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Autore: LB Shadow    09/02/2024    0 recensioni
Il rapporto di due fratelli e la sua evoluzione attraverso gli anni, fino alla sua improvvisa interruzione.
I ricordi di uno di loro, il suo punto di vista, mentre gli eventi si dipanano.
La solitudine e l'amore condivisi. Una semplice storia per descrivere un'anima immortale.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Germania/Ludwig, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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2003

 

When you’re feeling empty
 Keep me in your memory

(Leave out All the Rest, Linkin Park)

 


 

 

Solitudine. Il bambino la riconosceva come sua unica compagna, vivendoci immerso ogni giorno. Aveva imparato ad apprezzarla.

Non la considerava una brutta parola, come “odio” oppure “guerra”, ma la vedeva per ciò che realmente era: una condizione. Una sorta di nebbia che lo isolava dalla gente. Lo proteggeva. Proteggeva loro dal bambino strano.

Einsamkeit, la colonna sonora della sua vita appena cominciata. Chi sostiene che l’uomo sia un essere sociale per natura, deve anche tenere in conto chi dalla società viene ignorato o escluso. Si formano tanti piccoli universi a sé stanti, paralleli e distinti. Se due universi sono abbastanza vicini, però, è possibile che s’incontrino e da minuscolo sistema isolato diventano qualcosa di più grande, più forte.

Un faraglione bianco, spigoloso e ghignante, sta vagabondando per il mare domestico sospinto dalla corrente della sua inquietudine. Che egli sia formato di carne e sangue lo si può notare dal colore che quest’ultimo ne impregna le iridi, lucenti come rubini. Il colore della materia è emigrato, lasciandola di un freddo candore nella sua interezza. Il suono proferito talvolta dalle fauci ha origine direttamente dalle tenebre dove i prigionieri custoditi non trovano quiete. Uno spettro in vita.

Il bambino ha le sue ragioni per diffidare di quello strano essere che si autoproclama suo fratello maggiore; il faraglione ha raggiunto la sua stessa stanza, ora condivide la sua stessa aria. La cucina, sul cui tavolo svolge il suo lavoro, è improvvisamente satura. Il bambino studia sottecchi lo strano essere, mentre chino sul foglio fa scorrere il tratto del pennarello, come se si aspetti, da un momento all’altro, di vederlo tramutare in un nugolo di pipistrelli color della neve. Sono diversi, il bambino e il fratello, come il giorno e la notte. Diversi ma sempre vicini, al punto tale che col tempo è nato qualcosa che trascende le differenze di età e di carattere, qualcosa di tiepido che spinge entrambi a cercarsi per affrontare il mondo. Il bambino non sa cosa sia. Abituato com’è alla solitudine, non sa dare un nome ai sentimenti più elementari.

− Cosa stai disegnando, Ludwig? – il fratello maggiore si è avvicinato senza che lui se ne sia accorto. Ludwig è comunque svelto a coprire il foglio con i braccini.

− Nulla. Non t’interessa.

− Oh, nulla? Che c’è, hai fatto il ritratto della tua fidanzatina? – Gilbert scoppia in una risata acre, estremamente irritante. Ludwig sente le guance scaldarsi.

− Non ce l’ho la fidanzata! – strilla, aumentando così l’ilarità del fratello − Ѐ che non l’ho ancora finito, non so come continuare e devo consegnarlo per mercoledì.

− Fai vedere a me, ti do una mano. Ѐ davvero così complicato?

Ludwig esita un attimo, prima di smuovere la copertura. Attorno a lui sono sistemati la sua collezione di pennarelli, tutti ordinati negli appositi astucci a seconda della tonalità e della dimensione. In un angolo c’è materiale utile a creare forme e linee precise, come il goniometro, il compasso e il fidato righello di venti centimetri.   C’è la matita ben temperata, la gomma ben pulita e il temperino ben vuoto. Vuoto come metà del foglio su cui è stato iniziato il lavoro.

Ci ha messo tutta la sua bravura artistica, seppur non possegga talento: è venuto fuori un insieme di forme rigide, ben poco realistiche ma adatte alle mani di un bimbo di sette anni.

− Cosa sarebbe? – Gilbert indica la bozza gialla.

− La casa. Sopra c’è il cielo e il sole, sotto il prato. La maestra di arte ci ha dato da disegnare la nostra famiglia come compito per casa, devo consegnarlo entro mercoledì.

− Casa nostra non è mica gialla.

− Lo so, ma a me piace così.

La maestra aveva sempre detto ai suoi alunni di disegnare ciò che stava loro a cuore, ciò che gli passava per la testa. Quel giorno gli è venuta voglia di mettere su carta una sensazione bizzarra che necessitava di prendere forma. Dopo giorni in cui gli pare di vivere perennemente nell’occhio di un ciclone, vuole qualcosa di colorato e dolce, così ha fatto quel tentativo di disegno. Non è riuscito ad andare oltre.

Gilbert guarda, la fronte aggrottata, le forme sulla carta. Cielo blu, sole splendente a lato, prato verde e casetta giallo canarino col tetto rosso. Il comignolo da dove sbuffa fumo grigio, fiorellini stucchevoli a contrasto del verde, spazi rigonfi lasciati bianchi a contrasto del blu.

− Bene, ora disegna anche il resto.

− Non ci riesco.

Inutile domandarsi il motivo per cui non abbia inserito sin da subito anche mamma e papà in quel quadretto idilliaco. Quella famiglia sta andando allo sfacelo.

Urla. Insulti. Rinfacciamenti su chi abbia la colpa di chi sa solo cosa. Notti passate in letto a piangere in silenzio, mentre dall’altra parte della casa i litigi continuano, intossicando l’aria del loro veleno. La mattina uno dei due, di solito papà, esce prestissimo per scappare dai suoi errori. Mamma fa lo stesso, anche se lei ci tiene un pochino di più a fingere di essere una brava genitrice: scalda il latte nel microonde, prepara i biscotti (spesso rovinati dall’umidità perché non ci si ricordava di chiudere bene il sacchetto) sul tavolo assieme a due scodelle e due cucchiai per i figli. Poi se ne va anche lei. Non un bacio, non un augurio di buona giornata a scuola, a malapena un rapido saluto. Sta a Gilbert prendere il posto suo e dell’altro.

− Ѐ per mercoledì, no? Oggi è lunedì. Puoi finirlo più tardi, intanto fai gli altri compiti.

