una burla d’iniziazione per il nuovo arrivato alla Squadra Mobile? Il medico legale gli aveva menzionato un solo corpo, e s’era detto impaziente di ascoltare la sua opinione, quasi fosse per lui un gioco.

Magari, adesso se la stava pure ridendo con Garzo alle sue spalle; a ridere di quel nobile di provincia che avevano di certo etichettato con sufficienza. Come se non avesse sudato sui libri di giurisprudenza e sulle carte del concorso per arrivare sin lì; come se quell’inutile titolo di barone lo rappresentasse in tutto e per tutto.

Lanciò un ultimo sguardo stizzito ai due corpi e uscì a passo di marcia dall’abitazione, furibondo come raramente s’era sentito prima d’ora.

In mezzo minuto, fu di nuovo nel vicolo: il dottor Modo era ancora nella posizione in cui l’aveva visto all’arrivo, con la sola differenza d’aver abbandonato le letture politiche per quelle sportive.

«Lo trovate divertente?» lo apostrofò Ricciardi, senza troppi convenevoli.

L’altro alzò lo sguardo dal giornale, inarcando un sopracciglio al suo tono; lo squadrò da sopra le lenti degli occhiali da sole, il sigaro stretto tra i denti.

«Cosa? Che Balla abbia perso contro Schmidt ai Mondiali di Ciclismo?» bofonchiò, riassestando i fogli sottili davanti a sé. «Affatto.»

Ricciardi fu a un passo dallo scordare ogni principio d’educazione e cortesia, a quella strafottenza, e si adoperò per non alzare la voce o strappargli di mano il giornale.

«Dottor Modo...»

«
Dottore esimio” per voi, prego.»

Lui lo ignorò è serrò un polso dietro la schiena a contenere la propria animosità, anche se stava miseramente fallendo.

«Là dentro ci sono due cadaveri, non uno, e io non ero stato avvertito. È negligenza nel migliore dei casi e assoluta mancanza di professionalità nel peggiore. Io sono venuto qua a Napoli per lavorare, non per sentirmi prendere per i fondelli prim’ancora di cominciare.»

Il medico trasecolò; poi ripiegò il giornale con uno scatto delle dita.

«Ispettore, un secondo,» boccheggiò, spegnendo il sigaro in tutta fretta contro il muro e appuntando gli occhiali sul colletto. «Due cadaveri, avete detto?»

«Due, sì.»

«E da dove sfacimma sarebbe sbucato il secondo?»

Dall’espressione colorita che gli era scappata, sembrava sinceramente stupito, oltre che serio, d’un tratto, come non lo era stato finora. Il che servì in parte a smorzare la sua vivida irritazione in un misurato fastidio.

«Non ho le traveggole, dottore, e se di uno posso intuire che si sia ammazzato per conto suo, dell’altro non so dirlo e preferirei ve ne occupaste voi, prima di contaminare la scena. Sempre che vogliate svolgere il vostro lavoro invece di farvi beffe di me.»

Il medico ignorò la frecciata, mollò il giornale a terra e gli fece cenno di entrare, sbrigativo.

«Avete toccato l’altro corpo?»

«V’ho appena detto che non volevo contaminare la scena.»

«Eh, tenete ragione, scusate,» disse il medico, mentre salivano svelti le scale; e il tono era agitato, sì, ma anche più conciliante di prima. «C’era un solo cadavere, prima, ve l’assicuro. Non scherzo su certe cose... su molte altre sì, ma non su queste.»

«Un vero sollievo.»

Erano ormai giunti al quarto piano, trafelati. Ricciardi lo frenò prima che potesse varcare la soglia dell’appartamento.

«Dottore, voi siete un civile, fate entrare prima me: non è escluso che vi sia qualche malintenzionato in giro. Magari un ladro che si stava approfittando della porta aperta.»

