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Autore: mortifero    21/02/2024    1 recensioni
Il Daimon di Morty si confonde con la voce di Rick — suo dio, sua ragione di vita, suo amore per coercizione — ma è anche voce dal sottosuolo, voce che sa la verità. È oscura, ma vuole portare alla luce, alla libertà.
"Junebug, ti dici, tu pensi sempre con il cuore. È ciò per cui Rick ti biasima, ma è della tua anima che alla fine si nutre. Sei fedele. Sei stato progettato per perdonare.
Senti il tuo daimon con la sua voce: se avessi un po' di cervello, scapperesti via, mio Junebug."
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Morty Smith, Rick Sanchez
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
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Piccola premessa: questa OS è il continuo della mia fanfic “Junebug”, ispirata anche al sogno | visione di Morty quando era nel Buco in S7E10 – ritroviamo anche qui il tema del daimon, ma prettamente dal punto di vista di Morty – la sua guida semi-divina, la coscienza morale, la premonizione di un futuro di cui già sottopelle se ne sente il peso.

Buona lettura!


Dopotutto non è così male



Il suo sussurro naviga sul tuo corpo, lo avvolge alla ricerca dei segni di riconoscimento più banali — una bruciatura, una cicatrice di cui non ne ricordi l'origine, un livido e l'incisione dei canini. È una nube grigia che ti fa suo e ti racconta una verità.


La sua verità.


La sua, è una mano che ha preso la tua, che ti è sembrata così piccola al confronto, da farti sospirare leggiadro quando insieme avete toccato l'etere. Vi siete fusi nel suo fuoco, rarefatti come aria in un moto caotico ed eterno. Circolare — tutto è sempre ritornato, anche il dolore.


Soprattutto il dolore.


A tradimento l'altra sua mano, prima nascosta, ti ha afferrato il collo e ti ha soffocato in una vasca piena di acido (finto alcalino dell'oblio). Ha aspettato che i tuoi occhi bruciassero per raffreddare le tue labbra con le sue.


Non pensi di poter esistere per qualcosa di diverso.


L'hai capito mentre poggiavi i tuoi passi in un prato di ricordi, con l'età matura come le aliene pesche viola che tenevi in mano. Volevi recuperare il tempo perso all'università.

«Sei cresciuto», aveva notato Rick, con cenno accusatorio — eri cresciuto, lontano dalla sua vista. Ma dov'eri? Come ti sei permesso?

«Dottore», le sue labbra sottili si spiegavano in rughe, fili di tempo in cui anche adesso non riesci a trovare più la via d'uscita. Rideva di te. Come da piccolo, non sapevi se accettare il suo imperativo come guida.

Come Rick riuscisse a farti sentire in colpa perfino per esserti dedicato a qualcosa di buono per la tua istruzione, solo lui lo sa.

Familiarità ha invaso l'anima.

Hai infatti scoperto di avere dentro di te ancora un po' di rancore. «Tu mi hai lasciato andare». Ricordavi ancora l'artiglio che sul tuo braccio lasciava lividi. Scorgesti nella tua pelle esposta il pulito, pulito che c'era stato per anni, da quando avevi varcato la porta di casa. All'inizio eri stato sollevato, poi ti eri adirato: lacrime saziarono terra arida, campo arido di cuore non tuo.

Lì hai cominciato ad odiare la libertà. Non la sentivi tua. Non hai mai sentito che niente ti appartenesse, se non il dolore.

La tua delusione ha poi trovato rifugio in una semplice frase. È colpa di Rick.

E non piangi più, non glielo concedi così facilmente.

Rick aveva distolto lo sguardo, le labbra si impregnarono del miglior bourbon della galassia, a detta sua. «Non c'era motivo per farti restare». La mano, più anziana di quanto tu ricordavi, tremava. «Chi cazzo se lo aspettava che qualche fottuto college ti prendesse?».

Volevi chiamare il suo bluff, ma hai scoperto di non averne la possibilità – e di non aver mai giocato a poker, soprattutto. Da quando eri partito, si è scordato il tuo nome finché non hai indossato il Tocco.

Lo vedevi ogni tanto nelle feste comandate, sì, ma spesso ti sorgeva il dubbio che quello fosse solo un ologramma perfettamente riuscito. Non c'era la stessa complicità di prima. Quando ancora vivevate insieme, eri in grado di prevedere i suoi pensieri – valutavi i segni che dava, le possibile mosse, così da adattare i tuoi comportamenti il meglio possibile e se andava bene, non ti succedeva niente; o per il meglio, tu ottenevi qualcosa da lui. Come un'arte, no, una scienza: la sua epistemologia si basava su un paradigma collaudato all'autoconservazione.