Con loro fuori dai piedi, le stanze si riempiono di silenzio. Ludwig ha provato a sostituirlo con le vivaci chiacchiere dei cartoni animati, ma è come spazzare polvere sotto il tappeto, senza contare che quando torna a casa da scuola preferisce non avere distrazioni. La falsa allegria dei programmi su Nickelodeon o degli altri canali destinati a quelli della sua età lo disgusta. Lascia che sia. Il silenzio come una nebbia lo avvolge e lo culla, a volte stordendolo, a volte portandolo a qualcosa di simile alla pazzia. Sa bene che è solo questione di abitudine. Recupera allora un libro a caso dalla cartella o dalla libreria e si mette a leggere, cercando di allontanare l’idea di essere completamente solo.

− Ho finito tutto, anche gli esercizi di matematica. Ho controllato, erano tutti giusti.

− Che bravo è il mio fratellino! Se t’impegni già da ora, andrai lontano e sarai magnifico come me!

Gilbert adora mettersi a paragone con gli altri, elevandosi a vertice ultimo in ogni questione: ha una stima di sé stesso molto alta e non manca occasione di ricordarlo al mondo intero. Ludwig sottosta appieno alle sue parole, malgrado possano sembrare esagerate, volgendosi a lui come il vero adulto di casa. Forse è questa la soluzione. Potrebbe domandargli aiuto, affidarsi alla sua forza di quasi uomo, almeno per capire cosa fare. Ѐ sul punto di cedere. – Gilbert?

− Che c’è?

Basta però guardarlo un attimo di più per rivedere nei tratti affilati del suo volto la stessa asprezza che gli riserva il padre. Papà l’avrebbe rimproverato per questo, umiliato, dicendo che solo le mammolette si fanno mettere i piedi in testa senza reagire. Sempre papà avrebbe urlato che Ludwig era solo un cagasotto che non si sa difendere. Che lui alla sua età menava forte e chiaro, per poi essere spedito dal preside, ma con l’orgoglio salvo. Che Ludwig era una femminuccia che pensa solo a leggere. Non avrebbe ascoltato le sue ragioni, la sua versione; sarebbe stato mandato a letto senza cena mentre i genitori si urlavano l’uno all’altro le colpe per cui il figlio dovesse essere così debole.

Gilbert non è molto diverso, anzi. Anche lui esalta la violenza come risolutrice di conflitti ed è sempre pronto alla lotta. Se sapesse che quelli non l’hanno mai neppure picchiato, solo dispetti e prese in giro, benché alquanto opprimenti negli ultimi giorni, scoppierebbe a ridere e basta. Ignorali, direbbe, vedrai che la smetteranno. Al più, rifilagli un cazzotto. In poche parole arrangiati, come hai sempre fatto. Ma Ludwig è ancora piccolo e sebbene beva più latte possibile e faccia esercizio fisico ogni giorno, quelli rimangono più grandi di lui. La guerra è persa in partenza.

– Nulla, lascia stare... mamma quando torna?

− Forse per cena.

− E Vati?

− Non lo so, forse farà gli straordinari anche oggi.

Ludwig si chiude un attimo tra le spalle, pensieroso. Posa i gomiti sulla superficie cerata del tavolo ed essi scivolano un po’ in avanti, le mani a tenersi il volto. Il disegno è ancora sotto il suo naso. Famiglia, aveva detto la maestra. Non ci riesce proprio a immaginarsi nella sua testolina un’immagine della sua famiglia. Ѐ uno strazio. Perché non aveva detto “Disegnate i vostri genitori e fratelli o sorelle se ne avete” invece che specificare proprio quella parola? Un po’ come se avesse detto “Disegnate i vostri amici” invece che i vostri compagni di classe o di gioco. Le parole sono importanti, hanno un potere tutto loro. Chiunque sappia come usarle a dovere è uno scalino al di sopra di chi non conosce alternativa alla forza bruta.

− Ehi, pulcino, che succede? – Gilbert gli si è accostato e ora è a un palmo di naso da lui. Gli stropiccia i capelli biondi con fare affettuoso, la solita espressione beffarda sul volto è mitigata da una nota di inusuale dolcezza, riservata solo quando si rivolge al minore. – Qualcosa che non va? Ѐ per via del compito? Suvvia, rimandare per una volta non ucciderà nessuno.

− No... – un sospiro e poi il coraggio. − Gilbert, tu lo sai come allontanare qualcuno che ti sta antipatico?

− Che intendi?

− Se qualcuno ti prende in giro, ti dice brutte parole... se ti provoca, tu cosa fai?

Il sorrisetto si appiattisce e il rosso degli occhi s’infiamma. Gilbert scosta la mano dalla testa del piccolo. Si raddrizza. – Mi pare ovvio – gracchia – Lo riempio di botte, così non si permette più di usare termini inappropriati con me. In ogni caso, gli faccio vedere con chi a che fare.

Ludwig lo fissa, scrutando il corpo spigoloso del fratello, i muscoli da adolescente che tendono sotto la maglia nera. Gilbert può ben parlare. Ѐ alto, forse non un macigno ma incute lo stesso una certa soggezione, con le sue spalle dritte e lo sguardo affilato come un rasoio. Sa combattere. Anche Ludwig sa combattere, se è per quello, ma è troppo giovane e debole per passare dalla teoria alla pratica.

− Quindi non mi consigli di lasciar correre, ma di attaccare al minimo segnale?

− Beh, a dire il vero, è una questione di prudenza. – Gilbert torna serio. – Può essere una trappola per incastrarti, allora è meglio se rimani calmo. Te lo dico per esperienza.

Ludwig annuisce: non c’è dubbio che il maggiore abbia molta esperienza, considerando tutte le idiozie che combina imprudentemente, fuori e dentro casa. Magari però ha ragione. Meglio mandare giù il rospo e aspettare. Parlare agli insegnanti di una tale puerilità avrebbe solo peggiorato le cose, con il rischio che lo riferissero ai suoi e dopo chi li sentiva?

− Ok, ricevuto. Grazie mille.

− Di nulla! Il tuo magnifico fratellone è qui per aiutarti! E ricorda che puoi sempre contare su di me nel caso le cose peggiorassero!

Le sue parole hanno il peso dell’aria, vuote e scontate. Aiutarlo? Nessuno può aiutarlo. Il bimbo è l’unica protezione di sé stesso.

Dà una rapida occhiata all’orologio: è ormai ora di prepararsi in attesa che arrivino i genitori. La questione quindi cade lì, apparentemente conclusa.

Ludwig mette via il disegno in una cartellina, pennarelli e materiale vario dentro gli astucci, il tutto inserito dentro lo zaino insieme ai libri del giorno dopo. Pulisce la tavola e l’apparecchia in vista della cena, sguardo basso, rimuginante su cosa fare per uscire da quella situazione. Non si accorge delle luci vermiglie che analizzano ogni sua azione, mentre prende i piatti dalla credenza. Non si accorge neppure di stare tremando. Avverte solo il peso sgusciare dalle sue braccia senza che abbia posato nulla sulla tavola e per un attimo si pietrifica, in attesa di sentire il baccano della ceramica che si fracassa sul pavimento. Nulla. Sopra di lui sovrasta una testa dai capelli argentei e due fanali sanguigni che lo trapassano con la loro potenza; Gilbert ha tra le mani la pila di piatti, sollevata sopra il fratellino come un masso nei cartoni di Will Coyote.

