Serie TV > Il Commissario Ricciardi
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Autore: _Lightning_    09/02/2024    6 recensioni
Bruno ha bevuto molto più di quanto avrebbe dovuto. Ha un concerto di scintille negli occhi, un’esplosione di rossi in viso, e la sua risata è alta, una sinfonia di suoni storti che intervallano sempre più spesso le canzoni, riempiendo le orecchie e il petto nelle strade semi deserte di Napoli, dove un vento dolce di primavera intiepidisce la notte.
Ricciardi non ha bevuto così tanto, né ne sarebbe mai capace, ma rigagnoli d’ebrezza gli infiammano comunque le gote e la vista gli traballa un po’; le sue gambe sono un poco troppo fluide, s’ingarbugliano come volessero ballare una musica nota soltanto a loro, che si interseca col canticchiare allegro di Bruno.

[Slice of life // Fluff // Un grammo d'angst // Ricciardi/Modo]
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, Otherverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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Questa storia si ispira ad alcuni prompt del Cultober indetto da Lande di Fandom: "Lui è ubriaco, io non capisco più niente" + "Dietro una porta chiusa" + "Segreto" + "Gioco".
 

Esser felici (dura il tempo di un ballo)

 

          Bruno, quando canta, lo fa stonando apposta.

Ricciardi l’ha intuito da tempo, che la sua non sia semplice incapacità canora: dal modo in cui riesce a steccare vergognosamente su una nota semplicissima, e a farlo però con una voce piena, sebbene un po’ roca, che non sfigurerebbe sul palco di uno spettacolo di rivista.

Non sa perché lo faccia, in verità; forse s’imbarazza a far sentire che sa cantare bene o, forse, è uno di quegli arzigogoli sciocchi che s’inventa per strappar via a lui una risata in più quando non può farlo in altra maniera. Sciocchi ma efficaci, glielo deve riconoscere, perché è da quando sono usciti dal Gambrinus che Bruno canticchia a mezza voce una canzonetta popolare dopo l’altra, inventandosi le parole; ed è da quando sono usciti che lui sorride senza tregua, mentre bada che il medico eviti di inciampare sui suoi stessi piedi poco collaborativi.

Bruno ha bevuto molto più di quanto avrebbe dovuto. Ha un concerto di scintille negli occhi, un’esplosione di rossi in viso, e la sua risata è alta, una sinfonia di suoni storti che intervallano sempre più spesso le canzoni, riempiendo le orecchie e il petto nelle strade semi deserte di Napoli, dove un vento dolce di primavera intiepidisce la notte.

Ricciardi non ha bevuto così tanto, né ne sarebbe mai capace, ma rigagnoli d’ebrezza gli infiammano comunque le gote e la vista gli traballa un po’; le sue gambe sono un poco troppo fluide, s’ingarbugliano come volessero ballare una musica nota soltanto a loro, che si interseca col canticchiare allegro di Bruno.

È un miracolo, se arrivano sotto casa di Bruno senza finire lunghi sul pavé.

«Riccia’,» lo chiama Bruno, fermandosi ondeggiante ai piedi della rampa di scale che conduce al suo portone, «m’accompagni, sì?»

In tutta risposta, lui ride e non sa nemmeno perché, visto che non ha detto nulla di così divertente. Lo prende per una manica, a stabilizzare il suo moto altalenante che rischia di mandarlo a gambe all’aria.

Lo guarda negli occhi e lo sa, che è una pessima idea; e anche Bruno, per quanto perdutamente alticcio, sa che è una pessima idea.

«Certo,» risponde dunque, nel modo più illogico che esista. «Finisce che non arrivi neanche al letto, sennò.»

L’ha detto apposta, con le parole impregnate di vino e leggerezza che gli sfuggono di bocca prima che riesca a pensarle; e Bruno sa anche questo, sa che l’ha detto apposta. Gli si apre in volto un sorriso che è peccaminoso solo a guardarlo; una linea obliqua schiusa su pensieri che, nel torrente inebriante dell’alcol, sembra più semplice e meno sbagliato avere.

La luce di un lampione gli accende riflessi ambrati negli occhi; pozzi di miele che scaldano le sue iridi scure, espressive. Ne scorge ogni dettaglio, perché Bruno gli si è accostato, fin troppo per essere in pubblico, per quanto a notte fonda (ma sono ubriachi, e gli ubriachi fanno cose stupide); gli si accosta tanto da sentire il refolo tiepido delle sue parole sulla pelle, appena sotto l’orecchio.