«Vabbuò, come preferite,» non si oppose lui, anche se Ricciardi colse la sua occhiata scettica alla sua costituzione affatto massiccia. «Quindi, dicevate che il povero Colantoni s’è accoppato da solo?»

Glielo chiese mentre percorrevano il corridoio in penombra e apparentemente deserto, con quella che sembrava viva curiosità. Ricciardi, mentre controllava che le stanze che superavano fossero vuote, gli lanciò un cenno d’assenso.

«Lo ribadisco. È inciampato e ha accidentalmente impattato contro il bracciolo della poltrona. L’aprilettere è sporco di sangue, sì... ma, a giudicare dalla posizione del corpo e della ferita, non è l’arma del delitto, né lo potrebbe aver usato per infierire su se stesso. Una mera circostanza sfortunata.»

Il dottor Modo emette un mugugno che pare oscillare tra il meditabondo e il soddisfatto.

«Conosco commissari navigati di cui non faccio il nome che, da una scena del delitto simile, ne avrebbero tratto conclusioni strampalate pur di vedervi qualcosa di più,» commentò poi, mentre avanzava lesto nel salottino, verso il secondo corpo. «A volte, le cose sono esattamente quelle che sono, niente di più, niente di meno.»

«Ed è per vedere le cose in questo modo che sono entrato in Polizia,» rispose lui, tenendosi a debita distanza mentre il medico si chinava a esaminare la vittima. E poi aggiunse, pungente: «Niente di più, niente di meno. Checché ne pensi la gente delle mie motivazioni o di come sia arrivato fin qui.»

Il dottor Modo distolse per un istante l’attenzione dal corpo esanime, rivolgendogli uno sguardo più interessato e, forse, meno ostile di prima.

«Un vero sollievo,» chiosò con un sorrisetto, facendogli eco.

In quel momento, il cadavere si mosse.

Il medico sobbalzò appena...

Maggio 1934, Napoli

«... non hai sobbalzato appena, Bru’, hai cacciato un urlo da ragazzina.»

«Riccia’, racconti tu o racconto io?»

Ricciardi alza le mani a chieder tregua, mentre Bruno lo fulmina con lo sguardo dall’altra parte del tavolo; Maione, di fianco a lui, soffoca l’ilarità in una tosse affatto discreta che suscita il riso dei suoi figli, con grande imbarazzo di Bruno.

Ricciardi gli fa cenno col mento di continuare.

«Racconta tu, ormai hai cominciato... ma dovresti essere più preciso sui dettagli rilevanti.»

Dall’occhiata omicida che gli rifila, Ricciardi è sicuro che, una volta fuori da casa Maione, Bruno lo getterà a mare.

«Dotto’, io vi capisco,» interviene bonario il brigadiere, versando del vino al dottore a mo’ di offerta di pace, «pure io me la sarei fatta addosso.»

«Raffae’, tieniti,» lo riprende sua moglie, Lucia, scoccando un’occhiata eloquente ai bambini.

Quelli ridono ancor più forte e sembrano non riuscire più a smettere quando il padre sgrana gli occhi, mimando un’espressione terrorizzata.

«Ma quindi, dottore, di chi era questo cadavere di troppo?» chiede Giovanni, il più grande, sforzandosi di rimaner serio.

«Ecco, il giovanotto fa le domande giuste,» Bruno è svelto trarsi d’impaccio e a riprendere in mano le redini del racconto, dopo un buon sorso di vino che pare rinvigorirlo. «Il fantomatico cadavere... beh, tanto cadavere non era, ovvio; pure un cieco l’avrebbe visto, commissario dei miei stivali!»

E Ricciardi si vede indicare con fare accusatorio, facendogli alzare gli occhi al cielo nel sentirsi messo a sua volta alla berlina. Bruno fa una pausa a effetto, e lui si trova a sorridere sotto i baffi nel vedere quanto ci abbia preso gusto a stare al centro dell’attenzione.