− Vai a dormire – gl’intima il ragazzo. – Qua ci penso io, non mi sembri nella condizione adatta per rimanere qui. Ti chiamo quando è pronto.

− Ma...

− Niente ma. – irremovibile, Gilbert posa i piatti sulla tovaglia candida e indirizza il bimbo verso la cameretta. – Obbedisci e basta.

Ludwig non fiata. E la cena?, avrebbe voluto chiedere ma rimane zitto. Gilbert sa essere molto severo quando vuole, meglio non contrastarlo, anche se non è mai accaduto che alzasse un solo dito su di lui. Arrivato in camera, si mette sotto le coperte e scopre di avere un freddo terribile addosso. Chiude gli occhi e tutto diventa buio.

Si deve essere addormentato, perché si sveglia con le urla dei genitori e il buio che lo avvolge. Dalla finestra si vedono le luci dalle case adiacenti. Quanto ha dormito?

Si stropiccia gli occhi, cercando di tornare alla realtà. Ѐ tardi, poco ma sicuro, ha fame e le membra intorpidite. Ѐ andato a letto vestito. Ricordi annebbiano la sua testa già confusa: ha sognato? O quelle immagini sono reali?

Sente dei passi giungere fino alla sua porta e rabbrividisce. Forse sono arrabbiati con lui, per non essere stato presente a cena. La porta si apre piano e Ludwig si toglie rapido la coperta di dosso. Essa ricade male attorno il ventre, imprigionando le gambe. La luce improvvisa della lampadina accesa abbaglia i suoi occhi cerulei, ormai abituati all’oscurità. Dal ciglio sbuca il ghigno rassicurante di Gilbert.

− Ho portato la pappa! – annuncia, entrando con un piatto in mano. – Guarda che bravo che è il tuo fratellone, fa pure consegne direttamente a letto, come neppure nei migliori hotel! 

− Mamma e papà stanno ancora litigando? – il bambino si tende con il torso per vedere il contenuto del piatto: Bratwurst e patate lesse schiacciate fino a diventare purea.

− Sì, dovresti saperlo, ormai è l’unico modo che conoscono per dialogare. Sono però riuscito ad eludere la sorveglianza per portarti qualcosa da mettere sotto i denti.

− Litigano per colpa mia?

Il volto di Gilbert rabbuia, per poi tornare immediatamente allo stato originario. La luce giallastra della lampada crea ancora più ombre sul suo profilo di quante non se ne vedano di solito.

− Litigano perché la Terra gira, perché se i dinosauri si sono estinti è sicuramente colpa di mamma, perché la povertà nel mondo è sicuramente colpa di papà, mentre la responsabilità della cena spetta a me. 

− A me sembra buono, non vedo perché dovrebbero lamentarsi.

Gilbert sorride, un sorriso dolce e un po’ mesto che celò con un colpo di tosse. Gli mette il piatto in grembo e gli accarezza energicamente la testa, spettinandolo tutto. – Allora mangia, pulcino. Credo tu ne abbia bisogno, mi sembravi giù poco fa. Devi recuperare le forze.

Rimane per qualche secondo ad osservarlo, mentre l’altro non accenna neppure ad assaggiare il cibo. Ludwig ha gli occhi gonfi, di sonno, di lacrime che non vogliono scendere, di stanchezza. Così piccolo eppure già troppo adulto. Poco per volta la scorza su quel cuore ancora tenero si sarebbe indurita del tutto, uccidendo quanto rimane della sua purezza prima ancora di conoscere le gioie dell’infanzia.

Gilbert si siede accanto al fratellino, il letto scricchiola sotto il suo peso e Ludwig finge di ignorarlo, continuando a osservare la cena che ormai si sta congelando. Gli posa una mano sulle spalle piccine e lo sente tremare sotto il suo tocco come un pulcino. Ludwig guarda di traverso Gilbert, senza parlare, entrambi consapevoli che qualcosa non vada come deve e sia impossibile nasconderlo.

− Hanno chiesto di me? – mormora Ludwig, pur conoscendo già la risposta. Gilbert è scosso da un brivido ma risponde con calma.

− Sì. Papà è tornato prima, oggi, ed era piuttosto scocciato che tu non fossi di là. Mamma ha detto qualcosa riguardo le sue di assenze e si sono messi a sbraitare. Hanno fatto una piccola pausa mentre mangiavano, comunque, non potevano rinfacciarsi neppure che nelle patate avessi messo troppo poco sale, perché era colpa mia.

− Ha dato fastidio che tu mi abbia portato da mangiare?

Gilbert prende un profondo respiro. – Beh, tanto contenti non erano. Ho provato a spiegare loro che non stavi troppo bene, ma è come parlare a dei muri.

− Forse dovrei farmi vivo...

− No, li renderesti ancora più nervosi.

− Allora è davvero colpa mia.

Quella vocina ha un tono così piatto e sconfitto, che la rabbia infuoca il petto di Gilbert. Un bambino, il suo adorato fratellino, non può ridursi così a causa di coloro che hanno il dovere di prendersi cura di lui. Ѐ un controsenso.

− Lud, non è colpa tua. Come ti ho detto...

− Lascia stare. – Ludwig costringe le labbra in un tentativo di sorriso. – Ci sono abituato. Non durerà a lungo, comunque, perché presto diverrò grande e forte e allora saranno tutti e due fieri di me.

Gilbert tenta di ribattere ma rinuncia. Volge il capo da un’altra parte, la mano sulle spalle del minore lo accarezzano con grossolano affetto e annuisce. – Certo, piccolo, certo.

Poi fa una cosa alquanto bizzarra: scioglie la presa di Ludwig attorno alla forchetta e frappone tra le sue dita l’indice, come se lo stesse afferrando, stretto nel pugnetto. Rimane un paio di secondi in silenzio, sorridente, l’indice imprigionato da quell’appiglio istintivo, tanto che pure Ludwig non si rende dapprima conto di stare cingendolo con forza. Ѐ una cosa che lui sa e che l’altro aveva dimenticato.

La mano lascia la sua posizione, aiutandolo a reggersi per poi alzarsi. Ludwig lo guarda, può sentire il suo sguardo spaesato fisso sulla schiena mentre si avvicina alla porta.

− Io torno di là. – dice. Non può far nulla a riguardo. Nulla per combattere il vuoto che li circonda, nulla di cui conosca le dinamiche. – Lavati i denti quando hai finito e ricordati il pigiama.