La lontananza aveva pervaso il tutto con un velo di imbarazzo. Non sapevi che dirgli, conscio che, se qualcuno dei due aveva qualcosa di interessante da dire, di certo non era Morty Smith. Non che Rick si interessasse molto alla tua vita privata, se non per chiederti sporadicamente se ti fossi scopato finalmente qualcuno («una lei, un lui, un loro, un fottuto elefante. Nonno non giudica, ehi!») e tu scappavi via dell'interrogazione, colto improvvisamente dal ricordo di quel libro da dover subito studiare perché potrebbe essere argomento d'esame, non si sa mai.

E in realtà finivi fuori qualche fast food ad ingozzarti, per poi pentirti il giorno successivo.

Maledetto orgoglio, pensavi. Sempre a mietere le vittime più inutili.

E hai pensato ancora la stessa cosa, con tuo nonno — finalmente quello in carne ed ossa — davanti a te.

Se Rick non aveva intenzione di rinunciare al proprio, tu lo avresti fatto invece. Non ti interessava trascinare ancora l'armatura, troppo stanco, troppo disilluso nel cambiamento. Lo sapevi che si vedeva nei tuoi occhi. Lo sapevi che lui sapeva.

«Già», hai provato a ridere con lui, ma il tuo suono è stato debole, «nemmeno io me lo aspettavo».

Hai vinto tu, ma non è una battaglia. Nemmeno una guerra. Io non voglio più guerre.

Qualcosa nei lineamenti di Rick si era intenerito, leggermente, quasi invisibile a primo acchito. Ma Morty tu lo avevi notato subito, veloce come l'intuito, e il respiro che prima avevi trattenuto si era liberato. Non te n'eri nemmeno accorto invece, di te, del tuo fiato sospeso.

Rick ha sempre fatto questo effetto. Monopolizza l'attenzione e nient'altro esiste, nient'altro ha medesima importanza. Nemmeno te stesso.


Rick è in grado di fregarti con le tue stesse mani e di farti sentire pure contento per questo.


«Non mi sembra poi ti sia andata così male, Dottore».

Seguirono le battute sui tuoi nuovi capelli, diventarono curve che davano obliquità a quel tempo, e tu, leggero come una rondine nel cielo, ridesti per la prima con volta di gusto con lui, le labbra dolci del frutto appena raccolto.

«Mi sei mancato», sospiravi, e non ti sembrava di poter recuperare il tempo in così poco. Hai aggiunto: «Ti voglio bene».

Ti guardava con occhi diversi. Sempre azzurri come i tuoi, sempre rossastri ai bordi, sempre calcolatori, ma diversi.

«Cristo, — grugniva, ma sembrava davvero stupito,— sei davvero cresciuto».

C'era il dispiacere per un tempo che non tornerà più, dove eri più piccolo, più adorabile. L'hai studiato, è l'effetto bambola kewpie, ma già a quattordici anni eri troppo grande per somigliare a una bambola kewpie (ma lui ti chiamava anche baby, forse perché in confronto a lui un bebè lo eri davvero). C'era l'orgoglio, quello buono, quello di una figura di riferimento che è fiera di te per i tuoi successi — anche se solo quelli biologici nell'accrescimento dei peli.

E poi lo stesso sguardo da quando hai compiuto sedici anni: eri diventato un ometto, dicevano le persone, eri diventato più alto, la voce più di tutto era cambiata (non ti scambiavano più per una bambina al telefono!), i lineamenti ma anche il corpo si erano aguzzati. Ogni tanto lo scorgevi, Rick, guardarti come si guarda dalla crepa di una porta. Come se non dovesse. Non potesse. Non lo capivi — non volevi.

«Sono un ometto ora». Hai sorriso, ma era troppo tardi quando hai capito il sotto-testo di ciò che dicevi.

Sei grande, adesso. Ora puoi fare le cose da grandi.

In un lampo, imminente lo scintillio nello sguardo di tuo nonno, e non avresti mai pensato che quello che abbia fatto per anni sia stato trattenersi. Non ti ha mai trattato come un bambino, anche quando lo eri, ma c'erano limiti anche per lui.

Non esistevano più, oramai.

Ti si era avvicinato con la calma di un assassino che sa che non ha bisogno di fare troppo, perché avvinghiarsi la preda al dito è sua specialità. Non saresti scappato. Lo sapevi tu. Lo sapeva lui.

I vostri profili erano vicini, e nessuno avrebbe avuto dubbi sulla vostra parentela se vi avesse guardato. Le sue labbra stavano già assaggiando le tue senza però far niente, solo con le parole. Ti mangiava in uno sguardo.

«Sì, sei l'ometto che vuole molto bene al nonno, non è così?».

Lì Rick ti ha preso: il primo contatto che non si scorda mai.


Ecco il tuo destino. Non poteva esser nient'altro.


Non pensi di poter vivere senza lui. L'hai visto nei mille universi, che non siete l'uno senza l'altro. Per coercizione, per inganno, per promessa alimentata da quella sostanza che sta ad un passo tra l'amore e la stupida innocenza.