«Conto su di te per arrivarci.»

E Ricciardi ringrazia di non essere ancora così perso nei fumi dell’alcol e di serbare una stilla d’autocontrollo, o farebbe qualcosa di fin troppo stupido, proprio lì sotto, davanti a tutti, nel cono di luce dorata di un lampione che sembra un isolotto radioso nel buio.
 

Non ci arrivano nemmeno, al letto.

Bruno fa appena in tempo a chiudere la porta di casa dietro di sé, che Ricciardi l’ha già preso per la giacca, tirandoselo addosso in un bacio disordinato di cui non riesce nemmeno a ricomporre i pezzi. Bruno gli si abbandona subito contro, instabile, un braccio aggrappato al suo collo a sostenersi, le sue mani che lo stringono a tentoni; e Ricciardi incespica, col baricentro del mondo che si sposta a destra e a manca a tempo coi loro passetti scomposti, in un ballo silenzioso e confuso che ruba loro il fiato (e le giacche, che finiscono presto sul pavimento dimenticate).

Ricciardi incontra lo schienale del divano dietro di sé, sospinto dal misto di foga e abbandono disinibito di Bruno; e inizia a sembrargli un’opzione più pratica del letto. Si siede a mezzo, inclinando il busto, e sta giusto chiedendosi quanto potrebbero farsi male, se si lasciasse cadere all’indietro trascinando con sé l’altro oltre la sponda (un labbro spaccato in mezzo a quel bacio, sicuro, forse anche qualche contusione sparsa – ma Bruno è medico e non crede gli dispiacerebbe fare il conto dei danni sul suo corpo), quando un suono inaspettato rompe il silenzio.

Da fuori, giungono le note modulate di una canzone, accompagnate dallo strimpellare acuto di un mandolino. Sbottano a ridere in sincrono, le labbra a un millimetro e i respiri che si mischiano nel separarsi appena. Ora riconoscibile, la melodia ingannevolmente allegra di ‘O surdato ‘nnamurato filtra dalle finestre sottili.

«Molto calzante,» commenta Ricciardi, senza pensare.

«Perché, sei un soldato?» sbuffa lui, le mani che vanno a incorniciargli il viso.

«Non mi riferivo a quello.» Lo bacia di nuovo, senza dir altro, e la bocca di Bruno si curva in un sorriso a quella mezza ammissione, pungendolo con la barba. «Di’, ma l’hai pagato tu?»

«Per carità,» replica lui, quasi indignato e suonando quasi sobrio. «Però non mi dispiace.»

E, nel dirlo, gli posa a tentoni la mano sul fianco e guida goffo la sua sulla propria spalla, prendendo a oscillare sul posto a ritmo con la musica; o meglio, in una parvenza di ritmo minata dal suo scarso equilibrio.

«Bru’, ma che fai?» lo richiama senza trattenere uno sbuffo esilarato, sorreggendolo appena in tempo nel sentirlo sbilanciarsi.

«Mi diverto un po’ e ogni tanto dovresti farlo pure tu, commissario,» lo rimbecca, aggrappandosi alla stoffa del suo panciotto quando beccheggia sui talloni e sbottando in una risata sonora, un po’ singhiozzante; ed è chiaro che ogni scampolo di inibizione è ormai andato a farsi benedire.

«Guarda che ci sentono,» tenta di contenerlo, lui che in teoria è più sobrio (e vorrebbe non esserlo, così da scacciare i pensieri molesti).

«Ma va’, non ci sente nessuno,» ribatte lui, volutamente a voce alta, di sfida.

Ricciardi ride, troppo forte, e sa che non è vero; ma, per il tempo di quel ballo, sceglie di crederci.

«Ma come si fa, ‘sta roba?» borbotta in quel mentre Bruno, dopo un paio di ondeggiamenti affatto somiglianti a una danza.

«Perché dovrei saperlo io?»

«Sei un barone! T’avranno insegnato uno di quei... balli ridicoli da nobile, da salone per feste, da ricevimento regale...»

Ricciardi sbotta a ridere di nuovo, un suono basso che sussulta e si avvita nell’aria. Si stacca dal divano e guida Bruno in una posizione un po’ più composta, anche se gli sembra che anche il suo equilibrio stia peggiorando, man mano che quei troppi bicchieri di vino gli addensano il sangue. La stanza gira, e non dovrebbe (no, forse è la sua testa, che sta girando, o Bruno).