Loro sono diversi dagli altri. Estranei alla dolcezza, hanno paura di pungersi se si avvicinano troppo l’uno all’altro. Gilbert, però, nutre lo stesso la speranza che un giorno le cose cambino e possa lenire quel peso che il fratellino si porta appresso. Sa, Gilbert, cosa significasse la parola solitudine.

− Stai crescendo così in fretta... buona notte, fratellino.

Esce dalla camera prima che l’altro possa aggiungere nulla, le voci dei genitori che s’infilano nella stanza fino a che la porta non è chiusa del tutto.

Ludwig rimane lì, a rimestare con la forchetta il wurstel e il purè, seduto sul materasso e ancora mezzo avvolto dal lenzuolo. Ludwig non capisce, Ludwig è troppo piccolo per sapere che ci sia qualcosa da capire. Porta la forchetta alla bocca. La morde. Non ha più fame, non è quello l’istinto che gli premeva dentro. Il sonno è scomparso. Le sue braccia e le sue palpebre sono percorse da un formicolio, un sapore salato e l’impulso di buttare fuori qualcosa che si dibatte dentro di lui. Si porta alla bocca la salsiccia e ne strappa un morso. Mentre mastica, capisce di cosa avesse bisogno e posa il piatto accanto a sé. Può sembrare stupido, anzi lo è, ma lo fa lo stesso: si mette la mano destra a stringere la spalla sinistra, e fa lo stesso con l’altra mano e la spalla opposta. Si rannicchia in quella parodia di abbraccio, mentre il freddo di prima viene attutito. Una bambinata. Ludwig è un bambino, d’altronde.

Obbedisce agli ordini, mangiando tutto e andando a lavarsi i denti, indeciso se portare le stoviglie in cucina dove probabilmente sarebbe redarguito. Non vuole vederli, non quella sera. Ne ha abbastanza di urla, lo disturbano ancor più del silenzio. Tornato in camera, il piatto è scomparso: Gilbert l’ha portato via da sé, togliendogli l’incombenza. A Ludwig non resta che svestirsi e rimettersi sotto le coperte, mentre i mostri nell’armadio si risvegliano e dalla finestra appaiono i fantasmi. Ludwig chiude nuovamente gli occhi per quella sera. La voce gracchiante che gli augurava la buona notte scaccia i nemici così che il piccolo possa dormire tranquillo, un minuscolo sorriso sulle labbra.

 

Genitori e bimbi, riuniti finalmente dopo ore passate lontani, imprigionati negli edifici scolastici. Si torna a casa, dove li avrebbe aspettati qualcosa di delizioso, il calore dell’affetto familiare. Ludwig si carica lo zaino in spalla e si avvia, ben conscio che con tutta probabilità lui quelle cose non le avrebbe trovate. Pazienza, è abituato. Ci si abitua a tutto.

Li ha evitati per tutto il giorno, seguendo il consiglio del fratellone, ignorando le loro offese e non rispondendo neppure quando l’hanno spinto così pericolosamente vicino alle scale. Se li avesse lasciati stare, prima o poi si sarebbero stufati, no? E tutto perché era fuori dal gruppo.

Loro, come animali predatori, puntavano al membro debole, quello escluso dal branco. Ludwig di certo non è debole, ma lo stesso stare da solo lo mette in condizione di essere aggredito. Persino Amadeus, che pure ha la sindrome di Down e un disturbo del linguaggio, ha più amici di lui e sicuramente non è mai stato destinato alle stesse ingiurie. Amadeus è piccolo e carino, fa tenerezza e persino le bambine lo invitano a giocare insieme. Ludwig no: è troppo silenzioso, troppo serio, troppo alto, troppo oscuro. Ѐ facile prendersi gioco di lui. Bastava che alzi un minimo la voce e subito scatta il rimprovero dell’insegnante, tanto da zittirlo quasi del tutto, come se fosse esclusivamente colpa sua. Solo quello sguardo terribile gli è rimasto addosso, nessuno è riuscito ancora ad estirparlo. Oggetto di scherno, di timore, di sospetto, lui. Adesso è finito tutto. Si torna a casa.

Ludwig cammina a testa bassa, il sole filtra attraverso le nuvole e lo acceca non appena tenta di guardare in avanti. Ha perso il bus, doveva fare un paio di chilometri a piedi ma non è quello che lo preoccupa davvero. Attraversa una strada deserta a quell’ora, a metà tra la scuola e casa. Preso dai suoi pensieri, su come terminare il disegno per il giorno dopo e come giustificare il suo ritardo a Gilbert (aveva perso tempo a scrivere le ultime annotazioni dalla lavagna), non si accorge che qualcuno gli viene incontro. Alza una mano per ripararsi gli occhi e nota una piccola figura umana e ridacchiante.

− Lumachina, che ci fai ancora qui? –chiede il ragazzetto appostatosi davanti a lui. – Non c’è nessuno che ti aspetta?

Silenzio. Non dargli corda, è solo scocciato per non averti rotto le scatole abbastanza.

− La lumachina è leeentaaa, pure a scrivere! – ride un secondo ragazzino, alle spalle di Ludwig. Ѐ spuntato come dal nulla, ma è ovvio che lo stesse seguendo da un pezzo.

− Lenta di cervello e di gambe – commenta il primo. – Poveracci quelli che ti avranno in squadra la prossima volta! Ma tanto è il maestro che decide, quindi non possiamo dire nulla.

− Lo sai che nessuno in classe tua ti vuole in squadra? Hanno paura di perdere a causa delle tue gambette.

− Secondo me è bravo a correre ma solo quando scappa!

− Secondo me non solo lo vogliono in classe, ma neppure a casa, per questo nessuno lo viene a prendere!

− Lumachina lenta, stupida e muta! – grida il primo ragazzino. – Che c’è, perché non rispondi?

− Andate via – sibila Ludwig, sistemandosi un laccio dello zaino sulla spalla, mantenendo come può la calma. – Devo tornare a casa.

− Oh, ma allora il gatto non ti ha mangiato la lingua. – il secondo mette il braccio attorno le spalle di Ludwig, simulando un atteggiamento amichevole. – Però non credo di averti sentito, come hai detto?

− Lasciatemi in pace! – urla Ludwig, scansando con forza il braccio dell’altro. La reazione fa scattare qualcosa: i due lo circondano, strattonandolo e sbattendolo contro il muretto al di là del marciapiede. La cartella attutisce il colpo alla schiena, ma la testa sbatte comunque contro la ringhiera, facendo sprizzare lampi di dolore nel cervello del bambino.

− Tu non alzi la voce con noi, moccioso – sibila uno di loro, il volto e la voce appannati dalle fitte lancinanti. – Devi portarci rispetto, perché siamo più grandi di te.

Ludwig sputa a terra. – Siete solo degli imbecilli, altroché.