«Ecco, il nostro compianto cadavere altri non era che quello scemo di Garzo, che, uomo di poco nerbo qual è, s’è impressionato con tutto quel sangue e s’è accoppato da solo come un sacco di patate.»

Maione, dopo un primo istante di sbigottimento, esplode in una risata roboante, a quella rivelazione; diventa paonazzo in volto e gli manca il respiro, tanto che si accascia con la testa sul tavolo, coprendola con le braccia, la schiena scossa da sobbalzi.

«Ed è svenuto più volte, a mio modesto parere medico,» s’accanisce Bruno, senza un briciolo di pietà, «sveniva, rinveniva, vedeva il sangue e andava lungo di nuovo. E così via e così via...»

«L’abbiamo dovuto portar fuori a braccia,» soggiunge Ricciardi. «Il problema è che ci veniva da ridere, e lui se n’è accorto.» Sta faticando anche adesso a rimanere serio e non riesce infine a trattenere una risata soffocata. «M’ha scritto una nota di demerito al primo giorno perché, secondo lui, l’ho
irriso pubblicamente. E pure perché l’ho scambiato per un morto.»

«Che razza di defi...» Bruno coglie l’occhiataccia di Lucia, a sua volta esilarata e poco credibile, e si corregge al volo, in tono impostato: «Che inguaribile sciocco. E s’era pure tutto offeso, quando è arrivato e gli ho detto che poteva evitare di perder tempo e far portare subito via il disgraziato...» S’impettisce d’un tratto, storcendo appena la bocca di lato, un indice piazzato sotto il naso a mimare dei baffi sottili, in un’imitazione maligna e fin troppo somigliante di Garzo: «
Qui il commissario sono io, e starà a me valutare cosa sia d’uopo e quando, esimio dottore!»

«Bruno, non infierire,» prova a contenerlo Ricciardi, assolutamente non credibile, visto che le parole gli escono sobbalzando a ritmo con la sua ilarità. E poi subito, in totale contraddizione con ciò che ha appena detto: «
Ispettore, se questa storia arriva ai ‘piani alti’, vi faccio radiare dalla Regia Polizia seduta stante. Ho una reputazione da difendere e una carriera da costruire!»

È un’imitazione tremenda, ma è sufficiente a far piegare in due Bruno in una risata silenziosa e asfittica che gli toglie il fiato, forse preso in contropiede dal vederlo fare il giullare a quel modo. Ricciardi si sente le guance fin troppo calde e gli occhi un po’ lucidi: di certo, il vino aiuta a calarsi nella parte. E dire che non voleva nemmeno accettare l’invito a cena di Raffaele, ma ora è contento di averlo fatto: era da un po’, che non rideva così di cuore.

«Ma voi, questa storia, me la contate solo ora?» riesce infine a tirar fuori Maione, che sta ancora rischiando ancora l’asfissia e ha assunto un colorito quasi violaceo.

«Brigadie’, respirate, o mi tocca soccorrervi,» lo rimbecca Bruno, assestandogli un paio di energiche pacche sulla schiena dal dubbio beneficio medico. «Consideratelo un regalo di compleanno.»


«Beh, allora sono molto lieto d’avervi indirizzato bene quel giorno, commissa’,» dice Maione a fatica, asciugandosi le lacrime agli angoli degli occhi col tovagliolo.

«Ma come, indirizzato?»

Bruno fissa prima Maione, poi lui con improvvisa serietà; infine, spalanca la bocca, indignato:


«Razza di fetente! Altro che “fiuto investigativo”: t’eri fatto aiutare dal buon brigadiere e non me l’hai mai detto!»

Ricciardi fa spallucce, sorridendo a tutto spiano

«Non mi pareva un “dettaglio rilevante”, dottore esimio.»

«Te pozza piglià Patan–»

«Dottore!» lo troncano in coro sia Lucia che Raffaele, mentre i ragazzini trattengono il fiato in coro e poi scoppiano a ridere a più non posso.