«Un valzer, dici? Sono molto arrugginito,» bofonchia poi, con l’un-due-tre che gli scappa da sotto i piedi quando tenta di metterlo in pratica, suscitando un’esclamazione sofferta da Bruno.

«Riccia’, così mi ammazzi i piedi.»

Scalza via le scarpe, in un movimento improvviso che li fa quasi capitombolare entrambi a terra; Ricciardi lo imita, con un fare non molto più aggraziato che ricorda un fenicottero irrequieto.

«Come ballerino, sei una chiavica,» gli sussurra Bruno all’orecchio, aggrappato al colletto della sua camicia; e dovrebbe essere un insulto, ma gli invia un fiotto di calore lungo il collo e la spina dorsale.

«Ci credo, se mi fai fare il ruolo della donna,» protesta, tentando di invertire la posizione delle loro mani e suscitando un’altra oscillazione tra loro.

«Quanto scassi,» sbuffa lui; e le parole gli escono fin troppo impastate mentre lo asseconda, per poi tramutarsi in un’imitazione metallica e nasale della radio: «Va’, “maschio italico”, rendi fiera la patria! Vediamo come te la cavi così.»

«Meglio di te,» lo canzona, acchiappandogli i polsi un attimo prima che Bruno tracolli a peso morto. «E piantala di fare comizio pure adesso.»

Bruno gli fa il verso in un mugugno lamentoso, storpiato da un sorrisetto.

Ricciardi rinuncia a qualunque tentativo di danza, o presunta tale, quando sente il pavimento deformarsi sotto alla pianta dei piedi ai primi tre passi scoordinati; Bruno ride, quasi assordandolo, il suo corpo che sobbalza allegro contro di lui.

Ricciardi, sconfitto, si limita a guidare le mani dell’altro sui suoi fianchi e a fare lo stesso con lui, in una posizione speculare affatto canonica e adatta al ballo, che pare però soddisfare entrambi. Bruno gli posa il capo sulla spalla, oscillando lievemente sul posto con lui in quell’abbraccio ritmato; nelle ossa, lo sente canticchiare a labbra chiuse sulla melodia della canzone, senza mancare nemmeno una nota.

Dopo qualche minuto, la musica inizia a scemare, col canto fuori che si perde in lontananza e quello vibrato dentro al suo petto che scema poco a poco, lasciandoli a molleggiare nel silenzio del salottino. Il peso di Bruno contro di lui si sta facendo più marcato, la presa delle sue mani sui fianchi sempre più inerte.

«Bru’,» lo chiama, premendogli le labbra sulla pelle delicata sotto l’orecchio. «Bruno. Ohi. Dottor Modo.»

«Mpf,» è l’unica risposta che riesce a ottenere, assieme a un aggrapparsi deciso alle sue spalle; e a Ricciardi viene da sorridere a vederlo così, inerme, che si affida ciecamente a lui.

«Dai, su,» lo riscuote a forza, prima che gli cedano le gambe, «non ce la faccio a portarti in collo, se non mi aiu–»

Le labbra di Bruno gli troncano le parole in bocca, gliele rubano dalla lingua, strappandogli un singulto che gli riverbera nel le costole.

A quel punto, la loro danza continua, e non vi è più bisogno di musica o passi; continua e diventa più intricata, più incalzante, finché Ricciardi non si ritrova più ubriaco di prima a sospingere Bruno sul letto, senza nemmeno sapere come ci siano arrivati interi.

Non si sono mai baciati così; mai. Ha a malapena osato immaginarlo nelle sue fantasie più fervide. È come se, fino ad ora, si fossero vissuti a metà, sempre con una barriera impalpabile a frenare ogni loro gesto per non renderlo troppo vistoso, per non perdere mai del tutto il controllo.

Forse è il vino, forse la penombra, forse il fatto di essere davvero soli e non in un ritaglio di spazio a un soffio da occhi estranei: sa solo che non ha mai sentito Bruno così vicino, così vivo contro di lui, al punto da avvertire il suo calore oltre la pelle, in ogni nervo che vibra sotto il suo tocco.