Dita robuste gli stritolano l’avambraccio. – Era meglio quando stavi zitto, lurido stronzetto.

− Piano, diamogli un’altra possibilità. – un’altra mano gli prende il braccio libero. – Joseph, prendigli lo zaino, voglio vedere cosa ha dentro un marmocchio di seconda. Scommetti che si porta qualche giocattolino scemo a scuola? 

− Invece tu che sei in quarta dentro lo zaino porti mattoni, vero? – borbotta Ludwig, pentendosene subito: gli hanno rifilato un calcio sullo stinco. Come se fosse una bambola, gli tolgono dalle spalle la cartella e la svuotano lì, sull’asfalto: libri, astucci, diario e album dei disegni.

− Oooh, ma che bel diariuccio! – Joseph lo prende e lo sfoglia, alla ricerca di chissà quale segreto scabroso all’interno. Deluso dall’evidente mancanza di qualcosa che non sia strettamente legato all’ambiente scolastico, lo getta a terra e si sfoga sull’album. Qui trova qualcosa.

− Che è ‘sta schifezza? – raglia, tirando fuori il disegno non ancora finito sulla famiglia. – Persino un poppante saprebbe fare di meglio!

Non ribattere, non dire nulla, ignorali. Ludwig si morde con forza la lingua, concentrandosi sul dolore piuttosto che sulla rabbia che gli cresce dentro. Due ragazzini dell’ultimo anno contro uno che ha appena iniziato la seconda, bella roba. Proprio dei cuor di leone.

Anche l’album finisce a terra. Il primo ragazzino ora sta tenendo fermo contro la ringhiera Ludwig, sopprimendo i suoi tentativi di fuga a suon di calci e qualche pugno diretto al viso. Ludwig si mette ad urlare, inutilmente. “Perché nessuno viene ad aiutarmi?” è l’unica domanda chiara a quel punto nella sua testa. Perché deve affrontare tutto da solo?

− Karl, lo faccio star zitto? – domanda Joseph. Nella sua voce non c’è paura di venire scoperti, quanto quella di accentuare la crudeltà di quell’imboscata. Karl scoppia a ridere, mentre Ludwig impallidisce, vedendo cos’intenda fare. Joseph raccoglie da terra, riparandosi la mano con un fazzoletto di carta, un rifiuto lasciato da qualche cane di passaggio. Per evidenziare il disgusto, si tappa il naso con la mano libera. Lo avvicina piano al volto del bambino imprigionato, ridendo dell’espressione agghiacciata di quest’ultimo.

− Apri la boccuccia, lumachina! Non la vuoi la merenda? Dai che è buona!

Le risate hanno contagiato entrambi i ragazzini, un suono orribile, cattiveria infantile portata allo spasimo. Ludwig pensa che se i suoi coetanei devono essere così, non vede l’ora di diventare adulto. Serra gli occhi, la faccia tenuta più lontano possibile dall’escremento, schifato, terrorizzato, allibito. Non aveva idea che potessero giungere a tanto. Brividi di disgusto e terrore lo scuotono da dentro, insieme ad una certezza se possibile ancora più orribile di quella di avere quella sozzura pericolosamente vicina al volto. Nessuno verrà a salvarlo, hanno ragione, è solo e da solo sarebbe finito tutto...

La risata di Joseph è la prima a mutare. Non c’è alcun preavviso, per cui né Ludwig né gli altri se lo aspettano. Ludwig spalanca gli occhi appena il silenzio si fa largo nella strada e in mezzo ad esso risuona l’urlo di dolore.

− Ahahah-AAAAAAHIIIAAAH! – strepita il ragazzino con un urlo di lacerante dolore. Dietro di lui, attorniato dalla luce pomeridiana, uno spettro gli ha afferrato il braccio. Un fantasma dalla carnagione bianca ma nero in volto, gli occhi di brace che brillano nell’oscurità, li sta osservando dall’alto, studia la faccenda.

− Che succede, bimbi belli? – gracchia lo spettro. Il braccio in cui Joseph teneva stretto il rifiuto è bloccato da una forza ben maggiore di quella di uno studente delle elementari. Potrebbe spezzarsi da un momento all’altro, come l’anima che ora è presa da un terrore viscerale e chiede perdono per il misfatto di pochi secondi prima, perdono prima che quell’essere bianco e freddo come un sepolcro di marmo lo porti con sé negli inferi da dove viene. Karl trema e la sua vibrazione arriva fino a Ludwig, che ancora non crede ai propri occhi. Quello lì è suo fratello, non c’è dubbio, ma allo stesso tempo non è lui: Ludwig non ha mai visto una luce tanto terribile nel suo sguardo, pura rabbia. Non ci crede che tale furia sia scaturita dal volerlo difendere.

 − Lo sai che maneggiare certe schifezze può portare malattie? Buttala via. – lo spettro indica la mano ancora stretta a pugno del marmocchio. Joseph fa per aprire il palmo, ma lo spettro scuote la testa argentata: − No, piccolo imbecille, buttala in un cestino. Non vorrai che qualcuno per colpa tua ci cammini sopra, vero? Un bravo cittadino tedesco rispetta la sua città come se fosse casa sua.

− N-non ci sono cestini qui vicino... – balbetta il moccioso.

− Ѐ per questo che la brandivi come una specie di delizioso dolcino? Uhm? E sempre per tale motivo stavi tentando di farlo ingollare al tuo – getta un’occhiata a Ludwig, − amichetto?

Malgrado i vezzeggiativi, la sua voce potrebbe recidere un diamante, tanto è dura e affilata. Sembra che sia composta da filo spinato e unghie sul vetro. I bulletti sono schiacciati dal suo peso.

− Non... non stavamo facendo nulla di male...

− Ah no? – Gilbert spalanca gli occhi. La sua bocca sorride ma il resto del volto inneggia a un’ira implacabile. – A me sembra invece che stavate comportandovi in maniera assolutamente incivile. Sono io che sbaglio? Ho forse una scritta “idiota” stampata sulla fronte?

− Ci scusi... non lo facciamo più, promesso.

Karl ha lasciato andare Ludwig, ma quest’ultimo non si è ancora mosso, ipnotizzato come loro dal fantasma. Gilbert scoppia a ridere, una risata stridula e orribile che per poco non fa piangere i mocciosi. Con quali lacrime, d’altronde? Il terrore ha asciugato pure quelle.

− E dovrei fidarmi della vostra parola? – urla, facendo cadere l’ultima facciata di gentilezza. – Valete ancora meno delle mosche che si nutrono di questa merda, voi, che ve la prendete con uno più piccolo e indifeso!