«Vabbuò, te lo dico dopo in privato,» sghignazza Bruno, lanciandogli addosso il tovagliolo appallottolato oltre il tavolo; e ha decisamente troppo vino in corpo, a giudicare dai rossi che gli accendono gli zigomi. «Comunque, brigadie’, quasi mi pento d’avervelo raccontato, perché adesso non riuscirete mai più a guardare Garzo in faccia seriamente.»

«Quello non riesco a farlo manco io da quasi dieci anni,» commenta Ricciardi a mezza voce, «ma penso che non ci riuscirei anche senza tutto questo teatro.»

«Poi dici a me, Riccia’,» lo rimbrotta Bruno sogghignando; alza poi il calice verso di lui, «tu sei quello che si diverte più di tutti, con questa storia. Quel pover’uomo lo distruggi ogni santo giorno; tu e la tua faccia da schiaffi.»

Ricciardi non nega, con un sorrisino un po’ perfido, e si limita ad alzare il proprio calice di rimando.

«A Garzo, che almeno qualcosa di buono l’ha fatto,» scherza, guardando dritto verso Bruno.

«Ah, lui sì, al contrario di un tale Du–»

«Bru’, non cominciare.»

Maggio 1925, Napoli

C’era un che di ridicolo, in quella situazione.

Ricciardi si avviò assieme al dottor Modo verso l’uscita della Questura, dove erano passati, ufficialmente, per redigere il rapporto e consegnare la necroscopia... meno ufficialmente, per riaccompagnare il commissario Garzo nel proprio ufficio in sicurezza, badando che non gli cedessero le gambe.

Il medico gli aveva lasciato una boccetta di sali,
in caso di ulteriori mancamenti, e Ricciardi era abbastanza sicuro l’avesse fatto con l’intento di canzonarlo in modo inattaccabile.

Gli era scappato un sorrisetto, a vedere l’espressione livida del suo superiore; subito celato per evitarsi un’ulteriore sfuriata, oltre a quella che si era appena sorbito. Il suo ingresso nella Squadra Mobile era stato di certo movimentato, ma non nel modo macabro che si sarebbe aspettato. Era una piacevole novità, nella sua vita sempre contornata da spettri.

«Ispettore, vi assicuro che non tutti i casi a Napoli sono così,» disse il dottor Modo, una volta usciti sul marciapiede dinanzi alla Questura. Poi sorrise attorno al sigaro. «Quasi tutti, ma non tutti.»

«Mi rincuora,» replicò Ricciardi, inclinando le labbra divertito. «Anche se, forse, preferirei fossero tutti così. Semplici, senza dolore inflitto da qualcuno contro qualcun altro,» chiarì in fretta, notando l’occhiata incuriosita del medico. «Dei reprimenda, invece, faccio volentieri a meno.»

«Allora, avete sbagliato mestiere,» sbuffò lui, senza per questo suonare provocatorio. «Sia per l’una che per l’altra cosa.»

Ricciardi non replicò, pensando che, forse, non aveva tutti i torti. L’aveva scampata oggi, una giornata inverosimilmente priva delle sue consuete visioni di spettri, ma era solo una questione rimandata al prossimo delitto.

«Ottimo intuito, comunque,» lo distolse il medico, con gli occhi rivolti verso la strada poco trafficata. «Dicevo sul serio, prima. Sarete stato sulla scena tre minuti al massimo e avevate già ricostruito in modo corretto la dinamica.»

«Non lo trovo un fatto particolarmente impressionante, ma vi ringrazio.»

«Ah, ammetto che non sia chissà quale complimento: vi ricordo cos’è appena successo,» l’altro ammiccò furbo verso l’edificio alle loro spalle, «e v’assicuro che il commissario Garzo non è il peggior esempio d’uomo nella Regia Polizia. C’è chi fa di molto peggio che svenire per un po’ di sangue; soprattutto se spargerlo sembra essere diventato il nuovo grido in politica.»