Eppure, vuole di più, vuole incastrarselo nel petto e sentire il suo cuore battere tra le proprie costole, stringerlo così forte da fondersi a lui, collassare nel suo abbraccio e farsi minuscolo, fino a lasciarsi stringere racchiudere nei suoi palmi.

Ricciardi pensa che, forse, non ha ha mai amato tanto come nell’istante in cui si separa dalle labbra di Bruno e si solleva sui palmi per guardarlo sotto di sé. E non è pronto ai pensieri che gli affiorano alla mente a pelo d’acqua (sono tante esplosioni a fior di pelle, rumorose); non è pronto a pensare che Bruno è bello, con quel sorriso un po’ perso che gli taglia il volto in modo dolce; che è bella la curva del suo naso che si inclina verso il basso e i suoi ricci mori, folti, con quella ciocca che va sempre a sfiorargli la fronte come a chiedere a lui di scostarla (lo fa, e affonda le dita tra i suoi capelli, perdendole in quell’intrico morbido).

Non le pensa spesso, quelle cose: gli sembra che possano trasparire in superficie e tradirlo (non le pensa spesso, eppure le pensa sempre, ogni volta che lo guarda).

E ora pensa che non l’ha mai visto così bello come ora, con la camicia scomposta che gli scopre la fossetta tra le clavicole e la scintilla d’ebrezza che gli danza negli occhi scuri, pieni di pagliuzze d’ambra e miele, che si rinfocolano quando pone fino a quella pausa e riprende a baciarlo, tirandolo di nuovo sopra di sé.

Nel modellare le labbra su quelle di Bruno e nell’attorcigliare le sue ciocche sulle dita, quasi potesse scivolargli via se dovesse allentare la presa, pensa che ne vale la pena. Vale la pena ogni giorno passato a fingere e nascondersi di fronte al mondo intero; vale la pena ogni occhiata alle finestre prima di sfiorarsi per controllare che le tende siano ben tirate; vale la pena ogni carezza rubata e sguardo fugace di cui solo loro conoscono i significati. E Bruno, nonostante nessuno dei due abbia detto una parola, sembra rispondergli che lo sa, che anche per lui è così, che anche lui non ne può più, di vivere e viversi nell’ombra e di sentirsi il disgusto del mondo addosso.

Quando Ricciardi si accorge di avergli tolto le bretelle e aver preso a slacciargli i bottoni della camicia, è già arrivato al penultimo. Bruno si è tirato su a sedere, aggrappandosi alle sue spalle col respiro corto e le pupille dilatate, conficcate nelle sue come a trovarvi ossigeno. Gli cinge la nuca con un palmo quando le sue dita si impigliano su quell’ultimo bottone. Non parla, ma annega lo sguardo nel suo; e Ricciardi si ferma, guizzando tra le sue iridi calde e liquide e il lembo di corpo asciutto, eppure morbido al tatto, incorniciato dai lembi di stoffa chiara.

Si ferma e non è pronto a vedere Bruno così vulnerabile, lui che è sempre così sicuro di sé, pronto a farsi beffe del mondo prima di andargli contro a testa bassa; né a sentirlo duttile sotto le sue mani, con ogni tocco che gli strappa sospiri inudibili.

«Alfredo,» lo chiama lui, in quello che suona come un rimprovero, un anelito e un invito a non smettere.

E, a quel suono, il suo cuore prende a galoppare, a macinare battiti su battiti. Non ama nessuno dei suoi due nomi, ma “Alfredo” ancor meno. È spigoloso, austero. Sa di un padre che non ricorda e di pomeriggi tediosi passati a presentarsi a gente di cui non gli importava; è un nome che nemmeno riconosce come proprio e gli pare quasi un fantasma attaccato alle spalle.

Eppure, per quel momento, gli appartiene (no, appartiene a Bruno, e a lui soltanto) ed è vivo. Vive nel modo in cui lui lo fa risuonare in gola, come cantandolo; vive in quelle sillabe aspre che si aprono in un soffio vibrato tra le sue labbra e sembrano smussarlo; si scioglie come miele sulla lingua un attimo prima di accarezzare la sua.

Quando, nel mezzo di quel bacio così profondo da sfiorargli l’anima, riprende a scorrere i polpastrelli lungo la linea del suo addome, Bruno serra la stretta sulla sua nuca e preme la fronte contro la sua. Di rimando, un’ondata di brividi lo squassa dalla radice dei capelli alla punta dei piedi; dalla base della spina dorsale all’inguine, diramandosi in ogni vena come mercurio impazzito.