Promessa che ti regge, guida il tuo cammino, la senti nell'aria che entra nei tuoi polmoni, preme nelle costole, sta sulle labbra che stringono le tue e macchiano la tua pelle. Promessa che ti fa cedere all'invasione, perché sei stato già vinto appena i suoi occhi si sono posati sui tuoi e quando ha pronunciato i vostri nomi insieme, con una semplicità tale da far credere che sia impossibile separarli.

E perché resistere? L'orgoglio sazia ma poi torna la fame. Perché continuare a soffrirne? Non ti è stato dato indietro niente che potesse giustificar lo star male per lui, per voi due.


È per necessità che sei portato a credere che la mano che ti uccide è la stessa che possa amarti — stupido pensare che sia diverso, che possa accarezzarti.

Allevato, addestrato, costruito solo per questo. Lo urli in ogni tuo sorriso, scodinzolante come un cane al padrone.

Deve essere amore come lo strappare l'erbaccia da un giardino, per farlo crescere bello, per cura — stacca e riattacca pezzi di te, della tua mente, per generare un bello che non può essere però più potente del sublime.


Non lo sovrasti, Rick. Non lo ammali. Non hai il permesso di farlo.


Ti ha dato il bacio dell'umiliazione, dimostrando quando la tua misera esistenza possa cadere sempre più in basso.

Ma è pur sempre un bacio, tremolante è una voce che tenta di rassicurare.


Junebug, ti dici, tu pensi sempre con il cuore. È ciò per cui Rick ti biasima, ma è della tua anima che alla fine si nutre. Sei fedele. Sei stato progettato per perdonare.


Senti il tuo daimon con la sua voce: se avessi un po' di cervello, scapperesti via, mio Junebug.


Tutti hanno un sogno da inseguire, invece tu hai Rick. Tu hai sempre solo lui.

Glielo dici in un soffio, nudo nelle tue parole, fugace come l'amore, la vita che se ne va da te per mano sua. E va bene. A Rick è concesso di toglietela, la vita, perché lui è essenza ed esistenza fusi insieme. Un'unità assoluta e inarrestabile, la forza della ragione che governa sulla natura e l'umanità intera.

Su di te si innalza e ti fa suo. È lui, il tuo nume tutelare. È lui, il finto Dio per cui hai deciso di alienare te stesso.


È pelle che tocchi, traccia di un confine che vuoi far sparire.

È lama di quelle ferite che vuoi scordare.

È vaso che ripari.

È pungiglione che ti strappa il polline dal cuore.

È guinzaglio che tiene stretto a sé un cane.

È ladro e tu sei oro.

È caos e vuoto e tu sei l'atomo che gira alla ricerca di unione.

È l'egoismo che sta ammazzando il pianeta.

È la guerra che sta uccidendo te bambino.


È morte che abbracci perché senza non ci sarebbe la vita.


Junebug, è stato il tuo nome, per l'inganno di metallo, e quello che hai sempre voluto essere per lui.


Per questo il pensiero di lei ti ha spaventato e tormenta nelle notti calde.

Ti ha spaventato che con Diane ci potesse essere un altro Rick, diverso da quello che hai sempre conosciuto, capace di amare. Non costringere, rubare, manipolare, ma pronto a liberare, dare, vivere per qualcun altro.

Un altro Rick in grado di svegliarti dal tuo sonno, dalla speranza della promessa, dall'illusione.


Ma il sussurro del tuo daimon è chiaro, e non puoi sfuggirvi: se l'amore è una rosa, per lei i petali, a te soltanto le spine, i resti.

Finché non riesci ad immaginarti senza Rick, il pensiero del cuore è unica tua salvezza e condanna.


Una mano alla fine ti accarezza, si diverte e gioca con i capelli tuoi — pensi, abbracciando il cuore: dopotutto non è così male.



NdA. Eh sì, di nuovo il daimon: oltre al pensiero di Socrate, alcune parti sono ricollegabili ad Aristotele, Epicuro/Democrito (entrambi accomunati dall'avere una visione atomista, anche se Epicuro si concentra di più sul piacere), e per certi versi viene ripreso l'eterno ritorno dello stoicismo.

Se vi interessa approfondire il daimon, qui Platone nella sua Apologia di Socrate ne illustra la visione del suo maestro sul tema. «C'è dentro di me non so che spirito divino e demonico; quello appunto di cui anche Meleto, scherzandoci sopra, scrisse nell'atto di accusa. Ed è come una voce che io ho dentro sin da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da qualcosa che sto per compiere, e non mi fa mai proposte».

Il concetto di daimon è quindi sintetizzabile con ‘voce della coscienzaragione’. Ho appena dato un esame di filosofia, il mio cervello è a pezzi.

Credo che quella di Morty sia già molto auto-esplicativa.

Chiedo scusa se ci metterò tempo a rispondere alle recensioni, ma in questo periodo non sento altro che stanchezza. Sappiate che sono sempre grata per chiunque decida di usare il suo tempo per esprimere una sua opinione su un mio scritto <3.




   
 
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