Il medico lo fissò per un istante, aspirando rapido il sigaro, come a valutarlo; a Ricciardi non fu difficile intuire che stava sondando le acque con lui, da palese dissidente quale probabilmente era.

«Dottore, in tutta franchezza, io non mi interesso molto di politica. So solo che chi sparge sangue dovrebbe stare in galera, di qualunque colore porti la camicia,» replicò calmo, sostenendo il suo sguardo. «Non faccio del mio lavoro una questione ideologica, se è questo che vi preoccupa. Semmai di ideali, ma di quelli non faccio segreto. Sempre che anche volere la verità non sia diventato qualcosa di deplorevole, di questi tempi.»

«Su quello non ci giurerei,» sorrise amaro lui; ma, gli parve, con un po’ meno astio.

Il medico rilasciò una voluta di fumo nell’aria serale, scrollando un po’ di cenere dal sigaro. Poi, inaspettatamente, gli fece cenno d’incamminarsi insieme. Ricciardi esitò: s’aspettava di congedarsi, a quel punto, ma fu rapido a seguirlo.

«Ispettore, visto che ora siamo colleghi, vi va se vi mostro un posticino dove bere qualcosa dopo una giornata assurda del genere?»

Normalmente, avrebbe rifiutato l’invito, visto che non era proprio il tipo da bevute o da uscite sociali. Si ritrovò comunque ad annuire, e anche a sorridere un poco al pensiero di quanto strambe, ma paradossalmente normali fossero state le ultime ore, almeno per lui. Lo considerò di buon auspicio.

«Volentieri.»

«Di qua, allora, non è lontano; sta su Piazza del Plebiscito... è un posto carino, se ignorate la preponderanza di nero nel vestiario, ma la vista è magnifica, ispettore.»

«Non c’è bisogno di chiamarmi così,» lo interruppe lui, d’istinto, «non sono un vostro superiore né vi sono più vecchio d’età.»

«Beh, questo mi pare evidente,» ridacchiò lui, sbuffando appena dal naso, «comunque, anche a me stanno strette le formalità. Immagino voi abbiate un nome, oltre a un cognome e un titolo nobiliare.»

«Anche più d’uno,» sorrise rapido di rimando, per poi distogliere lo sguardo in lieve imbarazzo. «Luigi Alfredo. Ma, in verità, non amo usare nessuno dei due.»

Il dottor Modo gesticolò col sigaro a mezz’aria.

«E se non vi posso chiamare “ispettore” e manco “Luigi” o “Alfredo”, come dovrei chiamarvi?»

«“Ricciardi” andrà benissimo, dottore.»

«Bruno,» lo corresse lui, con un sorriso che gli guizzò sul volto, «anche “Bruno” andrà benissimo.»


 


 


Note dell’Autrice:
Cari Lettori,
grazie a chi ha letto fin qui ♥
Avevo quest’idea scema in testa e ho voluto scriverla senza troppi fronzoli, con l’intento di strapparvi un sorriso. Spero di esserci riuscita!
La caratterizzazione di Ricciardi e Bruno differisce un po’ da quella mia "solita", appunto perché la storia è ambientata una decina d’anni prima della long di riferimento.
Ci tengo inoltre a specificare che il 1925 è un anno molto delicato, visto che segna l’inizio del Ventennio fascista, e che volevo far trasparire il cambiamento di atteggiamenti e ideali di entrambi nel corso del tempo. Spero si sia colto l’intento e che, soprattutto, applichiate sempre la lente del contesto storico ai vari dialoghi, pensieri e commenti dei personaggi.

Tra poco, si torna in carreggiata con l’usuale aggiornamento de "La Ruota degli Angeli". Avevo bisogno di una pausa goliardica :’)

-Light-

P.S. Ho inserito qualche espressione in napoletano, spero deducibile dal contesto. Specifico solo che "
Te pozza piglià Patano" vuol dire, molto elegantemente, "ti colga la peste" :')

 

 

   
 
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