Prende fiato, per un singolo istante, la testa leggerissima. Preme un pollice sulle labbra ancora schiuse di Bruno, avvertendo la scia bollente del suo respiro; e Bruno freme, quel refolo d’aria che corre e incespica. Sembra ancora più ebbro di prima e Ricciardi inala il suo odore, di tabacco e colonia e creolina, sporcato da una nota di vino che gli rimesta le viscere in gorghi affamati.

Aumenta la pressione sulle sue labbra, trova la cicatrice sull’arco di Cupido che traccia una scalfittura glabra tra la sua barba; e Bruno sospira, si spinge contro di lui, imprimendo un’orma umida sul suo polpastrello che gli fa dimenticare come si pensa.

Bruno aggancia le dita sotto il nodo della sua cravatta e lo allenta, tirandolo più vicino a sé, invitandolo ad accostare di più i loro corpi. Ricciardi lo segue, cercando le sue labbra, con l’impressione di essere d’un tratto un ragazzino impacciato che non sa dove mettere le mani; le àncora ai fianchi di Bruno, sotto la camicia ancora tenuta chiusa da quell’ultimo bottone che sembra un macigno inamovibile.

Lo sente rabbrividire a quel contatto, serrare le dita sui suoi capelli quando lo spinge piano all’indietro, senza incontrare la benché minima resistenza: il suo corpo si abbandona sul materasso, malleabile come cera. Si lascia sovrastare da lui, i ricci sparsi sul materasso in una cornice di ghirigori. Tende poi le labbra in un sorriso sghembo e affatto lucido, fissandolo euforico dal basso. Lo guarda con quella che Ricciardi, con un fiotto di vertigini e lava al basso ventre, riesce a definire solo come assoluta, incondizionata adorazione.

Bruno si lascia scappare una risata appena accennata, roca, e allunga una mano a sfiorargli il volto, mancandolo di un soffio prima di riuscire a posarvi le dita; e il suo sorriso si allarga, gli brilla in volto come scaturisse da una giornata di sole estivo.

«Che hai da ridere?» chiede Ricciardi, con la voce che gli esce sfilacciata per l’emozione.

«Niente,» replica lui, agganciando le dita sulla linea della sua mandibola in una presa morbida, «è che mi chiedo sempre com’è possibile che tu sia ancora scapolo.»

Ricciardi è convinto che Bruno possa avvertire la vampata di calore che gli incendia le guance, facendolo sentire stupidamente imbarazzato.

«Ma la pianti, di dire fesserie?» lo zittisce, cercando inutilmente di tenersi dentro un sorriso.

Asseconda una giravolta di vertigini improvvisa e si china su di lui, puntando gli avambracci ai lati della sua testa, a un soffio dal suo volto (e anche lui ha la tentazione di dirne a frotte, di fesserie, tutte quelle che non può mai dirgli).

«Quanto sei ubriaco?» gli chiede invece, più piano, in mezzo a un bacio scomposto in cui l’altro lo trascina e che quasi gli mangia le parole in bocca.

«Un po’,» soffia via Bruno, per poi cedere a un risolino acuto, ridicolo. «Un po’ tanto.»

Tenta di tirarsi su e non saprà mai per far cosa, perché rinuncia subito e crolla di nuovo disteso, strizzando gli occhi a quello che sembra un forte capogiro.

Ricciardi sospira e gli preme le labbra sul collo, prima di scostarsi di lato per non pesargli addosso. Bruno volta il capo e si acciglia, contrariato.

«Non così tanto, Riccia’.»

«Comunque troppo.»

«Tu sei troppo vestito,» è la sua conclusione sommessa e poco logica, e stavolta riesce a girarsi su un fianco per riaccostarsi a lui.

Sembra pentirsi della sua mossa, perché serra di nuovo gli occhi ed emette un mugolio sofferto, spalmandosi una mano sul volto come a tenersi ferma la testa.

«Apri gli occhi, o è peggio,» lo rimbrotta Ricciardi, con un leggero schiaffetto in viso. «Meno male che sei medico.»

«Sta’ zitto,» bofonchia lui, riprendendo a sciogliergli alla cieca la cravatta con una mano sola, senza troppo successo.