Ludwig soffia la sua indignazione tra i denti. Tutto, ma non indifeso! Ma non osa protestare, non ancora, non adesso che sta esplodendo. C’è solo una cosa che teme, osservando il tremore di Gilbert che scivola sino alle mani come la discesa di una scossa elettrica. Il suo cuoricino, che davvero ancora non è stato indurito a dovere dalla vita, lancia un urlo di pietà che si riversa nei suoi occhi. Guadagna per una frazione di secondo lo sguardo del fratello e in tale lasso di tempo la richiesta è comunicata e ricevuta. Il maggiore si lascia sfuggire un minuscolo sollevamento delle sopracciglia, confuso, prima di tornare alla sua espressione arcigna. La luce omicida, però, ora non c’è più. Fatica sprecata perdere tempo con due delle elementari, neanche gusto, cerca di far trasparire, come se l’idea di lasciar perdere il massacro fosse interamente sua e non una concessione a quelle iridi azzurre che lo implorano silenziose.

− Voglio che siate puniti a dovere. – continua quindi Gilbert, estraendo dalla tasca un cellulare a conchiglia ed aprendolo davanti alle tre paia di occhi. – Ora chiamo la polizia.

Un brivido attraversa i corpicini dei due colpevoli. – La polizia?

− Ovvio, così vi arresteranno e vi porteranno in prigione. Lo dovreste sapere che atti del genere sono reato federale, no? Secondo l’articolo 83 della legge 2147/1999, chiunque sia sorpreso ad aggredire un’altra persona, rendendogli la vita difficile con insulti o violenze, deve essere arrestato. La cosa vale anche per i bambini.

Digita qualche numero sul tastierino e si porta il cellulare all’orecchio. – Ora vi denuncio, tutti e due. – sibila ghignante.

− No! – strillano loro. – Per favore, no!

− Shhh, state zitti! Pronto? Stazione di polizia? Avrei due bambini che devono essere portati in centrale, il più presto possibile.

Dal cellulare esce una voce soffusa. Non è una farsa.

− Dove? Via Hochstrasse, presente? Uhm, sì, siamo subito dopo l’incrocio, vicino la farmacia... 

Un’altra volta la voce soffusa si fa sentire e Gilbert annuisce con voga.

− Esatto! Quando potete venire? Perfetto! Ve li tengo qui. A presto, agente.

Chiude l’apparecchio e si rivolge ai marmocchi con un sorriso tanto largo quanto inquietante. – Benissimo, saranno qui a momenti.

− Bugie. – mormora Joseph, ma lo sentono tutti. – Ѐ un bluff.

− Tu credi? – Gilbert si china su di lui, afferrandolo per il colletto. Gli alita in faccia. – Hai le prove per dimostrarlo?

− E tu ce le hai? – Joseph tenta di mostrare il suo coraggio facendo lo spavaldo, ma i suoi sforzi sono vanificati da un suono particolare proveniente dalla svolta un centinaio di metri più avanti. Una sirena.

− Merda, aveva ragione! Sono venuti per davvero e adesso ci prendono! – soffia Karl, bianco come un cencio, allontanandosi di un passo da Ludwig. – Jo, presto, scappiamo!

In un batter d’occhio, come neppure i corridori al colpo di pistola alla partenza, i due se la filano verso il marciapiede opposto e scompaiono tra le viuzze interne del quartiere. Intanto, dalla svolta, compare l’auto della polizia, con la sirena a tutto spiano. Corre giù per la via e Ludwig pensa che se quello è un bluff, è fin troppo realistico. Per un momento pensa che avrebbe frenato alla loro posizione e i poliziotti avrebbero chiesto loro dove fossero andati quei mascalzoni. Quando l’auto passa davanti ai fratelli, senza fermarsi, dei bulli non è rimasto che il ricordo.

− Ehi, che velocità! – commenta Gilbert. – A saperlo prima, li avrei chiamati sul serio.

− Cosa? Vuol dire che non sono venuti per noi? Cioè, per loro?

Gilbert fissa il fratellino scoppiando a ridere. – Quanto sei ingenuo, Luddy! Certo che no. Ѐ stato un colpo di culo, forse qualcuno nelle vicinanze li avrà chiamati, ma di certo non io.

− Ma allora...

− Shhh. I bastardelli potrebbero essere ancora in giro, voglio che se la facciano sotto il più possibile. Ora, lascia che ti pulisca la faccia. Ti esce sangue dal naso.

Estrae un fazzoletto stropicciato dalla tasca e tampona il liquido rosso che sta scendendo dalle narici del piccolo. Questione di pochi secondi, è mezzo coagulato, ma Ludwig si rende conto solo allora del suo sapore ferroso che ha raggiunto le labbra. Probabilmente ha pure qualche livido, di sicuro non tanti quanti ne ha ora sulle gambe, ma sente pulsare la pelle di dolore al seguito dei pugni. Abbassa lo sguardo: ha i pantaloncini corti e i calzettoni lunghi, scesi alle caviglie. La pelle bianca e cosparsa di macchie rosse che diverranno presto violacee. Gli fa male, ma rimane zitto.

− Stai bene?

− Sì – anche se è una bugia.

Gilbert si china e raccoglie da terra l’album che uno dei marmocchi ha lasciato cadere, facendone fuoriuscire i disegni. Lo sistema e insieme prende anche il vario materiale scolastico sparso per l’asfalto. Ludwig sente le guance bruciare per la vergogna. Gilbert mette tutto con cura meticolosa dentro la cartella, silenzioso, la faccia di pietra non lascia comprendere i suoi pensieri. La cartella torna sulle spalle di Ludwig, il fratello sistema le stringhe in modo che siano confortevoli.

− Andiamo a casa. – dice.

Tra le righe si può leggere il “dobbiamo parlare” e Ludwig sa già che sarà una passeggiata molto lunga. Annuisce. Gilbert guida nella direzione da dove la macchina è giunta. Ludwig non osa alzare lo sguardo, il petto in subbuglio, aspetta. Aspetta che l’altro prenda la parola, per rimproverarlo che quella non sia stata la scelta giusta, per dirgli che è un idiota, che dovesse parlarne prima e sia tutta colpa sua. Sa di averlo deluso. Una parte di lui vorrebbe solo girarsi e fuggire, nascondersi anche lui dalla vergogna. I polpacci ricoperti di lividi dolgono, le ginocchia pure, la gola brucia dalle urla che ne sono fuoriuscite. La quiete pesa, come pesa l’assenza di parole, surclassate dal traffico, dalla brezza, da piccioni che li osservano dalle ringhiere dei balconi.

− Ludwig. – il nome frantuma la fragile calma. Hanno percorso quasi tutto il percorso che mancava per tornare a casa in silenzio. Ludwig alza impaurito gli occhi. Ѐ ora.

− Sì? – chiede e dentro di sé implora che, se proprio deve menarlo, lo faccia a casa e non lì. Anche solo uno scappellotto sarebbe troppo per il suo orgoglio, fuori dalle mura domestiche.

− Chi erano quelli?

− Compagni di scuola. Te ne ho parlato ieri. – la voce è sottile, il bambino è quasi afono. Ecco, ora verrà la ramanzina.

− Ѐ da tanto che si comportano così con te?

− Diciamo che loro due, di preciso, hanno iniziato sin dai primi giorni a prendermi di mira, ma è la prima volta che mi attaccano anche con le botte. Prima mi provocavano e basta.

− Ce ne sono altri?

Ludwig sospira. – Dipende da cosa intendi. Non è una cosa importante, no? Posso cavarmela. Sono forte abbastanza, basta lasciarli stare e loro si stufano, così dicono tutti.

Gilbert si ferma in mezzo al marciapiede, così da interrompere anche i passi di Ludwig, che si gira e lo vede finalmente in faccia: la sua espressione è di delusione e tristezza. Provoca dolore. Il bambino è svelto a girarsi di nuovo, tentando di riprendere la marcia e ignorare quel messaggio muto. A quel proposito, proprio lo stare zitto di Gilbert è la cosa più insopportabile: lui che annuncia con un baccano infernale anche il solo spostarsi di pochi metri, ora è più taciturno di una pietra.

− Avanti, dimmelo! – Ludwig si scopre a gridare – Dimmi che sono un cretino, dimmi che ho sbagliato tutto sin dall’inizio!

Gilbert si avvicina e gli posa una mano sulle labbra, zittendolo. Ha la fronte aggrottata, sembra davvero un adulto nonostante la giovane età. Ha ancora quell’espressione delusa addosso, ma non gli dà del cretino. Tutt’altro. – Sono così felice di essere arrivato giusto in tempo – dice e il viso torna a sciogliersi. – Non mi sarei mai perdonato di averti lasciato da solo a combattere.

Ludwig lo squadra senza rispondere. C’è qualcosa di sbagliato in quella frase, lo sa, ma non si tratta di un errore “cattivo”: è come quando si accorge di aver aggiunto un cucchiaino di cacao in eccesso alla tazza di latte e se ne accorge per il sapore particolarmente dolce. Ѐ qualcosa di gradevole, tiepido, che lo scuote dalla sua situazione di eterno trascurato.

− Se osano sfiorarti di nuovo, giuro sul mio onore che non sarò così clemente. – afferma Gilbert, prendendo il fratellino da sotto le braccia e sollevandolo come se fosse una piuma, con ancora la cartella addosso, per poi lasciare che gli salga sulla schiena. – Nessuno tocca il mio adorato pulcino, nessuno.

Ludwig si avvinghia con le gambine attorno ai fianchi del maggiore. – Te l’ho detto che era la prima volta.

− Prima o centesima volta, non si devono permettere di torcerti neppure un capello, non con me nel raggio di mille chilometri. E anche nel caso fossi fuori giro, io li cercherò, li troverò e restituirò loro la delicatezza moltiplicata per cento. – Gilbert ricomincia a camminare verso casa, passo spedito da marcia militare. Ludwig sobbalza un poco ad ogni metro ed è divertente perché sembra di stare in groppa ad un cavallo. – Sbaglio o mi avevi detto che ti provocavano già da un po’?

− Sì, ma... – Ludwig si morde il labbro. – Sono sempre stato bravo. Non ho mai disobbedito alle regole, non ho mai attaccato rissa. Neppure quando mi hanno dato dell’autista.

− Cosa?

− Sì, alcuni dicono che sono autista perché parlo poco, sto da solo e ricordo bene cosa c’è scritto nei libri dopo che li ho letti, oppure perché sono bravo coi numeri. Dicono che ho la faccia strana, che fa paura, per questo.

− Forse intendi dire “autistico”? Ma sai almeno cosa significa?

Ludwig scuote la testa e il mento viene accarezzato dai capelli di Gilbert. – No. Dicono che è una malattia mentale e che per questo io sono pazzo. Dicono che non avrò mai amici, che tutti quelli che mi stanno vicino lo fanno solo perché devono, che mi sopportano ma che appena mi allontano si lamentano di me, anche gli insegnanti. Dicono che non avrò mai una vita normale o una fidanzata. Ho provato a spiegare che a me non importa di avere la fidanzata perché neppure tu ce l’hai e non mi dispiace essere come te. – L’ultima frase lo fa arrossire: non è da lui ammettere la personale ammirazione per il fratello, come se il suo orgoglio non fosse già abbastanza pompato. Gilbert, però, non commenta spocchioso come al solito.

− Lo sai che sono solo un mucchio di sciocchezze, vero? – chiede – E che tu sei normale come ogni altro bambino?

− Se sono normale perché nessuno mi vuole come amico? Perché le femmine quando mi guardano si mettono a parlottare tra loro e a ridacchiare? Perché non mi invitano mai a giocare e, se domando, mi dicono sempre di no?

− Lascia stare le femmine, sono un universo a parte. Io non le ho mai capite. Nessuno ti vuole come amico? Amen! Ringraziamo il cielo che non verrai infangato da tali rincitrulliti! Sono solo invidiosi perché il mio adorato fratellino è troppo intelligente per loro. Non sanno manco cosa significhi essere autistico, ma si riempiono la bocca di termini troppo grandi per loro. A proposito, quei mocciosi di prima... non erano della tua classe o sbaglio?

− Sono di quarta.

− Meraviglioso. L’anno prossimo potrei trovarmeli tra i piedi, anzi, è quasi certo. Dal momento che a spalare letame non ci si può andare prima di un certo obbligo scolastico, li manderanno al Hauptschule e allora lì faremo i conti. Così imparano cosa si prova quando uno più grande li prende di mira e stavolta sì, che li trasformo in macinato fresco. Prima di allora, però, dobbiamo fare in modo che non facciano più del male né a te né ad altri.

Ludwig sussulta. – Non avrai intenzione di dirlo a mamma e papà, spero? Sai come sono fatti, se la prenderanno con me!

− Va bene, pulcino, a loro non diremo nulla se proprio non vuoi, però lascia che parli almeno con i tuoi insegnanti. Dovranno ascoltarmi per forza! Se non lo faranno, insisterò fino a che non cederanno! Non importa se per qualcuno questi sono solo “scherzetti” da mocciosi, quello che ti hanno fatto passare è inammissibile. − Gilbert strizza affettuosamente i polpacci accavallati sulle sue spalle. – Non devi preoccuparti, ci sono io con te a proteggerti. Non sei solo.