Nel farlo, accosta il bacino al suo Ricciardi trattiene il fiato quando avverte il suo desiderio premergli contro la coscia, sconnettendogli il cervello e ingarbugliando le sue sinapsi al pari di quanto sta facendo Bruno con la sua cravatta. Poi, un breve varco di lucidità si apre nell’oceano soffuso dei suoi pensieri, che al momento sembrano concentrati in una polla magmatica tra lombi e inguine (ed è fredda, quella lucidità, tanto da stritolargli il cuore in un ghiacciaio).

«Bruno. Bru’,» lo ferma, prendendogli i polsi, senza però poter fermare le sue labbra che viaggiano sul suo collo, picchiettandolo di una scia umida che gli fa scordare ogni singolo nome che ha. «Non posso restare, lo sai.»

«E noi ci sbrighiamo,» ribatte Bruno, e in uno scatto di reni è lui a sovrastarlo, adesso, solido in un modo che gli mozza il fiato in gola.

«Non voglio “sbrigarmi”,» lo zittisce comunque, ora accigliato. Sospira, sfuggendo i suoi occhi. «Bruno, non so manco che devo fare, non...»

«Meno male che sono medico, allora,» ridacchia in risposta, modellandosi sul suo corpo fino ad aderire perfettamente a lui, dagli spazi tra le costole alle spigolosità del bacino, una mano che va ad accarezzarlo lieve attraverso la stoffa dei pantaloni.

Ricciardi soffoca un singulto contro il palato, perdendo il ritmo del proprio respiro e iniziando a seguire quello dei movimenti di Bruno; e, anche nell’ebbrezza, sono controllati, impalpabili, quasi timidi. Capisce, in quell’istante, che Bruno saprà anche cosa fare in teoria; ma non nella pratica, non con lui, e che lo sta studiando un millimetro alla volta nel tentativo di capirlo. No, non vuole sbrigarsi nemmeno lui: non è una mera questione carnale e non è nemmeno il coronamento massimo a cui possono sperare (quello lo compiono ogni giorno in cui riescono a rubarsi a vicenda uno sguardo o un sorriso complice e a regalarsi qualche ora insieme coi cuori cuciti a doppio filo quando sono accanto).

«Riccia’, tu tieni pure ragione,» sussurra Bruno, le labbra che gli sfiorano il pomo d’Adamo nel muoversi; suona più lucido, ora, o forse solo più triste. «Ma tanto, quando mai potresti restare?»

Ricciardi sospira, fremendo sotto il suo tocco che si è fatto appena più marcato, ma non insistente. Continua a tracciare linee e cerchi attorno al bottone teso dei pantaloni, senza accennare ad allentarli.

Sa che Bruno ha ragione. Sa che, oggi o domani o tra un anno, non cambierebbe nulla. Non esiste un momento giusto. Dovrebbe sempre inventarsi una scusa con Nelide per esser rientrato tardi, o affatto; dovrebbe sempre uscire di soppiatto da casa di Bruno col timore di essere scorto; dovrebbe sempre tenersi imbrigliati nel petto e soffocare nel cuscino tutti i gemiti più rumorosi (quelli che gli premono contro le corde vocali anche adesso, trattenuti a stento).

«Non serve nemmeno sbrigarsi, allora,» riesce a dire, superando il groppo alla gola.

Gli slaccia anche l’ultimo bottone della camicia, in uno slancio che gli fa tremare le dita; e si spinge sopra di lui, incastrando il bacino tra le sue gambe con un affanno che si fonde al suo. Sente le sue mani addosso che lo stringono, le dita che gli si imprimono sulle cosce in aloni sordi, scivolando poi sulle natiche in una presa salda che gli strappa un sospiro acuto, perso tra le sue labbra.

Ricciardi lo trae a sedere per un istante, per liberarlo del tutto da quella stoffa invadente, quando Bruno è scosso un improvviso sussulto e gli si aggrappa alla nuca, emettendo un mugolio intermittente, il collo reclinato in avanti.

Lui frena il suo impeto con un moto allarmato, mollando l’indumento e prendendogli il volto tra i palmi.

«Riccia’... mi gira tutto,» mormora Bruno, con voce soffiata, ma rotta da una punta d’imbarazzo. Poi ride nervoso, gli occhi un po’ troppo lucidi, non solo d’ebbrezza. «Rischio di fare una figuraccia e non mi pare il massimo, per cominciare.»

Ricciardi rimane interdetto per un istante, ancora un po’ affannato; poi, ride leggero di quel suo impaccio, senza malignità. Bruno s’imporpora come non l’ha mai visto, facendolo pentire subito di quel gesto.

«Resto finché non ti riprendi un poco,» dice semplicemente.

E gli sfila la camicia dalle spalle, saggiando la sua pelle nuda, imprimendosi quella sensazione sui polpastrelli, così sensibili da poter captare ogni singolo granello di polvere. Bruno fa lo stesso, più goffo e chiaramente in difficoltà, ma con quella delicatezza da medico che non lo abbandona, neanche nel far scorrere le mani sulla sua schiena esposta e poi sotto l’orlo dei pantaloni, strappandogli un respiro traballante quando infine glieli slaccia.

Si riassestano l’uno di fronte all’altro, mezzi nudi, le gambe agganciate tra loro in un nodo confuso. Ricciardi avverte le lingue di fuoco che gli avviluppano i lombi smorzarsi, fino a divenire braci languenti sotto le ceneri; subito, un torpore soffuso gli avvolge le membra. Non gli dispiace così tanto, in verità; non se può avere comunque Bruno lì accanto a lui, vicino nella penombra morbida di un letto, e sfiorarlo come e quando vuole, senza preoccuparsi di esser visto. Scopre la linea delle sue anche e prende a percorrerla pigramente con la punta di un dito, mandando a memoria la sua curva spigolosa e scavallandola per allargare il palmo alla base della sua schiena, in un movimento fluido e ripetuto che gli calma il respiro.

Bruno, al contrario, è irrequieto e taciturno, il viso un po’ inclinato contro il cuscino così da non esporlo del tutto. Strizza gli occhi con fare sofferto e storce la bocca all’ingiù a una nuova ondata di nausea; lo cinge poi con improvvisa forza, premendo il volto contro la sua spalla.

«Che razza di scimunito sono?» bofonchia, d’un tratto aspro e con voce costretta. «Potevamo stare qui a fare l’amore, adesso, e invece sono da buttare; mo’ chissà quando ricapita, o se ricapita, se magari non–»

«Bruno.» Frena quel flusso di parole scomposte e pericolosamente vacillanti, venate di quella paura rimasta sopita fino ad ora e forse fomentata dall’alcol. «L’hai detto tu, che non cambia niente. E che non c’è da sbrigarsi.»

Lui scuote la testa e sfugge i suoi occhi. Gli cerca la mano a tentoni e se la stringe al petto, come un qualcosa di prezioso ritrovato per caso, poi preme le sue dita contro le labbra. Lo sente espirare, un refolo d’aria calda tra le falangi.

«L’ho detto e vorrei crederci, ma lo sai pure tu che–»

«Abbiamo tutta la notte,» lo tronca di nuovo, premendogli un bacio sulla tempia e la mano libera sul costato.

Sotto, sente i battiti sordi e accelerati del suo cuore, e vorrebbe raggiungerlo per chiuderlo nel palmo e calmarlo, per dirgli di vivere appieno quei frammenti di libertà che riescono a racimolare e mettere insieme così di rado. Vorrebbe dirlo anche a se stesso, ai suoi pensieri che, persino ora, si voltano sempre verso quella finestra schermata da tende sottili, oltre le quali non è permesso loro di esistere, non insieme.

Bruno sorride appena, lo sente contro la pelle e nel modo in cui gli sobbalza il respiro in un’onda rapida. Ricciardi inclina il volto fino a trovare le sue labbra, accarezzandole appena prima di premere la fronte contro la sua e continuare, in un sussurro tiepido:

«Abbiamo tutta la vita.»

E Bruno lo sa, che quella è una bugia. Non dice nulla, però. Perché, per una notte, un ballo o una vita, è bello crederci.


 


Note dell'Autrice:
Cari Lettori...
Non guardatemi così. San Valentino si avvicina e, per quanto io non ami la festa, avevo una marea di feels per questi due che dovevo pur riversare da qualche parte!
Sono quasi 5.000 parole di fluff con una deriva semi-angst e boh, è andata così (?). Bruno è uno scemo, ma lo amiamo lo stesso (Ricciardi lo faranno santo, però).
Grazie a chiunque abbia letto questa stupidata e vorràmagari lasciare un commento a questo vasetto di miele fuori misura :3

-Light-
   
 
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