Ludwig abbandona il capo sopra la testa del fratello. Da quell’altezza gli sembra di essere un gigante, un colosso che non deve aver paura di nulla. Non sei solo, le parole rimbombano intorno a lui e fanno breccia, lo scaldano e lo confortano in una maniera impossibile da descrivere. Si sente come un naufrago su un’isola deserta che abbia trovato un suo simile: la situazione è un po’ meno tragica, il dolore è attenuato. Insieme possono farcela.

− Sia chiaro: io ho lo spirito del paladino, ma odio le smancerie inutili. Già non ti rivolgi a me chiamandomi “fratellone”, se comincio a trattarti come un poppante perdiamo solo tempo e non credo che il mio fratellino sia un uno che s’attacca alla gonnella per la minima cazzata. Voglio solo che tu sappia che io per te ci sarò sempre.

− Sembra quasi una frase d’addio.

− Nah, è più una frase di... solidarietà. Lo sai cos’è la solidarietà?

− Dimmelo tu.

− Ѐ quando due persone fanno conto l’una sull’altra riguardo la propria vita. Una forza doppia per affrontare le sfide, il doppio delle possibilità, e anche il doppio delle responsabilità, perché hanno in carico anche l’altro. Non possono mollare perché mollare significherebbe che anche l’altra persona cade.

− Quindi è una sorta di patto.

− Sì. Io ci sono per te e tu ci sei per me.

− Vale per tutta la vita?

− Hai paura dei limiti?

− I limiti mettono la parola fine sempre troppo presto.

− Bene, allora sappi che dura tutta la vita e se si vuole anche oltre. – Gilbert sorride – Ora, non so quanto possa valere la parola di un morto, ma sappi che nel caso ci proverò lo stesso.

Ludwig rabbrividisce. Chissà perché, ma l’idea che il maggiore scompaia gli sembra una realtà troppo orribile anche solo da immaginare, in quel momento. D’accordo che è un rischio lontano, ancora appannato in un futuro remoto, con un improbabile Gilbert tutto vecchio e rugoso su un letto a baldacchino, con un altrettanto anziano Ludwig al capezzale, ma... Con la manina gli accarezza il braccio, cercando di raggiungere la mano dell’altro. Gilbert comprende e l’afferra, stringendola nel suo tepore, ma non è quello che Ludwig intendeva fare; memore della sera prima, scioglie la presa e stringe a sua volta il dito indice di Gilbert, un contatto saldo e tenace. La cosa fa sorridere il ragazzo, che si gira a guardarlo.

− Devi spiegarmi cosa significa questo gesto – mormora Ludwig, con ancora il dito intrappolato nella mano. – Fino ad allora, facciamo che significa che ci saremo sempre l’uno per l’altro, ok? Come oggi, anche domani e dopodomani, per sempre. Una cosa solo nostra. Non lo deve saperlo nessun altro, sarà il nostro gesto.

Sembra tanto una frase presa da uno dei libricini della biblioteca, un concetto banale e patetico espresso dalle sue labbra infantili, ma Gilbert non ci fa caso. Anzi, ne è felice.

− Ѐ proprio questo il suo significato – spiega, – Ѐ nato tanto tempo fa, ma me lo sono sempre tenuto a mente, per ricordarmi di prendermi cura di te, sempre. Un giorno ti racconterò la sua storia.

Ludwig annuisce. – Sì. Grazie, fratellone.

Gilbert si arresta e torna a voltarsi verso il bambino, un’espressione di incredulo stupore. – Come mi hai chiamato?

Ludwig arrossisce e mette su un piccolo broncio a celare l’imbarazzo. – Fratellone. Sei il mio fratellone, no? Sei sempre tu quello che insiste che ti chiami così.

− Già. – è la prima volta che si rivolge a lui con quell’appellativo amorevole. – E tu sei il mio adorato fratellino, il mio pulcino.

Gli accarezza una guancia morbida, sorridendo. Anche Ludwig sorride, sorride, per la prima volta dopo secoli e per un attimo sembra che al mondo non possano esserci persone più felici di loro due. Due fratelli che si sono trovati, due universi che si sono collegati.

− Torniamo a casa.

 

Ѐ la prima volta che fa qualcosa del genere; esternare i propri sentimenti ti rende vulnerabile. Eppure quella sensazione, quel bisogno di essere protetto e capito, è troppo invadente per restarsene lì. Deve correre il rischio. Gilbert è un mondo a sé come lui, ma più vecchio e resistente, e come tale ha una scorza ben più dura, eppure si è offerto di assisterlo non appena l’aveva visto in difficoltà. Un po’ come Bambi e il Re della foresta nel cartone. Entrambi soli, entrambi circondati da minacce insidiose, entrambi troppo orgogliosi per cedere. Ѐ arrivato il momento di lasciarsi andare e arrendersi, per diventare più forti da quell’unione.

Ludwig non ha parlato dell’incidente a mamma e papà, non esplicitamente perlomeno: si è limitato a dire che alcuni suoi compagni lo tormentavano a scuola. Papà come previsto ha subito impiantato una predica sull’importanza del farsi valere, che i veri uomini non frignano davanti agli avversari, ma al contrario si battono. Gilbert l’aveva interrotto, affermando che Ludwig sapeva difendersi a dovere. Mamma, invece, ha puntato sul classico “ignorali oppure vallo a dire al maestro di turno se proprio continuano”. Papà l’ha biasimata dicendo che i maestri non hanno nessun ruolo nelle combutte tra ragazzi. Poi i due si sono messi a litigare perché Ludwig non andrebbe trattato in modo così accondiscendente, con il rischio di crescere come una femminuccia. I fratelli hanno terminato la cena in fretta e si sono dileguati nelle loro stanze. Nonostante le buone intenzioni dei genitori, che a modo loro hanno voluto consigliare il bambino, è stato meglio che la situazione non sia trapelata  del tutto: se come educatori possono ancora salvarsi, come consorti sono un disastro totale.

Ora Ludwig è di nuovo chino sul foglio di lunedì: non è mai successo che completasse un compito così tardi, mentre tutti sono a dormire, ma vuole calma e privacy. Ora il disegno è completo e lui lo guarda con orgoglio mentre dove prima c’era un enorme spazio bianco ora vi è rappresentato il suo mondo. “Disegnate ciò che vi sta a cuore” era ciò che aveva in mente sin dall’inizio.

Un cagnolino marrone vicino alla porta. Due figure immobili, mano nella mano, sorridenti, sul prato. Una è piccina, la testa rotonda e rosa contornata di giallo, due punti azzurri a segnare gli occhi. L’altra è più grande, nessun colore per la pelle, poche linee grigie sulla testa tondissima sparate come se abbia preso la scossa, occhi rossi come ciliegie mature. Anche se non c’è il loro nome accanto, non è difficile capire chi siano. Sotto al foglio, in un angolino, in una scrittura incerta tracciata col pennarello nero c’è scritto “La mia famiglia”.

                       

   
 
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